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Pubbl. Mar, 29 Nov 2022

Eutanasia: battersi per morire

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Valeria Ferro



L’articolo si concentra sulla necessità di un intervento normativo che disciplini l’eutanasia. In una democrazia liberale caratterizzata da un pluralismo etico non si può ancora temporeggiare, a scapito del principio di certezza del diritto, aspettando che sia la giurisprudenza a risolvere le questioni del fine-vita, caso per caso. In un contesto in cui il progresso scientifico è sempre più capace di allungare la vita e di alleviare le pene, non è accettabile che la persona sia sempre meno libera di prendere decisioni riguardo modalità e tempi della propria morte. L’articolo fa riferimento alle tante implicazioni etiche sul tema, mettendo in luce le ragioni empiriche per cui la legalizzazione della pratica eutanasica, oggi, sarebbe auspicabile.


ENG The article focuses on the need for a regulatory intervention to regulate euthanasia. In a liberal democracy characterized by ethical pluralism, one cannot yet stall, to the detriment of the principle of legal certainty, waiting for the jurisprudence to resolve end-of-life issues, case by case. In a context in which scientific progress is increasingly capable of lengthening life and alleviating pain, it is unacceptable that the person is less and less free to make decisions regarding the methods and times of his own death. The article refers to the many ethical implications on the subject, highlighting the empirical reasons why the legalization of the practice of euthanasia would be desirable today.

Sommario: 1. Premessa; 2. L’eutanasia oggi in Italia; 3. Referendum e legge eutanasica; 4. Prospettive esigibili; 5. Conclusioni: i vantaggi di una legge sull’eutanasia.

1. Premessa

La bioetica si esibisce in uno sfondo filosofico che si interroga sulla liceità morale di cosa sia possibile compiere e su quali siano i modelli di riferimento per la definizione della dignità e del valore della vita (e della morte). Ecco perché gli interrogativi sulle questioni di bioetica impongono cautela nel loro approccio traducendosi in temi complessi, in quanto attinenti alla sfera intima della coscienza individuale.

Nel modo di intendere la vita, ad una visione meramente meccanicistica si è contrapposta fin dall’antichità una prospettiva filosofica vitalistica, che conferisce all’essere vivente, in quanto animato da un principio superiore rispetto alla materia inerte, qualità superiori rispetto al non vivente.

Agostino d’Ippona affermava emblematicamente che anche l’anima della mosca è superiore alla luce corporea, perché essa vive.

Se il vivente è superiore alla realtà non vivente, allora non è solo auspicabile, ma doverosa una riflessione filosofica che abbia per oggetto la vita stessa; riflessione che si è imposta nel contemporaneo contesto tecnologico e alla luce delle evoluzioni scientifiche.

Uno dei temi più dibattuti in bioetica è proprio quello che attiene al fine vita.

Che sia giusto, per alcuni, o ingiusto, per altri, rimane un dato di fatto che l’essere umano oggi, alla luce delle potenzialità che gli sono offerte dalla scienza e dalla tecnica, sfida le certezze naturali sulla nascita, la riproduzione, la vita, la malattia e persino la morte[1].

I progressi della scienza hanno aperto scenari, dalla diagnostica all’ambito terapeutico, farmacologico e tecnologico, che fino a poco tempo fa erano impensabili.

2. L’eutanasia oggi in Italia

Le tante le perplessità di fronte alla possibilità dell’uomo, in condizioni di malattia irreversibile o terminale, di decidere in autonomia il tempo e il modo in cui morire, relegano l’eutanasia a un limbo giuridico.

L’orizzonte esistenziale dal quale si osserva la questione dell’eutanasia è fondamentale.

Sul punto, la dottrina ha messo in luce tre diverse prospettive. La prima afferma la totale inammissibilità dell’eutanasia (sia nella forma attiva che passiva), sul presupposto dell’assolutezza del principio di indisponibilità della vota umana[2]. Se la vita ha un valore assoluto, allora nessuna pratica eutanasica, in nessun caso, potrebbe essere ipotizzata. Nella sua storia bimillenaria, la Chiesa cattolica ha sempre affermato il valore sacro della vita dal suo concepimento fino alla morte (naturale, appunto). Coerentemente con un simile ragionamento, l’eutanasia sarebbe un crimine contro la vita. La seconda, decisamente più liberale, riconosce il diritto di lasciarsi morire, a patto che ciò non richieda l’intervento di una terza persona, considerato che il nostro ordinamento non potrebbe mai riconoscere il diritto del soggetto a pretendere di essere ucciso, né imporre ad un soggetto terzo, un obbligo di uccidere. Infine, una terza linea di pensiero ammette l’esistenza di un diritto a morire, che giustificherebbe la condotta di chi procuri la morte di un soggetto/paziente impossibilitato a suicidarsi[3].

Entrando nel cuore della questione, si rende necessaria la distinzione tra suicidio assistito ed eutanasia.

