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Pubbl. Mar, 12 Lug 2022
Sottoposto a PEER REVIEW

L´Italia da Repubblica Parlamentare a Presidenziale: dibattito tra possibile cambiamento o pura demagogia

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Leonardo Mangini
AvvocatoUniversità degli Studi di Bari



La figura del Presidente della Repubblica, anche per volontà dell´Assemblea Costituente, è emblema di imparzialità e di equidistanza. Da garante dell´Unità nazionale deve rimanere lontano da una politica (rectius: politicizzazione) attiva e diretta. È uno dei rischi principali che l´Italia correrebbe qualora il Capo dello Stato dovesse essere eletto dal popolo a suffragio universale, come prospettato da qualche corrente partitica. In seguito alla rielezione di Mattarella al Quirinale nel 2022, è prepotentemente riemerso il dibattito sulla trasformazione della Repubblica da parlamentare a presidenziale: ma è opportuno affidare una simile – quanto gravosa – scelta direttamente nelle mani del popolo nonostante i limiti alla sua sovranità, specie in un mondo inchinatosi ai c.d. social network?


ENG President of the Italian Republic, also by the will of Assemblea Costituente, is an emblem of impartiality and equidistance. As guarantor of national unity, he must remain far from active and direct politics (rectius: politicization). It is one of the main risks that Italy would run if the ”Presidente” will be elected by the people by universal suffrage, as proposed by some party current. Following the re-election of Sergio Mattarella at the ”Quirinale” in 2022, the debate on the transformation of the Republic from parliamentary to presidential has forcefully re-emerged: but it is appropriate to entrust a similar - as burdensome - choice directly into the hands of the people despite the limits to its sovereignty, especially in a world bowing to the so-called social network?

Sommario: 1.1 Premessa. Cenni storici; 1.2 (Segue) Premessa. Le “presidenziali” del gennaio 2022; 2. La rielezione del Presidente della Repubblica: un'“anomalia”?; 3. L'ipotesi dell'elezione a Presidente della Repubblica di un Presidente del Consiglio in carica; 4.1 L'invocazione della “democrazia diretta”: dalle televisioni all'era dei social; 4.2 (Segue) Cenni sulla “Legge Severino”; 5. La “tentazione” del presidenzialismo; 6. Conclusioni.

1.1 Premessa. Cenni storici

Durante l'inevitabile dibattito che si è tenuto nel corso della tredicesima elezione per il Presidente della Repubblica Italiana (gennaio 2022), taluni esponenti politici hanno avanzato l'ipotesi di modificare radicalmente l'impostazione del voto della principale istituzione statale.

L'articolo 83, posto ad introduzione del Titolo II della Parte II della Costituzione, ricorda che «il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri», vale a dire 630 deputati e 315 senatori (a cui si aggiungono, in numero variabile, quelli “a vita”), oltre a tre delegati per ogni Regione (uno per la Valle d'Aosta) «in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze»1.

Così è fino al termine della XVIII Legislatura, che avrà naturale scadenza nel marzo 2023. Perché, nelle giornate del 20 e 21 settembre 2020, quasi 18 milioni di cittadini italiani hanno espresso la volontà – tramite referendum costituzionale, sancendo l'entrata in vigore della L. Cost. 19 ottobre 2020, n. 1, che ne modifica gli artt. 56, 57 e 59 – di ridurre il numero di Deputati (da 630 a 400) e Senatori (da 315 a 200) e di limitare nel massimo di 5 i senatori a vita (mettendo definitivamente la parola “fine” all'annoso dubbio interpretativo sull'articolo 592).

In passato, in più riprese (ultima nel 2016), si era già tentato di diminuire il numero di parlamentari, comprendendo altresì di riformare in particolare il Senato (dandogli un taglio marcatamente “federalista” e non più di mera anzianità anagrafica, con i Senatori eletti direttamente in ambito strettamente correlato ai consigli regionali: ciò avrebbe, tra l'altro, fatto venire meno il parametro dell'età, snaturando l'etimologia stessa della parola “senato”3).

Solo nel 2020, però, un rinnovato progetto di revisione costituzionale è stato “accettato” dal popolo accorso alle urne (tenendo conto, anche, che in contemporanea si svolsero in alcuni comuni le elezioni regionali e amministrative in un palpabile clima di sfiducia da parte dell'elettorato attivo), delimitando in futuro il numero dei c.d. “Grandi Elettori” – locuzione prevalentemente usata nelle cronache e di piena ispirazione statunitense – ad un massimo di 663 (a fronte dei 1009 del gennaio 2022)4.

Al comma 3 del sopra citato articolo 83, sono previste invece le modalità di elezione (a scrutinio segreto, per non influenzare oltremodo libertà o convincimento dei singoli). Per le prime tre consultazioni, è stabilita la maggioranza qualificata dei 2/3 degli aventi diritto. A partire dalla quarta, la assoluta (quindi il 50% + 1 dei chiamati al voto). Il tutto per evitare ogni possibile commistione o elevare una persona non sempre emblema di autorevolezza.

Essendo per sua natura il Capo dello Stato persona giuridica super partes, rappresentante dell'Unità Nazionale non soltanto nel senso “territoriale” ma anche, e soprattutto, della coesione e dell'armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l'assetto costituzionale della Repubblica5 (inclusi quelli “neutri” elencati ex art. 87 Cost.), i Padri Costituenti tentarono di liberarne la figura da ogni interesse od influenza dei singoli partiti, affinché fosse capace di rappresentare la “macchina-Stato” nella sua totalità, comprensiva anche delle minoranze e delle suddivisioni locali (da qui la ratio del coinvolgimento dei delegati regionali alle operazioni di voto, persino ante 1970 – anno in cui vennero formalmente istituite, seppur tardivamente, le Regioni)6.

La sua nomina doveva essere quindi frutto di un certo consenso tra le parti sedute tra gli scranni.

Tuttavia non è sempre facile, tra più “teste” ed esponenze, spesso letteralmente agli antipodi in quanto ad ideologia (nonostante, in tempi recenti, sia percepibile una certa “crisi” delle stesse)7, trovare un accordo immediato ovvero proporre un nome talmente probo da superare qualsiasi divisione.

In realtà ciò accadeva anche nel corso della c.d. “Prima Repubblica”, quando la costante a forte trazione maggioritaria era rappresentata dal partito della Democrazia Cristiana. Essendo stata la lista dominante ed insostituibile di ogni coalizione in cui fosse presente (si ricorda il “centrismo”, il “centro-sinistra organico” o, ancora, il “pentapartito”), principalmente era tra le sue molteplici “correnti” che si scrivevano le pagine della storia dello Stato8.

Tuttavia non per questo la scelta di un Presidente era necessariamente più semplice, poiché si facevano largo ambizioni personali e piccoli/grandi “giochi di squadra”. Il voto segreto ha poi garantito la possibilità di esprimersi con false dichiarazioni, spesso date in pasto alla stampa, ad avversari e/o alleati, nonché completi capovolgimenti in corso d'opera da parte di membri di uno stesso partito: si tratta del fenomeno, mai cessato, dei cosiddetti “franchi tiratori”9.

Pertanto, per quanto tutta la massa votante prenda coscienza del dover ricercare in tempo utile un determinato “prototipo” scevro da ogni interesse corporativo e personale – e che per sette anni è obbligato a portare in auge la Repubblica – spesso deve, come ha dovuto, giocoforza percorrere la strada del compromesso, raggiungibile per l'appunto con una maggioranza del 50% + 1 (comunque non “semplice”, ma di tutti gli “aventi diritto”) e spesso sfruttando gli esiti dei primi tre scrutini a maggioranza qualificata.

Strada, talvolta, rilevatasi molto lunga, colma di inconvenienti ed influenzata da eventi contingenti10.

Omettendo l'elezione di Enrico De Nicola, nominato Capo provvisorio dello Stato direttamente dall'Assemblea Costituente, per giungere alla proclamazione di Luigi Einaudi nel '48, si arrivò alla quarta votazione (con tanto di scontro “fratricida” con Vittorio Emanuele Orlando, entrambi esponenti del Partito Liberale e solo successivamente a cambi di rotta di marca DC), dopo aver saggiato, alla terza, una maggioranza assoluta a suo favore ma non ancora sufficiente ad eleggerlo.

Similmente – e dopo 4 scrutini – si trovò nel 1955 convergenza su Giovanni Gronchi (Presidente della Camera in quota DC al momento della sua elezione, lasciò al suo vice Giovanni Leone – che, per scherzo del destino, sarebbe pure diventato Capo dello Stato anni dopo – la proclamazione del risultato) dopo una breve “battaglia” con Merzagora.

Nel 1962 fu la volta di Antonio Segni (DC), dopo nove tornate e un costante “testa a testa” con Giuseppe Saragat (Partito Socialista Democratico Italiano e preferito dai partiti “non DC”). Segni fu poi costretto a dimettersi, in seguito a gravi problemi di salute (trombosi cerebrale), e nel 1964 si assistette a ben 21 “chiame” prima di confermare proprio Saragat “terzo a godere” dopo un altro, lungo, scontro tutto interno alla DC tra Amintore Fanfani e Giovanni Leone.

La predetta “faida”, infatti, proseguì nel 1971 e furono necessarie addirittura 23 votazioni molto tese per giungere alla presidenza di Leone: al fine di venire incontro all'“ala sinistra” dei votanti e trovare così la proverbiale “quadra”, saltò Fanfani dopo coda polemica durante il quinto spoglio (su una scheda comparve – e fu letta pubblicamente – la scritta “Nano maledetto non sarai mai eletto”, rivolta proprio al celebre esponente della DC e che ironizzava sulla sua altezza fisica).

Nel 1978 il clima è rovente dopo gli “anni di piombo”, a pochi giorni dalla morte di Aldo Moro e il culmine dello scandalo Lockheed che portò alle dimissioni anticipate di Leone. In seguito alle prime tre chiamate, durante le quali ogni partito principale ha inteso portare un proprio candidato di bandiera (Gonella per la DC, Amendola per il PCI, Nenni per il PSI, Rossi per il PSDI), si registrò un surplace sui nomi del comunista Giorgio Amendola e del socialdemocratico Paolo Rossi. Il primo, pur avendo larga maggioranza, non disponeva di voti sufficienti per via dell'alto numero di schede bianche e di astensioni. Dopo ben 12 scrutini dagli esiti pressoché identici, in occasione della sedicesima “chiama” si optò per votare la popolare figura di Sandro Pertini, socialista e fervido antifascista, che verrà suffragato con 832 voti dei 995 presenti.

Successore di Pertini è, nel 1985, il democristiano Francesco Cossiga. È il primo Presidente a superare lo sbarramento dei 2/3 addirittura al primo scrutinio, con un accordo precedentemente raggiunto tra i partiti di maggioranza teso ad evitare gli imbarazzi delle pregresse elezioni. Figura controversa, è stato, a 57 anni, il più giovane tra i saliti al Colle.

Nel '92, in seguito alle dimissioni del politico sardo e con una Legislatura – la XI – appena nata, si ritorna alla più totale incertezza con una situazione pressoché analoga a quella del 1978, se non persino più caotica. Era evidente l'impasse all'interno della maggioranza: l'intermezzo di voti “di pancia” e “di protesta” rivolti a persone estranee alla politica come il magistrato Paolo Borsellino (da parte del Movimento Sociale Italiano) o Vincenzo Muccioli, fondatore della Comunità San Patrignano, e la corsa vana tra Giuliano Vassalli (PSI), Gianfranco Miglio (ideologo della new entry Lega Nord) o Nilde Iotti prima e il professor Giovanni Conso poi (proposti entrambi e in scrutini diversi dal Partito Democratico della Sinistra, sorto dalle ceneri del PCI), nascondevano un reale “braccio di ferro” sottobanco tra i DC Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. Le carte, però, vennero improvvisamente sparigliate dall'attentato che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie e a parte della sua scorta, nel pomeriggio del 23 maggio 1992: dopo 16 scrutini e l'inopportunità di proseguire ad oltranza, un'Assemblea spaventata di un'Italia ferita elesse il giorno seguente Oscar Luigi Scalfaro: anche lui, come Gronchi, Presidente della Camera al momento dello spoglio, una volta venuto a conoscenza del prossimo consenso sul suo nome lasciò le operazioni al suo vice, Stefano Rodotà.

Nel suo settennio, Scalfaro affrontò dunque altre stragi di mafia (via D'Amelio a Palermo, via dei Gergofili a Firenze) e le inchieste del filone di “Tangentopoli” con il coinvolgimento di gran parte del mondo politico del tempo. Si giunse al disgregamento della DC e del PSI nonché alla fine effettiva dei c.d. “partiti tradizionali” e quindi della “Prima Repubblica”. Il nuovo sistema instauratosi, fondamentalmente stanziato sul bipolarismo, si sorreggeva – con l'ausilio delle riforme elettorali che ne sono susseguite – sulla dicotomia tra le due coalizioni di centro-sinistra e centro-destra che, poco e spesso, si alterneranno (anche con i c.d. “ribaltoni”, quindi senza ricorrere allo scioglimento delle Camere) nei Governi a venire11. In questo nuovo clima, comunque non esente da scandali e polemiche, nel 1999 si trovò un agile consenso (707 voti su 990 alla prima “chiama”) su Carlo Azeglio Ciampi, partigiano, letterato ed economista, già Ministro del Tesoro e mai aderente ad un partito politico.

