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Pubbl. Gio, 6 Ott 2022

Il libello nel processo canonico: analisi dei canoni 1501-1506

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Giancarlo Ruggiero
Dottorando di ricercaNessuna



Il presente studio intende descrivere l´atto introduttivo al processo canonico ovvero il libello. Dopo una prima introduzione di carattere generale, si procederà alla descrizione dei canoni afferenti al fine di coglierne le caratteristiche e le eventuali peculiarità.


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The libellus in the canonical process: analysis of the canons 1501 -1506

This study intends to describe the introductory act to the process or the libellus. Afer an initial introduction of a general nature, we will proceed to the description of the related canons in order to graps their characteristics and any peculiaritates.

Sommario:1. Introduzione; 2. Il libello introduttivo alla lite: analisi dei canoni 1501-1503; 3. Elementi essenziali del libello: analisi del can.1504; 4. Vicende del libello: analisi dei canoni 1505-1506 5. Conclusioni.

1. Introduzione

Tra gli istituti più tipici del diritto processuale canonico vi è, senza ombra di dubbio, il libello che costituisce il primo istituto disciplinato dai canoni della cosiddetta pars dinamica del libro VII del Codice di Diritto Canonico dedicata ai processi.

Più in particolare i canoni iniziali si riferiscono ad un insieme di atti processuali compiuti dai tre protagonisti del processo (giudice - attore - convenuto), ognuno regolato a norma di legge, attraverso i quali nascono e si definiscono nuovi rapporti tra costoro.

Il primo di essi risulta essere proprio il libello a cui rivolgiamo ora la nostra attenzione.

2. Il libello introduttivo alla lite: analisi dei canoni 1501 -1503

Introducendo il nostro discorso sul libello nel processo canonico risulta particolarmente importante definire che cosa effettivamente si intende con questo nome al fine di evidenziare la sua portata e la sua pregnanza all’interno del diritto processuale canonico.

Tale istanza, per quanto legittima, non trova una risposta adeguata da parte del Codice il quale, come sovente accade, si limita ad indicarne la funzione più che soffermarsi sulla definizione[1]: spetta dunque alla dottrina, alla luce della normativa codificata, provvedere ad offrire una risposta adeguata alla domanda di cosa si intende per libello.

Fra le diverse definizione formulate quella più pertinente risulta essere quella elaborata nel diritto civile da parte del Chiovenda il quale definisce il libello come “l’atto mediante il quale l’attore, affermando l’esistenza di una volontà concreta della legge che gli garantisce un bene, chiede che tale volontà legale sia attuata di fronte al convenuto, invocando a questo fine l’intervento dell’organo giudiziale[2].

Tale definizione venne accolta ben presto anche all’interno del diritto canonico a motivo della sua chiarezza e generalità e dunque della sua adattabilità all’ordinamento ecclesiale[3].

Entrando più nel dettaglio si noti, in primo luogo, la natura eminentemente volontaria dell’istituto in esame: il libello manifesta infatti l’intenzione dell’attore di far valere in sede giudiziale un suo interesse tutelato e riconosciuto dalla legge nel caso in cui tra quest’ultima e il primo sussista un certo contrasto; tutta la macchina processuale appare, come si intuisce,  rivolta ad un interesse giuridico posto in relazione ad un diritto di cui si dovrà verificare la sussistenza senza il quale non si può neppure parlare di processo[4].

Questo interesse, che può essere di varia natura, proviene dalla discordanza presente tra la legge che lo definisce e la realtà di riferimento esponendosi così di fronte ad una relazione di ampio raggio che coinvolge più soggetti, primo fra tutti l’attore che, usufruendo proprio dell’istituto in esame, chiede all’autorità giudiziaria di intervenire. Oltre a quest’ultimo vi è, senza dubbio, il convenuto cioè colui a cui la pretesa attorea si indirizza ed infine il giudice intendendo questi come l'organo preposto dall'ordinamento alla tutela dei diritti del soggetto.

