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Pubbl. Mer, 9 Nov 2022

Misure cautelari e la doppia presunzione di legge

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Valentina Valenti
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



L’elaborato pone l’attenzione sulla sentenza della II sezione penale della Corte di Cassazione del 29 aprile 2022 n. 19922, con la quale i giudici confermato che in tema di misure cautelari e di adeguatezza della scelta della misura, con riferimento ai reati associativi delle c.d. “mafie storiche”, continua ad operare la doppia presunzione di legge in ordine all’esigenza e all’adeguatezza della misura cautelare inframuraria, superabile solo dalla sussistenza di precisi indici di rescissione dal sodalizio criminoso.


ENG

Precautionary measures and the double presumption of law

The paper draws attention to the april 29, 2022 ruling of the second criminal section of the supreme court, no. 19922, in which the judges confirmed that on the subject of precautionary measures and the adequacy of the choice of measure, with reference to associative crimes of the so-called ”historical mafias,” the double presumption of law continues to operate with regard to the need for and adequacy of the inframural precautionary measure, which can be overcome only by the existence of precise indices of rescission from the criminal association.

Sommario: 1. I fatti di causa; 1.1 La presunzione di adeguatezza carceraria; 1.2. Mafie storiche e mafie derivate. Brevi cenni; 2. La decisione della Corte di Cassazione; 3. Conclusioni.

1. I fatti di causa

La genesi della pronuncia della sezione II penale della Suprema Corte di Cassazione, avvenuta con sentenza del 29 aprile 2022 n. 19922, è da rinvenire nell’istanza di cui all’ art. 299 c.p.p.  presentata dalla difesa alla Corte di Appello di Catania con la quale si richiedeva –– nei confronti del ricorrente ––  l’applicazione di una misura cautelare più gradata in luogo di quella inframuraria, applicata in ragione dell’accusa di far parte dell’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cosa Nostra per la quale aveva riportato condanna nel corso del giudizio di primo grado.

Seguiva il provvedimento di rigetto sia della Corte di Appello di Catania –– quale giudice competente, in corso di giudizio, a decidere sulla modifica della misura cautelativa –– che del Tribunale di Catania, in funzione del Tribunale delle Libertà, a seguito della proposizione dell' appello cautelare.

A seguito dell’impugnazione di cui all’ 311 c.p.p. veniva adita la Suprema Corte di Cassazione nella cui occasione la difesa lamentava la violazione di legge e vizio di motivazione con espresso riferimento all’art. 275 c.p.p. nella parte in cui il giudice della cautela non aveva adeguatamente motivato in ordine alle gravi condizioni di salute in cui versava l’imputato e alla lamentata incompatibilità carceraria a fronte di documentazione proveniente dalla casa circondariale di appartenenza che aveva rilevato intendi suicidari. 

1.1. La presunzione di adeguatezza carceraria ex art. 275 c.p.p.

Esso rappresenta il punto centrale della sentenza in esame ed è necessario, dunque, illustrarne le coordinate minime.

L’art. 275 c.p.p. recante “criteri di scelta delle misure” disciplina i criteri che il giudicante deve prendere in considerazione nell’applicazione della misura cautelare, al fine di risultare la più proporzionata e la più idonea possibile per soddisfare le esigenze cautelari in ordine ai pericula libertatis.

La disposizione in esame è stata novellata con l. 16 aprile 2015 n. 47 e, da ultimo, con l. 19 luglio 2019 n. 69.

Sin dalla sua prima modifica, avvenuta con l. 12 luglio 1991 n. 203, è stato oggetto di numerose pronunce di incostituzionalità[1].

Al pari di altre disposizioni del codice di rito essa ha contribuito a delineare il c.d. “doppio binario sanzionatorio”[2] ossia una deroga alle ordinarie regole processuali per far fronte alle esigenze di difesa sociale e ordine pubblico scaturenti dall’accertamento di particolari categoria di reati: dall’associazione a delinquere di stampo mafioso alla categoria generale dei reati di criminalità organizzata ex art. 51 comma 3-bis c.p.p.[3]; dai reati di terrorismo all’eversione dell’ordine democratico.

