La questione dell´universalità dei diritti umani: Jeanne Hersch e la ricerca di un fondamento trascendentale
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Mattia Volpi
Questo lavoro consta di due parti. La prima, articolata in quattro paragrafi, intende offrire una mappatura delle prospettive possibili da cui analizzare i diritti umani: quella empirica, quella storica, quella comparatistica e quella fondazionale. In questa sezione della ricerca vengono in particolare approfondite le due questioni collegate dell’universalità e della fondazione dei diritti umani, a partire dalla presunta definitività della Dichiarazione ONU del 1948. La seconda parte del lavoro si incentra sul pensiero etico-giuridico di Jeanne Hersch, evidenziando come la proposta dell’autrice rappresenti una sintesi tra teorie universalistiche e posizioni relativistiche in merito all’esistenza di una giustificazione ultima dei diritti umani
The questione of universality of human rights: Jeanne Hersch´s pursuit of a trascendental foundation
This work is divided into two parts. The first one, structured into four sections, seeks to outline the possible perspectives for analyzing human rights: the empirical, historical, comparative, and foundational approaches. This part of the research explores in depth the interconnected themes of the universality and grounding of human rights, beginning with the presumed definitive nature of the ONU Declaration of 1948. The second part focuses on the ethical-legal thought of Jeanne Hersch, emphasizing how her approach synthesizes universalist theories and relativist positions concerning the ultimate justification of human rightsSommario: 1. Quattro prospettive di ragionamento sui diritti umani; 1.1. L’approccio empirico o performativo (cenno); 1.2. La prospettiva storico-genealogica; 1.3. La prospettiva critico-comparatistica e il caso degli Asian values; 1.4. La prospettiva fondazionale e il problema della giustificazione dei diritti; 2. Alla ricerca di un fondamento filosofico dei diritti umani: la proposta di Jeanne Hersch; 2.1. L’evidenza empirica: Le droit d’être un homme; 2.2. La digression philosophique: la capacità di libertà come tratto universale dell’umano; 2.3. Il riconoscimento empatico e il “vuoto orientante”.
1. Quattro prospettive di ragionamento sui diritti umani
1.1. L’approccio empirico o performativo (cenno)
Quando si parla di una questione molto dibattuta, come quella dei diritti umani, è sempre opportuno fare alcune precisazioni preliminari. Il tema dei diritti può essere approcciato da quattro angolature differenti. Innanzitutto, si può compiere un’analisi empirica o performativa, tesa cioè a verificare la corrispondenza tra le declamazioni astratte delle carte dei diritti e il loro effettivo rispetto[1].
Tale approccio è comune sia alle inchieste giudiziarie (in particolare degli organi internazionali di giustizia) sia alle ricerche geopolitiche (volte a sensibilizzare i lettori su violazioni dei diritti perpetrate in Paesi che spesso non godono dell’attenzione mediatica). Sia detto subito che, per mancanza di competenza di chi scrive, non è questa la strada imboccata dal presente lavoro; e del resto, vale a fortiori quanto Jeanne Hersch, nei primi anni Novanta, esprimeva sul senso di «imbarazzo e perfino rimorso»[2] che naturalmente si impossessa di chi scrive su un tema così delicato e allo stesso tempo così evidente: «È sufficiente guardare all’attualità – la fame, i campi di rifugiati, le imbarcazioni senza asilo spazzate via dal mare, il ricatto, la coazione alla menzogna, le persecuzioni, le bidonville, gli abusi della psichiatria – per avere voglia di posare la penna»[3].
1.2. La prospettiva storico-genealogica
La seconda angolatura possibile è quella storico-genealogica e consiste nella ricostruzione delle fasi e degli snodi salienti, sia di ordine culturale sia materiale, che hanno concorso alla definizione dell’attuale catalogo dei diritti umani. La letteratura a riguardo è molto vasta[4] ed è tendenzialmente allineata nel considerare i diritti alla stregua di un signum prognosticum dell’evoluzione morale dell’umanità. L’“età dei diritti”[5], dunque, per usare la nota espressione di Norberto Bobbio, sarebbe quel periodo storico avviato nel Seicento, e tuttora in corso, che avrebbe attestato l’impegno del genere umano a migliorare stabilmente le proprie condizioni di vita, a partire dalla considerazione della persona come portatrice di un valore incomprimibile. Con le prime teorie liberali del XVII secolo, infatti, si assiste a una netta inversione dei rapporti gerarchici tra individui e Stato, nel senso che sempre più diffusamente viene considerato il legame tra governanti e governati dalla prospettiva dei secondi. Tale rivoluzione copernicana si traduce nel riconoscimento della priorità ontologica e assiologica del singolo essere umano sulla società nel suo complesso, che pertanto viene concepita come un mero strumento funzionale alla tutela e alla realizzazione degli esseri umani che la abitano.
Circa la scansione temporale in cui si sarebbe consolidato tale paradigma, gli interpreti sono concordi nell’individuare tre fasi principali[6]: la prima è quella del giusnaturalismo seicentesco, di cui John Locke rappresenta l’esponente più significativo. In questa prima tappa si sarebbe definita l’idea che gli esseri umani sono titolari di diritti inalienabili che nessuno, neppure lo Stato, può mettere in discussione.
La seconda fase coincide con la positivizzazione di tali diritti, avvenuta con le carte costituzionali e con le dichiarazioni che hanno fatto seguito alla Rivoluzione americana e a quella francese. In questa fase avviene una proliferazione del catalogo dei diritti, che viene tuttavia controbilanciata dalla perdita di universalità degli stessi: non più di pertinenza di tutti gli esseri umani, intesi kantianamente come entità noumeniche, i diritti sono adesso appannaggio di quel cittadino in possesso di determinati requisiti economici (costruiti sui criteri razionali della borghesia illuminista).
La terza e ultima fase, che segna l’apoteosi dell’età dei diritti e, per alcuni, la «fine della storia»[7], inizia con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e rappresenta un’evoluzione e una sintesi delle due tappe precedenti: da un lato, infatti, si caratterizza per il ritorno a una vocazione universale di riconoscimento dei diritti a tutti gli esseri umani e, dall’altro, si fa promotrice di una loro positivizzazione, ovvero di strumenti di tutela effettiva capaci di rinforzare le proclamazioni ideali.