Fatta questa premessa indispensabile ci concentriamo ora sulla normativa di riferimento ponendo l’attenzione sui canoni 1501 – 1503. Il primo di essi statuisce a chiare note la necessità della presentazione del libello per poter avviare il processo. Ciò comporta che autori del libello sono le parti e mai il giudice come dimostrano le parole utilizzate dal canone esaminato secondo cui “iudex nullam causam cognoscere potest”: in altre parole il diritto canonico recepisce il cosiddetto “sistema dispositivo” secondo cui il giudice non può statuire su una questione se non interpellato.

Tale principio risulta, invero, non una peculiarità dello ius ecclesiae essendo altresì richiamato sia nell’ordinamento italiano e più in specie sia nel diritto processuale civile (art.99) sia in quello penale (art.50 e 405) con l’unica eccezione nel caso del giudice per le indagini preliminari il quale, come è noto, intervenire prima dell’esercizio penale[5]. Attraverso questa regola codificata non solo si impedisce l’intervento ex officio da parte del giudice ma si condiziona il potere della giurisdizione in quanto legato a quello dell’azione escludendo, almeno in questa prima fase, l’uso del sistema inquisitorio.

Oltre a ciò, è evidente il nesso tra il libello e la sentenza intendendo quest’ultima come il naturale esito del processo dal momento che il contenuto di essa dovrà necessariamente richiamarsi al libello presentato come richiamato dai canoni 1611 -1612 poiché, in caso contrario, la stessa sentenza sarebbe affetta da nullità insanabile secondo quanto affermato dal can.1620 n.4. In altri termini, il legislatore del 1983 ha voluto sottolineare con maggiore rilevanza il necessario rapporto di congruenza tra la sentenza e la domanda già presente nel codice precedente ma qui descritto anche in merito alla sua possibile violazione che comporta, come affermato poc’anzi, nullità insanabile[6].

Autore del libello è chiunque abbia interesse ovvero il promotore di giustizia. Da notare, in primo luogo, la formulazione alquanto generica della disposizione che non esclude, almeno in linea di principio, nessuno né preclude la presentazione del libello da parte di chi non è battezzato. Attore, quindi, può essere qualsiasi uomo (o donna) purché in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge e descritti dai canoni 1476 e ss[7]. A tale considerazione ne va affiancata un’altra che determina un’eccezione rispetto a quanto previsto dal già citato can.1501. Di per sé, il can.1501, sembra limitare la presentazione del libello ad una sola persona purché in possesso dei requisiti richiesta.

Ciò ammette una deroga all’interno delle cause matrimoniali stante il novellato can.1683 il quale dispone la possibilità che il libello con cui si accusa di nullità un matrimonio possa essere presentato da entrambi gli sposi ovvero da uno con il consenso dell’altro. Tale requisito risulta, insieme agli altre due presenti nel canone, condictio sine qua non per la celebrazione del processo più breve coram Episcopo[8] .

Oltre alle parti private autore del libello può essere il promotore di giustizia nelle cause penali secondo quanto affermato dal can.1721 par.1. La ratio sottesa è evidente essendo quest’ultime cause di bene pubblico la cui tutela è affidata proprio al promotore secondo quanto affermato dal can. 1480.[9].

Continuando nella nostra analisi delle norme introduttive, il can.1502 esplica quanto detto in precedenza. Si ribadisce chi vuole introdurre un processo, dovrà necessariamente indicare il convenuto verso cui si indirizza l’azione, l’oggetto della controversia e soprattutto il giudice cui ci si rivolge affinché si decida sul merito della causa. La disposizione può apparire, per certi versi, quasi pleonastica ma risulta, al contrario, esplicita e chiara nella sua formulazione introducendo, pertanto, quegli elementi essenziali e costitutivi senza i quali non è possibile celebrare alcun tipo di processo.

A completamento, il can. 1503 dispone a proposito della forma con cui presentare il libello. Di per sé tale atto richiede la forma scritta sebbene non sia del tutto vietata la petizione orale: si tratta di un’eccezione che può avvenire solo se “actor .[…,,] impediatur vel causa sit facilis investigationis et minoris momenti” ovvero nel caso di impedimento dell’attore o a motivo del tenore della causa stessa. Ciò merita qualche ulteriore riflessione in merito.

