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Pubbl. Gio, 29 Set 2022

Il rispetto della legge

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Simona Pecora Cucchiara



Lo scritto analizza brevemente i motivi per cui, pur consapevoli del fatto che le leggi non sono imposte da entità divine ma da altri uomini, si è comunque portati a rispettarle.


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Respect of the law

The paper briefly analyzes the reasons why, although aware of the fact that laws are not imposed by divine entities but by other men, one is still led to respect them.

Almeno tra i popoli più antichi si riteneva che le leggi fossero state imposte dalle divinità[1]. Ma perché l’uomo le rispettava? Considerata quella che ne era la genesi, il motivo per cui le si rispettava era senz'altro da ricercare nel timore delle conseguenze (divine) in cui sarebbe potuto incorrere colui che avesse osato infrangerle[2].

Anticamente, infatti, le leggi erano espressione della volontà divina[3] ed in quanto consegnate all’uomo direttamente da Dio queste dovevano essere necessariamente rispettate, a prescindere dal fatto che le si trovasse giuste o ingiuste, altrimenti si sarebbe stati soggetti alla punizione divina, alla quale era impossibile sottrarsi, atteso che le divinità erano onniscienti e che quindi non potevano essere ingannate né si poteva sfuggire alle loro decisione.

Oggi, tuttavia, si è consapevoli che le leggi non sono frutto di una volontà divina a noi sovraordinata ma figlie dell’opera dell’uomo. Perché, quindi, ciascuno di noi – specie ove convinto che queste siano ingiuste o, più banalmente, ove trovi più convenienza nell’infrangerle – dovrebbe rispettarle? Se poteva andare bene che un uomo obbedisse a Dio, perché, invece, un uomo dovrebbe obbedire ad un altro uomo?

Il mancato rispetto delle leggi è oggi cosa che possiamo sperimentare giornalmente: dal più piccolo sgarro, che potrebbe anche sembrarci irrilevante, come attraversare la strada fuori dalle strisce pedonali anche se queste sono a pochi passi da noi[4], a quello più grave, quale togliere la vita ad un’altra persona. E, se pensiamo attentamente, probabilmente nessuno di noi può dire di non averle mai infrante. Ma perché ciò avviene? Perché, insomma, non si rispetta la legge? O meglio, per tornare al tema oggetto del presente lavoro: perché, in fondo, ciascuno di noi dovrebbe rispettarle? Non sono forse uomini come noi, e quindi nostri pari, coloro che le hanno fatte?

Una risposta potrebbe senz’altro essere che le dobbiamo rispettare perché, nonostante siamo consapevoli che queste – o, almeno, quelle più recenti, che sappiamo per certo essere opera degli uomini – non ci sono state impartite da un’entità divina, abbiamo comunque paura delle possibili conseguenze del loro mancato rispetto. Per quanto sia difficile che chi viola la legge subisca una punizione divina, è comunque assai plausibile che chi non la rispetta venga sanzionato in altro modo dall’Autorità (si pensi, banalmente, alla sanzione amministrativa conseguente ad un parcheggio effettuato dove vige un divieto di sosta o, più seriamente, alla privazione della libertà derivante dall’esecuzione della pena inflitta a seguito della commissione di un reato).

Anche se così fosse, tuttavia, non si deve dimenticare che perché a chi viola la legge sia inflitta una sanzione, qualunque essa sia, è necessario che qualcun altro, a ciò autorizzato, si adoperi per infliggerla. E questi, molto probabilmente, sarà a ciò tenuto senza che esista a suo carico alcuna sanzione se non lo fa[5], per cui il fatto ch’egli decida di rispettare la legge e adempiere al dovere a cui è chiamato sarà senz’altro frutto di una libera adesione ch’egli avrà prestato alla predetta.

Potremmo dunque pensare che forse il rispetto delle leggi da parte di ciascuno di noi sia frutto di un ragionamento opportunistico: si rispettano le leggi perché da esse traiamo un vantaggio e perché attraverso loro possiamo vivere in una società nella quale sappiamo che gli altri rispetteranno i nostri diritti e nella quale potremo realizzare i nostri bisogni[6]. Epperò anche questa visione non pare completamente soddisfacente, in quanto, così argomentando[7], ogniqualvolta capissimo che il mancato rispetto della legge comporta per noi maggiori vantaggi del rispettarla saremmo portati a violarla, dimostrando un approccio fortemente egoistico e soprattutto imprevedibile nel risultato ultimo, in quanto chiunque creda di poter tratte più utilità dal mancato rispetto della legge non si tratterrebbe dall’infrangerla.

