Nullità per illiceità della causa dei patti prematrimoniali: tra persistenti resistenze e spinte evolutive
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Costanza Bora
Il contributo analizza le peculiarità dei patti prematrimoniali, quali accordi stipulati prima delle nozze o durante la fase del rapporto coniugale con lo scopo di predeterminare gli effetti di un´eventuale crisi coniugale. In particolare, si evidenziano le criticità individuate dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale sono oggi ritenuti invalidi sulla base di eterogenee argomentazioni che si declinano tutte nella tesi della nullità per illiceità della causa, e il possibile superamento di tale assunto da un punto di vista normativo, giurisprudenziale e sociale.
Sommario: 1. Cenni introduttivi: i patti prematrimoniali; 2. Evoluzione giurisprudenziale in merito alla nullità per illiceità della causa degli accordi in vista della crisi coniugale; 2.1 Le pronunce degli anni Ottanta; 2.2 Le pronunce degli anni Novanta; 2.3 Le pronunce degli anni Duemila; 3. Le principali repliche alla giurisprudenza di legittimità; 4. Evoluzioni normative e giurisprudenziali: possibili effetti sui contratti prematrimoniali; 5. Prospettive evolutive; 6. Conclusioni.
1. Cenni introduttivi: i patti prematrimoniali
L’espressione “patti prematrimoniali” è genericamente utilizzata per tutti quegli accordi di carattere preventivo sulla crisi coniugale, stipulati prima delle nozze per prefissare i termini e le condizioni di un’ eventuale dissoluzione del vincolo matrimoniale, così da cristallizzarli prima dell’instaurarsi del vincolo affettivo.
Possono allo stesso modo annoverarsi in tale categoria tutte le intese che siano concluse dalle parti che abbiano già contratto matrimonio. Infatti, la finalità è sempre la medesima: prevenire la lite giudiziaria in merito ai diritti patrimoniali a ciascuno spettanti in ragione dello scioglimento del matrimonio, favorendo una «diminuzione della conflittualità tra i coniugi, i quali perverrebbero alla separazione e al divorzio più agevolmente», nonché una «riduzione dei costi della separazione e del divorzio, poiché entrambi verrebbero pronunciate per lo più con la negoziazione assistita, non essendoci divergenze (salvo se originate dall’adeguamento del patto), con conseguente alleggerimento del carico giudiziario»[1].
La stessa denominazione viene spesso impiegata anche per quelle intese che intervengono tra i coniugi che già versano in una condizione di crisi, ad esempio all’inizio o nel corso del procedimento di separazione o divorzio, per realizzare in via pattizia l’assetto economico e patrimoniale in vista del futuro ed eventuale ma molto probabile divorzio.
In riferimento a questo secondo gruppo di “patti prematrimoniali”, la casistica è sicuramente maggiore rispetto a quella dei patti stipulati prima del matrimonio o della separazione.
Il grande numero di casi di accordi che intercorrono tra separazione e divorzio dipende anche dal fatto che, insieme a pochi altri ordinamenti, il diritto di famiglia italiano prevede ancora il “doppio passaggio” della separazione e del divorzio, assente invece nei paesi anglosassoni, dove spopolano i patti prematrimoniali veri e propri, chiamati prenuptial agreements[2].
2. Evoluzione giurisprudenziale in merito alla nullità per illiceità della causa degli accordi in vista della crisi coniugale
La stessa giurisprudenza ha più volte ripetuto la rilevanza dei «valori di autodeterminazione e di negozialità che anche nel diritto di famiglia si vanno affacciando»[3] e dell’esistenza di «una linea di tendenza nel senso […] dell’espansione della sfera di operatività dell’autonomia privata anche in relazione ai negozi di diritto di famiglia»[4].
Anche la dottrina si trova tendenzialmente d’accordo, sostenendo che l’autonomia dei privati è necessariamente impiegata anche all’interno della famiglia sia quando la vita coniugale si svolge secondo normalità, ma ancor di più per dirimere momenti di rottura e dissidi, potendo bene essere utile per raggiungere una soluzione concordata dei conflitti[5].
Questo dogma non è però riscontrabile in tutti gli ambiti del diritto di famiglia; i patti contemporanei o successivi alle presentazione in giudizio dell’istanza di divorzio sono ammessi, in quanto valgono le stesse prescrizioni esposte con riferimento a quelli relativi alla separazione, distinguendosi limiti e garanzie a seconda che l’accordo tra gli ex-coniugi sia esecutivo, integrativo modificativo ovvero derogatorio dell’accordo divorzile convalidato dal giudice.
Anche quelle stipulazioni che prefigurano l’assetto patrimoniale tra coniugi dopo il divorzio che costoro «hanno già deciso di conseguire, e, quindi non semplicemente prefigurato»[6] sono ritenuti validi senza che possa essere messo in dubbio la disposizione dello status personale.
Medesimo risultato non è pervenuto per quelle intese volte alla predeterminazione delle conseguenze economiche di un futuro ed eventuale divorzio.
La Suprema Corte si è pronunciata solo in due occasioni in merito alla validità di patti conclusi in sede di stipula delle convenzioni matrimoniali in vista di un’eventuale crisi coniugale.
Nella prima pronunzia la Cassazione ha affermato l’efficacia di un accordo stipulato tra due coniugi statunitensi, sposati all’estero e residenti in Italia, diretto a realizzare, ora per allora, la regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista del divorzio.