Questa configurazione, inoltre, è resa possibile dalla sussistenza di due fattori strettamente connessi con il riconoscimento attivo dei diritti: la forma di governo democratica e la pace tra i popoli. Con le parole di Bobbio: «Senza diritti dell’uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi e tra quelle grandi collettività tradizionalmente indocili e tendenzialmente autocratiche che sono gli Stati, anche se sono democratiche coi propri cittadini»[8]. L’età dei diritti esige pertanto l’evoluzione dello Stato liberale in Stato di diritto costituzionale, in cui l’ordinamento giuridico risulta informato ai principi e ai valori del costituzionalismo (tra cui il riconoscimento della democrazia come forma di governo non contrattabile[9] e il rifiuto della guerra come strumento per risolvere le contese tra soggetti politici).
1.3. La prospettiva critico-comparatistica e il caso degli Asian values
La terza prospettiva d’analisi è quella critico-comparatistica, perché si interroga sulla effettiva universalità delle espressioni che declamano i diritti umani e sulla diffusione dello scenario di pace democratica testé ricordato. La questione fondamentale è quella sollevata, tra gli altri[10], da Raimon Panikkar, che nel 1982 così intitola un proprio saggio sulla presunta universalità dei diritti umani: “Is the Notion of Human Rights a Western Concept?”[11].
Viene da sé che da questa angolatura si può giungere alle più differenti conclusioni in base alla sensibilità dell’interprete, al suo posizionamento antropologico e ideologico, nonché alla capacità di porre in dialogo le diverse culture[12].
Questo filone d’analisi, in altre parole, impone di prendere posizione sull'annosa questione del contrasto tra universalismo e multiculturalismo, tra essenzialismo e relativismo. Si tratta quindi di trovare strumenti idonei per verificare se l’ambizione universalistica delle formulazioni dei diritti sia corroborata dall’adesione a un nocciolo di verità naturali (o comunque, in una formula meno ambiziosa, di ricorrenze generali) che pertengono alla persona in quanto tale, oppure se rappresenta un prodotto culturale della tradizione giuridica occidentale.
Posizioni che mettono in discussione la portata universalistica dei diritti umani, riconoscendone la loro relatività all’interno del paradigma liberal-democratico, devono poi fare i conti con un’ulteriore bisecazione del problema: l’impossibilità dell’universalismo sarebbe imputabile a divergenze linguistico-terminologiche (legate al linguaggio con cui vengono formulati i diritti), oppure è in gioco un’incommensurabilità contenutistica, a partire da un dissenso morale non conciliabile tra orizzonti culturali? Su questi aspetti la letteratura è davvero sterminata e sarebbe velleitario avanzare ulteriori considerazioni. In questa sede è sufficiente segnalare che, in mancanza di una linea comune, gli interpreti oscillano tra i due termini della questione, assumendo prospettive divergenti con implicazioni etico-antropologiche molto serie.
La prima tesi è spesso accompagnata da posizioni più moderate e dialettiche, ma allo stesso tempo nasconde propositi eurocentrici: si ritiene infatti che la difficoltà da parte degli altri popoli di accettare le carte dei diritti sia dovuta soltanto, o soprattutto, a problemi terminologici. Una volta tradotti opportunamente i significati delle espressioni giuridiche con il lessico e le categorie del Paese destinatario, si otterrebbe un “equivalente omeomorfo” più accetto al contesto storico-culturale di ricezione. A tal proposito, scrive Panikkar, richiamandosi alla lezione dell’antropologia geertziana sulla “fusione di orizzonti”: «la fertilizzazione incrociata delle culture è un imperativo umano della nostra epoca»[13]. Secondo questa lettura, molti diritti tipizzati alla maniera occidentale presenterebbero un omologo funzionale nelle altre culture, ossia un valore, un principio o un’istanza equivalente (o comunque simile) nella portata semantica.
Per contro, la seconda tesi è più radicale e più “altrista”, nel senso che riconosce una differenza reale non eliminabile tra i modi in cui le differenti culture esprimono la conoscenza (e il rispetto) di ciò che è intimamente umano. Se la rappresentazione della persona umana è differente, allora anche i valori, i diritti, le pretese, il rapporto con l’altro e lo stesso senso dell’esistenza diventano necessariamente una questione contingente legata al contesto culturale. In questo scenario, ogni tentativo ermeneutico di dialogare davvero è destinato a fallire, come anche la ricerca di un overlapping consensus fondato su alcuni assunti comuni[14].
Infatti, quando non si approda alla narrazione dello “scontro di civiltà” (diffusa soprattutto nella descrizione dei rapporti culturali tra Occidente cristiano e mondo islamico), si giunge comunque alla logica della contrapposizione interculturale: è quanto è avvenuto, per esempio, a partire dalla seconda conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani, tenutasi a Vienna nel giugno 1993[15]. In quella sede, i rappresentanti di numerosi Paesi del “Sud globale” si sono opposti alla presunta universalità del Codice internazionale dei diritti (comprendente, oltre alla Dichiarazione universale del 1948, anche il Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali, e la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici), rivendicando un sistema etico-giuridico alternativo: i cosiddetti “Asian values”[16]. Si tratta di un insieme di principi specificamente asiatici, fondati sui concetti di “disciplina”, “ordine”, “famiglia di appartenenza” e “senso dello Stato”; una griglia valoriale incompatibile con l’idea occidentale di un soggetto astrattamente destinatario di diritti individuali.
Malgrado l’assenza di una definizione univoca degli Asian values, a partire dalla scissione consumatasi con la conferenza di Vienna, si è progressivamente costruito un polo alternativo e oppositivo da cui guardare ai diritti umani. Grazie anche a figure quali Lee Kuan Yew, leader politico-spirituale di Singapore, e Mahathir Bin Moahammad, primo ministro della Malesia, l’intuibile eterogeneità dei valori asiatici si è trasformata in un programma concreto, dotato di unità d’intenti e di progetti. È nata così la Dichiarazione di Bangkok[17], che rappresenta un autentico contraltare alle Carte dei diritti dell’ONU, accusate di tacere sulle differenze culturali esistenti in Oriente.
Tra le caratteristiche di tale Dichiarazione, si ritrova una marcata ispirazione confuciana[18], che si sostanzia nella preminenza del collettivismo inteso come postura esistenziale (e non soltanto politica) del soggetto rispetto al mondo. Tale concezione considera il singolo come parte integrante della società e del cosmo, decostruendo di fatto la stessa idea di “individuo” (che rimanda infatti alla dimensione della separazione dal contesto). Alcune delle conseguenze più evidenti di questo orientamento sono, per esempio: la preferenza per un sistema politico basato su un partito unico, in contrapposizione al pluralismo democratico; la priorità della pace sociale e del consenso passivo sul dibattito e sul ruolo del dissenso; l’attenzione al benessere economico a discapito dei diritti civili e politici; il valore dell’obbedienza all’autorità, da quella familiare a quella statuale; la predisposizione ad accettare forme di governo autoritario perché più funzionali alla realizzazione degli obiettivi sociali[19]. Non si può fare a meno di notare che tale sensibilità mina alle fondamenta anche la connessione tra diritti, democrazia e pace, che invece per Bobbio costituiva una condizione necessaria, e ormai consolidata, della piena età dei diritti.