La legislazione penale, infatti, nell’ultimo cinquantennio ha oscillato continuamente tra esigenze di garanzia e di tutela della libertà della persona –– da un lato –– e esigenze di difesa sociale dall’altro, anche dopo la epocale riforma di tipo accusatorio, attuata dal codice di procedura penale del 1988.  Questo pendolarismo legislativo è strettamente collegato alla pluralità di situazioni emergenziali che si sono succedute nel tempo: dalla mafia al terrorismo interno, dallo stragismo mafioso alle inchieste su affari e politica, per approdare nuovamente al terrorismo, questa volta di matrice internazionale, e, infine, alle più recenti emergenze, vere o presunte tali, di micro e macro criminalità, anche collegate all’immigrazione clandestina[4].

Nell’ottica delineata si inserisce tutta la disciplina dei provvedimenti de libertate posto che, alla luce della disciplina vigente, il codice di rito continua ad effettuare un distinguo tra le categorie di reati per le quali procedere all’applicazione di una misura cautelare.

Più nel particolare, la norma in esame detta alcuni criteri fondamentali, ispirati alla logica della adeguatezza e della proporzionalità. In linea generale la misura cautelare in carcere opera come extrema ratio va pertanto applicata solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata al caso concreto.

Discorso diverso, invece, quando si procede per i delitti ex artt. 270, 270-bis e 416-bis c.p. Sussiste una presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere –– salva la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza –– che può essere vinta solo se si sussistono elementi che facciano propendere per l'adeguatezza di misure meno afflittive[5].

1.2. Mafie storiche e mafie derivate. Brevi cenni

La sentenza in esame, nell’argomentare in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari, opera un distinguo tra mafie storiche e derivate. È doveroso soffermarsi, quanto meno, sulla distinzione in esame e sul perché tale discrimen incide sulla presunzione di legge sui relativi poteri del tribunale del riesame.

Bisogna premettere che l’individuazione ha origini, prima ancora che giuridiche, sociologiche, sicché l’evoluzione del fenomeno mafioso ha permesso di accertare come, nel corso del tempo, esse abbiano acquisito nuove caratteristiche, tali da consentire loro un raggio d’azione particolarmente ampio travalicando, persino, i confini nazionali e continentali.

La storia politico-criminale –– e giudiziaria –– insegna che le principali consorterie mafiose sono Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta, la Camorra, la Sacra Corona Unita[6]. Tuttavia, grazie alla capacità espansiva sono riuscite operare in zone geograficamente e culturalmente differenti da quelle d’origine, acquisendo in via definitiva il carattere transnazionale. Ciò ha comportato anche una diversa evoluzione degli strumenti operativi e relazionali, nonché delle dinamiche comportamentali tradizionalmente padroneggiate nelle realtà associative.

Sul piano giuridico, tali aspetti, hanno sollevato alcuni interrogativi in relazione alla possibilità di qualificare i “nuovi assetti” associativi come elementi compatibili con la struttura dell’art. 416-bis c.p.

La giurisprudenza di legittimità[7], chiamata a far luce sugli interrogativi de quibus, ha tracciato i confini tra i due diversi fenomeni associativi.

In particolare, le mafie “silenti”, “derivate”, “invisibili” sono tutte le organizzazioni criminali che presentano “struttura autonoma ed originale”, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche[8].

Esse, però, non devono essere confuse con le articolazioni periferiche delle mafie storiche, poiché sono delle “cellule distaccate” che conservano uno stabile collegamento con la “struttura madre” del sodalizio e dalla stessa coniano le modalità organizzative, la distinzione dei ruoli, i rituali di affiliazione e l’imposizione di regole interne[9].