Il suicidio assistito è l’atto del porre fine alla propria esistenza consapevolmente tramite l’auto-somministrazione di dosi letali di farmaci da parte di un soggetto che viene, appunto, “assistito” da un medico (suicidio medicalmente assistito) o da una figura diversa dal medico, che rende disponibili le sostanze necessarie. L’eutanasia, invece, non necessita della partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta. L’eutanasia richiede un’azione diretta di un medico, che somministra un farmaco (eutanasia attiva) o sospende le cure (eutanasia passiva), mentre il suicidio assistito prevede che il ruolo del medico si limiti eventualmente alla preparazione del farmaco che poi però sarà il paziente ad assumere.

In Italia non esistono leggi che consentono ad un soggetto di fare ricorso al suicidio medicalmente assistito o a pratiche eutanasiche.

Tuttavia, casi divenuti di dominio pubblico hanno sollecitato l’intervento della Corte Costituzionale, che ha talvolta ampliato i margini dell’autodeterminazione individuale, spostandone i confini.

La Consulta con la sentenza numero 242 del 2019 ha messo il nostro Paese davanti a un bivio rispetto all’eutanasia e ha sollecitato il Parlamento a colmare il vuoto normativo, dopo essersi pronunciata sul caso di Marco Cappato, processato e poi assolto per avere aiutato dj Fabo a morire. Infatti, i giudici ritennero: “Non punibile, ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

La sentenza n, 242/2019 della Corte Costituzionale individuava i quattro requisiti che potevano giustificare un aiuto al suicidio, ossia: la presenza di una patologia irreversibile; una grave sofferenza fisica e psichica; la piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli; la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.

Eppure quali sono i margini di effettività rintracciabili nella sentenza resa dalla Corte Costituzionale?

Diventa interessante cercare di comprendere se questa sempre più diffusa richiesta di un diritto di morire non debba piuttosto essere definita, una volta e per tutte, dal potere legislativo. Che i giudici debbano supplire e intervenire per colmare le lacune legislative, dovrebbe indurci a ripensare e a riformulare tutta una serie di concezioni giuridiche tradizionali a partire dal principio della certezza del diritto fino ad arrivare alla funzione stessa del giurista.

Fino alla decisione della Corte Costituzionale, il diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente si è affermato come diritto di rifiutare le cure e diritto al consenso informato. Si tratta di diritti ancorati, per un verso, alla libertà individuale (art.13 Cost.) e, per altro verso, all’art. 32, comma 2 Cost., il quale, esigendo una legge affinché un trattamento sanitario possa assumere il carattere dell’obbligatorietà, fonda il più ampio diritto individuale del rifiuto di trattamenti sanitari. Le risultanze della giurisprudenza in materia sono state successivamente formalizzate nella legge n. 219 del “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, che ha introdotto le disposizioni in tema di scelte di fine vita, corroborando il principio di autodeterminazione terapeutica del paziente[4]. L’articolo 1 “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Grazie alle DAT (“Dichiarazioni anticipate di trattamento”) una persona, dotata di piena capacità, può esprimere la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato.

In previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, la Legge – quindi - prevede la possibilità per ogni persona di esprimere le proprie volontà. E tale possibilità non apre uno spiraglio all’eutanasia?

3. Referendum e legge eutanasica

La prospettiva di un processo di legalizzazione di questa pratica sembrava assumere elementi reali nel 2021 grazie all’avvio di un referendum sull’eutanasia attiva. Referendum per il quale sono state depositate 1.239.423 firme che, se non altro, testimoniano il consenso crescente da parte dell’opinione pubblica circa la possibilità della persona di autodeterminarsi in ordine a questioni che attengono alla sfera personale.

Per il tramite dell’intervento referendario, negli auspici dei promotori, l’eutanasia attiva avrebbe potuto essere consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla Sentenza resa dalla Consulta sul cd. “Caso Cappato”, tuttavia sarebbe restata punita ove il fatto fosse stato posto in essere contro una persona incapace, ovvero nei confronti di una persona il cui consenso sarebbe stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni.

In altre parole, l’eventuale abrogazione parziale della norma penale, avrebbe fatto venir meno il divieto assoluto dell’eutanasia, consentendola limitatamente alle forme previste dalla Legge n. 219 del 2017 in materia di consenso informato.

Il quesito referendario è stato presentato alla Corte di Cassazione il 20.04.2021, che lo ha però dichiarato inammissibile.

Nello scenario politico attuale c’è stato chi ha esultato per la bocciatura del referendum, ritenendo la decisione della Consulta “sacrosanta” e volta al riconoscimento della tutela dei più fragili.

Viene da obiettare che lasciare che un tema così delicato rimanga in balia delle più svariate interpretazione giuridiche che, di volta in volta, andranno in scena in assenza di una disciplina chiara e univoca, sia – se per qualcuno eticamente accettabile - quantomeno contrario al principio di certezza del diritto.