In verità, non sono mancati tentativi autorevoli di ricucire la frattura venutasi a creare tra presunti diritti umani occidentali e valori asiatici. Tra gli autori che hanno preso posizione in questo senso occorre ricordare almeno William De Bary[20], Joseph Chan[21] e soprattutto Amartya Sen[22]. Tuttavia, nonostante costoro mettano in luce l’esistenza di una matrice individualista e di un’attenzione per la persona anche all’interno del pensiero confuciano e buddhista, l’immagine di un blocco di valori altri e parimenti meritevole di riconoscimento ha ormai minato la speranza di rintracciare contenuti valoriali davvero universalizzabili. Del resto, come insegnano Carl Schmitt e Richard Mervyn Hare, i valori morali sono intrinsecamente tirannici ed espansivi, nella misura in cui aspirano a una formulazione universale e a un riconoscimento dogmatico[23]. Pertanto, quand’anche si giungesse filosoficamente all’auspicato riconoscimento di un reale pluralismo e di un serio relativismo, difficilmente, sul terreno della storia, farebbero seguito rispetto, tolleranza e comprensione empatica degli itinerari culturali del prossimo.
1.4. La prospettiva fondazionale e il problema della giustificazione dei diritti
Vi è poi una quarta angolatura da cui è possibile approcciare al tema dei diritti umani: si tratta della ricerca fondazionale dei presupposti ultimi che giustificano il discorso sui diritti[24]. È dunque qui in questione il problema stesso del fondamento, della ragion d’essere, dei diritti. Anche in questo caso può essere utile prendere le mosse dalle riflessioni di Bobbio, che in Presente e avvenire dei diritti dell’uomo[25] distingue tre possibili modalità fondative dei diritti, evidenziandone i relativi limiti. La prima è la natura umana, intesa come dato oggettivo da cui dedurre principi e valori validi universalmente. Tale strategia è tuttavia invalidata dalla constatazione che quella della natura umana non è un’idea chiara e distinta, ma si presta alle più varie interpretazioni.
La seconda modalità è il ricorso all’evidenza: i diritti umani si giustificano con le “proteste dell’esperienza”, constatandone la diffusione, l’efficienza, l’accettazione generalizzata. Di fronte a una produzione culturale o naturale (qui non rileva la distinzione) così estesa, non occorre problematizzarne ulteriormente il fondamento. È palese che, anche in questo caso, quello di “evidenza” sia un concetto evanescente e insufficiente per una fondazione filosofica dei diritti umani: ciò che è evidente nel presente o in una certa area geografica, può non esserlo più nel futuro prossimo o in un altro Paese.
Il terzo elemento che può fondare i diritti è il consenso. Per Bobbio, è questa la modalità più matura, propria dell’“età dei diritti” vera e propria. Fondare i diritti sul consenso significa assegnare alla condivisione e al riconoscimento un valore giustificativo. In questo senso, la Dichiarazione universale dell’ONU, redatta dalla maggior parte degli Stati del mondo, rappresenta la massima espressione del consensum omnium e dunque il massimo grado di giustificazione. In questi termini, i diritti non vengono più ancorati a un fondamento reale esteriore (che sia la natura umana o le ricorrenze empiriche dell’evidenza), bensì a uno stato animico degli individui che si riconoscono in quella narrazione di rispetto: «Solo dopo la Dichiarazione – osserva Bobbio – possiamo avere la certezza storica che l’umanità, tutta l’umanità, condivide alcuni valori comuni e possiamo finalmente credere all’universalità dei valori nel solo senso in cui tale credenza è storicamente legittima, cioè nel senso in cui universale significa non dato oggettivamente, ma soggettivamente accolto dall’universo degli uomini»[26].
La centralità del consenso come matrice giustificativa dei diritti si riflette anche nell’atteggiamento della letteratura gius-filosofica della seconda metà del Novecento, che evita in modo sospetto di problematizzare ulteriormente il concetto di “consenso” e lo assume come presupposto bastevole di un discorso fondativo. In fondo, una volta raggiunto l’accordo pratico, la ricerca filosofica di una fondazione ultima rischierebbe soltanto di portare alla luce la precarietà della stessa concordanza sui diritti. Come rileva Baldassarre Pastore, «da quando (…) i diritti umani hanno avuto la loro consacrazione positiva nella Dichiarazione universale del 1948, il problema del fondamento ha perduto gran parte del suo interesse»[27].
È infatti questa la linea rivendicata da autorevoli pensatori appartenenti a correnti filosofiche anche molto diverse. Per Jacques Maritain[28], per esempio, il consenso raggiunto sul catalogo dei diritti umani sarebbe frutto di una mera convergenza pratica tra ideologie e tradizioni culturali distinte, e si conserverebbe soltanto a patto di non interrogarsi sul perché. Ancora Bobbio, in una relazione sul fondamento dei diritti tenuta nel 1964, ribadisce che il punto essenziale del discorso sui diritti non è «tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico, ma politico»[29]. Analogamente Richard Rorty, ragionando sull’“età dei diritti” come una conquista planetaria a seguito delle atrocità dell’Olocausto, conclude che «il fenomeno dei diritti umani rende superata e irrilevante la ricerca del loro fondamento filosofico»[30].
Non si può tuttavia fare a meno di notare che il presunto consenso universale è sempre più esposto alle esigenze delle società multiculturali, che determinano, dal basso, una crisi di legittimazione e una perdita di corrispondenza tra dichiarazioni giuridiche e realtà sociale. Il pluralismo delle società contemporanee mette dunque a dura prova la presunta fissità delle carte dei diritti, imponendo un continuo aggiornamento del loro significato e un ampliamento spaziale dei loro contenuti[31]. Lo si è visto a proposito del terzo possibile approccio al tema dei diritti umani, quello comparativo. Da questa presa di coscienza, tuttavia, sarebbe limitante concludere con una sentenza di non liquet circa l’esistenza di un fondamento ultimo[32]. Al contrario: gli scenari della contemporaneità suggeriscono di insistere sulla strada della problematizzazione, dell’interrogazione filosofica dei fenomeni visibili, alla ricerca di una matrice comune talmente profonda da unire davvero uomini, popoli e culture.