Probabilmente la risposta più condivisibile sul perché le leggi vadano rispettate è quella che Socrate immaginava che le stesse gli avrebbero dato s’egli avesse accettato l’invito dei suoi discepoli a fuggire dalla cella nella quale era stato rinchiuso in vista dell’esecuzione della sentenza dell’Areopago che lo aveva condannato a morte. Secondo il filoso greco – recte, secondo quanto Platone immagina che lo stesso avrebbe potuto pensare – le leggi gli chiederebbero ubbidienza non certo in nome della paura o dell’interesse ma di un motivo molto più nobile: la riconoscenza[8]. In particolare le leggi andrebbero rispettate perché grazie ad esse ciascuno di noi è potuto nascere, crescere, ottenere un’educazione, procurarsi ciò di cui aveva bisogno; alle leggi ciascuno di noi può liberamente aderire o, ove ritenga di non condividerle, andare a vivere altrove, in un luogo in cui esse non vigono o – seppure ciò non viene detto da Platone nell’opera in commento – adoperarsi in politica per far sì di cambiarle[9], ma giammai sarà autorizzato a violarle, commettendo, in caso contrario, una palese ingiustizia. Se però nulla di ciò è stato ha fatto, allora è fondato ritenere che l’interessato abbia tacitamente accettato le leggi in quanto tali e che quindi debba rispettarle, dimostrando ad esse un’intima adesione, in quanto da lui, se non scelte, quanto meno condivise.

Secondo qualcuno[10], però – seppur, ovviamente, non in un’epoca in cui la legge era stata voluta da una divinità ma soli ai nostri giorni, in cui è l’uomo a fare le leggi –, la riconoscenza e l’intima adesione alle leggi presuppone che queste siano giuste e che siano state in grado di promuovere l’eguaglianza e la pacifica convivenza. Se così non fosse le leggi non potrebbero “pretendere” una simile riverenza, in quanto esse per prime sono state artefici di ingiustizie. Ma come si fa ad assicurarsi che le leggi siano giuste?

Sotto un profilo di tecnica legislativa una voce molto autorevole[11] ha individuato le caratteristiche che una norma giuridica deve avere ed ha consigliato cosa “non fare” a chiunque si accinga a fare diritto. L’interrogativo che rimane è però quando una legge sia giusta in senso astratto, i.e. sulla base di un giudizio di valore.

Mi sento sul punto di condividere l’opinione di chi[12], distinguendo tra “giusto legale” e “giusto morale”, dice che una pratica giuridica – cioè le azioni poste in essere onde consentire la pacifica convivenza – è giusta non tanto quando è conforme alle norme giuridiche ma quando è conforme alla morale[13]; di conseguenza la norma giuridica, che detta le regole da seguire, sarà giusta quando imponga dei comportamenti conformi alla morale, come già ebbe modo di insegnare addirittura Sofocle nella sua “Antigone”[14].

Ecco, quindi, che quando una legge rende obbligatori dei comportamenti in linea con i valori supremi di una certa società può dirsi ch’essa è una legge giusta e che, come tale, merita di essere rispettata a prescindere dal fatto che dalla sua violazione derivino conseguenze più o meno gravi. E il rispetto che si deve ad una legge giusta deve esserle riconosciuto da parte di tutti, soprattutto e prioritariamente da chi, tra di noi, è stato chiamato a gestire la res publica e quindi a “guidare” gli altri, onde evitare che, sulla scia del cattivo esempio, anche questi altri finiscano col non portare alla legge la riverenza che le è dovuta[15].


Note e riferimenti bibliografici

[1] PLATONE, Leggi, I, 624A, in Platone. Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 2000, 1460: «ATENIESE: Nelle vostre Città, forestieri, fu un dio o un essere umano responsabile della fissazione delle leggi?

CLINIA: Ospite, è stato un dio, non c’è dubbio. Per noi è stato Zeus, per gli Spartani, o donde egli viene, si tratta di Apollo, se non mi sbaglio. O non è così?

MEGILLO: È proprio così».