Or dunque, sussumere una realtà associativa tra le “vecchie” o le “nuove” mafie si traduce nel differente grado di pericolosità e allarme sociale: più una struttura è presente e radicata sul territorio da anni (anche decenni), più aumenta la capacità persuasiva, la forza di veicolare consensi ed indirizzate i comportamenti dei consociati. Proporzionalmente ne aumenta il grado di pericolosità sociale, che impone misure particolarmente stringenti da parte dell’ordinamento giuridico. 

2.  La decisione della Corte di Cassazione

Le argomentazioni sinora addotte rappresentano l’antecedente necessario per comprendere la decisione della giurisprudenza di legittimità.

Più nel particolare la Corte, evidenziando che, alla data del ricorso, il clan di appartenenza –– affiliato a Cosa Nostra –– risultava ancora operativo non ha potuto non mettere in luce le regole che sottendono la misura cautelare per reati di criminalità organizzata, di cui l’art. 416-bis c.p. fa da “apri pista” e la relativa assenza di segnali di dissociazione da parti del singolo.

Oltretutto, precisano i giudici, la modifica legislativa del 2015[10] ha lasciato immutato, con riferimento all’art. 275 c.p.p., la presunzione di adeguatezza della custodiale cautelare in carcere per i reati c.d. “distrettuali”. Essa, dunque, continua a riconoscere una presunzione operante su due diversi piani: relativa quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari ed assoluta con riguardo all'adeguatezza della misura carceraria[11].

Tale regime si riverbera anche sui poteri che incombono sul tribunale del riesame poiché a fronte di una contestazione aperta che attesta, dunque, l’ “esistenza” del clan e la sua attività mafiosa, non sussiste l’obbligo del giudice della cautela di evidenziare gli elementi dai quali desumere in positivo l’esistenza dei pericula libertatis poiché la legge li presume già sussistenti.

Tuttavia, trattandosi di una presunzione relativa che –– in quanto tale –– ammette la prova contraria è sufficiente che il giudice del riesame prenda contezza degli eventuali di rescissione con il sodalizio criminale in modo da smentire l’assunto presuntivo. Ovviamente, in assenza di tali elementi sintomatici non residua nessuna discrezionalità in capo al giudicante che deve applicare il titolo custodiale inframurario[12].

Oltretutto, seppur nell’ambito delle organizzazioni mafiose, i poteri del giudicante muta a seconda che si tratti di mafie storiche o derivate. Solo per quest’ultime, infatti, anche il semplice decorso del tempo può rilevare ed essere sufficiente al superamento della presunzione di adeguatezza cautelare.

Le eccezioni sollevate da ricorrente, in assenza di documentazione astrattamente idonea a dimostrare il recesso dalla consorteria ha imposto l’inevitabile inammissibilità del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.                                                                                                              

3.  Conclusioni

Le considerazioni della Suprema Corte di Cassazione –– alla luce della normativa stratificatasi nel tempo e dalle pronunce giurisprudenziali granitiche in materia –– non sorprendono.

Il forte disvalore sociale e il particolare allarme sociale, che contraddistinguono i reati di criminalità organizzata, impongono dei presidi stringenti al fine di evitare che misure meno afflittive possano vanificare le indagini.

Per tale ragione si ritiene che l’unica possibilità idonea a superare la doppia presunzione di legge sia l’assenza da parte dell’indagato (o imputato) di qualsiasi forma di collegamento con la criminalità organizzata. Ciò perché si presume che l’eventuale rescissione con il clan di appartenenza possa incidere favorevolmente ad una rivalutazione del quadro indiziante. In assenza di tali elementi, dunque, la misura cautelare in viculis permane anche in presenza di condizioni cliniche che mal si conciliano con il sistema inframurario.

In realtà, tale aspetto impone una riflessione.