2. Alla ricerca di un fondamento filosofico dei diritti umani: la proposta di Jeanne Hersch
2.1. L’evidenza empirica: Le droit d’être un homme
Stupisce pertanto il silenzio che circonda il tentativo di fondazione filosofica dei diritti umani proposto da Jeanne Hersch nel corso della sua vasta produzione intellettuale. La sua posizione, che si può definire nei termini di un “esistenzialismo giuridico”, è fortemente influenzata dal pensiero di Henri Bergson, di Simone Weil e di Karl Jaspers, oltre che dal trascendentalismo kantiano[33]. Ricostruire queste corrispondenze richiederebbe certamente ben altri spazi, che comunque esulerebbero dai propositi del presente lavoro. In questa sede è sufficiente tenere presente tali influenze, per poter analizzare con Al tema Hersch dedica due opere: la prima è una raccolta antologica curata nel 1968, negli anni in cui l’autrice insegnava filosofia all’Università di Ginevra (cattedra che occuperà per oltre trent’anni); la seconda è una meditazione scritta nel 1990 sulla giustificazione concettuale dei diritti, che compendia in modo organico diversi contributi prodotti nei vent’anni precedenti (sotto forma di articoli, interviste, conferenze, saggi).
Tra il 1966 e il 1968, come riconoscimento per i contributi nell’ambito della filosofia morale e politica (su tutti: l’Être et la forme del 1947[34] e Idéologies et réalité del 1956[35]), Jeanne Hersch, già prima donna professoressa ordinaria dell’Università ginevrina, fonda e dirige la direzione della Divisione di Filosofia dell’Unesco, con sede a Parigi. In occasione del ventesimo anniversario della Dichiarazione universale del 1948, l’autrice può così compiere un esperimento storico ed etnografico senza precedenti: profittando della rete e delle risorse dell’organizzazione, chiede ai rappresentanti di tutti i paesi membri (128, allora), di inviarle frammenti tratti dalle loro tradizioni culturali, dalla loro storia, dalla loro letteratura, dai racconti mitologici e religiosi, purché anteriori al 1948, in cui si manifestasse, in qualunque forma, una attenzione per il valore dell’uomo in quanto tale.
Nelle intenzioni di Hersch, si trattava di trovare un modo per verificare empiricamente se le idee confluite nella Dichiarazione fossero una conquista tutta occidentale, legata a un particolare ethos culturale di matrice liberal democratica, oppure se sensibilità affini si registrassero anche in altri contesti spaziali e temporali. Nonostante lo scetticismo che accompagnava tale iniziativa, a poco a poco, dai Paesi più lontani e dalle epoche più remote, giunse a Parigi un’immensa mole di testi, frammenti, pensieri espressi nelle forme più varie, in una babele di lingue morte e vive: «quasi fossero delle offerte – annota René Maheu, direttore generale dell’Unesco – con pietà conservate nei veli di parole d’altri tempi e d’altri luoghi, i pensieri e i testi che sono stati – e restano – le domande e le risposte, le aspirazioni e le prove, i proclami e i compimenti, oscuri e luminosi, attraverso cui l’uomo si è rivelato a se stesso»[36].
L’impressionante quantità di materiale (migliaia di frammenti), nella grande differenza di espressioni, rivelava una peculiare consonanza di fondo tra il sentire dei popoli di epoche e regioni così differenti. A delinearsi era una sorta di esigenza fondamentale che sembrava inscritta all’interno dell’uomo, come se fosse una consapevolezza primordiale che, per il solo fatto di essere un essere umano, qualcosa gli fosse dovuto: «un rispetto, un riguardo; un comportamento che salvaguardi le sue occasioni di fare di se stesso l’essere che è in grado di divenire; il riconoscimento di una dignità che egli rivendica perché aspira consapevolmente a un futuro. Ogni uomo vuole essere un uomo ed essere riconosciuto come tale. Se glielo s’impedisce, può soffrirne al punto da preferire a volte morire»[37].
Da questo esperimento, quasi fosse un viaggio nelle epoche dell’uomo, Hersch ricava una antologia di frammenti che intitola proprio Le droit d’être un homme. L’intuizione di una matrice noumenica comune a tutti gli individui, che l’autrice aveva maturato studiando Kant e Jaspers, veniva così corroborata dalle schiaccianti prove empiriche: più forte delle differenze culturali, vi era un’istanza profonda, viscerale, capace di restituire all’umanità il possesso di un tratto ontologico condiviso.
Una volta rintracciata la presenza di tale matrice comune (ovvero l’esigenza di dignità che avrebbe pervaso l’umanità di ogni tempo), Hersch si trovava di fronte a un’ulteriore sfida: quella della ricerca dell’origine di tale istanza profonda. Il problema non era dunque più l’individuazione di una consonanza che resistesse alle differenze culturali: la posta in gioco era adesso la definizione e la spiegazione filosofica di tale tratto universale. In altre parole, si trattava di ricercare il fondamento, la giustificazione ultima, la ragion d’essere da cui scaturiva l’esigenza di attribuire all’essere umano (proprio) dei diritti (e non altro). È evidente che, ricercando l’archè, a Hersch non interessasse tanto il piano gius-politico o storico-comparativo (le prime tre angolature di osservazione dei diritti umani), bensì quello più profondo della ricerca filosofica di un fondamento (la quarta prospettiva).
2.2. La digression philosophique: la capacità di libertà come tratto universale dell’umano
A ciò è dedicato il già citato saggio del 1990 Les droits de l’homme d’un point de vue philosophique[38]. È un testo breve ma ambizioso, perché propone una visione allo stesso tempo universale e plurale dei diritti umani che in gran parte si discosta dal dibattito del tempo, pur non rifiutando il confronto con gli autori contemporanei. L’analisi filosofica, si legge in apertura, si impone come l’unica possibile «se vogliamo cercare di comprendere perché, nonostante il riconoscimento quasi universale, i diritti umani continuino a essere violati in mille modi, sotto gli occhi di tutti, un po’ ovunque nel nostro pianeta»[39].
Da questa evidenza storica Hersch inferisce in prima battuta che i diritti umani non sono un dato naturale, ma hanno valore normativo: non descrivono cioè il mondo, ma riflettono le aspirazioni, le esigenze, i desideri, i bisogni, gli ideali, di cui l’uomo ha bisogno per manifestare il proprio sé. Di qui si impone la necessità di dichiarare, e di tutelare giuridicamente, i diritti, in una sorta di lotta per arginare il male che strutturalmente è presente nel mondo. Società di angeli, secondo Hersch[40], non avrebbero bisogno di rendere espliciti i propri bisogni di libertà, di giustizia, di uguaglianza, e così via.