M. T. CICERONE, De Legibus, II, in Le Leggi di Cicerone precedute dal testo latino tradotte ed annotate per Ippolito Mastantuoni, a cura di I. Mastantuoni, Napoli, 1845, 55: «Dico adunque, che tutt’i filosofi anno uniformemente opinato, che la legge non è una invenzione dello spirito umano, né una ordinanza de’ popoli, ma qualche cosa di eterno, donde regolasi tutto l’universo; la scienza di comandare e di proibire; secondo essi questa legge è il principale e l’ultimo spirito di quel Dio che con tutta ragione obbliga e divieta; dal che va lodata quella legge data dagl’Iddii al genere umano: quindi è la mente e la ragione del saggio atta a comandare il bene, e ad abborrire il male» [corsivo nel testo].

[2] G. ZAGREBELSKY, discorso letto al Teatro della Corte di Genova nel corso del primo incontro del ciclo “Fare gli italiani – Grandi Parole alla ricerca dell’identità nazionale”, riportato in repubblica.it, 1° marzo 2010, pag. https://www.repubblica.it/politica/2010/03/01/news/la_colpa_di_chi_fa_le_leggi_per_se_stesso-2465900/: «Il problema dei problemi – perché si dovrebbe obbedire alle leggi – è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre. Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c'è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo».

[3] Tema, questo, molto caro alle culture più antiche, ma in parte ricorrente ancora oggi. Basti pensare, ad esempio, alla religione cristiana, per la quale le leggi a cui l’uomo deve attenersi sono i dieci comandamenti che Dio consegnò a Mosè impresse su tavole di pietra.

[4] Valga ricordare che ai sensi dell’art. 190, c. 2, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (c.d. “Codice della strada”), i pedoni sono obbligati ad attraversare sulle strisce pedonali se queste distano meno di cento metri dal punto ove si trovano («I pedoni, per attraversare la carreggiata, devono servirsi degli attraversamenti pedonali, dei sottopassaggi e dei sovrapassaggi. Quando questi non esistono, o distano più di cento metri dal punto di attraversamento, i pedoni possono attraversare la carreggiata solo in senso perpendicolare, con l’attenzione necessaria ad evitare situazioni di pericolo per sé o per altri»).

[5] Per esempio, se il giudice chiamato a decidere sulla commissione di un reato da parte di un soggetto e ad infliggere la pena prevista dalla legge decidere arbitrariamente di assolverlo motivando nella maniera più fantasiosa questi non sarà soggetto a nessuna pena, se non, forse, a quella rappresentata dalla riforma della sua decisione da parte di un giudice di grado più alto. Ma ove non esista un giudice di grado più alto è evidente che l’ultimo a decidere non sarà soggetto a nessuna pena e quindi dovrà applicare la legge perché ha liberamente deciso di aderirvi.

[6] Ciò sulla scia di quanto sosteneva J.-J. Rousseau ne Il contratto sociale, in Opere, a cura di P. Rossi, Firenze, 1972, 294: «In base al patto sociale noi abbiamo dato esistenza e vita al corpo politico; bisogna ora dargli movimento e volontà con la legislazione, poiché l’atto originario con cui questo corpo si forma e si unisce non stabilisce ancora nulla di ciò che deve fare per conservarsi [...]; ogni giustizia viene da Dio, egli solo ne è la sorgente; ma se noi sapessimo accettarla da tale altezza non avremmo bisogno né di governo, né di leggi. Senza dubbio esiste una giustizia universale emanata dalla sola ragione, ma questa giustizia per essere ammessa tra noi, deve essere reciproca [...]. Sono dunque necessari degli accordi e delle leggi per collegare i diritti ai doveri e ricondurre la giustizia al suo scopo». Il patto sociale secondo Rousseau era stato stipulato dall’uomo per finalità utilitaristiche, in quanto ricorrendo alla nuova forza derivategli dall’essere unito ad altri uomini ciascuno usciva dallo stato di natura ed entrava a far parte di una comunità in cui, nel cedere parte della propria sovranità, diviene sovrano di sé stesso ed è certo che questa nuova forza comune verrà utilizzata per tutelare i diritti di ciascun associato; unico onere ch’egli aveva per rimanere all’intero di questa società era quello di ubbidire alle leggi che di volta in volta la volontà generale (intesa non come somma delle volontà di ogni singolo ma come volontà dei cittadini intesi come corpo comune) avesse dato a chi ne faceva parte: leggi che, essendo espressione di una volontà retta che tendeva all’utilità pubblica, non potevano essere sbagliate, in quanto sempre dettate per tutelare gli interessi di tutti. Nello stesso senso, però, già anche PLATONE, Repubblica, II, 358E-359B, in Platone. Tutti gli scritti, cit., 1109 e 1110: «Davvero ben detto! – esclamò –. Ma intanto senti il tema che avevo preannunziato: che cosa è e da dove viene la giustizia.