Circa l’impedimento dell’attore è evidente come questi possa essere o di natura fisica o di natura culturale perché ad esempio incapace di scrivere[10] mentre più complessa risulta essere il secondo requisito stabilito dalla legge. In particolare, la “più facile investigazione” comporta una fattispecie di ampio respiro in cui dovrebbero convenire tutta una serie di elementi che rendano l’analisi del giudice più agevole e veloce. Con questo, non si deve intendere che il fatto sia evidente ma, come si vedrà nell’analisi del can. 1504, si richiede che vi sia una percezione sostanziale che possa determinare una probabilità più certa senza per questo nulla togliere alla fase processuale deputata a tale scopo ovvero quella istruttoria.  

Ancora più complesso il secondo inciso quello relativo all’”importanza” della causa: di per sé il maggiore o il minor peso di una causa non può essere dedotto a livello teorico ma richiede un’analisi condotta sul “campo” in cui occorrerà fare attenzione alla tipologia di diritto che si intende far valere, alla sua entità nonché alle ripercussioni che l’azione processuale può avere all’interno della comunità cristiana.

Per risolvere la questione sarà pure necessario osservare la collocazione della norma nell’insieme di tutto il libro VII che non si limita a disciplinare solo il processo ma anche alcune sue tipologie, come quello di nullità matrimoniale, quello penale ecc. Perciò tale disposizione appare piuttosto generale e suscettibile di un’analisi più dettagliata a seconda della tipologia di processo che si intende celebrare. La più facile investigazione nonché la minore importanza vanno lette come fattispecie “aperte” il cui contenuto si declina in maniera diversa solo quando ci si trova effettivamente a chiedere il ministero del giudice per tutelare, definire o eliminare un certo diritto.

All’eccezione ivi riportata, il secondo paragrafo del can.1503 stabilisce come regola generale l’obbligo da parte del notaio di redigere un verbale, il quale dovrà essere letto dall’attore e da questo chiaramente approvato con firma o con altre modalità che facciano fede. La norma, dunque, elimina i rischi a cui si va incontro nel caso di una petizione orale mediante la presenza di un documento scritto che assicura validità e sicurezza al processo stesso.

3. Elementi essenziali del libello: analisi del can.1504

Dopo aver esaminato le norme introduttive, il can.1504 dispone a quali criteri di legittimità il libello deve conformarsi. A tal proposito va precisato che alcuni di essi sono indispensabili pena il possibile rigetto dell’istanza ed altri che, al contrario, possono essere emendati con un intervento successivo.

Per quanto riguarda gli elementi essenziali, la dottrina suole distinguere in quattro categorie: elemento soggettivo – oggettivo – giuridico – postulatorio. Per quanto riguarda il primo, il libello dovrà indicare, anzitutto, l’attore che, come ricordato, è la persona fisica (o giuridica) che chiede l’attuazione della legge mediante il processo. Questi dovrà essere indicato in maniera precisa e inequivocabile attraverso l’indicazione del nome, cognome, indirizzo e titolo nel caso delle persone giuridiche. Per essere parte occorrerà, come già visto, essere in possesso di quei requisiti stabiliti dalla legge che determinano la capacità processuale ovvero, nel caso di minori o di malati sarà necessario l’indicazione del tutore o del curatore.

In secondo luogo, il convenuto a cui si applicano, per analogia, le norme sulla capacità riferite all’attore. La presenza del convenuto risulta, invero, costitutiva perché il processo si svolge, almeno formalmente, secondo il contradditorio.

In terzo luogo, il giudice intendendo quest’ultimo non il soggetto fisico ma l’organo giurisdizionale cui la pretesa dell’attore si indirizza. A tal proposito, risulterà necessario specificare il tribunale competente trovando, in questa sede, applicazione le norme sulla competenza di cui ai canoni 1404 e ss[11].