Ma la posizione dell’autrice non si limita a un’adesione al realismo politico, con la conseguente considerazione dei diritti soltanto in chiave difensiva come argine alle minacce provenienti dallo Stato centrale e dagli altri consociati. Né i diritti, per Hersch, sono mere condizioni per il benessere collettivo o semplici tecniche per garantire la pace. Al contrario, i diritti umani attesterebbero qualcosa di più profondo: una missione di natura esistenziale, giacché sarebbero necessari alla realizzazione della personalità individuale.
Per spiegare questa tesi, Hersch fa ricorso a una digression philosophique a partire dal concetto di “libertà”, che interpreta in modo originale attraverso due definizioni connesse tra di loro: la prima stabilisce che «la libertà è una capacità»; la seconda precisa che tale capacità di libertà rappresenta «la proprietà essenziale dell’essere umano»[41]. Concepire la libertà come una capacità significa introdurre nel discorso un trascendentale, ossia una condizione di possibilità, un’attitudine a essere, più che un contenuto già dato. La libertà diviene così un tratto essenziale della natura umana, perché ne rappresenta la precondizione di attualizzazione, di inveramento: «se c’è libertà – scrive Jeanne Hersch – allora c’è anche umanità, e viceversa»; e poco oltre: «Esistenza è in fondo un’altra parola per dire libertà»[42].
Nella stessa radice della parola “esistere” è del resto contenuta l’idea di un affrancamento originario: quello attuato da ogni essere umano che ambisca a diventare un’individualità creatrice di una discontinuità nella natura, in grado di sottrarsi (almeno in parte) alla sequenza meccanica delle leggi del mondo fisico. La libertà diventa così un elemento strutturale e definente dell’umano, perché la sua realizzazione determina il livello di maturazione, la ricchezza interiore, la fioritura, della persona. Nell’antropologia herschiana, l’uomo testimonia di esistere davvero soltanto laddove inserisce la propria presa, laddove imprime il proprio marchio, laddove crea delle forme, insomma, ovunque lasci un segno del proprio Sé: «la conoscenza, la contemplazione, l’azione propriamente detta, la creazione artistica sono altrettante prese umane che la materia subisce»[43] e che attestano l’esistenza consapevole di un soggetto capace di emergere dal determinismo della natura per testimoniare la propria originalità.
Quella proposta dall’autrice è dunque una concezione “artistica” della libertà[44]: nel senso che, alla maniera degli artisti che esprimono la propria unicità imprimendo la propria firma sull’opera, l’azione libera assurge a parametro di demarcazione della personalità di ogni artefice, di ogni essere umano. E dunque, per quanto l’uomo sia partecipe di quella stessa natura «che è il regno della forza», in cui «tutto mangia tutto»[45], allo stesso tempo è anche un’entità creatrice dotata di senso morale: caratteristiche che gli consentono di elevarsi e di configurarsi come «l’unico e solo abitante di quest’intersezione di regni opposti della natura e della libertà»[46].
Il confine tra i due domini è per Hersch un fatto personale e variabile, in relazione a quanto ogni individuo impari l’arte della libertà e accresca la propria capacità di incidere, di lasciare il segno, sul reale. Occorre pertanto adottare un punto di vista mobile e gradualistico per misurare la libertà soggettiva: «La questione non sarà: sono o non solo libero? Ma si ricercherà sempre se si è più o meno liberi a seconda che si ponga questo limite in un punto o in un altro (…). Ci sono persone che non sfiorano nemmeno il reale sul quale pretendono di agire. Ce ne sono altre che gli fanno un graffio; altre che scavano fossati; e altre che provocano terremoti»[47].
Questo slittamento da una concezione impersonale della libertà a una modulare e soggettiva è coerente con la sensibilità situazionistica dell’autrice e consente di qualificare i diritti umani al contempo come “assoluti” e “plurali”. Infatti, la configurazione della libertà come capacità, per quanto sia un tratto (innato) comune a tutti gli individui, viene esperita nella concretezza delle singole vite, pena il rischio di diventare un concetto evanescente. Per Hersch, non esiste un altrove rispetto agli uomini reali che abitano questo mondo a cui applicare le astrazioni del diritto: «l’essere umano, di cui si tratta di rispettare in modo assoluto i diritti, non è un cittadino astratto del mondo in generale. È sempre una persona concreta, situata in una data epoca, in un dato paese»[48].
Pertanto, «la rappresentazione astratta e liberale di un essere umano, vuoto e imparziale in partenza (…), è comoda ma fittizia, e in definitiva falsa»[49].
Questa sintesi di esistenzialismo e situazionismo è uno snodo decisivo delle argomentazioni di Hersch sul fondamento dei diritti. L’esistenzialismo si esprime nella concezione di una matrice comune a tutti gli uomini, ovvero l’esigenza assoluta e universale di dare una forma alla propria libertà. La tutela di tale esigenza sacra è ciò che dà il fondamento ai diritti umani. Allo stesso tempo, però, Hersch ribadisce che tale fondamento non si giustifica a partire da teorie generali sulla natura umana, bensì è il risultato dell’esperienza concreta dei singoli individui, che avvertono in modo viscerale tale istanza che li unisce in una comunanza di destino.
Hersch insiste nel qualificare l’esigenza di libertà nei termini di una pulsione profonda che prende forma in strati atavici e pre-razionali dell’umano, e che dunque rappresenta un avvertimento più autentico e anteriore rispetto alle differenze culturali tra i popoli. Dal bisogno incomprimibile di manifestarsi deriva la pretesa che tutti abbiano riguardo per tale patrimonio interiore, salvaguardando le possibilità di ciascuno di fare di sé ciò che è capace di diventare: «l’esigenza assoluta – ribadisce l’autrice – è valida per ogni essere umano, perché ogni essere umano in quante tale è dotato della capacità, e dunque del diritto, e dunque del dovere, di fare di se stesso un essere libero e responsabile (…), riconoscendo al contempo la stessa capacità, lo stesso diritto, lo stesso dovere a ogni altro essere umano»[50].
In definitiva, dalla consapevolezza di possedere un potenziale di libertà deriva il diritto di essere riconosciuti come liberi e, pertanto, il dovere di garantire tale condizione anche agli altri. Pertanto, il diritto che tutela lo spazio sacro di sviluppo della personalità rappresenta il diritto fondamentale e allo stesso tempo la precondizione di tutti gli altri diritti.