«Per sua natura – si dice – il fare ingiustizia è un bene; il male starebbe, invece, nel subirla. Inoltre, il subire ingiustizia sarebbe, nel male, assai più di quanto non sia, nel bene, il farla; e poiché chi fa ingiustizia deve poi a sua volta patirla, talché ognuno è costretto a provare sia l’una cosa che l’altra, non potendo gli uomini scegliere l’una [359 A] e schivare quell’altra, ritengono più vantaggioso trovare fra loro una soluzione di compromesso: e cioè non causare né patire ingiustizia.

«Da qui, originariamente, venne l’usanza di porre leggi e convenzioni fra le persone, e quanto la legge imponeva prese il nome di giustizia e legalità. E dunque, questa fu l’origine e l’essenza della giustizia; un compromesso fra ciò che è la soluzione ottimale – ovvero, il commettere ingiustizia senza pagarne il fio –, e quella che è la soluzione peggiore, ossia il patire ingiustizia senza potersi vendicare. Ma il giusto, proprio per il fatto di porsi a mezza strada fra i due estremi, verrà apprezzato non [B] come un bene, ma in quanto l’incapacità a sopraffare gli altri lo fa apparire apprezzabile. S’intende che il vero uomo, il quale ha il potere di fare l’ingiustizia, non sottoscriverebbe mai con alcuno un impegno a non fare e a non subire ingiustizia; sarebbe infatti folle se lo facesse.

«Eccola, dunque, caro Socrate, la natura della giustizia; ed ecco pure le sue origini, almeno secondo la comune opinione».

[7] Tralasciando qui la circostanza per cui lo stesso Rousseau, nel suo scritto, ammette ch’è possibile che le leggi della comunità vengano violate, nel quale caso l’autore della violazione è fuori dal contratto sociale e ritorna allo stato precedente, riprendendosi le libertà individuali a cui aveva rinunciato ma perdendo la libertà convenzionale che aveva ottenuto.

[8] Si veda PLATONE, Critone, 50C ss., in Platone. Tutti gli scritti, cit., 60 ss.

[9] Ovviamente un’opzione del genere è più facile da immaginare in una società come la nostra in cui le leggi sono opera degli uomini che in una in cui esse provengono da una divinità.

[10] G. ZAGREBELSKY, discorso letto al Teatro della Corte di Genova nel corso del primo incontro del ciclo “Fare gli italiani – Grandi Parole alla ricerca dell’identità nazionale”, cit., ivi.

[11] L. L. FULLER, La moralità del diritto, ed. it. a cura di A. Dal Brollo, Milano, 1986, 56: «La confusa carriera del re come legislatore e come giudice mostra che il tentativo di creare e mantenere in vita un sistema di norme giuridiche può abortire lungo otto vie; vi sono in tale impresa, se volete, otto strade che conducono al disastro. La prima e più ovvia consiste nella incapacità tout court di formare delle norme, cosicché ogni questione deve essere decisa su una base ad hoc per essa. Le altre strade sono: 2) la negligenza nel pubblicizzare, o addirittura nel rendere accessibili alla parte interessata, le norme che ci si aspetta che essa osservi; 3) l’abuso della legislazione retroattiva, che non solo non può in quanto tale essere di guida all’agire, ma inficia in radice l'integrità delle norme che si ritengono in prospettiva vigenti, dal momento che essa le sottopone alla minaccia di un cambiamento retrospettivo; 4) il rendere le norme incomprensibili; 5) la promulgazione di norme contraddittorie o 6) di norme che richiedono una condotta al di là delle possibilità della parte interessata; 7) l’introduzione cosi frequente di cambiamenti nelle norme, che il soggetto non possa orientare secondo esse il suo agire; e, finalmente, 8) la mancanza di congruenza fra le norme così come sono annunciate e la loro effettiva applicazione».