All’elemento soggettivo si affianca quello oggettivo intendendo con questo lemma “la petizione concreta, il petitum o, con le parole del canone, quid petatur[12] ovvero ciò che fonda concretamente l’oggetto della controversia, ciò che viene richiesto all’autorità giudiziaria. Di conseguenza quest’ultimo dovrà essere indicato in forma chiara e specifica pur potendo eventualmente essere perfezionato in seguito. L’oggetto potrà essere unico o molteplice ma, in questo ultimo caso, come si intuisce facilmente, non vi dovrà essere contraddizione né logicamente né processualmente trovando, altresì, applicazione le norme di cui al can.1493 in materia di competenza del tribunale.

Terzo elemento risulta essere quello giuridico: nel libello, infatti, va riportato il titolo di cui è investito l’attore per formulare la sua richiesta. Tale titolo viene chiamato causa petendi e consta di due fattori: il primo è quello di diritto essendo necessario che esista una legge di riferimento rispetto alla pretesa dell’attore.

Ciò merita qualche ulteriore osservazione.

Se si tratta di una legge universale non va indicato il nome dell’azione né il suo testo sostanziale o processuale. Se, al contrario, la richiesta è fondata su una legge particolare sarà necessario procedere ad allegare statuti, decreti e simili ovvero tutto ciò che la conferma e che può risultare sconosciuto al giudice stesso.

Accanto al fondamento di diritto, vi è quello di fatto dal momento che nel libello vanno indicati i fatti concreti che fungono da supporto alla domanda stessa. Non occorre una descrizione completa e puntuale quanto un’indicazione almeno sommaria da cui è possibile dedurre che tipologia d’azione l’attore intende sostenere nel giudizio e l’oggetto della stessa. Ciò serve a far emergere, come si vedrà, il fumus boni iuris ovvero la fondatezza dell’istanza o meglio ancora la sua non palese insussistenza[13].

Quarto ed ultimo elemento richiesto dal can.1504 è quello postulatorio. Se i primi tre espongono quelli che sono i termini della questione, quest’ultimo si riferisce all’autorità preposta alla risoluzione della controversia: da notare che l’invocazione del ministero del giudice comporta che il libello presentato dall’attore non comporta, automaticamente, la citazione del convenuto essendo tale atto rimesso al giudice solo dopo aver valutato se ammettere o meno la domanda presentata dall’attore.[14]

Infine, il can.1504 par.3 postula che il libello venga sottoscritto “ab actore, vel eius procuratore” apponendovi giorno, mese ed anno nonché il luogo ove l’attore o il procuratore abitano o dissero di vivere per ricevere gli atti. Si tratta delle cosiddette clausole protocollari che si applicano agli atti processuali come tali: è evidente la ratio sottesa che mira a garantire, oltre alla certezza sul ponente anche l’effettiva pubblicità e oggettività dello stesso processo[15]. 

4. Vicende del libello: analisi dei canoni 1505-1506

 Se i canoni 1501-1504 definiscono cosa sia il libello e i suoi elementi essenziali, i canoni 1505-1506 descrivono l’iter processuale relativo alla presentazione e all’accettazione di quest’ultimo. In primo luogo, il can.1505 par.1 statuisce che è compito del giudice o del presidente del tribunale collegiale verificare la propria competenza e la capacità legittima di stare in giudizio da parte dell’attore.

Sul primo punto – ovvero l’autorità giudiziaria – è opportuno ricordare che il dispositivo qui analizzato non deroga al can.1425 costituendone, al contrario, una sua vera e propria manifestazione concreta. Senza entrare nel dettaglio del suddetto canone, qui basti ricordare che è la stessa legge a stabilire, di norma, quali cause vengano trattate dal giudice unico o da quello monocratico[16] ponendo allo stesso tempo, norme precise circa possibili deroghe come ricorda ad esempio il can.1425 par. 3. A tal proposito va sottolineato che, nelle cause matrimoniali, il novellato can.1676 par.1 afferma che il libello va presentato per il suo esame direttamente al Vicario giudiziale del tribunale di riferimento individuato secondo i fori di competenza di cui al can.1672[17].