2.3. Il riconoscimento empatico e il “vuoto orientante”
Tuttavia, la ricerca del fondamento filosofico dei diritti sarebbe incompleta se non si approfondisse un altro concetto chiave del pensiero herschiano: quello di riconoscimento. Il riconoscimento rappresenta il complementare della capacità di libertà: il droit d’être un homme passa infatti necessariamente attraverso la pretesa di essere riconosciuto come tale da tutti gli altri e, dunque, dal dovere degli altri di riconoscere e rispettare ogni individuo, in quanto portatore della capacità di essere libero. Il riconoscimento di «un rispetto, un riguardo» a ogni uomo rappresenta «l’atto di fede»[51] originario nell’essere umano, in assenza del quale ogni individuo viene risucchiato nella lotta per la vita e nel diritto del più forte.
Hersch si spinge fino a considerare il riconoscimento intersoggettivo come una testimonianza dell’esistenza dell’altro, in assenza della quale viene meno lo stesso concetto di “umanità”. È in questo quadro, nel quale per esistere è necessario un “minimo empatico” da parte dell’altro, che trovano giustificazione i diritti umani[52]. Essi «ci dicono allora che cosa gli esseri umani sono, cosa provano, come agiscono, a cosa aspirano. Ci dicono qual è la condizione prima e assoluta per una vita umana: l’essere riconosciuto come essere umano in virtù della propria capacità di libertà»[53]. E qui, sui temi dell’empatia e della responsabilità verso l’altro, l’autore che più da vicino influenza Jeanne Hersch è senza dubbio Emmanel Lévinas[54].
Vi è in conclusione un ultimo aspetto da sviluppare. Se ciò che conta per divenire umani è dimostrare di essere liberi, imprimendo in qualunque modo il proprio sigillo sul reale, allora si profila un contrasto difficilmente sanabile tra azione libera, da un lato, e azione morale, dall’altro. In altre parole, se l’espressione della propria libertà è ciò che realizza l’umanità presente in ognuno, come è possibile conciliare tale esigenza esistenziale con la pretesa di moralità delle azioni? E ancora: come può il dominio dell’etica orientare la lotta per la vita? In fondo, essenziale è dare forma alla natura, «agire per essere, e non agire bene o agire male»[55]. È evidente che tale prospettiva porta dritta al giustificazionismo dei fini, tale per cui anche la peggiore delle azioni rappresenta pur sempre una creazione “artistica” (dunque libera), funzionale a inverare la personalità dell’agente.
Hersch si avvede del dilemma, ma non per questo intende rinunciare a un fondamento ultimo dei diritti: «un impegno assoluto è sempre pericoloso, è vero. Attraverso forme d’integralismo, rischia d’ispirare e di giustificare le peggiori violazioni dei diritti. Ed è per questo che alcuni cercano, al contrario, di ricondurre il rispetto dei diritti al rifiuto di ogni impegno assoluto, a una sorta di neutralità ragionevole e pragmatica»[56]. Il suo tentativo di risoluzione, invece, passa attraverso l’introduzione di due principi complementari che derivano da lontano, dalla corrente del pensiero religioso liberale[57]: il principio della «trascendenza non posseduta» e quello della «decisione assoluta dell’altro»[58]. Si tratta di due massime pedagogiche che, in assenza di parametri etici vincolanti a priori la bontà delle azioni, consentirebbero di evitare i due eccessi del nichilismo e del fanatismo morale.
La trascendenza non posseduta prescrive la rinuncia a identificare il proprio agire con valori assoluti, in quanto nessun essere umano può farsi misura di leggi valide universalmente: «bisogna che ciascuno riconosca di non possedere l’assoluto al quale si riferisce»[59]. Il principio della decisione assoluta dell’altro implica poi l’adozione di una prospettiva tollerante e mai impositiva nei confronti del prossimo, in quanto ogni essere umano ha diritto di compiere azioni che ambiscano a un fondamento assoluto, pur nella consapevolezza di non poterlo mai raggiungere. Si tratta, in altri termini, di lasciare l’altro libero di ricercare l’assoluto a cui è strutturalmente orientato.
Per questo tramite, Hersch inserisce l’esperienza del “vuoto che orienta” nel cuore stesso della cultura liberale e democratica dei diritti umani. A dominare il discorso è infatti un’etica del limite a cui l’autrice aderisce in esplicita continuità con una nobile tradizione di cui partecipano, tra gli altri, Simone Weil, Vargas Llosa, Jaspers e Camus[60]. Per questa corrente, esiste infatti uno spazio inconoscibile e impronunciabile, uno spazio che attira, ma che resta ignoto o soltanto percepito, che è lo spazio del “vuoto orientante”: un luogo che avvicina nella comune mancanza della verità, intesa in senso dogmatico. Ancora, è uno spazio vuoto, ma non vacuo, che impone la modestia e il riconoscimento del limite, ma che parimenti attrae e spinge a migliorarsi.
Quella delineata da Hersch si configura pertanto come una pedagogia esistenziale che insegna a saper coabitare quel vuoto comune che rende tutti fratelli e che estirpa la «radice selvaggia»[61] dell’integralismo e della violenza. Tale proposta morale, sebbene epistemologicamente modesta, costituisce il presupposto per un’idea davvero sana di tolleranza, che non si traduca in una mera sopportazione del diverso, ma in una sofferta fratellanza tra cercatori prospettici di senso: «del resto – scriveva Hersch già in Essere e forma nel 1947 – il mio progetto è già abbastanza ambizioso: rimuovere dall’essere in sé le prese temerarie della mente; allontanarlo da ogni illusione possessiva, perché lo si tocchi meno e lo si veda meglio. Conoscere Dio come ignoto. Noli me tangere»[62]. L’universale richiamo verso una trascendenza mai appropriabile si traduce così in una tensione fraterna di fronte a quel vuoto che tutti unisce e che dà un senso al pieno che intorno a esso gli esseri umani costruiscono (tra cui spiccano i diritti umani).
Se si accetta la prospettiva adottata da Jeanne Hersch sul fondamento allo stesso tempo assoluto e plurale dei diritti, è forse possibile superare sia le contraddizioni del multiculturalismo radicale sia la presunzione anacronistica dell’universalismo illuminista. In fondo, la pretesa antropologica della proposta herschiana richiede un sacrificio minimo dello spirito critico: si tratta semplicemente di riconoscere che l’essere umano, in ogni tempo e in ogni luogo, esige di esprimere in modo libero ciò che si sente di essere.