La seguente votazione del 2006, influenzata dalla formazione della neonata Legislatura – la XV – e da un'assoluta incertezza sul successore di una presidenza “pesante” come quella del livornese Ciampi, si risolve con un “nulla di fatto” nei primi tre turni di voto, in cui emerge con più clamore – anche in virtù dello sviluppo dei mass media e con internet ormai parte del quotidiano – la tradizione dei c.d. “voti-burla”, ossia preferenze disperse che spezzano la tensione del momento (eventualmente utili ad identificare taluni gruppi per accordi e tattiche in vista di scrutini successivi) e rivolte, per lo più, a personaggi del tutto estranei all'universo della politica o del diritto, a volte di finzione o appartenenti al mondo dello spettacolo o dello sport, non sempre aventi i 50 anni di età minimi per la salita al Colle12. Passata stancamente la fase in cui era richiesta la maggioranza qualificata, Giorgio Napolitano – storico esponente del PCI e senatore a vita – viene eletto alla quarta votazione. Di fatto si tratta della prima nomina “partitica”, essendo stato compattamente votato dalla maggioritaria coalizione di centro-sinistra (e senza proposte evidentemente condivise e condivisibili da parte dell'opposizione).

Nel 2013, Napolitano (che, nei sette anni di presidenza, si è doverosamente spogliato di qualsiasi etichetta associabile ad un possibile schieramento in virtù del suo ruolo; v. infra) viene riconfermato Presidente al sesto tentativo, con ampia maggioranza, nell'impossibilità di ricercare una personalità similare atta a succedergli. Stefano Rodotà, esponente di una “sinistra critica”, è appoggiato dalla novità del Parlamento: il MoVimento 5 Stelle. Ma non è sufficiente.

Dopo appena due anni, l'ottantanovenne Napolitano si dimette per questioni prettamente anagrafiche. Servono quattro consultazioni per ottenere la maggioranza assoluta sul nome di Sergio Mattarella (già giudice della Corte Costituzionale eletto dal Parlamento, per quanto vicino in epoca recente alle posizioni del PD, figlio di un esponente della DC e con un fratello – Piersanti – Presidente della Regione Siciliana vittima di un attentato mafioso nel 1980), il quale supera in scioltezza l'espressione del giudice Ferdinando Imposimato votata ad oltranza ed in maniera compatta dal M5S.

1.2 (Segue) Premessa. Le “presidenziali” del gennaio 2022

Nel 2022 la fisionomia dei vertici italiani è cambiata radicalmente rispetto ai periodi precedenti. Nel bipolarismo che ha dominato la scena a partire dalla seconda metà degli anni '90 fino ai primi del 2010, si è inserita nel Parlamento – con l'intesa di “aprirlo come una scatoletta di tonno”13 – una terza forza: il MoVimento 5 Stelle.

Ispirato dal comico Beppe Grillo con l'intenzione di riportare l' “onestà”14 in una politica italiana avvezza, dalla prospettiva del suo maître-à-penser, agli interessi di potere, al malaffare e alla corruzione personale, etica e morale, il M5S si è ritagliato – nemmeno troppo gradualmente – una fetta di elettorato disilluso e deluso dai precedenti amministratori, accogliendo al suo interno anche simpatizzanti di ogni vecchia ideologia15. Nelle elezioni politiche del 2018, in cui non erano previsti premi di maggioranza per partito o coalizione più suffragati in ossequio alla nuova legge elettorale (il Rosatellum-bis)16, si è registrato un equilibrio tra i grillini (altro nome che identifica gli iscritti al MoVimento) e gli altri due raggruppamenti ormai storici (con una tendenziale maggioranza sbilanciata verso il centro-destra).

Pur sostenendo, per propria natura, di non dover scendere a compromessi con alcuno17, al fine di formare un Esecutivo e scongiurare un ritorno alle urne che, verosimilmente e dopo pochi mesi, avrebbe reso un risultato simile al precedente, i traghettatori pentastellati hanno dovuto “fare i conti” con la real-politik: scendere a patti con la Lega portata avanti da Matteo Salvini (primo partito nella coalizione di centro-destra) e creare – dopo apposito sondaggio popolare disposto su una piattaforma online denominata “Rousseau” – un Governo “di larghe intese” avente a capo l'accademico Giuseppe Conte18.

L'Esecutivo, in questa sommaria composizione, implode nell'estate del 201919. Il M5S, ancora maggioranza, offre (sempre previa approvazione di parte degli iscritti alla piattaforma web di riferimento) alleanza al PD – iniziale e principale sconfitto delle votazioni precedenti –, che accetta la proposta di “semi-ribaltone” con ovvio sdegno del centro-destra20. All'inizio del 2020, il Governo Conte II si trova ad affrontare l'emergenza sanitaria per la pandemia da CoViD-1921.

A cavallo tra il 2020 e il 2021, dal PD fuoriesce l'ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi e, con il seguito, fonda Italia Viva. Revocando le Ministre Bellanova e Bonetti, nonché il sottosegretario Scalfarotto – tutti aderenti a IV –, nell'impossibilità di un “rimpasto” Conte rassegna le dimissioni e a prendere le redini dell'Esecutivo è chiamato a gran voce l'ex Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi22.

Il nuovo Consiglio dei Ministri, formatosi sempre nel corso della pandemia e obbligato a fronteggiare i problemi di natura sanitaria, sociale ed economica derivanti da essa, registra esponenti provenienti dai principali partiti di tutte le forze politiche parlamentari, ad eccezione di Fratelli d'Italia (che, a livello di Stato centrale, di fatto rimane l'unica forza “libera” di centro-destra e non inclusa nella particolare Große Koalition).

Riepilogando, all'elezione dell'ipotetico – come si vedrà – successore di Mattarella partecipa una nuova maggioranza che si estende dalla frangia sinistra del Parlamento fino alla destra moderata (Forza Italia e Lega), abbracciando il nucleo più solido (ma, evidentemente, meno radicale) del MoVimento 5 Stelle.

Il Presidente della Repubblica in carica dichiara di non essere disposto a reggere un nuovo mandato, volendo seguire l'esempio di illustri predecessori23. Tuttavia ritornano gli spettri del 2013 sulla difficoltà di individuarne un successore “degno”. Apparentemente si converge, almeno nell'ambito interno al centro-destra (quindi comprensivo di FdI) da estendere poi agli altri gruppi, sull'ottantacinquenne Silvio Berlusconi24.

È pacifico che un simile nomen potesse creare discussioni e qualche malumore. Dal 1994 il noto imprenditore ed editore dalla personalità senza dubbio estrosa ha dominato, rivoluzionato e personalizzato la scena politica del Paese. Quattro volte Presidente del Consiglio, è finito spesso e volentieri al centro di numerosi scandali – persino di natura sessuale –, venendo altresì accusato da parte dell'opinione pubblica di strumentalizzare i mezzi di comunicazione (su tutti quelli televisivi)25 e più volte annoverato tra gli imputati per reati di varia natura, ricevendo infine, nel 2013, una condanna per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita e creazione di fondi neri nelle more del c.d. “Processo Mediaset” (azienda da lui fondata)26.

Ad appena due giorni della convocazione delle Camere per le operazioni di voto, fissate per il 24 gennaio, Berlusconi – con una nota – scioglie la riserva: «Ho deciso di compiere un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, chiedendo a quanti lo hanno proposto di rinunciare ad indicare il mio nome per la Presidenza della Repubblica»27.

Di conseguenza, per la ricostituita (almeno per l'occasione) coalizione di centro-destra, il personaggio di spicco portato avanti da un mese a quella parte aveva preferito dare forfait; poco importava se avesse davvero i voti sufficienti o se il baillamme fosse solo una mera provocazione. Estremamente risicato il tempo per cercare un altro contendente con la stessa forza mediatica, con tutte le conseguenze che verranno descritte in seguito. Diversi i nomi a circolare, con o senza curriculum politico.

Tra le tante suggestioni gettate nel calderone e, quindi, date in pasto ai social network o alle chiacchiere del Transatlantico28 carpite dai giornalisti, Liliana Segre (senatrice a vita, sopravvissuta all'Olocausto), Romano Prodi (già Presidente del Consiglio e della Commissione Europea), Sabino Cassese (accademico e giurista), Giuliano Amato (fresco di nomina come Presidente della Consulta). La Costituzione, nell'articolo 84, prevede un'età minima di 50 anni per un Presidente della Repubblica “maturo e saggio”. Non di certo una massima, sebbene nell'ottica di alcuni opinionisti29 qualsiasi ultra-ottantenne di fresca elezione e non in regime dittatoriale o monarchico – per quanto possa distinguersi come personalità rispettabilissima – avrebbe oggettiva ed umana difficoltà nel gestire non solo le gravose prerogative previste dall'art. 87 (accreditare e ricevere i rappresentanti diplomatici, comandare le forze armate, dichiarare lo stato di guerra, presiedere il CSM...), ma soprattutto le lungaggini burocratiche se non la regolare quotidianità da inquilino del Quirinale per ben sette anni (basti pensare all'impegni derivanti dalle visite di Stato); non per altro, le dimissioni di Napolitano nel corso del suo bis sono state motivate proprio dalle suddette ragioni anagrafiche.

Tanto meno, la Carta fa accenno all'esclusività sul sesso del Presidente: diversi osservatori30, però, sono stati concordi come già accaduto in passato sulla prevalenza del criterio meritocratico (ça va sans dire) in luogo ad una scelta aprioristica di una “presidentessa”, dettata più da una certa vox populi e che poteva essere letta come strumentale o ipocrita. A tal proposito si sono rincorsi i nomi – tra i vari e oltre a quelli già citati – di Letizia Maria Brichetto Arnaboldi Moratti (vicepresidente della Regione Lombardia), Marta Cartabia (Ministro della Giustizia del Governo Draghi), Paola Severino (ex Guardasigilli del Governo Monti), Elisabetta Belloni (Direttrice Generale del Dipartimento Informazioni e Sicurezza della Repubblica), Maria Elisabetta Alberti Casellati (Presidente in carica del Senato).

Quest'ultima “punta di diamante” del solito centro-destra nella quinta “chiama”, dopo che le quattro precedenti hanno assunto connotati grotteschi, più consoni – senza timore di smentita – all'elezione di un capoclasse in un liceo che di un Presidente della Repubblica, data la sproporzionata quantità di schede lasciate intonse alternata alle espressioni favorevoli verso personaggi che andavano da Alberto Angela a Dino Zoff, passando per Roberto Mancini, Enrico Ruggeri o Alfonso Signorini. Candidato di una certa serietà, proposto da alcuni dissidenti già “Cinque Stelle” e poi nel Misto, era l'85enne giudice Paolo Maddalena31.

Tornando alla “scommessa” dell'area destra su Alberti Casellati, la stessa ha assistito alla disfatta in prima persona: essendo occupata nello spoglio delle schede assieme al suo omologo della Camera, a suo discapito ha potuto notare che le mancavano oltre 120 voti per il superamento dei 505 richiesti: troppi i “franchi tiratori” nella sua stessa coalizione (pur essendo lei – di base – imparziale, in quanto seconda carica dello Stato) a remarle contro32.

Nonostante la più volte dichiarata indisponibilità, l'ipotesi Mattarella-bis si faceva sempre più concreta con il passare delle ore. Nell'assenza di condivisione, il centro-destra si spaccava nuovamente e polemicamente: Fratelli d'Italia, a detta dei suoi portavoce anche in ossequio alla volontà del Presidente uscente, si orientava sull'ex magistrato Carlo Nordio33. Al contrario, per tutto il giro di consultazioni, gran parte del centro-sinistra si è mostrata serafica ed attendista. Parte dei pentastellati, che solo qualche anno prima volevano porre Mattarella sotto impeachment (sic)34, dopo qualche dissidio interno hanno poi garantito il placet35; al pari di chi, sette anni prima, twittava “non è il mio presidente”36.

Nell'incapacità di trovare un'alternativa valida, senza giungere però ad un accordo a dispetto di tutta la macchina rodata in poco tempo per garantire urgentemente le regolari votazioni in piena pandemia (con i classici “catafalchi” sostituiti straordinariamente da più ampie cabine e la predisposizione persino di un drive-in esterno per i votanti affetti da covid)37 e mostrando così ad una popolazione – generalmente disattenta e astensionista – uno spettacolo insoddisfacente seppur tanto atteso, nella serata del 29 gennaio Mattarella viene rieletto ad ampia maggioranza (759 preferenze su 983 presenti) ed eloquentemente obtorto collo38.

Il discorso breve del suo secondo insediamento lo mostra appieno: «I giorni difficili trascorsi per l'elezione alla Presidenza della Repubblica nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando – sul versante sanitario, su quello economico, su quello sociale – richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati – e, naturalmente, devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti – con l'impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini»39.