Precisamente la Corte ha dichiarato l’operatività di tale stipulazione in Italia, senza la necessaria omologazione del Tribunale, fondando le proprie ragioni sul presupposto che dette intese fossero compatibili con l’ordine pubblico internazionale (art. 16, l. 218/ 1995). La Corte continua la trattazione della motivazione specificando che l’efficacia si estende solo alle convenzioni tra stranieri, poiché «il principio operante nell’ordinamento italiano circa l’invalidità di un accordo di tipo preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo per il matrimonio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini italiani»[7].
La casistica riguardante le decisioni dei giudici di legittimità circa la validità dei patti conclusi in sede di separazione consensuale, con i quali gli sposi definiscono gli assetti patrimoniali qualora in futuro scegliessero di divorziare, è invece molto più variegata e si nota un’involuzione del pensiero su questo delicato tema.
Doverosa premessa per comprendere al meglio le prime decisioni della Suprema Corte, è che in un momento precedente, la stessa aveva riconosciuto la facoltà per il coniuge separato di rinunciare all’assegno di mantenimento: era arrivata ad accogliere rinunce di carattere preventivo, celate sotto la veste di atti di riconoscimento di non aver diritto al mantenimento e moderate attraverso la regola rebus sic stantibus.
Esponenti della giurisprudenza ritenevano applicabile questa procedura anche all’assegno di divorzio, con riferimento al quale si era ammesso che la rinuncia producesse efficacia giuridica in merito alla componente risarcitoria e compensativa, mentre per la componente assistenziale si era proposta la revisione in caso di insorgenza di fatti sopravvenuti.
La questione della rinuncia preventiva in tema di assegno divorzile è però diversa rispetto a quella che ha ad oggetto l’assegno di mantenimento del coniuge separato: in quest’ultimo caso la dichiarazione di voler rinunziare è consuetamente realizzata in sede di separazione e tende quindi a collimare sul piano temporale con il relativo procedimento; dall’altro lato la rinuncia può verificarsi anche molto tempo prima rispetto al ricorso al giudice, poiché molto spesso i coniugi avvertono che la vera fase in cui il matrimonio si scioglie è quella della separazione ed è comprensibile che vogliano quindi imprimere in quella sede, se non addirittura prima, un assetto quanto più possibile definito e liquidatorio dei propri rapporti[8].
Il panorama giurisprudenziale di legittimità, seguendo questa prospettiva valevole per l’assegno di mantenimento e di divorzio dagli anni Settanta agli Ottanta sembra orientarsi a sostegno di una tesi possibilista per cui i coniugi ex ante avrebbero potuto predeterminare l’assegno di divorzio[9].
2.1 Le pronunce degli anni Ottanta
L’idea di andare verso una sempre maggior apertura della disponibilità in via preventiva, seppur limitata, dell’assegno divorzile si infrange con la sentenza del 1981 del Supremo Tribunale, leading case a cui tante altre si accoderanno per osteggiare la conformità alla legge dei patti in questione[10].
La pronuncia in esame prendeva in considerazione un accordo che contemplava il diritto, per il marito separato, che l’ammontare dell’assegno dovuto alla moglie per il mantenimento della donna e dei figli restasse immutato per un certo periodo di tempo, anche a prescindere da un eventuale divorzio.
La Corte, dopo aver ribadito l’indisponibilità della componente assistenziale dell’assegno divorzile, poiché espressione del permanere, pur dopo lo scioglimento del vincolo nuziale, di un rapporto di solidarietà economica in cui viene trasfuso ciò che rimane del reciproco soccorso della vita matrimoniale, precisò altresì che gli accordi sull’assegno divorzile intervenuti “prima che il giudizio di divorzio inizi, quando le parti sono ancora coniugi (sia pure separati)”, sono comunque nulli, pur se attengano solamente all’elemento risarcitorio e compensativo[11].
Quest’accordo è stato quindi ritenuto invalido per contrasto con l’art. 5 l. div., che, codificando i criteri per il riconoscimento e la determinazione di un assegno all’ex coniuge, appare un diritto indisponibile anteriormente al giudizio di divorzio, a prescindere che esso contenga una rinunzia o una transazione. Infatti, è fatta salva la facoltà dei coniugi di determinare la modalità di pagamento dell’assegno di divorzio, scegliendo che questo sia corrisposto anche in un’unica soluzione, ma, ribadiscono i giudici di legittimità, non potranno mai incidere sul quantum debba essere liquidato.
Vi era, secondo la Corte, anche la violazione dell’art. 9 l. div., il quale non permette la fissazione di un lasso di tempo entro il quale sia possibile declinare la revisione dell’ammontare dell’assegno.
Il Supremo Collegio passò poi a specificare le origini della nullità per illiceità della causa dei patti ivi descritti: essi condurrebbero ad una pericolosa forma di condizionamento del comportamento delle parti nella futura causa di divorzio, in cui la libertà di scelta e il diritto di difesa dovrebbero trovare la massima protezione, e la commercializzazione dello status di coniuge.
All’interno di questi accordi la Corte rintraccia il «prezzo del consenso al commercio dello status stesso, spinto talvolta al limite del ricatto».
Inoltre, nella motivazione, torna a ribadire l’indisponibilità assoluta dell’assegno di divorzio, fondando tale assunto sull’art. 160 c.c. e sulla presenza del pubblico ministero al procedimento di divorzio: «non avrebbe senso attribuire agli sposi diritti inderogabili, come sancito dall’art. 160 c.c. e, al tempo stesso, consentire loro che, durante il matrimonio o addirittura prima ancora di celebrarlo, essi siano liberi di determinare convenzionalmente contra legem le condizioni di un loro eventuale divorzio, perché in tal modo modificherebbero inevitabilmente il tipo di matrimonio stesso».