Non si discute la necessità di accertare la sussistenza di elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del loro ripristino. Tuttavia, questo non può essere l’unico strumento per bilanciare diversi princìpi primari, soprattutto quando viene in gioco il diritto alla salute.

A fronte di precedenti suicidari anche gravi, per come è strutturato il codice di rito e la disciplina carceraria, i condannati (o cautelati) per il reato del 416-bis c.p. difficilmente possono modificare la loro situazione di restrizione in vinculis se l’ordinamento non ha dei validi elementi per evitare il rischio della (ri)costituzione delle organizzazioni criminali per mezzo degli individui destinatari delle misure cautelari (o in esecuzione di pena).

Per vero, tutta la disciplina del doppio binario si contraddistingue per una “capitis deminutio processuale”, che si traduce in un ridotto tasso di garantismo.

Sarebbe più opportuno, però, a fronte di esigenze di tutela della salute individuale un vaglio critico e ragionevole che si focalizzi sulle meritevoli di tutela anche nei confronti di soggetti indagati o condannati che non abbiano rescisso i legami con il consorzio criminale.


Note e riferimenti bibliografici

[1] In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza 26 marzo 2015, n. 48, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo periodo del terzo comma, “nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis codice penale, è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”; con sentenza 23 luglio 2013, n. 232, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale comma nella parte in cui nel prevedere che, “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”; con sentenza 18 luglio 2013, n. 213,  ha statuito l'illegittimità costituzione dello stesso nella parte in cui – “nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 630 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 29 marzo 2013 n. 57 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 3, secondo periodo, nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; la Corte con sentenza 3 maggio 2012, n. 110 ha rilevato l'illegittimità costituzionale dello stesso nel prevedere che,” quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; con sentenza 22 luglio 2011, n. 231,  è stato sentenziata l'illegittimità del comma, nella parte in cui nel prevedere che, “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 12 maggio 2011, n. 164, l’illegittimità costituzionale del secondo e terzo periodo, del terzo comma nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 575 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; con sentenza 21 luglio 2010, n. 265 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo e terzo periodo nella parte in cui nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

[2] Sul tema esiste una letteratura vastissima. Sia consentito il rinvio a chinnici d., Competenza territoriale e indagini collegate in materia di associazioni di tipo mafioso, in bargi a. (a cura di), Il “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia, Giappichelli, 2013, p. 346; VIGNA P. Le “nuove indagini preliminari nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, Laterza, 1993, p. 46; CISTERNA A., Le funzioni e i poteri della direzione nazionale antimafia nelle linee di politica criminale e nella prassi del processo penale, in BARGI A.. (a cura di), Il “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia, Giappichelli, 2013,

[3] Sulla corretta individuazione della categoria generale nota sotto l’etichetta “reati di criminalità organizzata” si consiglia la lettura della Corte di Cass., Sez. un., 28 aprile 2016, dep. 1° luglio 2016, n. 26889. In tale occasione, infatti, i giudici di legittimità dopo aver individuato tutte le disposizioni riferibili ai delitti di criminalità organizzata, effettuano una summa divisio: in primo luogo, vengono in auge le disposizioni che richiamano espressamente la locuzione “criminalità organizzata”, nelle quali ricomprendere l’art. 54-ter c.p.p. in tema di contrasti tra pubblici ministeri in tema di criminalità organizzata, anche se in realtà nel corpo normativo il legislatore fa riferimento agli artt. 51, comma 3 -bis e 3- quater; l’art. 90-quater c.p.p. circa la valutazione di particolare vulnerabilità della vittima la quale può essere desunta anche dall’eventuale presenza della criminalità organizzata; l’art. 274, comma 1 lettera c), in tema di concreto ed attuale pericolo di reità. In secondo luogo la Corte individua le disposizioni che contengono un catalogo di reati e che prevedono una disciplina applicabile precipuamente a fattispecie riconducibili alla categoria in esame: a tale ultimo profilo è da ricondurre l'elencazione contenuta nell'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. e a quella di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p.