Dinamiche, queste ultime, rinnovate nelle dichiarazioni espresse in seduta comune a Montecitorio in occasione del suo giuramento: «di fronte a questa Assemblea, nel luogo più alto della rappresentanza democratica, dove la volontà popolare trova la sua massima espressione», ha dovuto rispondere affermativamente ad «una nuova chiamata inattesa alla responsabilità» alla quale non ha potuto, né inteso, sottrarsi40.

Tale cronaca – resa nel modo più oggettivo e asettico possibile – riporta all'interrogativo principale di partenza: l'inconcludenza delle parti politiche nel trovare una soluzione e “non cambiare niente” dopo ben otto votazioni (quasi dimenticando che, in altre epoche e in almeno quattro occasioni, ne sono servite oltre quindici), opposta al “senso di responsabilità” più volte sottolineato dal Presidente riconfermato, ha sospinto qualche leader di partito a proporre, a favore di telecamere e di stampa, una riforma drastica: “il Presidente della Repubblica deve essere eletto dal popolo”41.

Prima di analizzare il punto principale, però, è necessario passare da alcuni sussidiari emersi nel corso del riassunto finora esplicato.

2. La rielezione del Presidente della Repubblica: un'“anomalia”?

Come anticipato, Mattarella aveva più volte ribadito di volersi ispirare ai suoi predecessori Antonio Segni e Giovanni Leone. A suo dire, entrambi espressero «la convinzione che fosse opportuno introdurre in Costituzione il principio della “non immediata rieleggibilità del Presidente della Repubblica»42.

Tuttavia, per le ragioni già riportate e in ossequio al plebiscito ottenuto, è stato – in un certo senso – costretto a venir meno ai propri personali propositi e proseguire nell'incarico.

È la seconda volta che accade nella storia repubblicana: nel 2013 spettò a Giorgio Napolitano, immediato predecessore di Sergio Mattarella, rimanere al Colle.

Da quanto si è potuto evincere, è un contesto politico (più che storico) alquanto similare, nonostante i nove anni intercorsi tra l'una e l'altra elezione. La difficoltà di trovare un nome altisonante ed emblematico, l'impossibilità di trovare in poco tempo una comunione di intenti unita ad una percepibile impazienza delle singole parti, sono alcuni tra i motivi utili a giustificare detta “anomalia”.

Dopotutto, rieleggere un Presidente della Repubblica diventa chiaramente una scelta di comodo, un “palliativo”. Ma non è affatto la soluzione ad un problema che è, ovviamente, destinato a ripresentarsi (ed è presumibile, per quanto solo ipotizzabile, che il Presidente incaricato per un secondo mandato consecutivo non intenda rimanere per l'intero settennato e dunque per un totale di quattordici anni; Napolitano, come accennato, si è dimesso dopo appena due anni del suo bis).

Diventa anche una forzatura, poiché non è propriamente un periodo empirico quello delineato dalla Costituente nel comma 1 dell'art. 85. L'intervallo di sette anni non è certamente breve ed è secondo solo al tempo di carica di un giudice della Corte Costituzionale (nove anni): i predetti organi sono infatti configurati come titolari di garanzia e non di iniziativa politica. Non dovendo sottostare al confronto diretto con la volontà popolare, in linea prettamente teorica devono essere svincolati (reciprocamente) da maggioranze politiche o qualsivoglia volontà o influenza di altra parte.

Camera e Senato si votano, a suffragio universale e diretto, ogni cinque anni43 (salvo esplicita proroga44 o preventivo scioglimento proprio a carico del Presidente della Repubblica45). Originariamente, però, i componenti della c.d. “Camera Alta” venivano rinnovati ogni sei. Per mera praticità ai fini dell'organizzazione di una tornata elettorale ed in virtù dello scioglimento anticipato del Senato nelle prime due Legislature rendendolo coincidente con quello della Camera, nel 1963 – con apposita Legge costituzionale46 e alla scadenza della III Legislatura – si optò per parificare la durata di entrambe le Camere.

Pertanto il Presidente della Repubblica rimaneva in carica per un tempo (non troppo) superiore a quello dell'intero Parlamento, rafforzando di contro la possibilità di manifestare la sua indipendenza nei confronti di vecchie e nuove maggioranze: una durata minore avrebbe potuto prevedere una sua rinomina poiché proveniente da un'Assemblea composta (in linea di massima) dalla medesima formazione47. In sintesi, sette anni sono sufficienti a garantire la continuità dello Stato senza portare degli squilibri di potere.

Contrariamente all'iniziale idea ponderata da Mattarella sulla scorta di quanto pronunciato dai suoi illustri predecessori, taluna dottrina48 ha previsto che una paventata non rieleggibilità del Capo dello Stato avrebbe, viceversa, irrigidito la vita politica impedendo – per l'appunto e come accaduto concretamente – la rielezione di quell'unico soggetto che, sulla base dell'esperienza passata, ha guadagnato la fiducia di tutte le forze in campo proprio per la sua equidistanza. Conseguentemente, sarebbe mancato un nuovo ed eventuale giudizio (stante nella riconferma o meno da parte degli elettori) tale da legittimarlo o meno sulle sue effettive irresponsabilità politica e responsabilità sociale pregresse. Lapalissiano affermare che, per quanto possa rimanere al Quirinale un Presidente della Repubblica, la sua durata è comunque limitata (e non è perpetua o “da discendenza”, come da Monarchia) e vincolata all'esito di una maggioranza pur sempre dipendente dal suffragio universale e diretto.

La ratio stessa del c.d. “semestre bianco” (ossia gli ultimi sei mesi del mandato del Presidente, in cui allo stesso viene impedito lo scioglimento delle Camere) è, secondo alcuni, emblematica per il ruolo di imparzialità spettante al Capo di Stato. Si fonda, infatti, proprio sul proibire l'esecuzione di una “manovra politicizzata” (seppur non rientrante nei reati di alto tradimento o attentato alla Costituzione ex art. 90), come può essere l'impedimento di nominare effettivamente un successore a lui sgradito ovvero l'attendersi l'elezione di un Parlamento più favorevole ad una sua eventuale rinomina.

Secondo Segni, invece, l'impossibilità di sciogliere le Camere nell'ultimo semestre era ritenuto un brocardo “pericolosissimo”, in quanto avrebbe potuto causare uno squilibrio nel sistema non potendosi esercitare, all'occorrenza e qualora necessario, un potere di garanzia. Per ovviare ai comportamenti discutibili che un Presidente della Repubblica avrebbe potuto mettere in atto con l'eventuale abolizione della norma di cui al comma 2 dell'articolo 88, aveva contestualmente ipotizzato l'introduzione del divieto di esercitare consecutivamente due mandati. Ciò nonostante, la proposta di riforma non ebbe concreto seguito.

La norma che comunque descrive questo limite49, realisticamente e sposando la tesi del Presidente Segni, è tuttora aggirabile: per qualsivoglia motivo incorso, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere come da sua facoltà. Pur essendo prevista la prorogatio fino al loro rinnovo (comunque entro novanta giorni; settanta dallo scioglimento alle nuove elezioni e altri venti dalle elezioni alla prima riunione)50, il Presidente potrebbe dimettersi, ai sensi del secondo comma dell'art. 86, proprio in quel determinato lasso di tempo nel pieno del suo incarico. Per mera logica, non sarebbe applicabile la prorogatio – stavolta relativa al Capo dello Stato – di cui all'articolo 85, comma 3, tanto meno potranno essere indette nuove elezioni entro quindici giorni come da secondo comma dell'articolo 86.

In un caso “limite”, non ancora realizzatosi e – a prescindere – mai auspicabile, verosimilmente il Presidente della Repubblica verrebbe sostituito dai Presidenti del Senato, uscente ed entrante, come previsto dall'art. 86, comma 1, nell'attesa dell'elezione del suo successore avente luogo entro quindici giorni dalla riunione del Parlamento in nuova composizione51. Ma, giocando con le regole, non è escluso che un Presidente “in mala fede” possa riuscire a mettere in esercizio ugualmente un machiavellico “colpo di mano” di stampo politicizzato. Così come potrebbero sorgere dubbi interpretativi (tendenzialmente irrisolti o comunque mai concretizzatisi) su altre casistiche borderline in tema di elezione del Presidente della Repubblica correlativamente al periodo di scioglimento delle Camere52.

Difatti, per quanto molto spesso sia stata decantata come “perfetta” o “bellissima”, la Costituzione Italiana mostra alcune lacune per cui sono state – e saranno – indispensabili modifiche in itinere53. Sempre con riferimento al “semestre bianco”, ad esempio, si è intervenuti nell'integrare la postilla «salvo che essi [gli ultimi sei mesi del settennato, n.d.a.] coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura»54: se non fosse stata inserita la predetta eccezione, nel 1992 l'allora Presidente Cossiga non avrebbe potuto sciogliere le Camere, dato che il suo mandato sarebbe scaduto in corrispondenza della fine della X Legislatura.

O, sempre in tema di anomalie e manovre politiche indotte da un Presidente della Repubblica ipoteticamente “sleale”, nulla gli vieterebbe di sciogliere una sola Camera, “rompendo” così la prassi consolidata e applicando la norma “dormiente” di cui al comma 1 dell'articolo 88, con tutte le ripercussioni del caso – peraltro permesse proprio dalla Legge massima dello Stato55.

Sul tema della rielezione, pertanto, non vi sono correnti di pensiero giuste o sbagliate, prevalenti o meno: la figura del Presidente della Repubblica, seppur non “schiava”, è infatti connessa al Parlamento (e ai 58 delegati regionali) pur non dovendo avere – in linea teorica – una reciproca dipendenza per tutto il settennato (o, eventualmente, oltre): dall'inizio (con le votazioni a scrutinio segreto e “quorum” comunque rigidi) alla fine (con, appunto, la disciplina sul “semestre bianco”)56.

In soldoni, al netto di tutti gli interrogativi che la Dottrina si è posta e le eventuali ingerenze scaturenti dall'interpretatio legis, bisogna attenersi al caso concreto: taluni accademici (e, loro malgrado, inconsapevoli profeti per quello che si leggerà di qui a breve)57 hanno giustificato già nel 2013 la rielezione di Napolitano, dopo che quest'ultimo era stato letteralmente “supplicato” da alcuni esponenti di partito nell'accettare una nomina “a tempo” (tra l'altro a ridosso degli 88 anni, sic), come dovuta a «fronteggiare l'emergenza economico-sociale e rinnovare l'assetto costituzionale per tornare al voto con un quadro economico e istituzionale più stabilizzato».

Come esposto ampiamente, Mattarella, a dispetto dei suoi personalissimi “buoni propositi”, a distanza di appena nove anni è rimasto incredibilmente invischiato in una situazione pressoché identica a quella di chi l'ha preceduto, ma aggravata dalle conseguenze relative alla pandemia da CoViD-19, da un Governo tecnico al vertice ma comprendente membri di più partiti sparsi per il Parlamento e dal breve scarto di tempo (un anno) mancante dalle nuove elezioni di Camera e Senato – con una eventuale legge elettorale da dover redigere, in ossequio alle modifiche imposte dal referendum costituzionale del 202058.

Anch'egli “supplicato” ad accettare nuovamente il compito, anch'egli “obbligato” al senso di responsabilità dall'esito plebiscitario dopo l'ottavo scrutinio delle elezioni presidenziali del 2022, anch'egli travolto da applausi al momento del raggiungimento del quorum. Se ne deduce che la classe dirigente (tra l'altro in larga parte coincidente con quella del 2013, segno che mala tempora currunt), nonostante quanto fosse avvenuto in un'epoca relativamente recente, tra litigi e divisioni spesso interne, non ha acquisito un'esperienza richiesta per evitare simili “inopportunità”, anzi ha contribuito a crearle.

Conferire centralità al Quirinale – sic est – diventa così la nuova prassi, questa sì anomala, e non più una tendenza occasionale. Ciò motiva il malcontento di parte dell'opinione pubblica che, quindi, è spinta nel credere quanto la soluzione finale si possa demagogicamente ritrovare in una legittimazione popolare diretta del Presidente della Repubblica, visto che il Parlamento delegato diventerebbe incapace di prendere decisioni di estrema rilevanza per l'equilibrio dello Stato.

3. L'ipotesi dell'elezione a Presidente della Repubblica di un Presidente del Consiglio in carica

Riprendendo il casus belli che ha scaturito la presente analisi, nel novero di nomi sino ad ora elencati quali papabili alla Presidenza, ne è stato in parte omesso volontariamente uno. Quello di Mario Draghi.

Presidente del Consiglio dei Ministri in carica dal febbraio 2021, è un cosiddetto “tecnico”. Già a capo della Banca Centrale Europea dal 2011 al 2019 (nel periodo della c.d. “crisi del debito sovrano europeo”), fervente europeista di fama mondiale, è considerato generalmente dall'opinione pubblica – specie a livello internazionale – come persona preparata, rigorosa ed autorevole59.