In ogni caso, l’autorità di riferimento, ricevuto il libello, dovrà procedere anzitutto a verificare la propria competenza. Si tratta di un passaggio importante dal momento che in caso di incompetenza assoluta la sentenza emanata sarà affetta da nullità insanabile (can.1620 n.1).  Tale verifica dovrà essere compiuta anche nel caso in cui il giudice sia solo relativamente incompetente sebbene, in tal caso, la sua incompetenza potrà essere sanata se eccepita prima della litiscontestio come disposto dal can.1495 par.2.

Accanto alla verifica della competenza, è rimesso all’autorità giudiziaria il compito di verificare la capacità legittima di stare in giudizio da parte dell’attore. Tale capacità comprende altresì la capacità processuale e la legittimazione alla causa.

Espletati tali adempimenti l’analisi da parte del giudice dovrà verificare se il libello sia stato redatto secondo quanto previsto dal can.1504 nn.1-3 e se sussiste il fumus iuris. Proprio l’esame di quest’ultimo richiede qualche osservazione ulteriore dal momento che il can.1505 par.2 n.4 sembrerebbe quasi ripetere quanto previsto dal canone precedente. Si tratta, in verità, di una norma esplicativa circa i termini esatti con cui bisogna affrontare l’analisi del libello. Si noti la formulazione in negativo della norma che postula il non accoglimento di quest’ultimo se “petitionem quolibet carere fundamento, neque fieri posse, ut aliquod ex processu fundamentum appareat”. In altre parole, riformulando il canone in maniera positiva, sarà necessario verificare la sussistenza di una qualche probabilità circa la fondatezza dell’istanza: se ciò non avviene e se appare chiaro che non sarà possibile ricavarlo, occorrerà pronunciarsi circa la sua non ammissibilità.

La ricerca del fumus impone quindi una particolare cautela da parte dell’attore nel saper indicare quei fatti che siano in grado di far sorgere in capo al giudice una probabilità sostenuta da elementi sostanziali sia di diritto sia di fatto[18] tale da ritenere possibile l’esame della questione in sede processuale.

Se tali requisiti vengono accertati, si dovrà procedere all’ammissione che avverrà con decreto quam primum secondo quanto disposto dal can.1505 par.2: tale inciso deve essere inteso come una scadenza inferiore al mese e non come un’autorizzazione a procedere ulteriormente. Il can.1506, infatti, stabilisce che se il giudice non ha provveduto a pronunciarsi entro un mese, la parte interessata è tenuta a sollecitare un suo intervento affinché egli prenda, in ogni caso, una decisione.

Qualora ciò non avvenga si prevede l’introduzione ipso iure del libello come dimostra la seconda parte del 1506 la quale afferma che “trascorsi inutilmente dieci giorni dalla data dell’istanza, il libello si consideri ammesso”.  La disposizione deroga rispetto al principio del silenzio rigetto previsto dal can.57[19] per un’evidente ragione quella cioè di proteggere il diritto dell’attore e anche per rendere più rapida l’amministrazione della giustizia contro l’inerzia dello stesso giudice.

Alla luce di quanto detto si può agevolmente affermare che l’esame del libello termina sempre con un provvedimento nella forma di un decreto, il quale dovrà o esprimersi o a favore o contro l’istanza dell’attore. Proprio quest’ultimo caso risulta disciplinato dai canoni 1505 par.3 e par.4. Entrando più nel dettaglio delle disposizioni, il par.3 parla di difetti che possono essere emendati i quali possono essere emendati e presentati in un altro libello che potrà essere presentato allo stesso giudice: la norma non specifica il “grado” di difetti che possono essere corretti limitandosi a descrivere solo cosa fare nel caso in cui ciò avvenga.

Pur nel silenzio legislativo, si ritiene che essi debbano concernere la forma, il soggetto e l’oggetto ma non già il fumus boni iuris perché, come nota attentamente la dottrina si rischierebbe, a motivo della tassatività della legge, un preprocesso prima del processo stesso[20].

