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Pubbl. Lun, 7 Nov 2022

Recensioni e pareri / Un secolo, due movimenti. Comunismo e femminismo, tracce di una vita, di Rossana Rossanda

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Linda Brancaleone
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



L'obiettivo di questa recensione è identificare i punti chiavi della riflessione di Rossana Rossanda sul comunismo e sul femminismo. In particolare, l´autrice mette in luce i motivi di distacco tra i due movimenti, analizzandoli nelle loro peculiarità.


ENG The aim of this review is identifying the focal points of Rossana Rossanda´s reflections about communism and femminism. Particularly, the authoress highlights the motifs of the separation between the two movements, by analising them in their peculiarities.

Sommario: 1. Introduzione. Brevi note alla prefazione; 2. Comunismo, femminismo e la loro inconciliabilità; 3. Una cristallizzazione dei concetti tra storia e politica; 4; Analisi delle appendici; 5. Conclusione.

1.Introduzione. Brevi note alla prefazione

Un secolo, due movimenti. Comunismo e femminismo, tracce di una vita, di Rossana Rossanda, Futura Editrice, Roma, pp. 94 è un volume che, per quanto sintetico nella struttura, è pregno di riflessioni e ragionamenti che ci costringono, per nostra fortuna, a soffermarci in maniera approfondita sui lasciti del comunismo e del femminismo non solo nella vita dell’Autrice, ma anche – e soprattutto – nel Novecento. Il volume, uscito postumo alla morte di Rossanda, nasce in realtà come Femminismo e comunismo, e avrebbe dovuto contenere i contributi di Étienne Balibar e di Françoise Duroux; eppure, nonostante gli intenti originari siano stati disattesi, il testo risulta, paradossalmente, talmente tanto completo da spiazzare per gli interrogativi che pone e per le riflessioni che suscita.

Prima di addentrarsi nel libro, è necessario svolgere un’analisi a partire dalla prefazione dello stesso, curata da Maria Luisa Boccia, attiva partecipante al Centro per la Riforma dello Stato, la quale, offrendo una posizione antitetica rispetto a quella dell’Autrice, ne traccia le linee guida per una comprensione più profonda. La riflessione di Boccia prende le mosse da una critica, o, per meglio dire, da una mancanza di convergenza, avanzata nei confronti della tesi sostenuta dall’Autrice, che è, sostanzialmente, l’inconciliabilità tra comunismo e femminismo e, più in generale, tra politica e femminismo. Boccia ribatte a tale statuizione affermando, invero, che tale opposizione non riguarda la fusione tra le due lotte: «non si è trattato – non si tratta – di affiancare o integrare il conflitto tra i sessi a quello tra le classi. Negare che la liberazione della classe operaia abbia come conseguenza la liberazione delle donne non significa negare le ragioni del conflitto di classe e la prospettiva del comunismo»[1]. Piuttosto, alcuni concetti trovano compiutezza «(…) grazie al femminismo, e non a prescindere (…)»[2] e, tra essi, Boccia ne nomina tre, esigui di numero, però non certamente privi di un senso intrinseco: la rivoluzione, la politica e la libertà.
Parlare di comunismo e parlare di femminismo significa necessariamente confrontarsi con il concetto di rivoluzione, declinata in maniera differente nei due movimenti, ma fondata, in entrambi i casi, su una matrice comune: il materialismo ontologico. Esso è il corpo, l’aspetto materiale dell’esistenza, dal quale deriva il depauperamento del corpo operaio e del corpo della donna incentivato da un universalismo estremo che «riduce la differenza a specificità, a pluralismo sociologico, a condizione particolare»[3].

Interrogandosi sul significato di “politica”, secondo dei concetti analizzati nell’Introduzione, Boccia afferma, svelando un altro punto di contatto tra femminismo e comunismo, che essa è sostanzialmente il conseguimento del potere da parte della classe dei dominati, che prevale finalmente sui dominanti e che si innerva fino a raggiungere le rivendicazioni di varie classi e di vari settori, dal rapporto in fabbrica alla relazione tra sessi.