[1] Per validi esempi di questo approccio, si rimanda a: A. CASSESE, I diritti umani oggi, Roma-Bari, 2005; S. ZAPPALÀ, La tutela internazionale dei diritti umani. La responsabilità degli Stati e il governo mondiale, Bologna, 2023; D. RUSSO, L’efficacia dei trattati sui diritti umani, Firenze, 2012; A. MARCHESI, La protezione internazionale dei diritti umani, Torino, 2023; AA. VV., Rapporto 2023-2024. La situazione dei diritti umani nel mondo, Modena, 2024; P. PUSTORINO, Tutela internazionale dei diritti umani, Bari, 2024; C. HEIN, La protezione dei diritti umani. Le istituzioni nazionali indipendenti a confronto, Roma, 2021; L. HENKIN, Diritti dell’uomo, Roma, 2023; L. SCUCCIMARRA, Proteggere l’umanità. Sovranità e diritti umani nell’epoca globale, Bologna, 2016.
[2] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, Mondadori, 2008, 102.
[3] Ibid.
[4] Cfr., senza pretesa di completezza: P. COSTA, Dai diritti del cittadino ai diritti dell’uomo: alle origini della Dichiarazione Onu del 1948, in T. Mazzarese e P. Parolari a cura di, Diritti fondamentali. Le nuove sfide, Torino, 2010, 15-33; M. FLORES, Storia dei diritti umani, Bologna, 2023; A. FACCHI, Breve storia dei diritti umani. Dai diritti dell’uomo ai diritti delle donne, Bologna, 2013; M. ACTIS ORELIA, a cura di, Diritti umani. Un viaggio nella storia per conoscere comprendere e rispettare i Diritti Umani, Torino, 2018.
[5] N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1992. Pone provocatoriamente in discussione tale espressione A. SCHIAVELLO, La fine dell’età dei diritti, in Etica e Politica, 2013, 1, 120-145.
[6] Cfr. N. BOBBIO, L’età dei diritti, cit., 17-44.
[7] C. DOUZINAS, The End of Human Rights. Critical Legal Thought at the Turn of the Century, Oxford, 2000, 2. Dello stesso autore si veda anche ID., Human Rights and Empire. The Political Philosophy of Cosmopolitanism, New York, 2007.
[8] N. BOBBIO, L’età dei diritti, cit., 258-259.
[9] Il rapporto tra diritti e democrazia meriterebbe in realtà un discorso a parte: perché se è vero che solo in un contesto in senso lato democratico e plurale possono allignare i diritti umani, è altrettanto vero che essi si pongono al di fuori del dibattito deliberativo e sono pertanto da considerare come zone franche, come acquisizioni non criticabili. In questo senso, dunque, l’inserimento di diritti umani nelle costituzioni rigide si configura come una restrizione degli ambiti sottoponibili al dibattito deliberativo. Evidenziano bene il punto, A. PINTORE, Diritti insaziabili, in L. Ferrajoli a cura di, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma-Bari, 2001, 179-200; e A.J. SEBOK, The Insatiable Constitution, in Southern California Law Review, 1997, 70, 417-471.
[10] Sul tema, si vedano per esempio: L. BACCELLI, Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma, 1999; M.S. BIRTOLO, I diritti umani tra Occidente e Oriente. Storicità di un’idea e tentativi di fondazione filosofica, Soveria Mannelli, 2023; V. BUONOMO e A. CAPECCI, L’Europa e la dignità dell’uomo. Diritti umani e filosofia, Roma, 2015; S. LATOUCHE, L’occidentalizzazione del mondo, Torino, 1992.
[11] R. PANIKKAR, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, in Diogéne, 1982, 120, 75-102.
[12] Ricostruisce adeguatamente il contrasto tra valori occidentali e valori asiatici, a partire da una antropologia interpretativa, L. MARCHETTONI, L’antropologia dei diritti umani, in Jura Gentium, 2005, 2, 7-22.
[13] R. PANIKKAR, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, cit., 110. Su questa linea anche C. TAYLOR, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, in J.R. Bauer e D.A. Bell a cura di, The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge, 1999. La cornice antropologica di riferimento è chiaramente C. GEERTZ, Interpretazione di culture, Bologna, 1973.
[14] Cfr. S.P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, 1997. Sull’origine storia dei diritti cfr. anche L. BACCELLI, Il particolarismo dei diritti, cit., che critica i tentativi di universalizzazione compiuti da John Rawls e John Finnis.
[15] Cfr. S.P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, cit., 280-289. Sul punto anche F. TEDESCO, Diritti umani e relativismo, Roma-Bari, 2009, 39-76.
[16] Sugli Asian values, cfr.: J.C. HSIUNG, a cura di, Human Rights in the East Asian Perspective, New York, 1985; J.R. BAUER e D.A. BELL a cura di, The East Asian Challenge for Human Rights, cit.; J. CAUQUELIN, P. LIM, B. MAYER-KÖNIG, Asian values. Encounter with diversity, Londra, 1998.
[17] Il testo del documento si può consultare nella libreria digitale dell’Unesco: https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000096128.
[18] W.M.T. DE BARY, Asian Values and Human Rights. A Confucian Communitarian Perspective, Cambridge (Mass.), 1998. Si veda inoltre, anche per la ricca bibliografia finale alla quale si rimanda, il saggio di A. EHR-SOON TAY, I “valori asiatici” e il rule of law, in Jura Gentium, 2005, 1: https://www.juragentium.org/topics/rol/it/tay.htm.
[19] Si vedano anche le riflessioni sul caso cinese condotte da M. SCARPARI, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, 2023, 169-193.
[20] W.M.T. DE BARY, Asian Values and Human Rights, cit., 10-30.
[21] J. CHAN, Confucian Perspective on Human Rights for Contemporary China, in J.R. BAUER e D.A. BELL a cura di, The East Asian Challenge for Human Rights, cit., 212-239.
[22] A. SEN, Laicismo indiano, Milano, 1998.
[23] Il riferimento è chiaramente a C. SCHMITT, La tirannia dei valori, Milano, 2008 e a H. HARE, Il linguaggio della morale, Roma, 1968.