4. Prospettive esigibili

Il 16 giugno 2022 è morto Fabio Ridolfi, il 46enne di Fermignano, che da 18 anni conviveva con la tetraparesi da rottura dell’arteria basilare, con conseguente immobilità del proprio corpo. Fabio ha scelto la revoca del “consenso alla nutrizione e alla idratazione artificiali” e la morte è dunque avvenuta per l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e della sedazione profonda e continua, e non attraverso il suicidio assistito così come previsto dalla sentenza n. 242 del 2019 resa dalla Corte Costituzionale nel caso Dj Fabo-Cappato.

Il suicidio assistito, infatti, sulla scorta di quanto deciso dalla Corte Costituzionale nel caso Cappato, sarebbe stato astrattamente possibile, considerando le condizioni in cui versava Fabio.

Dopo una lunga attesa, il 19 maggio scorso Fabio aveva infatti ottenuto il via libera dal Comitato etico che ammetteva la sussistenza dei presupposti per il ricorso al suicidio medicalmente assistito. Tuttavia chi avrebbe dovuto indicare le modalità e il farmaco che Fabio avrebbe potuto autosomministrarsi? Dopo una querelle burocratica e giudiziaria, come sempre in questi casi, Fabio ha comunicato la sua scelta di ricorrere ad una soluzione diversa che mettesse fine a quella sofferenza: la sedazione profonda e continua.

Un limbo giuridico per chi è nel limbo tra la vita e la morte non fa che acuirne le sofferenze.

Incertezze interpretative, inversioni di rotta, appartengono ad una sfera del politico che poco a che fare con il giuridico.

Qualificare normativamente la questione eutanasica prevedendo i confini dell’autodeterminazione e definendo i requisiti specifici in presenza dei quali sarebbe ammissibile ricorrere alla pratica eutanasica e attraverso quali modalità, non solo è auspicabile ma diventa urgente quando a pagare il prezzo di una lacuna normativa siano coloro le cui vite, direttamente o indirettamente, siano già state gravemente compromesse dalla malattia.

5. Conclusioni: i vantaggi di una legge sull’eutanasia

La legge sull’eutanasia non disporrebbe alcun obbligo giuridico.

Inoltre, ciò che rassicura della possibilità di rintracciare una volontà autentica nel paziente che versa in condizioni patologiche gravi è il suo preesistente contatto con un contesto medicalizzato.

E laddove l’eutanasia è legale, le garanzie per i pazienti terminali circa la volontarietà delle decisioni mediche di fine vita sono maggiori e soprattutto sono concrete.

Nessuno ha mai dimostrato che legalizzare l’eutanasia provocherebbe un maggiore ricorso alla pratica.

Piuttosto, trovare un’alternativa all’estero risulta inaccettabile, inutilmente dispendioso e soprattutto amareggia coloro che, già stremati dalla condizione di vita del loro familiare in condizioni di malattia irreversibile o terminale, devono trovare le risorse, superare le difficoltà logistiche, e combattere il sistema. Per non parlare dei casi di solitudine del morente.

Si potrebbe obiettare che unitamente a condizioni di legittimazione etica, dovrebbero essere tenute presenti alcune possibili difficoltà nella concreta applicazione di un dispositivo di legge. In particolare, riguardo alla difficoltà a prevedere con esattezza quando possa parlarsi di malattia irreversibile ad esempio. Ma sulle soglie legittimanti la possibilità di un intervento eutanasico dovrebbero invocarsi competenze medico-scientifiche e non giuridiche. E, ad ogni modo, non è questo che rallenta, e oggi probabilmente paralizza del tutto, la discussione.

Uno Stato di diritto, democratico, garantista e assistenzialista come il nostro, non può continuare ad ignorare a testa alta il grido silente di chi disperatamente si batte per morire.


Note e riferimenti bibliografici

[1] JONAS H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 2009, p. 23.

[2] PALAZZANI L., Le linee del dibattito bioetico tra dovere di vivere e diritto di morire, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2015, p. 199.

[3] CHECCOLI T., Profili costituzionali dell’eutanasia, in BRECCIA U., PIZZORUSSO A., Atti di disposizione del corpo, a cura di Romboli R., Pisa, 2007, p. 312.

[4] BERNARDINI M., La (non) responsabilità penale del medico nelle scelte di fine vita del paziente, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1-bis 

Bibliografia

BERNARDINI M., La (non) responsabilità penale del medico nelle scelte di fine vita del paziente, in Giurisprudenza Penale Web, 2019.

CHECCOLI T., Profili costituzionali dell’eutanasia, in BRECCIA U., PIZZORUSSO A., Atti di disposizione del corpo, a cura di Romboli R., Pisa, 2007.

JONAS H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 2009.

PALAZZANI L., Le linee del dibattito bioetico tra dovere di vivere e diritto di morire, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2015.