Pubbl. Lun, 18 Lug 2022
La Cassazione sulla configurabilità del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche a carico del soggetto destinatario di informativa antimafia
Modifica paginaNella sentenza n. 14731 del 2022, la VI Sezione prende posizione in ordine all’applicabilità del delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316ter) a carico del soggetto destinatario di informativa antimafia, negandone la sussistenza attraverso un’interpretazione che valorizza il principio di tassatività sub specie di divieto di analogia in malam partem.
The Court of cassation on the crime of undue receipt of funds regarding someone who had been recipient of an anti-mafia informative
In the Decision No. 14731 of 2022 the Court of Cassation denies any liability for the felony referred in art. 316ter of the Penal Code regarding someone who had been recipient of an anti-mafia informative based on an argument which pays attention to comply with the mandatory prohibition of extending criminal liability beyond the cases strictly foreseen in the law.Sommario: 1. Il caso in esame; 2. Il quadro normativo di riferimento; 3. Conclusioni: la decisione della Suprema Corte.
1. Il caso in esame
Con la sentenza del 14 aprile 2022 (ud. 11 gennaio 2022), n. 14731, la Sezione VI della Corte di Cassazione si è espressa in merito all’impugnazione dell’decreto di sequestro preventivo con cui il Tribunale di Perugia aveva sottoposto a cautela reale la somma di € 17.838 percepita da A.P. lo scorso 09.04.2021 come contributo a fondo perduto ex art. 1 D.l. 41/2022 (c.d. decreto Sostegni) in quanto indagato per il reato di indebita percezione a danno dello Stato per aver omesso di dichiarare di essere stato destinatario di un’informazione interdittiva antimafia emessa dal Prefetto di Perugia il 09.05.2017.
La difesa richiedeva annullamento dell’ordinanza, deducendo un unico motivo di ricorso in base al quale l’indagato era destinatario di interdittiva antimafia e non di una misura di prevenzione: egli, dunque, non poteva ritenersi un soggetto cui era precluso l’accesso alle misure previste dal D.l. Sostegni in quanto l’ambito applicativo dell’esclusione sarebbe ristretto ai soli destinatari di misura di prevenzione ex art. 67 D.lgs. 159/2011 e il provvedimento interdittivo non sarebbe compreso entro tale ambito di fattispecie.
2. Il quadro normativo di riferimento
Prima di addentrarsi nel percorso decisionale della Suprema Corte, giova premettere una breve ricostruzione della fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316ter c.p.), quantomeno per ciò che attiene ai profili di maggior riverbero rispetto alla vicenda qui esaminata.
La problematicità del delitto emerge già dalla sua collocazione topografica: esso, infatti, pur essendo un reato comune, è collocato nel Capo dedicato dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, previsti nel Titolo II del Libro II del Codice penale[1].
In particolare, l’art. 316ter c.p. commina, nella sua fattispecie base, la reclusione da sei mesi a tre anni a «chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee». Il secondo periodo del primo comma, aggiunto per effetto della L. 3/2019 prevede una circostanza speciale ad effetto speciale, aumentando la reclusione «da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri», ed un ulteriore aggravamento è previsto, per effetto del D.lgs. 75/2020, con reclusione «da sei mesi a quattro anni», comminato nell’ultimo periodo «se il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000».
Alla sanzione penale così congegnata, il secondo comma giustappone una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 ad euro 25.822 «quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96», sancendo che, comunque, l’importo irrogato non può superare il triplo del beneficio conseguito.
La previsione della fattispecie incriminatrice in commento è stata introdotta dal Legislatore con la L. 300/2000 di ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee che obbligava ciascuno Stato membro alla criminalizzazione di ogni condotta, attiva od omissiva, caratterizzata da intenzionalità e relativa all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti, cui consegua la percezione o ritenzione illecita di fondi provenienti dai bilanci comunitari; del pari, l’obbligo di incriminazione copriva ogni omessa comunicazione informativa in violazione di precisi obblighi in tal senso.