Soffermandosi, infine, sul significato del terzo e ultimo concetto, per l'appunto la libertà, Boccia afferma che essa può essere declinata sostanzialmente come rivendicazione: «se è vero infatti che il rapporto tra i sessi si pone su un altro piano rispetto a quello tra le classi, la condizione materiale genera nelle donne e nella classe una privazione di umanità che motiva il loro bisogno di libertà»[4]. Per Boccia, quindi, comunismo e femminismo confluiscono nel punto in cui il nucleo fondante del primo diventa bussola dell’agire civile e si interseca con le necessità di lotta e di emancipazione rivendicate dal secondo.

2. Comunismo, femminismo e la loro inconciliabilità

Il vero e proprio contributo di Rossanda si apre con un disvelamento della tesi di fondo del testo: l’inconciliabilità tra comunismo e femminismo. I due movimenti hanno pochi elementi in comune che, sebbene potrebbero essere percepiti come sufficientemente forti da poter giustificare delle analogie, in realtà trascurano molti altri aspetti, altrettanto rilevanti. I punti coincidenti in comunismo e femminismo sono sostanzialmente due – gli unici due, cioè, per Rossanda - e consistono in «una soggettività che si vede espropriata, si ribella e propone un rivoluzionamento della società»[5] l’uno, e in un disvelamento dell’appartenenza a uno dei due movimenti a causa del quale «l’ordine sociale, che si vorrebbe socialmente e sessualmente neutro, si percepisce minacciato»[6].

Eppure, per l’Autrice le assonanze finisco qui, poiché ci sono moltissimi ordini di ragioni che portano a un allontanamento tra i due movimenti. Essi, infatti, nascono in contesti storici differenti e per motivi altrettanto differenti. Tra uomo e donna vigono delle disparità, l’abbattimento delle quali è lo scopo precipuo del femminismo, e che sono sedimentate nella società da millenni, al punto da diventarne un connotato antropologico, quasi congenito. In Occidente, o nei Paesi per così dire “occidentalizzati”, moltissime sono le Carte che mirano al superamento di questa disuguaglianza la quale, anzi, appare formalmente inesistente; tuttavia, una piena parità, che non sia tale solo nei testi di legge bensì sostanzialmente, lungi dall’essere realizzata, e tuttora il soggetto giuridico “donna” è visto, come notato egregiamente dall’Autrice, in modo quasi monco, incompleto, debole. Ancora: il femminismo, a differenza del comunismo, il quale mira all’abbattimento dello stato di cose presenti secondo quanto sancito da una celebre tesi sostenuta dal suo ideologo Karl Marx, non mira alla distruzione dell’altro sesso, né tantomeno al suo superamento, ma rivendica una posizione di piena parità contro una primazia maschile – anzi, maschilista – del tutto ingiustificata e illogica. Infine, il femminismo non assume mai i connotati dell’”utopia”, ma deve divenire, per una sua piena attuazione, la base sociale, giuridica e democratica per un miglioramento del presente. Soltanto le religioni, per la loro composizione gerarchizzante intrinseca, considerano lecita la subordinazione delle donne; in tutti gli altri ordinamenti, tuttavia, la parità di genere e tra generi non ha un risvolto utopistico, bensì un fondamento razionale, logico, inequivocabile e mai si declina come chimera o sogno.