Allo stesso modo la necessaria partecipazione del pubblico ministero al giudizio è tale proprio al fine di svolgere un controllo teso a garantire che non venga, attraverso la volontà delle parti, trasgredita la disciplina legale dei diritti inderogabili.
Infine, la Corte conclude affermando che «l’indisponibilità dell’assegno di divorzio ha l’effetto di considerare illegittimo che nel giudizio di divorzio una delle parti possa pretendere di impedire all’altra di provare la verità delle condizioni di fatto alle quali la legge subordina e commisura l’assegno di divorzio eccependo l’intangibilità degli accordi presi dalle parti prima ancora che il giudizio iniziasse, quando essi erano ancora coniugi e di attribuire a tali accordi […] l’efficacia vincolante di un vero e proprio contratto, avente, ai sensi dell’art. 1372 c.c. forza di legge tra le parti e che non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause (tassative) ammesse dalla legge».
Con quest’ultima puntualizzazione, la Corte, nella sua funzione nomofilattica, esprime altresì come ulteriore causa di illiceità, la violazione della clausola rebus sic stantibus.
Siffatta tesi viene ripresa analiticamente da ulteriori sentenze che ne confermano l’orientamento restrittivo.
Esplicativa di questo trend è infatti una sentenza della Corte di Cassazione, pronunciata nello stesso anno, secondo cui “l’accordo stipulato fra i coniugi anteriormente alla instaurazione del giudizio di divorzio, nella specie in sede di separazione consensuale, per l’assegnazione del godimento della casa di abitazione ad uno di essi, non è vincolante per il giudice che pronuncia lo scioglimento del matrimonio”[12].
Nella stessa pronuncia la Corte si premura anche di chiarire che la questione di legittimità costituzionale dell’art 5, l. n. 898/70, in riferimento all’ art. 3 Cost che enuncia il principio di uguaglianza, sia manifestamente infondata. Sul fatto che la norma ordinaria, ove letta nel senso che comporterebbe la perdita di efficacia delle convenzioni patrimoniali stipulate fra i partners prima dell’instaurazione della causa di divorzio, andrebbe a causare una disparità di trattamento rispetto alle preesistenti stipulazioni in regime di separazione, ammesse dalla legge, i giudici rispondono che la differenza del regolamento economico tra coniugi separati e divorziati trova giustificazione proprio nella diversità dei due status di coniugati prima e di divorziati poi.
Passando poi alla motivazione della decisione, avalla l’ipotesi precedentemente descritta per cui, l’accordo preventivo tra coniugi sul regime patrimoniale di un futuro e potenziale divorzio ha sempre lo scopo o, comunque, l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio. Peraltro, questa influenza, non inciderebbe solo sull’accettazione dei profili economici predeterminati, ma, in primo luogo, sulla dichiarazione del divorzio in sé.
Difatti, continua la Corte, nel momento in cui marito e moglie stipulano patti preventivi riferiti all’assetto economico post divortium, essi vedono il divorzio come un avvenimento che è subordinato, oltre che ad un accertamento giudiziale, anche agli assunti e alle prove fornite dalle parti, quindi non come una mera condicio iuris, indipendente dalla loro volontà ma, anzi, ad essa parzialmente connessa. Lasciare che i coniugi facciano affidamento, tutelandoli giuridicamente, su tali accordi, si tradurrebbe nell’agevolare il coniuge a rinunciare ad opporsi all’istanza di divorzio proposta dall’altro.
In questo senso, dunque, oggetto di transazione non sarebbero solo le condizioni economiche derivanti da un particolare stato personale, ma si andrebbero a commercializzare gli status stessi.
L’argomentazione ora riportata condanna fatalmente questi patti all’invalidità per illiceità della causa sempre connessa, esplicitamente o implicitamente, con l’intento di viziare, o quanto meno di limitare, la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio con irreparabile compromissione d’un obiettivo di ordine pubblico.
2.2 Le pronunce degli anni Novanta
L’indirizzo prevalente non si arresta nemmeno negli anni Novanta, nei quali la Corte dichiara la nullità per una pluralità di accordi in vista del divorzio dal carattere eterogeneo.
Si ribadisce l’invalidità per illiceità della causa dell’intesa, conclusa in sede di separazione consensuale, volta a disporre dopo la dissoluzione del matrimonio, il diritto personale di godimento della casa di proprietà di uno nei confronti dell’altro[13], allo stesso modo viene dichiarata nulla l’esclusione o limitazione della facoltà di richiedere la revisione dell’assegno di mantenimento qualora sopraggiungano giustificati motivi[14]. Affermando che il divieto dei patti in questione non riguarda solo quelli che contengono la predeterminazione dell’assegno in ipotesi di divorzio, ma anche tutti quelli parimenti rientranti nel regime patrimoniale del divorzio, sancisce la nullità dell’accordo con cui il marito si impegnava a concedere in godimento alla futura ex-moglie alcuni beni mobili e immobili[15], ancorché si tratti dell’assegnazione della casa familiare o della corresponsione di emolumenti ulteriori rispetto a quelli giustificati da bisogni alimentari[16].
Ancora, viene ritenuto inficiato da nullità l’accordo con cui i coniugi avevano fissato in anticipo la spettanza e l’entità dell’assegno divorzile[17] ed infine quello in cui viene decisa la vendita di un immobile che i coniugi ritengono in comproprietà, con conseguente divisione del ricavato[18].
In alcune di queste ultime pronunce, inoltre, l’indisponibilità dell’assegno divorzile viene avvalorata tramite il riferimento alla nuova legge di modifica del divorzio del 6 marzo 1987, n. 74.