Lo stesso è stato puntualmente insignito del ruolo dal Presidente Mattarella con l'intesa di proseguire in continuità (sia politica che di intenti) il lavoro del Governo Conte II, onde scongiurare l'ipotesi di nuove elezioni, peraltro in una fase di emergenza sanitaria, sociale ed economica60; contando, anche, sul dichiarato appoggio (concretizzatosi nella fiducia espressa dalle due Camere, con ampio margine) della maggior parte dei principali gruppi parlamentari (fatta eccezione per Fratelli d'Italia, della compagine di centro-destra), poi presenti nell'organico ministeriale con più rappresentanti. In altre parole, a formarsi è un Governo “ibrido” tecnico e politico allo stesso tempo, con un vertice a cui spetta il pesante compito di conciliare – quasi da “arbitro” – ogni divergenza naturalmente presente ab initio.

L'intento era di “mandare in campo” una squadra composta da una rosa di persone anche iscritte ad un partito, ma strettamente competenti per la fattispecie di ogni dicastero di afferenza. Se ne deduce che si tratta un Governo creato nonostante i partiti; circostanza, questa, che ha scatenato talune ironie: venendo definito “dei migliori” o richiamando alla mente lo schema del “manuale Cencelli”61.

Per quanto concerne la sua formazione, nella fattispecie, la politica di primo piano si è mostrata nuovamente incapace (o non disposta, o comunque irresponsabile o sprezzante dei principi democratici, stabilendo così un'altra tappa di quel lungo periodo di imbarazzo percepibile nell'elettorato attivo) di risolvere un'ennesima crisi dopo la caduta del Conte II. Dopo diversi rinvii e dilazioni, di “ricatti” e condizioni solo in parte assecondate, il Presidente della Repubblica ha impartito – anche in virtù del suo curriculum pre-presidenziale – una “lezione di grammatica costituzionale”, bypassando il parere di forze politiche, evidentemente passive ed accondiscendenti (se non proprio “spettatrici”) e imponendo fattivamente loro, e solo per mera resposabilità in uno stato emergenziale, la “figura di spicco” di Mario Draghi62.

Proprio in virtù di questo suo ruolo straordinariamente super partes e non prettamente indicato in consultazioni da una sola parte politica maggioritaria (come da prassi e Storia), nonché posto come “atto di garanzia” direttamente dal Capo di Stato, il nome di Draghi è “prepotentemente” entrato nella corsa per il Quirinale.

Nell'era Repubblicana è ancora inedita la nomina di un Presidente del Consiglio in carica a quella di omologo della Repubblica. Ma, se per un Presidente della Camera o del Senato il problema è di più facile soluzione (lo dimostrano le elezioni di Gronchi e Scalfaro), tale non è nel caso del Capo dell'Esecutivo.

Ergo, nel silenzio della Costituzione, cosa accadrebbe se un Presidente del Consiglio reggente dovesse essere eletto Presidente della Repubblica?

Ovviamente è escluso il mantenimento della “doppia presidenza”63 (quindi, “delle due, l'una”). Per via del principio della continuità, lo Stato dovrà registrare due persone (logicamente) distinte nel ricoprire i ruoli di cui sopra, a prescindere dalle proroghe previste dalla Legge. Secondo la prassi, infatti, quando un Presidente del Consiglio si dimette, il Presidente della Repubblica non firma subito le dimissioni e il Governo rimane in carica per il «disbrigo degli affari correnti» fino al subentro del nuovo Esecutivo.

E quindi come potrebbe essere nominato il medesimo “nuovo Esecutivo” da un Presidente della Repubblica, ormai uscente, a cui non spetterebbe più per motivi di “potere temporale” – pur rimanendo nell'ambito delle supposizioni – una simile incombenza? In questa fase potrebbe essere sostituito da quello del Senato, suo vice e seconda carica dello Stato. Ma, in quanto vicario “traghettatore”, pure se facente funzioni nell'impossibilità del titolare ex comma 1 dell'articolo 86, non potrebbe comunque accogliere “a cuor leggero” le dimissioni di un Presidente del Consiglio, iniziare un giro di consultazioni e nominare contestualmente un nuovo “Primo Ministro” (compito, comunque, rigorosamente spettante al Presidente della Repubblica che ne riceve il giuramento64).

Essendo impraticabile anche l'ipotesi della momentanea supplenza del Presidente del Senato, bisognerebbe considerare il vicariato alla Presidenza del Consiglio quale soluzione più valida. “Rompendo” nuovamente la prassi, il Presidente della Repubblica, quantunque uscente, accetterebbe immediatamente le dimissioni del Presidente del Consiglio – senza attendere il rituale “passaggio della campanella” tra il nuovo e il vecchio – e, seduta stante, nominerebbe il vicepresidente, ovvero il più anziano dei vicepresidenti del Consiglio (se ve n'è più di uno), ovvero ancora il Ministro più anziano (in mancanza di vicepresidenti)65.

Altrettanto paradossale è lo status in cui incorrerà il Presidente del Consiglio, ormai eletto Presidente della Repubblica, che scivola per un periodo «in un limbo: non più Presidente del Consiglio, non ancora Presidente della Repubblica»66.

Una volta che, comunque, il Presidente del Consiglio dimissionario diverrà in questo (caotico) lasso di tempo Capo dello Stato, potrebbe incorrere in uno scenario decisamente ambiguo (al pari di altri già teorizzati da più insigni giuristi)67.

Secondo la glossa della Costituzione, la nomina del Presidente del Consiglio è un atto “politico” – in senso lato – da parte del Capo dello Stato: il primo permane comunque suscettibile della fiducia da parte dell'Assemblea, tuttavia «la scelta, la designazione di un uomo a capo del Governo può, in alcune situazioni complesse e delicate, avere influenza decisiva di orientazione».

Va preliminarmente ricordato che il Presidente della Repubblica «non governa; la responsabilità dei suoi atti è assunta dal Primo Ministro e dai Ministri», occupandosi di tutte le altre attribuzioni conferitegli specificatamente dalla Carta e quelle più generali che «gli danno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e coordinamento che è propriamente sua». Non rientra affatto quella di dirigere l'Esecutivo68.

Come già successo in passato, dunque, si metta il caso – assolutamente plausibile, stando a quanto finora analizzato – che sussista una situazione tale per cui sarebbe più consono evitare una tornata elettorale. Il Governo, con a capo il (vecchio) supplente dell'attuale Presidente della Repubblica, verrebbe di fatto riconfermato (perché sta “lavorando bene”; perché nel giro di consultazioni vi è stato parere favorevole – se non addirittura “tacito” – per le ragioni già ampiamente viste; perché rappresentato da una certa maggioranza compiacente o per questioni di – presunta – opportuna continuità con il precedente). Sebbene ne venga modificata minimamente la forma, in sostanza poco cambia.

A cambiare sostanzialmente, però, sarebbe il ruolo del Presidente della Repubblica: nell'ipotesi fino ad ora descritta, questi fattivamente legittimerà – senza opposizione di legge alcuna – un Governo che, principalmente, è più una sua espressione e una sua continuità, essendo diretto da un suo “prestanome”. In tal caso, nell'assordante silenzio del Parlamento “involontariamente” compiacente, si assisterebbe ad un vulnus della democrazia, costituito dalla formazione di un commistionato “Governo del Presidente” destinato a perdurare e non semplicemente, per l'appunto, a “traghettare” il Paese verso acque più sicure.

Qualcuno69 sostiene, al contrario, che l'attività presidenziale, quantunque possa apparire spinta verso una “deriva presidenzialista”, come nel caso sopra designato, sarebbe a priori conciliativa al fine di «realizzare le condizioni per favorire l'armonia costituzionale». In un regime maggioritario – e su questo la Dottrina è pressoché unanime – la responsabilità di una simile, potenziale, “deriva” sarebbe da imputare esclusivamente al sistema dei partiti e della politica, «ancora alla ricerca di una loro identità» ed incapaci – in più riprese – non solo di risolvere, ma proprio di «affrontare i problemi concreti posti dai tempi recenti», alimentando così, senza soluzione di continuità, «il sentimento diffuso di sfiducia e talvolta finanche di sdegno nelle Istituzioni della democrazia rappresentativa» (sic est). A prescindere da ogni modo e tempo, il Presidente della Repubblica agirebbe non in qualità di supplente o reggitore dello Stato, bensì come «arbitro quando le lotte politiche rendono fragile e debole la maggioranza parlamentare, incerto e irresoluto il Governo»70, lasciando dunque inalterato il suo ruolo super partes teso ad evitare crisi di natura costituzionale.

4.1 L'invocazione della “democrazia diretta”: dalle televisioni all'era dei social

Quanto sinora sviluppato in questa sede, soprattutto in tema della reciprocità dei rapporti tra i Presidenti della Repubblica e del Consiglio, non dev'essere letto come un pretesto favorevole ad una modifica radicale della Carta (che, come preannunciato, va adeguata ai tempi ovvero revisionata su certi punti equivoci).

Metaforicamente: un macchinario, pure di un'epoca più remota, se controllato periodicamente e ben lubrificato, continuerà a funzionare regolarmente. Nel caso in cui dovesse essere sostituito un intero meccanismo dello stesso, con la convinzione (magari un po' arrogante) di incrementarne la potenza o migliorarne la produttività, tale azione potrebbe causare degli effetti imprevisti e non sempre piacevoli.

Così è per la Costituzione.

Inutile specificare che diritto e politica non sono esenti dall'evoluzione dei tempi. E, con loro, chi è parte integrante di quegli universi.

Ogni esponente di vertice ha ben sfruttato i mezzi a propria disposizione; qualcuno meglio di altri. Come accennato, Silvio Berlusconi è stato eletto nel 1994 (e poi nominato Presidente del Consiglio per la prima volta di quattro) con il contributo – mai nascosto – delle televisioni di cui è stato fondatore, oltre ad una campagna basata sull'immagine e sugli slogan ad effetto (la c.d. par condicio, introdotta al fine di limitare tale monopolistico fenomeno, entrò in vigore solo successivamente)71.

Allargando il tema ad una più spicciola sociologia, l'immagine del leader elegante, impegnato in un monologo incentrato su una retorica “demonizzazione” dell'avversario, ebbe l'effetto sperato anche tramite l'uso sistematico di stampa e programmi TV, con musiche e didascalie (ben sintetizzate dall'orecchiabile inno di partito – Forza Italia – con addirittura il testo sovraimpresso in pieno stile karaoke, trasmissione molto in auge all'epoca ed in onda sui canali aziendali) che non potevano passare inosservate agli spettatori. I quali, ovviamente, costituivano gran parte di un elettorato senza più riferimenti saldi, specie dopo le inchieste di “mani pulite”, gli attentati di mafia e la crisi delle liste tradizionali.

Il partito, in quest'ottica, viene visto al pari ad un'impresa: l'ideologia di partenza passa in secondo piano ed il simbolo viene associato al “capo”, tanto da esserne inserito il nome, pienamente e costantemente, nel logo durante ogni elezione. In una parola, “personalizzazione”72.

Su questo modus operandi appare incentrata l'era quasi ventennale in cui Silvio Berlusconi ha dominato la scena italiana, nel corso della quale parte della stampa, degli oppositori e dell'opinione pubblica l'ha accusato costantemente di far approvare, o comunque mettere al vaglio, apposite leggi definite con sprezzo ad personam al fine di salvaguardare posizioni proprie o delle imprese a lui afferenti. Tra queste, un tentativo di riforma del 2006 – non approvato in seguito a referendum costituzionale – che, tra le varie modifiche, annoverava l'aumento dei poteri in favore al Presidente del Consiglio (definito poi Primo Ministro o Premier).

Costui, e non più il Governo nel suo complesso, avrebbe determinato la politica nazionale nominando o revocando i Ministri – senza nemmeno sottostare al voto di fiducia del Parlamento – in luogo di un Presidente della Repubblica ormai sfornito di qualsivoglia “persuasione morale” (l'età utile per la sua nomina, infatti, sarebbe scesa a 40 anni; avrebbe perso alcune attribuzioni particolari e sarebbe stato costretto a sottostare alla nomina “politica” di un Premier diretta espressione della Camera dei Deputati che, tra l'altro, non avrebbe potuto più sciogliere se non dopo richiesta del medesimo)73: in pratica, l'introduzione di un “presidenzialismo alternativo” (e “assolutista” in favore del Primo Ministro) che, però, non ha ottenuto l'esito prospettato.

Con queste premesse, come supra sottolineato, esattamente a ventotto anni di distanza dalla sua clamorosa “discesa in campo” del 26 gennaio 1994, il nome di Silvio Berlusconi è tornato alla ribalta nella corsa al Quirinale del 2022.

Nel corso degli anni, la televisione è stata affiancata (e poi superata) da altri mezzi di comunicazione e di informazione: la comparsa dei c.d. social network ha permesso ai politici di esprimersi in tempo reale e di confrontarsi, eventualmente, con l'elettorato – critico o compiacente. Senza scomodare le parole ormai scolpite di Umberto Eco sull'uso (e l'abuso) di questi strumenti74, è sintomatico quanto un messaggio lanciato da un leader di partito possa essere letto dai suoi accoliti come “verità assoluta”; parimenti lo stesso può essere contestato anche ferocemente e senza troppi filtri75.