[24] Si vedano, per esempio, gli ormai classici tentativi fondazionali condotti da J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 2017, R. DWORKIN, I diritti umani presi sul serio, Bologna, 2010, J. GRIFFIN, Discrepancies Between the Best Philosophical Account of Human Rights and the International Law of Human Rights, in Proceedings of the Aristotelian Society, 2001, 101, 1-28, M. NUSSBAUM, Diventare persone: donne e universalità dei diritti, Bologna, 2001. Sul tema del fondamento in Nussbaum, P. BERNARDINI, Uomo naturale o uomo politico? Il fondamento dei diritti in Martha C. Nussbaum, Soveria Mannelli, 2009. Cfr. inoltre C. CROSATO, L’uguale dignità degli uomini. Per una riconsiderazione del fondamento di una politica morale, Assisi, 2013 e M.S. BIRTOLO, I diritti umani tra Occidente e Oriente. Storicità di un’idea e tentativi di fondazione filosofica, Soveria Mannelli, 2023. Per contro, critici verso un discorso fondazionale sono i contributi di: A. BUCHANAN, Diritti umani: i limiti del ragionamento filosofico, in Ragion pratica, 2009, 1, 29-66; J. RAZ, Diritti umani senza fondamenti, in Ragion pratica, 2007, 2, 449-468.
[25] Il saggio è contenuto in N. BOBBIO, L’età dei diritti, cit., 18-34.
[26] Ibid., 21.
[27] B. PASTORE, Per un’ermeneutica dei diritti umani, Torino, 2003, 15.
[28] Cfr. l’Introduction di J. MARITAIN in AA.VV., Human Rights. Comments and Interpretations, Westport, 1973, 9-17.
[29] N. BOBBIO, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in ID., L’età dei diritti, cit., 16.
[30] R. RORTY, Verità e progresso. Scritti filosofici, Milano, 2003, 157-174. Approfondisce il punto A. SCHIAVELLO, La fine dell’età dei diritti, cit., 127 ss.
[31] Cfr. B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà. Questioni di filosofia del diritto, Roma, 2007, 13-64.
[32] Come sembra concludere invece A. GUTMANN, La sfida del multiculturalismo all’etica politica, in Teoria politica, 1993, 3, 3-40.
[33] Per una presentazione bio-bibliografica dell’autrice, si vedano almeno: F. DE VECCHI, La libertà incarnata. Filosofia, etica e diritti umani secondo Jeanne Hersch, Milano, 2008; D. ROGER-POL, Jeanne Hersch, philosophe à la voix claire, in Le Monde 12 août 2002: https://www.lemonde.fr/series-d-ete/article/2022/08/13/jeanne-hersch-philosophe-a-la-voix-claire_6137981_3451060.html; E. DUFOUR KOWALSKI, Jeanne Hersch: présence dans le temps, Paris, 1999; A. GAVILLET, Jeanne Hersch, une démocrate, in Domaine public, 2020, 37, 6-7. All’élan vital di Bergson Hersch aveva dedicato la tesi di laurea in lettere nel 1931; Jaspers era stato il suo insegnante di filosofia ad Heidelberg, nel 1933, e veniva considerato da Hersch come il «son maître et ami pour toujours»; Kant rappresenta il riferimento di fondo dell’impostazione trascendentale dell’autrice, come si vedrà tra poco parlando della libertà.
[34] Ora in J. HERSCH, Essere e forma, Milano, 2006.
[35] J. HERSCH, Idéologies et réalité. Essai d’orientation politique, Paris, 1956.
[36] Si veda la prefazione di R. MAHEU, in J. HERSCH, a cura di, Il diritto di essere un uomo. Antologia mondiale della libertà, Milano, 2015, 11.
[37] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, Milano, 2008, 72.
[38] Ibid. Si tratta, come detto, di una sintesi delle posizioni espresse precedentemente da Hersch e raccolte in: J. HERSCH, L’exigence absolue de la liberté. Textes sur les droits humains (1973-1995), Genève, 2008.
[39] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 60.
[40] Ibid,, 60, 73, 94.
[41] Ricostruisce bene l’argomentazione anche Francesca De Vecchi nel saggio introduttivo a Ibid., 12 ss. Più diffusamente, La libertà incarnata. Filosofia, etica e diritti umani secondo Jeanne Hersch, cit. Sulla considerazione della libertà come un fattore trascendentale si riflette la lettura jaspersiana di Kant, di cui Hersch aveva curato e tradotto l’edizione francese. Il riferimento è a K. JASPERS, Les grands philosophes. Kant, Paris, 1963.
[42] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 92.
[43] J. HERSCH, Essere e forma, cit., 13.
[44] Anche a questo livello si registra una marcata influenza della concezione bergsoniana dell’agire libero. Sul punto, cfr. R. GUCCINELLI, Jeanne Hersch. Tempo e decisione, in G. Miglio a cura di, Fedeltà a se stesse e amore per il mondo, Pisa, 2006, 69-89, Id., La forma del fare. Estetica e ontologia in Jeanne Hersch, Milano, 2008, S. TARANTINO, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e María Zambrano, Milano, 2008.
[45] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 61.
[46] Ibid. Vale la pena ricordare il carattere fortemente umanistico di quest’affermazione e, in generale, del pensiero herschiano, che consente di inserire l’autrice nella nobile tradizione dell’Umanesimo esistenziale (quella che si riferisce alle riflessioni di Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti).
[47] J. HERSCH, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce, Milano, 2006, 22.
[48] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 66.
[49] Ibid., 67. Si veda anche C. TAYLOR, Le radici dell’Io. La costruzione dell’identità moderna, Milano, 1993.
[50] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 72.
[51] Ibid., 73.
[52] Il ricorso all’empatia si trova diffusamente in J. HERSCH, L’exigence absolue de la liberté. Textes sur les droits humains (1973-1995), cit., e viene sviluppato da F. DE VECCHI, La libertà incarnata. Filosofia, etica e diritti umani secondo Jeanne Hersch, cit.
[53] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 36.
[54] Oltre al tema dell’empatia, il riferimento è anche alla funzione morale dello “sguardo dell’altro” e alla solidarietà come dimensione etica imprescindibile. Cfr. E. LÉVINAS, La traccia dell’altro, Napoli, 1979 e ID., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano, 1983.
[55] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 41.
[56] Ibid., 65.
[57] Per approfondire le categorie del “pensiero religioso liberale” o del “trascendentalismo religioso”, si rimanda a: G. MORETTO, Sulla traccia del religioso, Napoli, 1987; R. CELADA BALLANTI, Pensiero religioso liberale, Brescia, 2019. Cfr. inoltre i classici lavori di Jaspers e Dilthey che hanno contribuito alla formazione di tale postura umana di fronte al religioso: K. JASPERS, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Milano, 1962; W. DILTHEY, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, Firenze, 1974.
[58] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 68, 101.
[59] Ibid., 68.
[60] Ibid., 101. In particolare, è forte la connessione con Weil: S. WEIL, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, 1983 e ID., La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Milano, 1989.
[61] J. HERSCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, cit., 44.
[62] J. HERSCH, Essere e forma, cit., 7.
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