Prima di essa, infatti, l’assegno di divorzio era formato, oltre che dalla componente assistenziale, anche da quella risarcitoria e compensativa, entrambe ritenute disponibili negli accordi di natura non preventiva, ed attribuivano rispettivamente rilievo, ai fini patrimoniali, alla responsabilità per il fallimento del matrimonio e a offrire un compenso per l’impegno personale o apporti di carattere economico prestati in vista del benessere della famiglia, sulla base del contributo dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi.
Le modifiche introdotte hanno conferito all’assegno divorzile carattere prettamente assistenziale, riformando l’art. 5, comma 6, l. div.: venne aggiunto come criterio di valutazione per l’assegno divorzile la “durata del matrimonio” e disciplinato che il versamento dell’assegno al coniuge più debole è obbligatorio qualora questo manchi di mezzi adeguati o sia impossibilitato a procurarseli per ragione oggettive.
Dunque, viene sottratto alla disponibilità delle parti l’intero importo dell’assegno.
Con l’ultima decisione ivi descritta, vengono riunite nell’interpretazione più restrittiva la vicenda della disponibilità dell’assegno in generale e degli accordi preventivi allo scioglimento del vincolo nuziale, e proprio le conclusioni ostative raggiunte dalla giurisprudenza sul primo punto vengono impiegate come ulteriori rationes decidendi per corroborare la decisione, anch’essa negativa, sul secondo[19].
2.3 Le aperture degli anni Duemila
Nel 2000, ha provocato un certo clamore una decisione della giurisprudenza di legittimità[20], che pur riaffermando l’ormai consolidato orientamento della nullità delle intese concluse in sede di separazione con valore inteso dalle parti come vincolante anche per il divorzio, ha però abbracciato la possibilità che l’invalidità di tali intese possa essere fatta valere solamente dal coniuge che avrebbe diritto all’assegno. Sostanzialmente, quindi, gli Ermellini attuano un declassamento da nullità assoluta, a nullità relativa dei suddetti patti.
Pertanto, il principio dell’indisponibilità preventiva dell’assegno di divorzio dovrebbe valere al fine della tutela del coniuge economicamente più debole e l’azione di nullità sarebbe esperibile soltanto da questo e non dal coniuge obbligato.
Il caso riguardava un accordo intervenuto tra marito e moglie, in sede di separazione e in vista del divorzio, con cui le parti avevano pattuito l’importo dell’assegno divorzile, di cui l’obbligato eccepiva l’invalidità, forte del precedente orientamento della Corte, che inaspettatamente, rigettò la domanda[21] dichiarando che non si trattava di un accordo in vista di divorzio, bensì di un atto transattivo.
Fino a questo punto, nulla sembra cambiato dalla rigida visione precedente, poiché la pronunzia in esame non la rinnega, ma, nella prima parte, vi aderisce inequivocabilmente.
I giudici di legittimità continuano esponendo le ragioni di fondo di questo indirizzo: non sarebbero riscontrabili i presupposti per mettere in atto il principio enunciato negli scorsi anni, in quanto “è stato affermato in fattispecie nelle quali gli accordi preventivi erano invocati per paralizzare o ridimensionare la domanda diretta ad ottenere l’assegno divorzile, mentre la fattispecie presenta posizioni rovesciate”.
Dunque, la declaratoria di nullità del patto avrebbe in questo caso favorito il debitore dell’assegno, mentre negli altri, la nullità è stata pronunciata per tutelare la parte più debole che chiedeva, contestualmente alla pronuncia di scioglimento del vincolo, la corresponsione di un assegno, difformemente da quanto precedentemente stipulato.
Anche se tale sentenza rispecchia la linea giurisprudenziale precedente, è indice tuttavia di una lieve incertezza della Corte a sostenere il fondamento giuridico su cui ha sempre poggiato l’invalidità degli accordi in questione; sembra, infatti, potersi dubitare che la nullità possa derivare da illiceità della causa, poiché, se così fosse, l’invalidità dovrebbe colpire inevitabilmente l’intero atto, il quale, di conseguenza, non potrebbe rimanere lecito nei confronti di una parte e illecito nei riguardi dell’altra[22], in quanto comporterebbe un trattamento differenziato nei confronti dei coniugi, in evidente contrasto con l’art. 3 Cost[23].
Proprio per evitare quest’ultima accusa, nella motivazione la Corte si premura di negare qualsiasi relazione, rilevante sul piano formale e funzionale, tra la transazione e la successiva regolamentazione tra i coniugi in sede di divorzio, escludendo che il caso di specie possa essere qualificato come patto in vista dello stesso[24].
Ciò evidenzia come la pronuncia appaia contraddittoria, dal momento che nell’accordo, l’erogazione mensile a favore del coniuge è convenuta “vita natural durante” e quindi, senz’altro questo include anche la fase successiva allo scioglimento del matrimonio.
È sicuramente una sentenza innovativa e foriera di un nuovo dibattito giurisprudenziale, ma non rappresenta il punto di rottura con il precedente orientamento, poiché non affronta il nodo centrale della questione, ossia quello di un reale giudizio sulla liceità della causa, volto ad esaminare, caso per caso, se la prospettiva delle attribuzioni patrimoniali concordate all’atto di separazione possa incidere sulle determinazioni relative allo status di coniuge e sulla condotta delle parti nel giudizio di divorzio[25].
Un’altra pronuncia dello stesso anno, assai meno nota[26], rievocando la riduzione soggettiva della legittimazione all’azione di nullità derivante dalla decisione precedente, ha affermato che tale nullità relativa o anche detta di protezione, non soltanto potrebbe essere invocata unicamente dal creditore dell’assegno, in violazione dell’art 1421 c.c., per cui salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma potrebbe anche essere fatta valere solo nell’ambito del procedimento di divorzio e non in epoca successiva.