Dalla ricostruzione della ratio storica, è di immediata ricostruzione l’oggettività giuridica della norma, funzionale alla repressione di qualsiasi perturbamento doloso nella libera formazione della volontà amministrativa, anche in riferimento alle istituzioni euro-unitarie, in rapporto ad erogazione e distribuzione di risorse economiche.
L’elemento oggettivo si impernia intorno alla nozione di erogazione: nella forma commissiva essa è causalmente collegata all’utilizzo o presentazione di dichiarazioni o attestazioni false, mentre nella forma omissiva alla violazione di specifici obblighi giuridici di informazione sanciti dalla normativa di settore[2].
L’interpretazione della nozione di “erogazione” è ormai consolidata in senso estensivo fino a comprendervi ogni contributo, finanziamento, mutuo agevolato o altra dazione analoga che, indipendentemente dal nomen iuris, sia riconducibile allo Stato, ad altri entri pubblici, o all’UE: si tratta, dunque, di ogni attribuzione vantaggiosa per il beneficiario e corrisposta attingendo a risorse pubbliche, indipendentemente dalla finalità sottesa al contributo stesso[3].
Del pari, in senso estensivo si è consolidata la giurisprudenza con riguardo al contenuto dell’erogazione, il cui ambito è ritenuto comprensivo sia di corresponsioni che di esenzioni di pagamento, in base al rilievo per cui entrambe le forme attribuiscono vantaggi o benefici economici[4].
Il tema di maggior problematicità che ha caratterizzato le vicende applicative della norma in esame è quello dei rapporti con la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, fattispecie sanzionata dall’art. 640bis c.p.[5], rispetto alla quale l’indebita percezione si pone in un rapporto di sussidiarietà come da clausola di apertura della disposizione di cui all’art. 316ter che espressamente depone in tal senso.
I rapporti fra le due fattispecie sono stati sistematizzati, dopo significative oscillazioni ermeneutiche[6], ad opera della giurisprudenza di legittimità[7] che ha fissato l’orientamento ormai consolidato per cui la linea di discrimine fra i due delitti si caratterizza dalla presenza o meno dell’induzione in errore a danno dell’autore della disposizione patrimoniale. Tale elemento è mancante quando il procedimento amministrativo sotteso all’elargizione del contributo non prevede alcun controllo sulla veridicità delle dichiarazioni in quanto il soggetto erogatore deve limitarsi a prendere atto dell’esistenza di quanto autocertificato.
La fattispecie penale, sopra illustrata, deve, ora, essere declinata in rapporto alle norme amministrative rilevanti nel caso concreto[8].
In particolare, l’art. 1 commi 8 e 9 D.l. 41/2021, nel disporre e modalità di inoltro dell’istanza con cui i soggetti interessati possono richiedere l’accesso ai benefici pubblici, rinvia all’art. 25 co. 9-14 D.l. 34/2020 quale sede di disciplina delle modalità di erogazione del contributo, del relativo regime sanzionatorio e delle modalità di controllo.
Rispetto a tale ultima disposizione, è di interesse sottolineare a previsione di cui al co. 9 in cui si prevede come contenuto necessario dell’istanza anche «l’autocertificazione che i soggetti richiedenti» «non si trovano nelle condizioni ostative di cui all’art. 67» del Codice antimafia.
Si tratta, in particolare, delle «misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria», diverse da quelle del foglio di via obbligatorio (art. 2) e dell’avviso orale (art. 3), disciplinate dal Capo I e rimesse alla competenza del Questore, applicabili ai soggetti tassativamente indicati all’art. 4 secondo il procedimento alla cui disciplina è dedicato l’intero Capo.
Tali misure consistono nella sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale (art. 5 co. 1), cui può aggiungersi, ricorrendone i presupposti di legge, il divieto di soggiorno in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituale, o in una o più regioni (art. 6 co. 2).
All’interno del medesimo Libro I, che il Codice dedica alla disciplina delle misure di prevenzione, si colloca l’art. 67, relativo agli obblighi certificativi imposti dal D.l. Sostegni, inserito nel Titolo V relativo ad «Effetti, sanzioni e disposizioni finali», in cui vengono elencati gli effetti preclusivi conseguenti all’applicazione «con provvedimento definitivo di una delle misure di prevenzione previste dal Libro I, titolo I, capo II».