In ogni caso ma soprattutto nel caso in cui non sia possibile ricorrere all’emendazione, il par.4 del can.1505 dispone, come rimedio generale, il diritto da parte dell’interessato di interporre ricorso motivato entro dieci giorni o al tribunale d’appello o al collegio se il libello fu respinto dal presidente. Non si tratta di una semplice possibilità ma di un vero e proprio diritto di cui, tuttavia, va specificata la natura giuridica per evitare alcuni problemi intrepretativi e di applicazioni: la norma, infatti, non postula un ius appellandi quanto un ricorso, istituto giuridico diverso sia per quanto riguarda il tempo (10 giorni per il ricorso – 15 per l’appello) sia per l’esito dell’esame stesso poiché, nel caso del ricorso, la causa prosegue davanti al primo giudice e non, come accade in appello, davanti al secondo giudice[21]. Si può discutere, a tal proposito, circa il caso in cui il libello sia stato respinto dal presidente del tribunale collegiale.

Di per sé, seguendo la norma, l’esame spetterebbe al collegio di cui il presidente è membro e non al tribunale d’appello per cui il secondo esame verrebbe compiuto anche da colui che ha provveduto a respingere il libello. Per ovviare a tale difficoltà non così infrequente, sono state prospettate diverse possibilità. In primo luogo, si è voluto leggere nel can. 1505 par.4 la possibilità di una scelta tra le due autorità concorrenti la quale, una volta compiuta, risulterebbe essere inappellabile. In secondo luogo e sulla base dei principi propri del processo, si ritiene che l’esame da parte del presidente del collegio non sia un obbligo quanto una facoltà così che, nei casi più difficili, l’esame venga svolto da parte dell’intero collegio[22].

Nell’assenza di una risposta normativa, si ritiene che questa seconda possibilità sia quella da percorrere con più certezza per evitare possibili ritardi e difficoltà.

La non ammissione del libello dovrà avvenire, infine, con un decreto che, pur nel silenzio del codice, dovrà essere motivato almeno sommariamente.

5. Conclusioni

Dalle considerazioni finora svolte appare evidente l’importanza del libello all’interno del processo canonico. Quest’ultimo costituisce la “molla” senza la quale non potrà iniziare nessun tipo di processo, né di nullità matrimoniale, né amministrativo, né penale ed è per questo che la sua normativa risulta essere collocata nel libro VII proprio all’inizio dei canoni relativi al giudizio contenzioso. Essendo l’atto introduttivo al processo particolarmente importante sarà la sua stesura e la sua redazione: il rispetto delle norme non è solo espressione di garanzia formale ma sostanziale dal momento che permette all’autorità giudiziaria di comprendere cosa effettivamente si chiede, chi intende promuovere l’azione e verso chi si dirige quest’ultima.

Per tali ragioni è fortemente consigliato e quasi doveroso che a scrivere materialmente il libello risulti essere l’avvocato della parte interessata il quale, ascoltate le richieste dell’attore, provvederà a riformularle secondo quanto previsto dal codice al fine di evitare un possibile rigetto da parte del giudice. Ciò non toglie che l’autore del libello sia l’attore e non già il patrono: questi, infatti, non si sostituisce all’attore ma lo difende processualmente e garantisce a favore del suo diritto già a partire dal libello in cui, come ricordato, è possibile dedurre la sussistenza di un interesse tutelato dalla legge a favore dell’interessato oppure no.

Proprio per i motivi qui ricordati, il libello costituisce uno degli atti più tipici di tutto il processo canonico: la sua brevità e precisione consentono un primo esame che, per quanto sommario e provvisorio, aiuta l’autorità giudiziaria per arrivare così a definire, mediante sentenza, il diritto controverso tra le parti e a ricucire quella situazione di conflitto creatasi tra due o più soggetti all’interno della Chiesa.


Note e riferimenti bibliografici

[1]  Va precisato che non si tratta dell’unico caso presente nel Codice. Si pensi,giusto per fare un esempio, al diritto processuale penale in cui risultano davvero poche le definizioni di riferimento: ciò, va detto, risulta essere una scelta voluta ed accettata durante i lavori di revisione del Codice Pio Benedettino il quale rimane, tuttavia, una preziosa fonte a cui attingere al fine di risolvere problemi legati alla definizione di questo o di quell’istituto.

[2]  Così G. CHIOVENDA, Diritto processuale civile, Napoli, 1923, 627.