Partendo pertanto dall’individuazione delle caratteristiche del femminismo, l’Autrice, attraverso un ragionamento a contrario, descrive il comunismo come un movimento che si presenta antitetico, per struttura e obiettivi, al femminismo. Innanzitutto, la “classe”, intendendola sia come categoria che come concetto, è giovane, e prende coscienza di sé proprio attraverso – o per colpa – dello sviluppo dei mezzi capitalistici di produzione; essa rappresenta un insieme di soggetti, gli operai, che sono considerati strumenti per il raggiungimento di un fine e al tempo stesso vengono alienati dal sistema che li sfrutta, non potendo far altro che sottoporsi a condizioni di inferiorità alle quali sono soggiogate dalla natura stessa del mercato in cui operano. La lotta socialista prima e comunista poi, fa notare Rossanda, vuole raggiungere la piena liberazione della classe operaia, e vorrebbe farlo affrancandosi dai gioghi statali, in un contesto estraneo alla democrazia rappresentativa, a differenza di quanto accade per le battaglie femministe che, invece, vengono combattute proprio sul campo istituzionale. Per l’Autrice, inoltre, lo scopo del comunismo è per l’appunto il superamento di uno status quo, e il movimento quindi «mira a far sparire la classe abbattendo la proprietà che la determina»[7]. Infine, Rossanda fa notare che il discrimine principale tra femminismo e comunismo è l’utopia caratterizzante quest’ultimo: esso, infatti, è stato sempre e da sempre considerato un sogno, un afflato di ribellione, un movimento di liberazione contro le catene della classe dominante, difficilmente contenibile e altrettanto duramente realizzabile.

3. Una cristallizzazione dei concetti tra storia e politica

Per l’Autrice, comprendere il comunismo e il femminismo significa, innanzitutto e necessariamente, calarli all’interno di un preciso contesto e momento storico, onde evitare che i ragionamenti su di essi possano essere totalmente avulsi da qualsiasi realtà contingente. Rossanda traccia, con lucidità e profondo senso critico, le tappe più significative del comunismo come teoria e come partito. Esso è stato il motore di una rivoluzione che ha portato al rovesciamento dello zarismo, alla realizzazione della collettivizzazione dell’industria, a una strenua resistenza contro la crisi economica del 1929 che tanti danni aveva causato, invece, negli Stati Uniti. Il comunismo ha generato l’URSS, la quale è stata capace di portare innovazione, di intrecciare collegamenti internazionali di classe, di resistere all’armata del Terzo Reich e, alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, di tracciare i nuovi confini del mondo, dividendo la Germania ed escludendola dagli armamenti e, allo stesso tempo, estendendosi in Europa.

Proprio nel Vecchio Continente, tuttavia, l’URSS e il comunismo come progetto politico vanno incontro alla loro disfatta: emblema di tale distruzione è la caduta del Muro di Berlino nel 1989; successivamente, si sfaldano altre potenze comuniste come l’Unione Sovietica, e la Cina muta completamente il proprio assetto dando finitezza al progetto cominciato nel 1976. I dirigenti dei partiti comunisti non hanno mai saputo dare una risposta logica al perché della caduta di un’intera ideologia, probabilmente perché il comunismo aveva finito e per allinearsi al loro vecchio nemico, cioè il sistema capitalistico, e per abbandonarsi all’impossibilità di tenuta di un sistema socialista che poteva realizzarsi soltanto attraverso l’imposizione di un regime assolutista. D’altra parte, la notizia dello sfaldamento del comunismo non è stata accolta con dolore, vista la mai latente opposizione presente quasi ovunque, fatta eccezione per la Cecoslovacchia e la Polonia e, in qualche modo, per la Jugoslavia: casi emblematici di tale rifiuto del pensiero comunista sono la secessione jugoslava di Tito del 1948, la protesta degli operai tedeschi del 1953, le rivolte polacche e ungheresi del 1956, la primavera di Praga del 1968.