Quindi, poco e spesso, propaganda e demagogia la fanno da padrona, soprattutto in campagna elettorale e senza possibilità di essere interrotte nei “momenti di silenzio”. Rivolte, tra l'altro, ad una pletora che generalmente – suo malgrado – non ha conoscenze tecniche in merito da ostacolare o smentire determinati contributi (spesso trattasi di assolute fake news anche cavalcate) che giungono su ogni smartphone in maniera istantanea ovvero immediata76. Alla medesima platea, quantitativamente parziale77, oggettivamente inesperta o comunque impreparata, a volte è stata demandata una decisione importante persino per le sorti dello Stato (come l'accettazione, per un intero partito, di essere parte o meno di un Governo tramite apposita piattaforma online78): un esperimento di “democrazia diretta e partecipata”, sì, ma che concretamente “aggira” la «normalità costituzionale»79.

A parziale sostegno della teoria di cui sopra, e poi presa in prestito da alcuni schieramenti politici, Jean-Jacques Rousseau (per l'appunto) sosteneva lapidariamente che «“la sovranità non può essere rappresentata”», men che meno con i ben conosciuti precetti costituzionali: «“Il popolo […] crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente”». Inoltre, secondo la sua concezione, «“Una vera democrazia non è mai esistita e mai esisterà”, perché richiede molte condizioni difficili da mettere insieme, in primo luogo uno Stato molto piccolo “in cui al popolo sia facile riunirsi e ogni cittadino possa facilmente conoscere tutti gli altri” […], “una grande semplicità di costumi” e “poco lusso”».

In piena contestazione, realizzando l'impossibilità della creazione di uno Stato comprensivo – quantunque molto piccolo – di tutti i parametri ivi elencati, altri eccelsi filosofi80 hanno giudicato come «insensata», «impossibile» e «non auspicabile» la “democrazia diretta” intesa come la partecipazione dei cittadini a tutte le decisioni che potrebbero riguardarli, specie in società sempre più complesse.

Quindi non solo ai referendum («espedienti ordinari per circostanze straordinarie»81). Eppure taluni rilevanti esperti82 reputano già questi strumenti addirittura «confusi e pericolosi» perché si presterebbero a «manipolazioni […], utilizzati per ottenere plebisciti sulle persone o sui Governi […], perché i votanti sono solitamente poco informati, non scelgono sulla base del merito della questione loro posta ma si orientano sulla scorta di altri elementi». Riassumendo, nulla dovrebbe essere demandato al cittadino (se non le elezioni).

Al contrario, altri giuristi83, alla luce dei suddetti esperimenti sul web, hanno valutato l'applicazione totale della “democrazia diretta” come «realistica» per via del processo tecnologico che contribuirebbe a rendere più fluidi i processi politici, con l'attività normativa continuamente verificata dalla volontà popolare: sussisterebbe un “referendum continuo” determinato, anche, dal potenziale superamento del voto cartaceo (con correlata necessità di modifiche costituzionali atte, anche, a snellirne ricorsivamente la rigidità)84.

Oggettivamente, la suddetta direzione è ancora prematura: pare infatti impossibile poter verificare tempestivamente la regolare affidabilità delle migliaia di informazioni immesse, condivise e discusse nell'etere; di conseguenza viene meno anche la capacità di discernimento dei singoli e detta lacuna è logicamente dannosa per il sistema-Stato85. Per le questioni di rapidità di cui sopra, una notizia, per quanto possa essere pertinente e certa, viene mutilata e, di conseguenza, travisata.

Così nascono e si diffondono “leggende”. In molteplici occasioni è capitato di leggere o ascoltare – nel presente come nel passato, via quotidiani e via social, passando per le televisioni – affermazioni di politici sul “Governo illegittimo perché non eletto dal popolo”86. Con successiva ridda di commenti di disapprovazione, indignazione e qualunquismi della gente comune che si fida dell'intervistato di turno. Una frase del genere – gravissima ed errata, per di più se proveniente da personalità nel cui curriculum emerge una Laurea in Giurisprudenza – scatenerà (come ha già scatenato) un credo sbagliato da parte di (e)lettori che non approfondiranno l'argomento (per le più eterogenee ragioni), che perderanno l'ottica sull'effettiva forma di governo sussistente in Italia e che, a furia di ascoltare il “mantra”, si autoconvinceranno di aver votato direttamente il Presidente del Consiglio in altre occasioni87.

In epoca più recente, il battage si è appunto spostato sulla “candidatura” del Presidente della Repubblica. Per questioni certamente riassuntive, i quotidiani – soprattutto quelli online, subito condivisi sui social alla mercé di chiunque – hanno indicato superficialmente come “candidato” qualsiasi semplice “papabile” Capo dello Stato (Berlusconi in primis; “curiosamente” protagonista principale di quest'ultimo equivoco).

Per quanto lapalissiano sottolinearlo, la Legge fondamentale si limita a prevederne sic et simpliciter esplicite modalità di elezione (già ampiamente descritte ed analizzate)88 e le peculiari caratteristiche inderogabili («ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d'età e goda dei diritti civili e politici»89). Null'altro. È assolutamente impreciso, anzi addirittura inesatto, parlare di “candidatura” nelle more dell'elezione di un Presidente della Repubblica90. Semplicemente, esisterebbero potenziali “rose di nomi”, rinvenibili tramite accordi in fase di discussione per la ricerca di consenso tra le molteplici fazioni del Parlamento (e dei delegati regionali), e solo da un confronto figlio di codesta consuetudine – affatto regolata dalla Legge – uscirà il “nome finale”.

Tutto quanto innanzi esposto si concentra nella parola “populismo”. I contatti diretti – virtuali o umani –, l'uso di un lessico abbastanza elementare e alla portata del cittadino, l'immediatezza risicata di un concetto, le promesse eclatanti – allorquando impossibili da mantenere – sono tecniche utili proprio a persuadere e convincere la massa popolare e quindi a cavalcare onde di malcontento per guadagnare consensi alle urne91.

4.2 (Segue) Cenni sulla “Legge Severino”

Quale seguito ideale al precedente paragrafo, in relazione ai limiti di elezione di un Presidente della Repubblica, alla sua posizione imparziale e all'uso del linguaggio – appunto – populista utile a dissimulare o “far dimenticare” realtà più spiacevoli, soprattutto a livello personale (nonché ad una possibile fattispecie concreta), le norme vigenti nulla prevedono pure in caso di nomina di persona eventualmente già condannata penalmente, almeno per talune categorie di illeciti.

Viceversa, per le ipotesi di reati commessi nel periodo presidenziale come “privato cittadino” – fatti salvi quindi quelli “speciali” di alto tradimento o attentato alla Costituzione92 – il Presidente sarà responsabile in ambito penale solo alla scadenza del suo mandato e se, nel frattempo, non sia intervenuta la prescrizione93.

Seppur vero che è previsto l'istituto della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici94, la quale può essere perpetua o temporanea, è altresì indiscutibile che il Presidente della Repubblica è il più alto vertice dello Stato, nonché garante della Legge massima (e, sussidiariamente, di tutte le altre sottostanti nella gerarchia delle fonti). Forte dei suoi poteri, tra i vari presiede il Consiglio Superiore di Magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene95 e nomina cinque giudici della Corte Costituzionale96.

Per quanto i Costituenti abbiano – colpevolmente? – omesso una simile circostanza (probabilmente, rimanendo nel doveroso campo delle supposizioni, dandone per scontata l'impossibilità di risalire a fonti certe), nell'immaginario e nella diplomazia è evidentemente imbarazzante, se non paradossale, che un pregiudicato (tale è) possa ritrovarsi, seppure in un secondo momento della propria vita, pur completamente ravveduto o totalmente integrato nella società e dedito al rispetto delle leggi, a gestire le competenze di massimi organi strettamente correlati alla Giustizia.

Bisogna quindi ricordare che, come da delega al Governo disposta dalla c.d. “Legge Severino”97, dall'inizio del 2013 è prevista – con effetto retroattivo – l'incandidabilità, o comunque la decadenza, o ancora il divieto d'assunzione e svolgimento delle cariche di Deputato, Senatore, Parlamentare europeo e di incarichi di Governo, per coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p.; dal Libro II, Titolo II, Capo I, c.p. (i delitti specifici dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione); ovvero non colposi «per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell'articolo 278 c.p.p.»98.

L'incandidabilità (intesa come concetto esteso) ha una durata mai «inferiore a sei anni» e «decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza stessa ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici comminata dal giudice», ovvero aumentato di un ulteriore terzo se il delitto «è stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato elettivo»99; essa opera anche in caso di c.d. “patteggiamento”, ma può venir meno solo con apposita sentenza di riabilitazione100.

Nel Decreto Legislativo sono poi previsti altri casi più specifici di incandidabilità per quanto concerne le cariche elettive per le regioni e per gli enti locali (province, comuni, circoscrizioni).

Pleonastico ripetere quanto non siano annoverabili casi concreti, fino al 2022, di un Presidente della Repubblica eletto che, in passato o nel corso del proprio mandato, abbia commesso (almeno) reati per cui sono previste le predette preclusioni.

Tuttavia la “Legge Severino” è suscettibile di (almeno parziale) abrogazione: la Consulta, infatti, su iniziativa promossa principalmente da Lega e Partito Radicale, ha dato il “via libera” per un referendum ex art. 75 Cost. che, salvo "colpi di scena", si terrà il prossimo 12 giugno 2022. La ratio di tale proposta risiede nella paventata creazione di vuoti di potere e nella sospensione temporanea dai pubblici uffici di eventuali amministratori poi scopertisi innocenti (quindi da reintegrare successivamente al loro posto e solo dopo aver subito pregiudizio ed essere stati esposti indebitamente alla c.d. “gogna mediatica”)101.

Presumendo la “sopravvivenza” dopo la tornata referendaria della normativa in esame, per una questione di mera coerenza giuridica non può affatto escludersi che quanto in essa disciplinato possa essere esteso alla più rappresentativa tra le Alte cariche dello Stato. O, in alternativa, che possano essere poste al vaglio riforme costituzionali con disposizioni analoghe a quelle della “Legge Severino”.

5. La “tentazione” del presidenzialismo

Come si è avuto modo di analizzare, “populismo” – nella sua accezione “all'italiana” e più negativa102 – può essere, in egual misura, il far assumere forzatamente un significato spregevole ad un'ideologia, il coinvolgere parte del popolo (comunque fuori da determinate dinamiche) nel prendere decisioni di una specifica rilevanza, il lasciar credere che il Presidente del Consiglio sia eletto direttamente dai cittadini, il voler “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, il dare adito all'esistenza di candidature per divenire Capo dello Stato, il far presupporre che un pregiudicato non candidabile sia una sorta di “vittima del sistema”.

In ultimo, il richiedere – “con leggerezza” – l'elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Innanzitutto è evidentemente incoerente (se non ipocrita) che quest'ultima proposta di modifica costituzionale venga esposta a gran voce proprio da Parlamentari, visto che costoro perderebbero quel “diritto di esclusiva” insito (e di gran pregio) nel loro mandato.

Ma è, d'altro canto, un atteggiamento comprensibile dovuto alla spasmodica ricerca di ottenere la fiducia popolare: le masse, infatti, appaiono disaffezionate nei confronti della classe dirigente; conseguenza della diffusa corruzione e del discredito nei confronti dei partiti politici tradizionali (con sempre meno iscritti e visti come autoreferenziali, lontani dai bisogni della gente, privi di un'identità definita, non più collante tra “quarto stato” – recuperando il titolo di una famosa opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo – e istituzioni)103.

Sfiducia dovuta anche a notizie di un particolare tenore e alle statistiche: nel Parlamento italiano, ad esempio, i c.d. “cambi di casacca” (locuzione collettiva che specifica l'iscrizione di un Deputato o Senatore in un altro gruppo parlamentare diverso da quello iniziale) dall'inizio della XVIII Legislatura sono stati ben 274104, anche se, ad onor di verità, molti sono passati al Misto (5 Stelle) o sono espressioni di altri partiti comunque della stessa area (taluni fuoriusciti del PD per fondare Italia Viva, sempre nella corrente di centro-sinistra)105.

A fronte di questo status, la tattica più produttiva per riportare la politica attiva tra gli interessi dei cittadini è, evidentemente secondo alcuni, quella di garantire loro la “democrazia diretta”, in ossequio – eccessivamente generalizzato ed esasperato – alla “sovranità popolare” di cui all'articolo 1 della Costituzione.

A tal proposito è indispensabile ricordare – a dispetto delle dottrine utopiste di Rousseau abbondantemente supra citate – che la sovranità appartiene, sì, al popolo (e risiede in esso), ma dev'essere «esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione». Secondo il commento alla Legge fondamentale, infatti, «tutti i poteri emanano dal popolo»106, ma sono “mediati” poiché sottoposti a vincoli talvolta stretti, “eterni”107. Il popolo, quindi, va considerato come la “fonte” della suprema potestà di Governo; “fonte”, comunque, vincolata indissolubilmente ed imprescindibilmente a tutta una serie di norme che realizzano la società democratica su cui insiste e da non intendersi in una vuota formula come “governo del popolo” od “in nome del popolo”108.