Così facendo la Suprema Corte ha introdotto un’impropria forma di prescrizione, in violazione dell’art. 1422 c.c., giacché l’azione per far dichiarare la nullità è imprescrittibile[27].
Tre anni più tardi la Corte di legittimità è intervenuta sotto un altro diverso profilo: in sede di divorzio il marito chiedeva di tener conto, ai fini della corretta determinazione dell’assegno di mantenimento in favore della moglie, del precedente trasferimento immobiliare da lui eseguito a vantaggio della stessa, avvenuto sulla base di un accordo preventivo ove veniva qualificato come «corresponsione dell’assegno divorzile una tantum», così come consentito dall’art 5, comma 8, l. div[28].
I giudici di legittimità da un lato, premettono la nullità dei patti patrimoniali in vista del divorzio, dall’altro, ammettono la possibilità che «le parti, in sede di divorzio, dichiarino espressamente che, in virtù di una pregressa operazione (ad esempio trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum, con conseguente richiesta al giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo», ma precisando che «in assenza di tale inequivoca richiesta è infatti inibito al giudice di determinare l’assegno di divorzio sulla base del riconoscimento dell’avvenuta corresponsione in unica soluzione». La sentenza appare pressoché incoerente, in quanto non si comprende come potrebbe il giudice del divorzio riconoscere l’assegno divorzile ove fosse già stata corrisposta la liquidazione in un’ unica soluzione.
La Corte procede ad esporre la diversa ipotesi in cui i coniugi avessero predeterminato i loro rapporti e, in sede di divorzio, nessuno dei due avesse richiesto l’ assegno di divorzio: in tal caso, all’accordo dovrebbe essere riconosciuta «validità per l’attualità», senza, tuttavia, che si possa negare «che i successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti possano giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra».
Anche qui, risulta arduo cogliere come l’asserzione «ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio deve ritenersi nullo» possa conciliarsi con l’ipotesi riportata dai giudici, dal momento che l’accordo preventivo in vista della crisi coniugale o è valido, o non lo è.
Unica interpretazione plausibile, ammettendo la validità per l’attualità e la sempre possibile successiva revisione di tali stipulazioni tra coniugi, intraprende la strada della piena validità dei patti prematrimoniali, se sottoposti, nei profili di efficacia, al regime della rivedibilità del contenuto in conformità della clausola rebus sic stantibus[29].
Infine, la Corte di legittimità, rimanendo ferma nel negare efficacia agli accordi in previsione del divorzio, ha tuttavia individuato un’ aerea di rilevanza di alcuni contratti stipulabili dai coniugi.
I giudici hanno operato un distinguo tra gli accordi prematrimoniali e alcuni contratti ascrivibili solo latu sensu alla crisi coniugale, non avendo, secondo gli stessi, in quest’ultima la propria causa[30]. La distinzione si basa sulla contrapposizione tra accordi che «intendono regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti», colpiti da nullità in base alla ben nota giurisprudenza di legittimità, e contratti «caratterizzati da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali, in cui la crisi del rapporto viene in considerazione alla stregua di una condizione»: negozi, questi, da ritenersi invece validi.
Nel caso esaminato, per la Suprema Corte la separazione o il divorzio rappresentavano un semplice evento a cui era subordinato il sorgere dell’obbligo del trasferimento, una condizione sospensiva dell’accordo stesso, piuttosto che l’oggetto della transazione.
Sulla base di queste osservazioni e per sostenerne la validità, viene ribadita l’estraneità dell’accordo in questione alla categoria degli accordi prematrimoniali in vista del divorzio, qualificandolo come un contratto atipico, espressione dell’autonomia privata attribuita ai coniugi e nella fattispecie ai nubendi, retto da una propria causa, ossia dal reciproco scambio sinallagmatico di prestazioni proporzionate tra loro[31], indipendente e autonoma rispetto al divorzio.
Dopo averlo denominato come contratto atipico, la Corte, specifica che si tratterebbe di una datio in solutum[32], rispetto alla quale “il fallimento del matrimonio non viene considerato come causa genetica dell’accordo, ma è degradato a mero evento condizionale”. Pertanto il divorzio è un semplice elemento accidentale del contratto, inidoneo ad incidere sul contenuto essenziale dell’accordo[33].
Aldilà dell’apparente persuasività del ragionamento, risulta però difficile affermare che l’accordo de quo sia scevro dalle caratteristiche immanenti degli accordi in vista del divorzio.
Difatti, si deve considerare che è l’andamento della vita coniugale a governare la complessità degli effetti del patto e che l’effetto restitutorio è giustificato dalla crisi coniugale[34]. Sono quindi proprio la separazione e il divorzio che attivano l’interesse a riequilibrare la situazione patrimoniale, che sarebbe invece rimasta squilibrata se non vi fosse stato il venir meno del matrimonio stesso, di conseguenza l’accordo prematrimoniale in esame è stato strutturato dalle parti al fine di produrre gli effetti restitutori solo e a causa dell’eventuale separazione personale[35].
Tra l’altro, seguendo questa prospettiva, la Suprema Corte va da una parte a confermare che gli accordi in vista del divorzio sono nulli poiché incidenti sulla libertà di determinazione del coniuge e per la commercializzazione dello status, ma allo stesso tempo sottopone a valutazione economica questa libertà, sancendo la validità dell’intesa qualora esprima la proporzionalità tra le prestazioni.