[4] scaglione a., La legislazione antimafia, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, n. 159 anno 2013.

[5] Sul tema, per una ricostruzione storico-giuridica dell’istituto si rinvia a VALENTINI E.., Il “doppio binario cautelare”: la tormentata disciplina degli automatismi stabiliti dall’art. 275 comma 3 C.P.P., in Rev. Bras. de Direito Processual Penal, (2021), pp. 1669-1712.

[6] Per approfondimenti si v. AMARELLLI G.., Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. dir. proc. pen., 2019; Marchì I., Mafie delocalizzate”: il contrasto (non) risolto dalle Sezioni Unite, in Iusinitinere, 2020;

[7] Cfr. Cass., sez. II, 28 marzo 2017, n.24850; Cass. Pen., sez. VI, 26 ottobre 2017, n. 57896; Cass. pen., sez. II, 29 novembre 2019, n. 10255; Cass. Pen., sez. II, 13 luglio 2020, n. 20926

[8]Ibidem.

[9] Cfr. Cass., sez. VI, 12 maggio 2016, n. 44667; Cass., sez. II, 28 marzo 2017, n. 24850; Cass., sez. V, 11 luglio 2018, n. 47535; Cass., sez. II, 13 maggio 2020, n. 20926;

[10] La legge 16 aprile 2015, n. 47, in vigore dall’8 maggio 2015, ha introdotto una serie di modifiche di enorme rilievo in materia di misure cautelari personali. Gli artt. 1 e 2 della legge n. 47/2015 hanno modificato incisivamente l’art. 274, lett. b) e c), c.p.p., imponendo all’Autorità giudiziaria la verifica, ai fini dell’eventuale applicazione di una misura cautelare personale, della «attuale» sussistenza del «concreto» pericolo di fuga e/o del pericolo di reiterazione del reato o di altri gravi delitti. Tutti i parametri normativi di cui all’art. 274 c.p.p. sono stati così conformati al requisito della “attualità” dell’esigenza cautelare già fissato con riferimento al “pericolo di inquinamento delle prove” (art. 274, lett. a), c.p.p.). La relazione parlamentare che ha accompagnato l’approvazione della legge in esame non dà adito ad alcun dubbio circa la finalità del “ritocco” normativo in forza del quale l’ipotizzato “pericolo di fuga”, per legittimare l’adozione di una misura cautelare, dovrà risultare d’ora in poi «non solo concreto, ma anche attuale, nel senso che il rischio che la persona possa fuggire deve essere imminente», così come la valutazione del “pericolo di reiterazione del reato” dovrà dar conto «di una valutazione più stringente dell’effettiva pericolosità del prevenuto» (Servizio Studi Camera dei Deputati, AC n. 631). Per approfondimenti si v. http://www.gazzettaamministrativa.it/servizicu/bancadatigari/viewnews/497

[11] Cfr. Cass., sez. II., 29 aprile 2022, n. 19922, p. 3.

[12] Ibidem. 

BIBLIOGRAFIA

AMARELLI G.., Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. dir. proc. pen., 2019;

CHINNICI D., Competenza territoriale e indagini collegate in materia di associazioni di tipo mafioso, in Bargi A. (a cura di), Il “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia, Giappichelli, 2013, p. 346;

CISTERNA A., Le funzioni e i poteri della direzione nazionale antimafia nelle linee di politica criminale e nella prassi del processo penale, in Bargi A. (a cura di), Il “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia, Giappichelli, 2013,

SCAGLIONE A., La legislazione antimafia, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, n. 159 anno 2013.

VALENTINI E., Il “doppio binario cautelare”: la tormentata disciplina degli automatismi stabiliti dall’art. 275 comma 3 C.P.P., in Rev. Bras. de Direito Processual Penal, (2021), pp. 1669-1712;

VIGNA P.., Le “nuove indagini preliminari nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, Laterza, 1993, p. 46.