Come si vede, quello delle misure di prevenzione costituisce un sistema chiuso all’interno del Codice antimafia, cui si giustappone, senza intersezioni, quello delle «Disposizioni in materia di documentazione antimafia», cui è dedicato il Libro II.
In particolare, tale documentazione è articolata in due macrocategorie di atti: la comunicazione antimafia, il cui rilascio consegue ad attività vincolate di accertamento (Capo III) e l’informazione interdittiva antimafia, cui è dedicato il Capo IV (artt. 90-95), che costituisce un atto discrezionale di competenza del prefetto, cui sono riconosciuti specifici poteri di indagine, con finalità di prevenzione rispetto ai rischi di inquinamento del mercato che deriverebbero dalla partecipazione di operatori economici permeabili ad infiltrazioni mafiose.
Gli effetti dell’interdittiva sono enumerati all’art. 94 e si associano alla «sussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84 co. 4 e dall’art. 91, co. 6, nelle società o imprese interessate», sancendo che i soggetti destinatari «non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni».
Tale previsione configura, dunque, un’ipotesi di incapacità giuridica speciale ispirata a finalità di prevenzione e tutela dell’ordine pubblico economico.
Tra i due sistemi, quello delle misure di prevenzione e quello dell’informazione, l’anello di congiunzione è rappresentato proprio dall’art. 67, nella misura in cui è previsto il rilascio di informazione antimafia interdittiva a carico di coloro che siano stati destinatari di una misura di prevenzione. Non sussiste, viceversa, alcun indice normativo in base al quale desumere che la stessa interdittiva antimafia possa essere riconducibile essa stessa al novero delle misure di prevenzione.
A ciò si oppone, in primo luogo, la lettera dello stesso art. 67, che, nel riferirsi alle misure di prevenzione, in modo inequivoco rinvia al Libro I Titolo II.
Tale rilievo fonda un argomento a fortiori in base al quale se il Legislatore nella norma in cui disciplina il catalogo degli effetti interdittivi, espressamente ne circoscrive l’ambito di applicazione alle sole misure di competenza dell’autorità giudiziaria, a maggior ragione è preclusa all’interprete qualsiasi interpretazione analogica volta a comprendervi anche provvedimenti non espressamente menzionati. Il divieto di analogia, infatti, che pur costituisce un presidio costituzionalmente garantito solo con riferimento all’ambito penale (art. 25 co. 2 Cost.), è comunque previsto quale generale canone ermeneutico anche con riguardo alle norme eccezionali (art. 12 disp. sulla legge in generale), sottoinsieme nel quale sono certamente da ascrivere quelle che disciplinano lo statuto e gli effetti delle misure di prevenzione, anche in considerazione del rilevante impatto che da tali provvedimenti promana sulla libera esplicazione di libertà fondamentali, del pari costituzionalmente garantite (artt. 16, 17, 18, 41 Cost.) che vengono conculcate.
Alle stesse conclusioni si deve addivenire anche avendo riguardo alla diversa ratio che sottende il sistema delle misure di prevenzione rispetto a quello dell’informativa antimafia.
Infatti, mentre le prime, anche in considerazione dei soggetti destinatari (artt. 1 e 16) sono immediatamente finalizzate alla tutela dell’ordine pubblico, invece il sistema delle informazioni antimafia pare perseguire tale scopo solo in via mediata, tutelando, piuttosto, in maniera più prossima l’integrità del mercato e dell’economia pubblica da infiltrazioni che ne altererebbero la genuinità.
Da ciò può dunque inferirsi che, per quanto il Legislatore abbia ragionevolmente ritenuto di destinare l’alternativa antimafia anche a coloro che siano stati destinatari di misure di prevenzione personale, e ciò sulla base del ragionevole assunto che costoro debbano essere espulsi dal mercato nelle forme previste dal sistema delle interdittive, tuttavia non sia possibile assimilare a tali soggetti anche i destinatari di interdittiva antimafia per causa diversa dalla previa applicazione di una misura di prevenzione personale.