La Cassazione, per concludere, per evitare gli eccessi dell’orientamento restrittivo, espunge forzatamente la crisi coniugale dalla causa di talune pattuizioni, che si sostanziano in veri e propri accordi prematrimoniali. La sentenza in esame è assimilabile alle precedenti, poiché tesa a negare la cittadinanza degli accordi prematrimoniali nel nostro Paese, ma almeno essa presenta il pregio di dimostrare che i tempi sono ormai maturi per una decisa inversione di rotta[36].
3. Le principali repliche alla giurisprudenza di legittimità
Si può osservare in chiave critica che le argomentazioni fino ad ora sostenute a fondamento della tesi dell’inammissibilità di accordi in previsione della cessazione del menage coniugale, possono essere superate.
In verità, la dottrina occupatasi dell’argomento è quasi completamente concorde nel ritenere che i patti prematrimoniali siano da reputarsi leciti, dimostrando l’infondatezza delle obiezioni avanzate dalla giurisprudenza e sottolineando i molteplici indici, normativi e di sistema, di un favor dell’ordinamento rispetto alla fattispecie.
Infatti, gli accordi in vista di un eventuale divorzio che determinano le conseguenze derivanti dalla dissoluzione del matrimonio non hanno e non potrebbero avere, quale loro oggetto diretto, lo status coniugale, a meno che, le parti stipulassero accordi come “mi obbligo a non divorziare”, “mi impegno a non chiedere la separazione” o ancora “mi impegno a non far valere alcuna eventuale causa di invalidità del matrimonio”. In questi termini è infatti pacifico che il patto sarebbe contrario ai principi dell’ordine pubblico.
È pertanto necessario, in primis, operare una netta distinzione tra accordi aventi ad oggetto il condizionamento del comportamento delle parti in un giudizio sullo status, giustamente nulli per illiceità della causa, ed accordi diretti solo a concordare preventivamente l’assetto economico dei rapporti conseguenti al divorzio, in cui il condizionamento del comportamento processuale rileva, semmai, alla stregua di un semplice motivo[37].
Alla luce di questa differenza, ai secondi, non esprimendo una mercificazione dello status, non dovrebbe essere negata efficacia in quanto il divorzio, nel nostro ordinamento, prescinde dal consenso del marito o della moglie e costituisce, al contrario, un diritto potestativo esercitabile liberamente da ciascuno dei coniugi (ora neanche più necessariamente mediante il canale processuale[38]) e agevolato anche dalla possibilità di ottenere una pronuncia non definitiva sullo status.
Si attua invero lo schema diritto-soggezione con la relativa proposizione dell’ azione giudiziaria, poiché la volontà del coniuge di sciogliersi dal vincolo matrimoniale rende intollerabile la convivenza ed impossibile la ricostituzione della comunione materiale e spirituale.
È pertanto logico che il diritto di difesa non viene in alcun modo scalfito giacché nel giudizio concernente lo status, l’eventuale volontà contraria di uno dei due coniugi non può mai impedire la pronuncia della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
In conclusione, il sinallagma negoziale con cui i coniugi si limitano a prevedere le conseguenze sul piano economico di un eventuale divorzio, senza predeterminare comportamenti processuali diretti ad influire sull’indisponibilità dello status, devono essere ritenuti validi.
Certamente è innegabile l’ipotesi per cui l’interesse di un coniuge a liberarsi di un legame divenuto ormai intollerabile può essere un fattore che lo spinga a convenire, a favore dell’altro, condizioni ben più vantaggiose di quelle previste a livello legislativo. Questi, a sua volta, allettato dalla proposta, potrebbe decidere di prestare il proprio consenso ad un rapido scioglimento del vincolo matrimoniale.
Ciò detto, anche questa situazione non integra la mercificazione di uno stato personale o il più volte richiamato “prezzo del consenso”, poiché è utile unicamente ad evitare il formarsi del contenzioso e l’applicazione della disciplina processuale più complessa. Con il consenso prestato si attua solo una definizione abbreviata del giudizio di divorzio, che comunque ci sarebbe stato, poiché si tratta di un evento ineluttabile, per cui basta la volontà di uno solo dei partners in presenza dei requisiti previsti dalla legge[39].
D’altronde, a conforto di questa tesi, non si comprende neppure la diversità di trattamento rispetto al momento della celebrazione delle nozze.
Infatti, il legislatore consente al soggetto che voglia contrarre matrimonio di basarsi anche su motivazioni di ordine patrimoniale, che indubbiamente non determinano il consenso, ma lo orientano e sorreggono; anzi, è proprio l’ordinamento che propone ai nubendi lo strumento per attuare ciò, permettendogli di stipulare convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei loro interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita, negando però un’identica libertà nella situazione antagonista[40].
La tesi della nullità dei patti in vista del divorzio appare altresì infondata e irragionevole laddove l’ordinamento riconosce la donazione obnuziale a norma dell’art. 785 c.c.; invero, è lecito che un comportamento personalissimo e da cui deriva un mutamento dello status, come quello della celebrazione delle nozze, possa essere dedotto come condizione di un’attribuzione di tipo patrimoniale, posta in essere anche dagli sposi fra loro.
Infine, con l’introduzione del divorzio su domanda congiunta, le intese economiche e patrimoniali vengono liberamente concordate dai coniugi in un momento antecedente rispetto alla sentenza che accerta lo scioglimento del vincolo matrimoniale, pertanto anche in questo caso sembra che lo scopo del legislatore sia stato quello di rendere la decisione in ordine allo status svincolata da ogni valutazione di tipo economico[41].