[12] F. VIOLA, Diritto vero e diritto giusto, in Persona y Derecho, 1991, 24, 233 ss. Già H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, ed. it. a cura di M. G. Losano, Torino, 1966, 78, non mancava di distinguere il diritto dalla morale e si preoccupava di definire quale fosse il rapporto tra i due, precisando che la seconda rappresenta l’unità di misura della giustizia che caratterizza un ordinamento giuridico; il diritto, insomma, sarebbe giusto solo se i comportamenti che impone o vieta sono imposti o vietati anche dalle norme morali: «si risponde, talora, che il diritto è morale per sua natura, cioè che il comportamento prescritto o vietato dalle norme giuridiche è prescritto o vietato pure dalle norme morali; che, se un ordinamento sociale prescrive un comportamento vietato dalla morale, questo ordinamento non è diritto perché ingiusto. Ma a questo problema si può anche dare un’altra risposta: il diritto può essere morale nel senso ora chiarito, cioè giusto, tuttavia non è necessario che sia tale; un ordinamento sociale può non essere morale, cioè giusto, e tuttavia essere diritto, pur ammettendo che il diritto debba cercare di essere morale, cioè giusto». E ancora ci ricorda N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in ID., Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Torino, 2014, 18, che una cosa è la teoria del diritto ed altra è la teoria della giustizia del diritto: la prima si occupa della validità di una norma, della sua appartenenza all’ordinamento giuridico, e si basa quindi su giudizi di fatto; la seconda si occupa invece della conformità della norma ad un certo ideale e si fonda, quindi, su giudizi assiologici (o di valore).

[13] Per “morale” si intende l’insieme di norme relative al bene e al male, che permettono di definire o di giudicare le azioni umane. Queste norme possono essere delle leggi universali che si applicano a tutti gli esseri umani e ne determinano il comportamento. Si tratta per esempio del rispetto dovuto all’essere umano in quanto tale, dell'obbligo di trattare gli individui in maniera equa, della condanna totale della sofferenza inflitta senza motivo.

[14] L’”Antigone” di Sofocle è stata definita come il perfetto esempio di contrasto tra ius (l’insieme delle leggi non scritte e immutabili) e lex (cioè le leggi positive vigenti), contrasto, questo, «che sorge ogni qual volta il destinatario della lex avverte, in foro conscientiae, di dovere ubbidire – e, nei fatti, ubbidisce – ad altra norma prescrittiva, cogente e vigente in un ordine non coincidente con quello giuridico-positivo» (B. SERRA, Νόμοσ e συνεἱδησiς: dall'Antigone di Sofocle all'ordinamento canonico, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2019, 13, 3). Nello specifico Antigone si trova dibattuta tra l’imperativo della propria coscienza, che le impone di dare sepoltura al corpo del fratello Polinice, morto da traditore della patria per avere impugnato le armi contro la sua stessa città, e il decreto del re Creonte, che, invece, ordinava di lasciarlo insepolto, perché fosse «di cani e d’augelli orrido pasto» (queste parole di V. MONTI, L’Iliade di Omero, Milano, 1812, 2, nella loro crudezza, rendono molto bene la sorte riservata alle salme dei traditori di Tebe). La protagonista, tuttavia, deciderà di seguire l’imperativo della propria coscienza, ritenendolo più vincolante delle leggi del momento, andando, così, incontro alla morte, decretata in forza della legge scritta, la stessa che negava la sepoltura a suo fratello. Prima di morire, però, la medesima, giunta dinanzi a Creonte, chiarirà di aver violato l’editto in quanto esso «non era di Zeus» e che gli onori dati a Polinice erano secondo lei «onori dovuti per chi sappia comprendere le cose» (SOFOCLE, Antigone, vv. 450 e 900, in Tragedie e frammenti di Sofocle, a cura di G. Paduano, Torino, 1982, 285 e 313).

[15] Il tema era già stato affrontato addirittura da Dante Alighieri, che nel canto XVI della cantica del Purgatorio, versi 94-102, fa dire a Marco Lombardo che, avendo Dio donato il libero arbitrio all’uomo, è necessario che sulla terra vi sia poi un re che imponga delle leggi onde evitare che gli uomini, cercando di soddisfare i loro desideri più infimi, si perdano in una pericolosa deriva che non potrebbe far altro che portarli al peccato e quindi sempre più lontani da Dio. E tuttavia, precisa l’interlocutore del Sommo Poeta, non ci si può attendere che il gregge (cioè chi non ha il potere di fare le leggi e di obbligare gli altri a seguirle) vada nella giusta direzione se il proprio pastore (nella Divina Commedia il riferimento è al Papa, ma noi possiamo in tale figura individuare chi è chiamato a gestire la cosa pubblica) è il primo ad andare fuori strada:

«Onde convenne legge per fren porre;

convenne rege aver che discernesse

de la vera cittade almen la torre.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

Nullo, però che ’l pastor che procede,

rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;

per che la gente, che sua guida vede

pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,

di quel si pasce, e più oltre non chiede».