L’Autrice, interrogandosi sulle ragioni della caduta del comunismo, fa sue le riflessioni espresse dal filosofo – anch’egli comunista – Louis Althusser, secondo cui «il sistema era agli estremi perché non aveva sottoposto se stesso, la sua pratica, all’analisi marxista dalla quale era nato»[8]. La diffusione del comunismo aveva trovato, a partire dalla pubblicazione del Manifesto ad opera di Karl Marx nel 1848, terreno fertile nella crescita esponenziale del sistema capitalistico e, correlatamente, nell’aumento dello sfruttamento della classe dei lavoratori. Allo stesso modo, però, si è corso il rischio di assistere al proliferare di teorie che non rispecchiavano, o quantomeno lo rispecchiavano in un senso distorto, il pensiero originario del marxismo, innervandosi in ramificazioni che avevano tutti i tratti di eresie. Rossanda non condivide con Althusser, tuttavia, il punto di non ritorno dell’esperienza comunista, che per il filosofo coincide con l’ascesa dispotica e dittatoriale di Stalin, mentre per l’Autrice esso è da identificarsi nella deriva della dittatura del proletariato, poiché tale concezione, in quanto «violenza transitoria della classe operaia, (…) scossa distruttiva del presente (…), condizione per l’avvio di una società senza classi [e, n. d. A.] (…) senza stato, che è sempre un sistema di potere di una classe sulle altre»[9] ha subìto un ribaltamento proprio nell’URSS. Nella Russia leninista è andata instaurandosi una dittatura del singolo partito al comando, il quale ha giustificato la nascita di un capitalismo di Stato, diverso certamente da quello borghese, ma altrettanto deleterio, che ha segnato il primo allontanamento dal marxismo tout court. Infatti, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 non ha avuto in Europa quell’eco che l’URSS si aspettava; purtuttavia, è proprio l’Unione Sovietica ad incarnare l’emblema della rivoluzione operaia e comunista, nonostante i molti limiti. Come scritto dall’Autrice, «l’URSS ha sconvolto il mondo e provocato un immenso movimento comunista internazionale»[10], ed «è un corpo insepolto, un cadavere che non ha cessato di fare paura»[11].

Nonostante il comunismo sia stato un’utopia, e ciò è uno dei punti di maggiore differenza con il femminismo, l’Autrice mette in guardia dalla tentazione di relegare il movimento a una concezione eccessivamente ideale, astratta, quasi impalpabile: quella comunista è stata, infatti, una realtà ben calata storicamente, che ha avuto momenti di estrema gloria e raggiunto alte vette di giustizia. Il comunismo ha lasciato tracce – e qui il sottotitolo dell’opera in esame appare in tutta la sua centralità – non solo nella storia passata e presente, ma anche nella vita di Rossanda, che alterna ricostruzioni storiche a memorie di vita vissuta, non senza un’analisi lucida degli errori commessi dal comunismo e dai partiti aderenti a questa visione.

Se il comunismo può essere descritto con criteri valutativi, storici e concreti, lo stesso non può dirsi del femminismo. Rossanda fa notare che nessun movimento politico e rivoluzionario, men che meno il comunismo, ha affrontato con una carica propulsiva e propositiva la questione di genere. Una prima, embrionale, forma di scollamento dal patriarcato è stata teorizzata da Friedrich Engels, il quale ha affermato che la donna è, nella visione dell’epoca e purtroppo anche attualmente, una proprietà dell’uomo. Questa idea, però, è stata subito accantonata dal marxismo e dal comunismo, ed è andata divulgandosi la concezione per cui i figli siano prodotto dell’uomo, intendendo quest’ultimo come motore anche della gestazione, come terra fertile dalla quale discendono dei frutti di cui sarà l’unico proprietario. Rossanda si domanda, allora, quanta connivenza effettiva ci sia tra donne e subordinazione delle stesse nella società, e giunge all’amara conclusione secondo cui il femminismo ha perso il suo mordente nel momento in cui non si è concretizzato in azioni di lotta e ribellione, tipiche invece del movimento comunista, persino davanti a ingiustizie palesi e inqualificabili come la disparità salariale o la minore incisività delle carriere femminili. Per l’Autrice, la colpa del femminismo è di aver introiettato pregiudizi maschilisti senza alcuna opposizione: «ne viene che le donne stanno in politica, anche quando vi sono chiamate quanto gli uomini, con un piede sospeso. E anche nel lavoro: quando lo sviluppo capitalistico le spinge fuori della famiglia nel lavoro industriale (…) esse non fanno leva sull’uguaglianza nella collocazione di classe per rivendicarla su tutti i terreni»[12].