Preme poi sottolineare che l’idea stessa di indisponibilità degli status è tuttavia un preconcetto, in quanto il legislatore detta principi normativi che autorizzano la disponibilità di un proprio status, ad esempio nel caso già descritto, in cui la proposizione della domanda non può essere inibita dal coniuge che voglia mantenere il vincolo matrimoniale o, ancora, ciò si rinviene nel diritto della madre a non essere nominata nell’atto di nascita dopo aver partorito, ai sensi dell’art. 30, comma 1, d.p.r. 369/2000.
Lungi dal voler asserire una generalizzazione della disponibilità degli status, quanto ora riportato esplica tuttavia che il principio in questione non sia sempre insuperabile e inderogabile, ma che debba essere valutata la norma di riferimento[42].
Tale prima argomentazione sullo stato personale dei coniugi non opera certo un superamento in merito al problema dell’eventuale contrarietà all’ordine pubblico di siffatti accordi, ma sicuramente dimostra l’esigenza che la violazione delle regole di ordine pubblico venga accertata caso per caso e non, come è avvenuto sino ad oggi, affermata incontrovertibilmente in ragione dell’indisponibilità degli stati personali[43].
Per quanto riguarda la tesi dottrinale in merito all’inesistenza del diritto oggetto del patto che fonda le proprie basi sugli artt. 458 e 2937 c.c., comma 2, la questione è palesemente mal posta, in quanto il divieto di disporre della propria eredità attraverso atto tra vivi e l’indisponibilità della prescrizione prima che sia compiuta hanno un carattere eccezionale, riferito esclusivamente agli istituti in parola. Infatti, il divieto dei patti successori trova fondamento nell’esigenza di tutelare meramente la libertà testamentaria, mentre la regola che ostacola una preventiva rinuncia alla prescrizione si spiega con l’interesse generale su cui si basa l’istituto e con il valore negativo attribuito dal legislatore all’inerzia rispetto l’esercizio di un diritto. In tutti gli altri casi, dunque, prevale il principio generale in materia contrattuale sancito dall’art. 1348 c.c., secondo cui è lecito dedurre in contratto la “prestazione di cose future”, quale, anche, il diritto all’assegno divorzile[44].
Altro fondamentale iter argomentativo per giungere ad affermare la nullità per illiceità della causa dei patti stabiliti prima del procedimento di divorzio, si basa sul fatto che i patti in questione costituirebbero un’inammissibile deroga ai doveri coniugali provenienti dal matrimonio ex art. 160 c.c., in particolare all’obbligo di solidarietà economica.
Ciò risulta una visione forzata e paradossale, poiché, prospettando un’estensione analogica[45], si finisce col postulare una similitudine di due casi inconciliabili, in quanto uno attiene alla fase fisiologica dell’unione coniugale, e l’altro, alla fase in cui questa viene meno[46]. Pertanto l’art. 160 c.c. si deve ritenere applicabile agli atti di disposizione di diritti e doveri nascenti dal matrimonio, e non anche alla determinazione dei rapporti patrimoniali durante il divorzio.
Ciò si evince anche dalla collocazione dell’articolo, poiché il legislatore, disciplinando le conseguenze patrimoniali della crisi coniugale nel capo V, rende evidente che l’art. 160 c.c., dettata in apertura del capo successivo, vale quale disposizione generale alle sole norme ivi contenute. Inoltre, come evidenziato in dottrina, lo stesso uso del termine “sposi”, anziché “coniugi”, depone a favore di una lettura della disposizione come riferita a quei diritti e doveri che si presentano a chi sta per iniziare la propria vita di coppia e non certo a chi sta per dichiararne la fine[47].
Inoltre l’assunto in esame risulta del tutto fuori tempo rispetto alla concezione contemporanea del matrimonio; l’art. 160 c.c. implica il dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia di cui all’art. 143 c.c., durante la fase fisiologica del rapporto coniugale, quale principio di solidarietà, e quindi dei valori fondamentali di unità della famiglia e uguaglianza dei coniugi di cui all’art. 29 Cost.[48].
Ritenere che tale dovere di contribuzione rimanga inalterato addirittura nonostante la pronuncia di divorzio, significa conservare, per quanto si può, «la mistica dell’indissolubilità del matrimonio, favorendo il ritorno alla tesi del carattere pubblicistico dello stesso, come atto al di sopra della volontà dei singoli»[49], in palese contrasto con il pensiero dominante anche della stessa Corte di Cassazione, che ha ridimensionato esplicitamente l’attribuzione all’istituto del matrimonio di qualsivoglia forma di effetto ultrattivo[50].
Tale dovere, espresso dall’art. 143 c.c., non può dunque sopravvivere alla crisi matrimoniale per ragioni logiche e giuridiche e sarebbe più opportuno affermare che questo è sostituito dalla diversa obbligazione di mantenimento del coniuge in sede di separazione o di divorzio[51].
Ciò è stato in un secondo momento affermato anche dalla Suprema Corte, sancendo espressamente che «all'obbligo del coniuge di contribuire ai bisogni della famiglia, sussistente durante la convivenza coniugale, subentra, con la cessazione di tale convivenza conseguente alla separazione personale, ove ricorrano le prescritte condizioni, un obbligo di mantenimento destinato al soddisfacimento dei bisogni individuali dell'altro coniuge. Deve, pertanto, escludersi che, dopo la riforma, l'obbligazione derivante dalla separazione sia la stessa che sussisteva durante la convivenza coniugale»[52].