Da qui un altro paradosso: invocare semplicisticamente una “democrazia diretta” totalizzante, di impossibile instaurazione in sistemi complessi per le ragioni già ampiamente curate, causerebbe altresì l'inutilità implicita dei partiti (compresi quelli che la esigono), con il rischio che si possa mutare in una tendenziale anarchia – in cui, magari, ognuno potrebbe votare persino se stesso...

Per non sfociare nell'illogicità, ovviamente, i partiti avrebbero in ogni caso tutto l'interesse a sopravvivere e mostrare la proprio utile esistenza. Di conseguenza, anche nel caso di elezione diretta del Presidente della Repubblica, non verrebbe imposto un “nome casuale”, bensì sarebbe portata avanti una candidatura studiata “a tavolino” da una singola lista ovvero condivisa all'interno di una data coalizione109.

In tal caso, dunque, è pressoché certo che un Presidente della Repubblica “eletto direttamente dal popolo” subisca comunque l'influenza mediata e premeditata dei partiti. Pertanto costui perderebbe le caratteristiche di imparzialità, indipendenza, equidistanza e neutralità assegnategli dai Costituenti. Nella loro intenzione, infatti, «Egli rappresenta ed impersona l'unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione ed influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica»110.

In forza di queste parole, mai un Capo di Stato può essere collegato ad una parte politica ovvero esserne organo di indirizzo. Viceversa sarebbe divenuto qualcosa che il Legislatore non avrebbe voluto affatto auspicarsi: una sorta di “marionetta” manovrata da un determinato gruppo partitico (sia esso fondato su personalismi o ideologie); insomma «l'evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre costituzioni»111.

In opposizione alla teoria ivi esposta, si può addurre come esempio concreto l'elezione a Presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, di fatto voluta e trovata – come sottolineato in precedenza – da una maggioranza ben precisa e “schierata”. A conclusione di un discorso del 2009 (quindi nel corso del suo primo mandato), l'allora Capo di Stato illustrò parte della sua storia personale atta a dimostrare la prevalenza del ruolo super partes rispetto alla politicizzazione dello stesso, smentendo così ogni obiezione in merito. Non per altro, con largo consenso (al sesto scrutinio, con 738 voti su 1007 degli aventi diritto), Napolitano venne poi riconfermato Presidente nel 2013.

Quest'ultimo ha avuto «una storia non rimasta eguale al punto di partenza, ma passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni. Da quel contesto [partitico, n.d.a.]» – prosegue l'allora Presidente nel discorso ivi riportato in prima persona – «mi sono via via distaccato quanto più ero chiamato ad assumere ruoli non di parte, a farmi carico dei problemi delle istituzioni che regolano la nostra vita democratica, i diritti e i doveri dei cittadini. L'approccio partigiano, naturale in chi fa politica, è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia. Tutti i miei predecessori – a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi – avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere. Così come ci sono stati Presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di Governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quella del Capo dello Stato “potere neutro”, al di sopra delle parti, fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell'Occidente democratico»112.

Contrariamente alle altre democrazie occidentali citate da Napolitano, però, il Presidente della Repubblica Italiana non viene eletto direttamente dal corpo elettorale. Negli Stati Uniti d'America, dall'entrata in vigore della sua Costituzione (1787), sussiste un procedimento “di secondo grado” (l'elezione dei “Grandi Elettori” a novembre di ogni quattro anni che, a loro volta, eleggeranno il Presidente a gennaio); in Francia, dall'introduzione della Constitution dopo la crisi algerina e l'instaurazione della Cinquième République (1958), è addirittura eletto a suffragio universale diretto. In entrambi gli Stati, il Capo dello Stato detiene anche il potere Esecutivo (che in Italia spetta al Governo ed è in capo al Presidente del Consiglio).

Nella Penisola si è optato per un sistema tipico delle Repubbliche parlamentari (USA e Francia possono difatti definirsi rispettivamente “presidenziale” e “semipresidenziale”). Lunghe furono le discussioni per giungere a questa scelta: in primis si valutò che il compito essenziale del Presidente della Repubblica fosse quello di risolvere le crisi di Governo: nominando un Presidente del Consiglio adeguato, di regola espressione della posizione politica maggioritaria, ovvero – come extrema ratio – sciogliendo le Camere.

In seconda istanza, l'Assemblea si pose il problema del sistema utile ad eleggere il Capo dello Stato (e, correlativamente, scegliere il “tipo” di Repubblica): se con votazione popolare diretta (come in Francia o, “parzialmente”, negli USA) o da parte del Parlamento.

Venendo fuori da anni di dittatura, si temeva che, qualora investito del potere direttamente dal popolo, il Presidente poteva essere indotto ad assumere pericolosamente una determinata posizione politica: d'altronde sarebbe stato rivestito di un prestigio tale da superare quello del Parlamento e mettere in atto gesti autoritari.

D'altro canto, non si poteva tenere il Presidente della Repubblica “prigioniero delle Camere” facendolo eleggere sic et simpliciter da esse; viceversa non avrebbe avuto più la possibilità di risolvere le crisi, ad esempio sciogliendo il Parlamento. Quindi, per ovviare alla problematica presente su entrambi i fronti, venne sì preferito il sistema parlamentare, ma allargando la platea ai delegati regionali al fine di garantire al Capo dello Stato un'investitura comunque più ampia (e che sarà più marcata post riforma del 2020).

Non a caso, come precisato ab initio, per la sua elezione è altresì disposta una maggioranza dapprima qualificata e poi assoluta (difficilmente raggiungibile da un solo partito) ed è stabilito lo scrutinio segreto113.

Con queste premesse basilari (ma, evidentemente, non abbastanza) di diritto costituzionale, si deduce che richiedere la modifica del sistema elettorale per il Presidente della Repubblica sovvertirebbe una parte rilevante della Carta così come definita.

In realtà, nel 1997, nel corso della XIII Legislatura, si istituì la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (definita in gergo giornalistico “bicamerale”), composta da 35 Deputati e 35 Senatori rappresentanti tutti i gruppi presenti tra Montecitorio e Palazzo Madama, presieduta da Massimo D'Alema (all'epoca segretario del PDS ed Onorevole)114.

Tra le varie modifiche che avrebbero rivoluzionato la seconda parte del testo della Carta, era prevista anche quella riguardante il Presidente della Repubblica. Sarebbe stato eletto a suffragio universale e diretto; la sua età minima abbassata a quaranta anni e il suo incarico sarebbe durato un massimo di sei anni. Le candidature sarebbero state presentate (verosimilmente onde evitare derive “anarchiche” e per giustificare, come esposto in precedenza, l'esistenza dei partiti) «da un gruppo parlamentare presente in almeno una delle Camere o da cinquecentomila elettori, o da Parlamentari, rappresentanti italiani nel Parlamento Europeo, consiglieri regionali, presidenti di Province e sindaci» e la campagna elettorale svolta in pieno regime di par condicio mediatica. Ad essere eletto, il candidato che avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. Se nessun candidato avesse raggiunto la predetta quota, sarebbe stato disposto un ulteriore turno di ballottaggio, quattordici giorni dopo, tra i due contendenti comunque più suffragati in prima istanza.

Dopo un teso dibattito sull'opportunità di scelta tra una forma semipresidenziale più in stile francese o una tesa a sbilanciare il potere a favore di un Primo Ministro, si optò in favore della prima ipotesi.

Altre variazioni formali erano previste dallo studio; tuttavia, in virtù della decisione di cui sopra, nessuna avrebbe eccessivamente depauperato il ruolo spettante al Presidente. Tra alcune, degne di nota, la normativa atta a regolare un eventuale conflitto di interessi tra affari pubblici e privati e la regolamentazione sulla responsabilità penale per atti diversi da quelli compiuti nell'esercizio delle sue funzioni115.

Per motivi di divergenze, soprattutto politiche, la “bicamerale” fallì e con lei il progetto di riforma. Rimasero in eredità, solo quattro anni dopo e solo in seguito ad un referendum costituzionale, unicamente le modifiche relative al Titolo V.

A fasi alterne si è parlato, nel corso degli anni, di un ritorno al presidenzialismo. Ma senza troppa convinzione, né continuità, da parte dei partiti o dei loro membri.

La questione, come visto, è tornata ad accendersi dopo le presidenziali del 2022. In verità, però, un folto gruppo di parlamentari di Fratelli d'Italia aveva già presentato nel 2018 un disegno di riforma costituzionale116, fondandone la ratio non su un'esigenza di rinnovo completo delle forme di Stato e di Governo per responsabilizzare il popolo sovrano, in virtù di un richiamo alla necessità di tradurre anche sul piano costituzionale le trasformazioni già indotte nel circuito di legittimazione democratica (intento, questo, del Legislatore del 1997), ma sulla “incapacità decisionale” (sic) delle due Camere.

Negli intenti, verrebbero rivoluzionati tredici articoli, ossia quasi tutti quelli relativi al Presidente della Repubblica e al Consiglio dei Ministri, nonché l'art. 104 circa la presidenza del Consiglio Superiore di Magistratura (devoluta al Presidente della Corte di Cassazione)117.

Di fatto, la modifica è completamente ispirata dal testo della “bicamerale”, seppure con talune differenze: l'incarico del Presidente della Repubblica durerebbe cinque anni e non sei, peraltro senza possibilità di rielezione; basterebbero duecentomila elettori per presentare una candidatura in luogo di cinquecentomila; verrebbe nominato al primo turno con il raggiungimento della maggioranza semplice.

Inoltre gli sarebbero imposti ulteriori limiti nei confronti del Parlamento (se la scadenza delle Camere cade nell'ultimo semestre del suo mandato, la loro durata è prorogata118; né può scioglierle prima di un anno dal loro rinnovamento) e diventerebbe anche Capo (politico) dell'Esecutivo con il ripristino della figura del Primo Ministro (che sostituisce il Presidente del Consiglio) il quale, sostanzialmente, è un “mero esecutore” della politica del Presidente della Repubblica.

Di base la riforma sembra voler ricalcare, oltre al disegno del 1997 e seppur con qualche differenza formale, il modello semipresidenziale francese. Con l'istituzione della carica (fortemente limitata rispetto alla vigente) del Primo Ministro, già tentata invano e con l'assegnazione di poteri diversi in altri progetti di modifica della Costituzione, si eviterebbero ambiguità circa l'effettiva reverenza nei confronti del Presidente della Repubblica – che non deterrebbe più, da par suo, la semplice moral suasion –: inequivocabilmente il Premier ne sarebbe una “costola”, una “testa di legno”. Tuttavia le Camere, delegittimando il solo Primo Ministro, a loro volta – seppur implicitamente – andrebbero ad esautorare la competenza del Capo dello Stato: l'incongruenza è netta119.

Vi sarebbe anche da obiettare sull'intrinsecità del voto popolare tout court e destinato ad una maggioranza semplice già dalla prima chiamata: basti paragonare solo la votazione del Presidente della Repubblica, così come proposta, ad una tornata referendaria ai sensi dell'art. 75 Cost.: nel secondo caso, infatti, se alle urne non si presenta il 50% + 1 degli aventi diritto, l'esito (sia esso favorevole o contrario) non avrà alcuna efficacia data l'irrisoria rappresentatività del campione di popolo che si è espresso circa il mantenimento o meno di una norma120.

Sempre a tal proposito, come esplicato in più riprese, l'alto tasso di astensionismo (dovuto alla tangibile sfiducia popolare nei confronti del mondo politico) potrebbe portare ad eleggere un Presidente della Repubblica ancora meno “condiviso” (ricordando che, già ab origine, il nome viene de facto imposto all'elettorato da esponenti o gruppi partitici e, per pura logica ed opportunità, difficilmente indipendente o distante dal loro mondo). Considerando il graduale calo dell'affluenza alle urne nel quadriennio 2018-2021121, non si può escludere che tale figura possa essere espressione di una reale minoranza invece che di una maggioranza condivisa122.

Trattasi di un paradosso in realtà solo apparente: un Presidente della Repubblica nominato da tutte le forze presenti in Parlamento e perfino dalle minoranze simboleggiate in primis dai delegati regionali (capaci, nel loro insieme, di rappresentare l'intera cittadinanza italiana) garantirebbe la scelta certa di una figura pluralista e meno di parte, priva di legami o condizionamenti derivanti da una sua eventuale esponenza.

6. Conclusioni

Dato il lungo confronto tra i Costituenti per studiare e giungere al modello compromissorio della Repubblica parlamentare così come sancita, è forse azzardato modificare “in corsa”, ieri come oggi, un sistema ben radicato dopo oltre settanta anni e senza alcuno sconvolgimento politico tale (anzi...) da poter sostenere l'opportunità di una simile riforma. Va da sé che le Repubbliche occidentali a trazione presidenziale o semipresidenziale di regola sono sorte in seguito a particolari vicende storiche iniziate “fuori dai palazzi” ovvero all'introduzione di nuove Costituzioni (e non in virtù di mere modifiche delle medesime).