I due sistemi, infatti, come si è cercato di argomentare, sono fra loro chiusi, governano ambiti differenti e neppure partecipano della eadem ratio che in via astratta potrebbe legittimare applicazioni analogiche, che pure si ritengono, in questa materia, radicalmente inammissibili.
3. Conclusioni: la decisione della Suprema Corte
In senso sintonico con quanto sopra illustrato, pur non attraverso un percorso motivazionale necessariamente più succinto, la Corte nega l’applicabilità dell’art. 316ter a carico di colui che abbia omesso di dichiarare un’interdittiva antimafia a suo carico.
La motivazione è esplicita nell’affermare che l’imputato «non poteva ritenersi un soggetto a cui era precluso di accedere al contributo per il quale si procede, in quanto l’informativa interdittiva antimafia, disciplinata – unitamente alla comunicazione antimafia – dagli artt. 84 e ss. Del d.lgs. n. 159 del 2011 – non è giuridicamente una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo I del d.lgs. in questione».
La censura alla sentenza di merito è ravvisata proprio nel non consentito ricorso all’analogia in malam partem attraverso il quale il Tribunale «ha ritenuto erroneamente sussistente il fumus del reato previsto dall’art. 316 ter cod. pen. Estendendo la preclusione soggettiva prevista dall’art. 67 d.lgs. n. 159 del 2011 anche a coloro che sono destinatari di una informazione interdittiva antimafia».
[1] Cfr. S. SEMINARA, Art. 316ter in Commentario breve al Codice penale, a cura di G. FORTI, S. SEMINARA, G. ZUCCALÀ, VI edizione, Milano, 2017, p. 1026
[2] Cfr. A. PAGLIARO, M. PARODI GIUSINO, Principi di diritto penale italiano, Parte speciale, vol. 1, X ed,, Milano, 2008, p. 126
[3] Tale orientamento si è definitivamente consolidato a seguito di Cass. pen., Sez. Un., 19 aprile 2004 (dep. 27 aprile 2007), n. 16568, Rv. 235962-01 ed è condiviso in dottrina da C. BENUSSI, sub Art. 316ter in Codice penale commentato, a cura di E. DOLCINI e G.L. GATTA, IV ed., Milano, 2015; A. PAGLIARO, M. PARODI GIUSINO, op. cit., p. 127 e M. ROMANO, Commentario sistematico del Codice penale, artt. 314-335bis, Milano, 2019, pp. 89ss.
[4] Così Cass. pen., Sez. Un., 16 dicembre 2010 (dep. 25 febbraio 2011), n. 7537, Rv. 249104-01 secondo cui «integra il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l’esenzione del pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere che non induca in errore ma determini al provvedimento di esenzione sulla base della corretta rappresentazione dell’esistenza dell’attestazione stessa. (La Corte ha precisato che si ha erogazione, pur in assenza di un’elargizione, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico che viene posto a carico della comunità)».
[5] La norma, mutuando per relationem la propria condotta da quella di truffa ex art. 640 c.p., prevede che «la pena è della reclusione da due a sette anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee».
[6] Di esse dà conto analiticamente S. SEMINARA, Art. 316ter in Commentario breve al Codice penale, cit., p. 1028
[7] Cass. Pen., Sez. Un., 19 aprile 2007, cit., secondo cui «integra il reato di indebita percezione di elargizioni a carico dello Stato previsto dall’art. 316ter, comma primo, cod. pen., e non quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640bis stesso codice, l’indebito conseguimento, nella misura superiore al limite minimo in esso indicato, del cosiddetto reddito minimo di inserimento previsto dal D.lgs. 18 giugno 1998, n. 273. (Nell’enunciare tale principio, la Corte ha ritenuto che nel reato di cui all’art. 316ter cod. pen. Restano assorbiti solo i delitti di falso di cui agli artt. 483 e 489 cod. pen., ma non le altre falsità, eventualmente commesse al fine di ottenere l’erogazione, le quali, all’occorrenza, concorrono con il primo reato)».
[8] Per un’illustrazione esaustiva delle misure di prevenzione, F. BASILE (con la collaborazione di E. ZUFFADA), Manuale delle misure di prevenzione: profili sostanziali, Torino, 2020