Rossanda, alternando spunti teorici ad episodi della sua vita, evidenzia come il femminismo emancipazionista, una sorta di proto-femminismo moderno o femminismo della prima ora, si sia focalizzato sull’inglobamento dei valori della società contemporanea in un’ottica, però, squisitamente femminista: il risultato di questo procedimento è stato un primo ammodernamento dei costumi, l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, la riforma del diritto di famiglia con la piena parità tra coniugi. Eppure, come già ribadito all’inizio del volume in esame, questa apparente uguaglianza tra uomo e donna rimane solo sulla carta, poiché molteplici e reiterati sono gli atteggiamenti discriminanti tenuti innanzitutto dagli apparati statali: basti pensare, ad esempio, che al diritto di voto concesso alle donne non si accompagna una partecipazione politica intensa quale è quella maschile, o anche all’estrema libertà sessuale delle donne la quale, però, non fa altro che sfruttare la sessualizzazione dei corpi per presentare l’universo femminile come esca per irretire l’uomo e per porsi in una posizione volontaria di subordinazione. Per l’Autrice, i fautori di questo finto progresso sono stati, per l’appunto, la democrazia e il capitale, fattori contro i quali si scaglia il “secondo femminismo”, che rimprovera all’emancipazionismo il sostegno dato a una regressione del modello di società incentrato sul maschile quale obiettivo da raggiungere per ottenere pari tutele e diritti. Il secondo femminismo sostiene una rivendicazione del femminile, specialmente in un contesto – quale è non solo la società, ma anche l’ambito giuridico – in cui il maschile prevale in maniera preponderante nelle istituzioni, nel linguaggio, nel pensiero, nei rapporti fra individui: «maschili sono dunque le leggi, lo Stato, le istituzioni, i partiti, e ancora prima la famiglia. Tutti i poteri. Le femministe se ne dissociano o vi partecipano con distanza. Loro concetto cardine è la differenza»[13].

Proprio il principio della differenza, su cui si fonda quello che può essere definito a tutti gli effetti un “femminismo della differenza”, suscita nell’Autrice più di un dubbio. Al di là dell’inconcepibile distacco volontario dalle leggi e dalla politica che da sempre avevano tenuto separate le donne, Rossanda non condivide l’idea per cui il femminismo debba rivendicare un’appartenenza al femminile soltanto nei rapporti uomo/donna, quando, in realtà, la società si basa su relazioni e conflitti molto più eterogenei e complessi, contro i quali il femminismo della differenza non sembra essersi scagliato, nel parere dell’Autrice, con la stessa veemenza.

4. Analisi delle appendici

In appendice all’opera sono collocati due testi, scritti precedentemente e pubblicati nella rivista “Reti. Pratiche e saperi di donne” curata dalla sezione femminile del Partito Comunista Italiano dal 1987 al 1992, e ripubblicati nel testo in oggetto per l’evidente assonanza tematica. Il primo contributo verte sulla politica, nel senso più generico del termine, secondo però una declinazione particolare: la politica vista e fatta dalle donne e che si rivolge alle donne stesse. La questione dirimente è la poca partecipazione delle donne nella vita politica dei partiti – ovviamente, il taglio dato a tale problematica segue la storia del Partito Comunista Italiano -, non per la loro scarsa attenzione verso certe realtà, ma per la poca propensione dei partiti stessi a voler far partecipare le donne, da considerare «soggetti, non ospiti ausiliarie»[14]. Le rivendicazioni femminili non trovano spazio poiché, secondo Rossanda, il sistema di discriminazione e prevaricazione maschile si alimenta attraverso una società che relega le donne a ruoli casalinghi, di cura e di protezione, perpetuando una divisione dei ruoli antropologicamente e socialmente retriva.