Dovendo toccare più canoni costituzionali (soprattutto in correlazione alla forma di Governo; ovviamente repubblicana – poiché “intoccabile” –, ma con una profonda mutazione insita e che andrebbe ad intaccare quantomeno le figure dei Presidenti della Repubblica e del Consiglio), sarebbe altresì ragionevole, anche alla luce di pregressi fallimenti, tentare preventivamente e nuovamente un dialogo pluri-partizan invece di intraprendere una strada unilaterale, né maggioritaria, né consensuale e né, di conseguenza, realmente democratica, peraltro colma di ostacoli proibitivi in fase di proposizione.

Cambiare nettamente una forma di Governo, trasformando inoltre il Presidente della Repubblica in una figura prettamente politica e difficilmente super partes, non può equivalere all'introduzione di principi oggettivi – magari “scoperti” ed accettati dal sistema internazionale – oppure alla correzione di vocaboli per adattarli ad un linguaggio meno arcaico.

In conclusione, risulta alquanto discutibile il dover invocare la sovranità popolare in vece del Parlamento. “Cavalcando le onde” del malcontento o del dissenso (specie contro il Governo) si illude lo stesso popolo di devolvergli un potere, di dargli il prestigio che meriterebbe come da Costituzione, in nome della “sovranità”, ma omettendone tante sfaccettature. Potere delicatissimo e gravoso, quello del voto diretto verso il Presidente della Repubblica, che muterebbe un sistema rendendolo tutt'altro che oggettivo ed affidabile (soprattutto nei modi e nei tempi prossimi al 2022).

Potere che, essendo delicatissimo e gravoso, dovrebbe essere gestito dall'esperienza e dalla responsabilità onorevole della classe dirigente. La quale, dietro le quinte, continua a mantenere i fili portando all'attenzione degli elettori nomi comunque figli delle singole espressioni.

La stessa classe dirigente (rectius: parte di essa) che, mostratasi incapace di risolvere situazioni critiche (anche in più riprese), si avvale della scelta più comoda e pilatesca: “lavarsene le mani”, lasciandole sporcare ai comuni cittadini.

Viene presentata questa propria “debolezza” con l'alibi di una riforma epocale e senza precedenti a favore di “popolo”, in ogni senso. La sua “sovranità” è letta alla stregua di uno slogan e non dell'assoluto principio che rappresenta. Trattasi di una palese mancanza di rispetto, un inganno: uno schiaffo, nei confronti proprio del popolo, spacciato per carezza.


Note e riferimenti bibliografici

1cfr. art. 83, comma 2, Cost.

2Il secondo comma di detto articolo citava testualmente: «Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Tale lettura lasciava aperta, a discrezione di ogni Presidente, la possibilità per ciascuno di nominare fino a cinque senatori a vita, oltre a quelli già in carica. Facoltà, quest'ultima, esercitata solo da Sandro Pertini (che nominò Leo Valiani, Eduardo De Filippo, Camilla Ravera, Carlo Bo e Norberto Bobbio) e Francesco Cossiga (Giovanni Spadolini, Giovanni Agnelli, Giulio Andreotti, Francesco De Martino, Paolo Emilio Taviani).

L'articolo 3 della L. Cost. 19 ottobre 2020, n. 1, ha previsto la sostituzione dello stesso con la seguente formulazione: «Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque», comprensivi anche degli eventuali Capi di Stato “emeriti” che permangono senatori a vita di diritto come previsto dal primo comma – immutato – del medesimo articolo.

3Dal latino senex, ossia “anziano”.

4Ex multis, P. COLASANTE. La riduzione del numero dei parlamentari, fra merito e legittimità costituzionale, in federalismi.it, 2020, 12, pp. 50-56.

5cfr. Sent. Corte Cost. 15 gennaio 2013, n. 1.

6Ex multis, T. MARTINES. Diritto Costituzionale, Giuffrè ed., Milano, 2003, pp.289-291; P. BARILE. Corso di Diritto Costituzionale, CEDAM, Padova, 1964, pp. 118-120.

7 T. FENUCCI. Riflessioni sul populismo, in federalismi.it, 2019, 14, p. 1.

8 S. CURRERI, G. STEGHER. I partiti politici in Italia, in federalismi.it, 2018, 23, pp. 12-14.

9Dall'Enciclopedia treccani.it: «Guerrigliero che opera, per lo più isolato o in piccoli gruppi, contro forze regolari, soprattutto nei centri abitati che il nemico cerca di occupare o sta evacuando […]. Nel linguaggio politico e giornalistico, rappresentante di un partito o di uno schieramento che, in votazioni a scrutinio segreto, vota di nascosto in modo diverso da quello concordato o ufficialmente deciso dal proprio partito o schieramento: “il Governo è caduto per il voto contrario (o per l'astensione) di un gruppo di franchi tiratori” (calco del fr. franc-tireur)».

10Per le vicende specifiche relative ai singoli Presidenti della Repubblica Italiana, è possibile consultare l'archivio storico del sito del Quirinale.

11 S. CURRERI, G. STEGHER. I partiti politici in Italia, op. cit., pp. 12-14.

12Articolo da ANSA.it del 2 gennaio 2022 – Quirinale: da Cetto al Conte Mascetti, tutti i 'voti-burla'.

13Articolo da ANSA.it del 7 febbraio 2013 – Grillo: 'Apriremo il Parlamento come una scatoletta'.

14Comunicato dal blog ufficiale del MoVimento 5 Stelle del 28 febbraio 2020, a firma dell'allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

15Programma del MoVimento 5 Stelle per le elezioni politiche del 2013 .

16Nome con cui i mass media hanno indicato la L. 3 novembre 2017, n. 165, traendo ispirazione dal cognome del suo relatore, Ettore Rosato.

17Comunicato dal blog ufficiale del MoVimento 5 Stelle del 4 luglio 2014.

18AA. VV.. La intricata vicenda della formazione del governo Conte, in La rivista del Gruppo di Pisa, 2018, 3, pp. 11-27.

19M. MANDATO, G. STEGHER. Dal contratto di Governo all’accordo politico: cronaca della resa del primo Governo bipopulista perfetto, in Nomos, 2019, 2.

20M. MANDATO, G. STEGHER. Dal Governo giallo-verde al Governo giallo-rosso: combinazioni cromatiche delle coalizioni di Governo nel perdurante quadro politico frammentato, in Nomos, 2019, 3.

21M. MANDATO, G. STEGHER. La ripartenza dell’Italia nella perdurante emergenza sanitaria, in Nomos, 2020, 2,

22B. CARAVITA. Un tornado silenzioso, in federalismi.it, 2021, 6, pp. IV-VIII.

23Articolo da AGI.it del 19 maggio 2021 – Mattarella: 'Sono vecchio, tra otto mesi potrò riposarmi'.

24Articolo da ANSA.it del 15 gennaio 2022 – Quirinale, centrodestra: 'Berlusconi figura adatta'. Pd: 'Delusi e preoccupati'. M5s: 'Irricevibile'.

25B. CARAVITA. Davanti ad un mondo che cambia chi è più pericoloso tra Trump e Zuckerberg? Alla ricerca di una risposta che penetri nei meccanismi che governano la nostra vita in rete, in federalismi.it, 2021, 1, p. VIII.

26cfr. Sent. Cass. 1 agosto 2013, n. 35729; dep. 29 agosto 2013.

27Articolo da ANSA.it del 23 gennaio 2022 – Berlusconi rinuncia al Colle: 'Ma Draghi resti premier'.

28Il famoso corridoio di Palazzo Montecitorio, sede della Camera dei Deputati, in cui storicamente gli onorevoli si intrattengono o dialogano con la stampa.

29Articolo de L'Espresso del 18 gennaio 2022, a firma di Susanna Turco – Giuliano Amato, Silvio Berlusconi e il fattore 'non ho l'età' .

30Articolo de Il Fatto Quotidiano del 21 gennaio 2022, a firma di Valentina Petrini – Volere ‘una donna al Quirinale’ non significa niente. La verità è che non sapremmo fare nomi.

31Articolo da ADNKronos.com del 24 gennaio 2022 – Quirinale 2022: tra i voti Alberto Angela, Amadeus e Lotito.

32Articolo da ANSA.it del 29 gennaio 2022 – Quirinale: il film della giornata di ieri. Casellati non ce la fa.

33Articolo da ANSA.it del 29 gennaio 2022 – Quirinale: A Mattarella 387 voti, 64 a Nordio.

34Articolo da ANSA.it del 28 maggio 2018 – Governo, Colle stoppa Savona, salta Conte. M5S evoca impeachment.

35Articolo da ANSA.it del 30 gennaio 2022 – Mattarella bis, terremota i partiti e spinge il Governo.

36Articolo da ANSA.it del 31 gennaio 2015 – Salvini: Mattarella? No nostro Presidente.

37Articolo da ADNKronos.com del 24 gennaio 2022 – Quirinale 2022: alla Camera apre il seggio drive-in per i positivi.

38Articolo da ANSA.it del 29 gennaio 2022 – Quirinale: Mattarella Presidente rieletto con 759 voti.

39Nota sul sito del Quirinale del 29 gennaio 2022.

40Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento, 3 febbraio 2022.

41Articolo da ADNKronos.com del 31 gennaio 2022 – Renzi: "Prossima legislatura riforma per elezione diretta Capo Stato".

Articolo da ANSA.it del 29 gennaio 2022 – Quirinale: Meloni, intensificheremo sforzi per presidenzialismo.

Articolo de La Repubblica del 7 febbraio 2022 a firma di Ezio Mauro – La falsa ricetta del presidenzialismo.

42Il riferimento è ai messaggi alle Camere da parte del Presidente Antonio Segni datato 16 settembre 1963 e del Presidente Giovanni Leone datato 15 ottobre 1975.

Nel merito, articolo de Il Fatto Quotidiano del 2 febbraio 2021 – Bis al Quirinale? Mattarella ricorda Segni e la sua proposta sulla 'non rieleggibilità del Presidente della Repubblica'.

Articolo de Il Messaggero dell'11 novembre 2021 – Quirinale, Mattarella e il secondo mandato: «Anche Leone chiese non rieleggibilità del Presidente della Repubblica».

43cfr. artt. 56, 58 e 60, comma 1, Cost.

44cfr. art. 60, comma 2, Cost.

45cfr. art. 88, comma 1, Cost.

46cfr. art. 3, L. Cost. 9 febbraio 1963, n. 2

47G. U. RESCIGNO. Il Presidente della Repubblica, Zanichelli, Bologna, 1978, p. 63.

48G. U. RESCIGNO. Il Presidente della Repubblica, op. cit., pp. 64-68.

49cfr. art. 88, comma 2, Cost.

50cfr. art. 61 Cost.

51cfr. art. 85, comma 3, Cost.

52Si rinvia a G. U. RESCIGNO. Il Presidente della Repubblica, op. cit., pp. 69-79.

53A titolo esemplificativo, oltre alla modifica circa il numero di Deputati e Senatori di cui si è trattato e susseguente L. Cost. 18 ottobre 2021, n. 1, che ha abbassato da 25 a 18 anni l'età utile all'elezione dei Senatori, con L. Cost. 11 febbraio 2022, n. 1, è stata approvata l'integrazione del principio della tutela ambientale negli artt. 9 e 41 della Carta. Nella fattispecie, nell'articolo 9 («[1.] La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. [2.] Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») sarà introdotto il terzo comma: «Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni. La Legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Nell'articolo 41 verranno inseriti i riferimenti a salute e ambiente (in corsivo): «[1.] L'iniziativa economica privata è libera. [2.] Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. [3.] La Legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».

54cfr. L. Cost. 4 novembre 1991, n. 1.

55G. U. RESCIGNO. Il Presidente della Repubblica, op. cit., p. 81.

56M. GIANNETTO. Forma di Governo e Presidente della Repubblica nel progetto di Costituzione dell’Assemblea costituente, in S. CASSESE, G. GALASSO, A. MELLONI (a cura di), I Presidenti della Repubblica, Il capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, vol. II, ed. Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 1021-1033.

57G. SCACCIA. La storica rielezione di Napolitano e gli equilibri della forma di governo, in Rivista AIC, n. 2/2013.

58È doveroso precisare che, nell'(eventuale) impossibilità pratica e tempestiva di rivalutare i criteri per la ridefinizione dei collegi e delle modalità di elezione, con apposita L. 27 maggio 2019, n. 51, il Legislatore ha previsto testualmente le “disposizioni per assicurare l'applicabilità delle Leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari”.

59Articolo da ADNKronos.com del 3 febbraio 2021 – Governo, Noci (Polimi): "Draghi è uomo giusto, personalità più alta del Paese”.

Articolo da Time.com del 15 settembre 2021 – The 100 most influential people of 2021-Mario Draghi.

60Dichiarazione del Presidente della Repubblica del 29 gennaio 2021.

61Il c.d. “Manuale Cencelli” (locuzione che trae l'origine dal cognome di Massimiliano, funzionario della DC negli anni '60) identifica, nel gergo giornalistico e dispregiativo, una determinata logica di spartizione politica, e meno meritocratica, degli incarichi in proporzione al peso dei singoli partiti.