[3]  Per tutti F. ROBERTI, De processibus, I, Roma, 1926, 422.

[4]  Cfr. M. J. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, Roma, 2016, 327.

[5] P. TONINI,  Lineamenti di diritto processuale penale, Milano, 2008, 235.

[6] Il principio era ben noto nella dottrina anteriore: cfr. F. ROBERTI,  De processibus, I, 426.

[7] In realtà la questione è più complessa dal momento che il can.1476 costituisce un’eccezione rispetto al can.96. Per maggiori approfondimenti cfr. J. JJOBEL, Le parti, la capacità processuale e i patroni nell’ordinamento canonico, in Ius Ecclesiae,2000,12, 69 e ss.

[8] Si tratta di una delle novità più importanti della recente riforma legislativa sui processi di nullità matrimoniale voluta da Papa Francesco nel 2015.

[9] Ampia la bibliografia in merito: per tutti M. J. ARROBA CONDE,  Diritto processuale canonico, 229 e ss.

[10] Cfr. Ibid., Diritto processuale canonico, 335.

[11] E’ il cosiddetto foro compente. Per quanto riguarda le cause matrimoniale, quest’ultimo è indicato dal novellato can.1672 con applicazione anche al processo breve.Per maggiori approfondimenti M.J. ARROBA CONDE – C. IZZI,  Pastorale giudiziaria e prassi processuale nelle cause di nullità del matrimonio, Milano, 2017, 82 – 85.

[12] Cfr. M.J.ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, 329.

[13] Sarà allora opportuno indicare, nel libello, solamente quegli elementi di maggiore importanza e le eventuali prove offerte al tribunale. Nel processo più breve, a norma dei canoni 1683-1684 si dovranno indicare, oltre agli elementi di cui al can.1504, i fatti su cui si fonda la domanda, le prove che possono essere immediatamente raccolte, i documenti su cui si basa la domanda.

[14] Perciò il libello non sarà una “vocatio in ius” ma una “vocatio ministeri iudicii”- cfr. M.J. ARROBA CONDE – C. IZZI, Pastorale giudiziaria, 93. Ciò può risultare in contraddizione con quanto affermanto dal canone esaminato al n.4 dove si dice che, nel libello, va indicato il domicilio o il quasi domicilio del convenuto ma in realtà si intuisce che si tratta di una contraddizione solo apparente. Un conto infatti è indicare il nome del convenuto, provvedendo a fornire quegli elementi essenziali che permettono di individuarlo, un altro è l'effettiva citazione attraverso la quale il convenuto è chiamato a comparire coram iudice.

[15] Si richiama qui, il can.124 sulla validità dell’atto giuridico. Per ulteriori approfondimenti V.DE PAOLIS – A. D’AURIA, Le norme generali: commento al Codice di Diritto Canonico, Libro I,  Città del Vaticano, 2014, 359-373.

[16] Sul can.1425 ampia risulta essere la letteratura. W,L, DANIEL, The Principle of Collegiality in the Exercise of Judicial Power in the Church, in Studia canonica, 2019, 53,369-429.

[17] L’esame da parte del Vicario giudiziale vale anche per quanto attiene al processo più breve dal momento che le disposizioni in merito non derogano rispetto a quanto previsto dai canoni 1672 e ss relativi al processo matrimoniale ordinario.

[18] Cfr. A. STANKIEWICZ, De libelli reicetione eiusque impungatione in causis matrimonialibus, in Quaderni dello Studio Rotale, 1987,2, 75 e ss. Cfr. M.J. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, 337 – 338.

[19] Cfr. J. MIRAS – J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma, 2018, 240-243.

[20] Cfr. M. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, 340.

[21] Le nuove norme sul matrimonio non contengono disposizioni specifiche sul tema per cui sarà possibile applicare la normativa generale prevista dal can.1505 con relativa estensione anche al processo brevior.

[22] Il punto è critico: cfr. S. VILLEGGIANTE, Querela di nullità e contestuale appello contro la sentenza affermativa di primo grado  in Monitor Ecclesiasticus, 1997, 122, 311-322.