L’Autrice prevede, come soluzione e come metodo per far valere le rivendicazioni del proprio sesso, il metodo dell’affidamento, che consiste sostanzialmente in un ribaltamento della prospettiva emancipatoria: se questa proponeva il raggiungimento di una parità tra femminile e maschile, il quale era guida delle azioni della donna, il modello dell’affidamento si propone di affiancare una donna più esperta a un’altra meno esperta, in modo che, durante questa relazione nascente, si possano formare argomenti alla base di una rivoluzione politica e si possa costruire uno spirito identitario effettivo e condiviso. Di tal guisa, il movimento femminista coniuga da un lato un atteggiamento elitario, che porta a una concezione della posizione femminile nella società come ruolo di forza, e dall’altro un atteggiamento solidaristico, fondato invece sulla volontà di liberare ed emancipare le oppresse.

Il secondo contributo collocato in appendice consegna, invece, delle riflessioni sull’attivismo dialogico e propositivo delle donne all’interno non della politica (nell’alveo della quale l’esperienza femminile, secondo l’Autrice, si è inserita, e anche abbastanza favorevolmente), ma degli stessi partiti, intesi come associazioni. Rossanda afferma che nessun partito ha dato voce in maniera viva e forte alle istanze femminili e femministe, ma giunge al contempo alla triste constatazione secondo la quale tale silenzio non è altro che una proiezione di una mancanza di visione delle donne su determinate questioni, tanto importanti quanto sottaciute.

5. Conclusione

In definitiva, il testo di Rossana Rossanda ci dona più riflessioni e domande che risposte, centrando pienamente quello che è lo spirito che anima la conduzione della narrazione: presentare la frammentazione della donna, femminista, militante e comunista, all’interno di un contesto che sembra quasi rigettarla. Il femminismo e il comunismo, passioni che hanno animato la vita dell’Autrice, nonostante la loro inconciliabilità hanno lasciato tracce che valicano i confini dell’esistenza e delle ideologie del singolo per diventare forze travolgenti del Novecento. Il coinvolgimento di Rossanda, in prima linea nel propugnare le teorie avanzate dai due movimenti, non sfocia mai nel fanatismo, anzi è bilanciato da critiche e appunti mossi ai limiti del femminismo e del comunismo: le negatività, però, a loro volta, non vengono mai enunciate con una forza dialettica tale da sfociare nella rottura o nella demolizione delle teorie oggetto del volume. L’eredità lasciataci dall’Autrice è, in sostanza, la capacità di riflettere, la ponderazione, l’abilità di non abbandonarsi al disincanto o all’illusione delle idee; essa è, parallelamente, una descrizione libera e sincera non solo dei due più grandi movimenti del Novecento i quali, senza alcun dubbio, esercitano una grande influenza sul periodo attuale, e che tanto hanno provato a tangersi in un punto senza però mai riuscirci pienamente, ma anche – o, forse, soprattutto – il racconto di una vita spesa nella militanza, nel senso più puro e nobile del termine, la quale «fa della femminista comunista una voce altamente problematica e deliberatamente irrisolta»[15].


Note e riferimenti bibliografici

[1] R. Rossanda, Un secolo, due movimenti. Comunismo e femminismo, tracce di una vita, Futura Editrice, Roma, pp. 11-12

[2] ivi, p.10

[3] ivi, p. 14

[4] Ivi, p. 22

[5] Ivi, p. 25

[6] Ivi, p. 32

[7] Ivi, p. 29

[8] Ivi, p. 35

[9] Ivi, pp. 38-39

[10] Ivi, p. 42

[11] ibidem

[12] Ivi, p. 56

[13] Ivi, p. 61

[14] Ivi, p. 79

[15] Ivi, p. 94