Articolo da ADNKronos.com del 12 febbraio 2021 – Governo Draghi, Cencelli: “lista ministri come mio manuale”.

Articolo da L'Espresso del 12 febbraio 2021 a firma di Susanna Turco – Il Governo Draghi da manuale Cencelli: molto equilibrio, poche donne.

62G. CAVAGGION. La formazione del Governo Draghi: ritorno alla “normalità costituzionale” o conferma delle nuove prassi?, in federalismi.it, 2021, 13, pp. 38-41, 44-45.

63cfr. art. 84, comma 2, Cost.

64cfr. artt. 92, comma 2, e 93 Cost.

65cfr. art. 8, L. 23 agosto 1988, n. 400.

66Articolo de La Repubblica del 31 ottobre 2021 a firma di Michele Ainis – Draghi al Colle: cosa succederebbe con l'elezione.

67A tal proposito, si rimanda alla lettura di G. U. RESCIGNO. Il Presidente della Repubblica e le crisi del sistema (relazione; Roma, 26 novembre 2010) .

68cfr. Relazione del Presidente della Commissione per il Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (M. Ruini) del 6 febbraio 1947, p. 12.

69Ex multis, F. R. DE MARTINO. Il Presidente della Repubblica e il potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Costituzionalismo.it, 2018, 1, pp. 112-115.

70G. U. RESCIGNO. Il Presidente della Repubblica, op. cit., p. 181.

71B. CARAVITA. Social network, formazione del consenso, istituzioni politiche: quale regolamentazione possibile?, in federalismi.it, 2019, 2, pp. 2-3; B. CARAVITA. Davanti ad un mondo che cambia chi è più pericoloso tra Trump e Zuckerberg? […], op. cit., p. VIII.

72G. MAZZOLENI. La comunicazione politica, ed. Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 124-125.

73Si rinvia, per approfondimento, a L. ELIA. La Costituzione aggredita, ed. Il Mulino-AREL, Bologna, 2005.

74Nel giugno 2015, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Culture dei Media” presso l'Università degli Studi di Torino, il noto semiologo sostenne pubblicamente: «[I social media] danno diritto di parola a legioni di imbecilli i quali prima parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di [vino] rosso e quindi non danneggiavano la società […]. Gente che di solito veniva messa a tacere [...], adesso, invece, ha lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel […]. È l’invasione degli imbecilli».

75T. FENUCCI. Riflessioni sul populismo, op. cit., pp. 5-7.

76B. CARAVITA. Social network, formazione del consenso, [...], op. cit., pp. 3-5; B. CARAVITA. Davanti ad un mondo che cambia chi è più pericoloso tra Trump e Zuckerberg? […], op. cit., p. IX.

77Secondo alcuni studi, un simile richiamo costituirebbe «una sorta di forzatura, soprattutto quando si tende a dare a una minoranza del voto popolare un valore predominante, senza tener conto che, per dare un senso a qualunque voto, è di solito ritenuta necessaria la partecipazione di un numero minimo di votanti, al di sotto del quale il voto è privo di significato» (cfr. T. FENUCCI. Riflessioni sul populismo, op. cit., pp. 11-12).

78Più volte, come già esaminato, il MoVimento 5 Stelle ha chiesto agli iscritti della “Piattaforma Rousseau” determinati pareri, tra cui la “ratifica” per i Governi Conte I, Conte II e Draghi.

79G. CAVAGGION. La formazione del Governo Draghi: ritorno alla “normalità costituzionale” [...], op. cit., pp. 47-51.

80N. BOBBIO. Il Futuro della Democrazia, ed. G. Einaudi, 1984-1995, pp. 39-40.

81N. BOBBIO, Il Futuro della Democrazia, op. cit., p. 54

82S. CASSESE. La Democrazia e i suoi limiti, ed. Mondadori, 2017, pp. 19-20.

83C. SBAILO'. Presidenzialismo contro populismo: col mandato imperativo si dissolve la democrazia costituzionale, ma non basta dire “no”, in federalismi.it, 2018, 13, pp. 9-10.

84A completezza della disamina, tale teoria smentisce la profezia del già citato N. Bobbio, il quale sosteneva che «nessuno può immaginare uno Stato che possa essere governato attraverso il continuo appello al popolo […]. Salvo nell'ipotesi per ora fantascientifica che ogni cittadino possa trasmettere il proprio voto ad un cervello elettronico standosene comondamente a casa e schiacciando un bottone» (cfr. N. BOBBIO, Il Futuro della Democrazia, op. cit., p. 54). Nel 1984 – anno di pubblicazione della prima edizione del saggio – l'autore non poteva tuttavia aspettarsi uno scenario così possibilista (seppur comunque prematuro, nonostante il progresso tecnologico) come quello del 2022.

85T. FENUCCI. Riflessioni sul populismo, op. cit., p. 13.

86Ex multis, articolo de La Repubblica dell'11 ottobre 2009 a firma di Ilvo Diamanti – La leggenda del premier eletto dal popolo;

Articolo da AGI.it del 6 dicembre 2016 – Come nasce l'equivoco del Governo eletto dal popolo di Di Battista (e di tanti altri).

87In linea pratica, si tende a dividere il periodo repubblicano in due fasi; quella “partitocratica” o dei “partiti tradizionali” e, dopo il 1993, quella dei leader: se prima erano i partiti a decidere le alleanze e quindi i Governi, si è giunti (anche in virtù delle molteplici leggi elettorali promulgate soprattutto post-1993) ad avere «un rovesciamento delle parti: il popolo sceglie coalizioni e Governo, i partiti scelgono i parlamentari» (cfr. S. CASSESE. La Democrazia e i suoi limiti, op. cit., pp. 23-25).

88cfr. art. 83 Cost.

89cfr. art. 84, comma 1, Cost.

90Tale dinamica, tra l'altro, è ben spiegata – seppur in un contesto satirico – nel film del 2013 “Benvenuto Presidente!” (regia di R. Milani, con C. Bisio e K. Smutniak). Nella finzione, per protesta, l'Assemblea vota il nome di Giuseppe Garibaldi. Esiste un omonimo dello statista, ultracinquantenne e completamente estraneo alla politica, che accetta la nomina al Colle con tutte le presumibili conseguenze.

91Dall'Enciclopedia treccani.it:: «Movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra l'ultimo quarto del sec. XIX e gli inizi del sec. XX; si proponeva di raggiungere, attraverso l'attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria [...], un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, specialmente dei contadini e dei servi della gleba, e la realizzazione di una specie di socialismo rurale basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Per estensione, atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. [...] Forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall'economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione [...]».

92cfr. art. 90 Cost.

93T. MARTINES. Diritto Costituzionale, op. cit., p. 293.

94cfr. art. 28 c.p.

95cfr. art. 87, commi 10 e 11, Cost.

96cfr. art. 135, comma 1, Cost.

97Tramite D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (“Testo Unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della Legge 6 novembre 2012, n. 190 [c.d. Legge Severino]”).

98cfr. artt. 1 e 6, D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235.

99cfr. art. 13, D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235.

100 cfr. art. 15, D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235.

101 Dal sito internet ufficiale del comitato promotore del referendum.

102 Secondo autorevoli fonti, solo un'analisi superficiale può considerare il populismo una “negazione della democrazia”, anzi può essere utile – se ben applicata – anche al progresso e allo sviluppo delle normative vigenti (cfr. C. SBAILO'. Presidenzialismo contro populismo [...], op. cit., pp. 8-12): «in relazione alla contemporanea onda populista o neo-populista, accanto alla radicata visione negativa di fenomeno degenerativo della democrazia, peraltro insita nell'uso del suffisso “-ismo” posto accanto alla radice della parola “popolo”, si potrebbe cogliere anche l'istanza di una complessa e profonda serie di trasformazioni della democrazia […]. La spinta proveniente dai movimenti populisti potrebbe costituire uno stimolo al rinnovamento delle medesime istituzioni anche per le forze politiche tradizionali che nei diversi Paesi si alternano nella gestione del potere. Esse potrebbero così cogliere le istanze popolari veicolate dai movimenti populisti, trasformandole in un momento di crescita e rivitalizzazione del sistema democratico-rappresentativo. Inteso in tal senso, il populismo, da minaccia alla stabilità dei regimi democratici potrebbe diventare indirettamente elemento positivo di cambiamento, svolgere una funzione di stimolo alla crescita culturale, sociale e politica di una nazione e rappresentare un'opportunità di rilancio per gli stessi regimi democratici rappresentativi» (cfr. T. FENUCCI. Riflessioni sul populismo, op. cit., pp. 22-23).

103 T. FENUCCI. Riflessioni sul populismo, op. cit., pp. 1-2.

104 Dal 23 marzo 2018 al 21 dicembre 2021.

105 Per approfondire, articolo da Openpolis.it del 22 dicembre 2021 – I cambi di gruppo in Parlamento nel 2021.

106 cfr. Relazione del Presidente della Commissione per il Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (M. Ruini) del 6 febbraio 1947, p. 4.

107 S. CASSESE. La Democrazia e i suoi limiti, op. cit., pp. 57-58.

108 T. MARTINES. Diritto Costituzionale, op. cit., pp. 98-100.

109 S. CASSESE. La Democrazia e i suoi limiti, op. cit., pp. 18-19.

110 cfr. Relazione del Presidente della Commissione per il Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (M. Ruini) del 6 febbraio 1947, p. 11-12.

111 T. MARTINES. Diritto Costituzionale, op. cit., p. 300.

112 Testimonianza del Presidente Napolitano alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio, 15 ottobre 2009.

113 P. BARILE. Corso di Diritto Costituzionale, op. cit., pp. 118-120; T. MARTINES. Diritto Costituzionale, op. cit., pp. 289-290.

114 Terza, in ordine di successione, dopo le Commissioni Bozzi (1983) e De Mita-Iotti (1993).

115 Per approfondimento, si rinvia ai dossier sul Progetto di revisione della Parte II della Costituzione indicato con le sigle A.C. 3931-A e A.S.2583-A (disponibile sul sito della Camera dei Deputati).

116 Indicato con la sigla A.C. 716 (Proposta di Legge “Meloni”, dal cognome di Giorgia, principale esponente della lista).

117 Suscettibili alla modifica sarebbero quindi gli articoli della Costituzione di cui alla Parte II, Titolo II (eccezion fatta per gli artt. 90 e 91), e della Parte II, Titolo III, Sezione I, oltre al già citato articolo 104.

118 A tal riguardo, va considerato che – presumendo un mandato quinquennale e regolare del Presidente della Repubblica secondo i canoni del Disegno, quindi non contando le eccezioni sinora valutate dai suoi proponenti – le elezioni verrebbero fissate tra i 60 e i 30 giorni prima della scadenza effettiva dell'incarico; l'eventuale ballottaggio verrebbe fissato dopo 14 giorni dal primo turno; le nuove elezioni delle Camere verrebbero svolte entro due mesi dall'elezione del nuovo Capo di Stato: in siffatta ipotesi, si potrebbe andare alle urne per tre volte nell'arco di un paio di mesi.

119 In sede di esame della Commissione (in data 4 marzo 2020), vennero sollevate ulteriori obiezioni alla normativa. Tra le varie: sul modello di riferimento da utilizzare per le elezioni (se con sistema maggioritario o proporzionale), ricordando le problematiche derivate dalla Repubblica di Weimar che condusse all'instaurazione del Terzo Reich; sul cortocircuito istituzionale che si creerebbe tra il Presidente della Repubblica (eletto a suffragio universale e diretto) e la sfiducia delle Camere nei confronti di un Primo Ministro “non gradito” (il Capo dello Stato potrebbe d'impeto e d'imperio sciogliere le Camere); sull'incongruenza della disciplina circa la sfiducia al Governo (da un lato si prevede che ciascuna Camera possa votare la sfiducia al Governo, dall'altro si stabilisce poi che il Governo, formato dopo l'approvazione della mozione di sfiducia, si presenti, entro 5 giorni, ad entrambe le Camere per ottenerne la fiducia: in tal caso non è acclarato quali possano essere le conseguenze nel caso in cui la mozione di sfiducia sia approvata solo da un ramo del Parlamento e come possa conciliarsi tale eventualità con il successivo passaggio alle Camere del nuovo Governo per l'ottenimento della fiducia).

120 Al contrario, si potrebbe contestare che un referendum di rango costituzionale ex art. 138 Cost. non necessiterebbe di alcun quorum: ma la decisione popolare è conseguenza “ultima” della procedura aggravata prevista dal medesimo articolo della Carta e che, lapalissianamente, deve tenere particolarmente impegnata un'intera Legislatura già ben prima di giungere all'extrema ratio dell'espressione diretta ed universale.

121 Si va dall'affluenza pari al 72,93% delle elezioni politiche del 2018 (la più bassa nella storia della Repubblica per il rinnovo del Parlamento) al 54,65% degli aventi diritto per le amministrative del 2021; passando dal 56,09% per le europee del 2019 e dal 53,84% per il referendum costituzionale del 2020 (in concomitanza con le elezioni regionali tenutesi in diversi territori).

122 A giustificazione di detta tesi, si rimanda all'assunto di cui alla nota n. 77.