A ciò però bisogna aggiungere l’ulteriore contestazione per sostenere l’indisponibilità dei diritti oggetto degli accordi in vista del divorzio, che consiste nell’equiparare l’indisponibilità del diritto agli alimenti, che ex art. 447 c.c., non può mai formare oggetto di disposizione da parte del suo titolare[53], con il diritto al mantenimento. La dottrina[54] non è tuttavia convinta da questa tesi, sottolineando che il dato normativo è chiaro ed è necessario non operare un’analogia laddove, dalla letteralità della norma, non si evince.
Il diritto-dovere di mantenimento, nel regime postdivorzio, non simboleggia più la stessa solidarietà che opera durante il rapporto coniugale, è una solidarietà assimilabile ad un comune debito-credito tra soggetti indipendenti, perciò non se ne può certo escludere la disponibilità.
Anche alla luce della riforma sul divorzio con la legge n. 74 del 1987, che ha dato molto più spazio all’autonomia negoziale del diritto di famiglia, andando a plasmare lo strumento del divorzio su domanda congiunta, appare ancor meno convincente l’affermazione che i rapporti patrimoniali nel divorzio sarebbero sottratti alla disponibilità delle parti ed affidati alla decisione del giudice; la disponibilità delle attribuzioni postconiugali tra marito e moglie è in effetti confermata dalla sostanziale inesistenza di poteri di intervento del giudice in tale procedimento, laddove non ci siano figli minori.
I patti contenuti nel ricorso sono validi, per cui il giudice non potrà in alcun modo, in assenza di contenzioso tra le parti, disporre d’ufficio la corresponsione di un assegno di mantenimento, né sconfinare nell’ultrapetizione, riconoscendo un assegno di importo superiore rispetto a quello richiesto dal coniuge avente diritto[55].
Ancora, per confermare la tesi sull’indisponibilità dei rapporti conseguenti al divorzio, alcuni autori[56] e una pronuncia della Corte di Cassazione[57], citano la presenza obbligatoria del pubblico ministero nel relativo giudizio, affinché operi un controllo volto ad assicurare che la disciplina legale non sia derogata dalla volontà delle parti.
Anche in questo caso, riscontriamo una visione limitata e pressoché falsata, poiché in realtà la presenza del pubblico ministero in un procedimento civile è voluta dal legislatore per salvaguardare l’interesse pubblico alla diligente applicazione delle norme relative a determinati provvedimenti di sanzione[58], che non coincide necessariamente con l’affermazione dell’indisponibilità di tutti i diritti che nel procedimento in cui è presente si fanno valere[59].
Quanto appena affermato si riscontra anche in riferimento allo stesso art. 5, comma 5, della legge n. 898 del 1970, laddove afferma il potere del pubblico ministero “di proporre impugnazione, ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci”.
Anche l’ art. 9, comma 1, della stessa legge, prescrive l’intervento del pubblico ministero nel procedimento per la modificazione delle disposizioni che disciplinano i rapporti tra i due divorziati solo quando si debbano modificare “i provvedimenti relativi ai figli”.
Di conseguenza, l’intervento del pubblico ministero è prettamente preordinato alla tutela del mantenimento e affidamento della prole, per cui non può essere una motivazione convincente per negare l’affermazione della validità degli accordi in vista del divorzio o le convenzioni prematrimoniali[60].
Sempre al fine di sostenere il secondo motivo di illiceità della causa, ossia l’indisponibilità dell’assegno divorzile ai sensi dell’art. 160 c.c., viene poi richiamata la disciplina della legge che regola la cosiddetta prestazione una tantum.
Si è affermato che la corresponsione in un’unica soluzione può avvenire solo quando questa è ritenuta equa dal Tribunale, come letteralmente disciplina l’art 5, comma 8, l. div.[61].
Gli accordi preventivi, ovviamente non rispettando tali garanzie, sarebbero perciò nulli.
A tali obiezioni, si può efficacemente rispondere che la valutazione del Tribunale deve essere considerata alla stregua di una condizione, imprescindibile, affinché si verifichi l’effetto solutorio. È dunque il mezzo ultimo con cui si precludono le ulteriori richieste economiche del coniuge che riceve l’assegno una tantum, il quale non potrà più richiedere alcuna modificazione, anche nell’ipotesi di sopravvenuto bisogno[62].
In conclusione, il giudizio positivo di equità non può essere considerato condicio juris né della validità dell’accordo né della sua efficacia, ma solo dell’eliminazione dell’efficacia rebus sic stantibus, la quale caratterizza tutti gli accordi della crisi coniugale[63].
Per quanto concerne l’ultimo profilo rilevante ai fini di una completa contestazione della tesi impeditiva rispetto all’attuazione dei patti in esame, ci si deve concentrare sulla regola rebus sic stantibus, prescritta dall’art. 9, comma 1, della legge 898/1970.
Non risulta in alcun modo incompatibile modificare le condizioni che regolano il divorzio, per il sopravvenire di nuove circostanze, nell’accordo concluso dalle parti prima dello scioglimento del matrimonio.
Infatti la regola convenzionale, così come il provvedimento giudiziale, è efficace rebus sic stantibus, con la conseguenza che ogni fatto sopravvenuto meritevole di tutela comporta la possibilità dell’interessato di rivolgersi all’autorità giudiziale per ottenere un mutamento dell’intesa, anziché della sentenza di divorzio. Infatti, la clausola rebus sic stantibus integra una condicio juris, fondata sull’obiettiva esigenza di adattare ogni patto sul regime del divorzio ad un eventuale, futuro mutamento delle situazioni delle parti a seguito di circostanze sopravvenute[64].
A sostegno dei numerosi giuristi che reclamano la liceità degli accordi, ha contribuito a corroborare tale indirizzo l’ordinanza del Tribunale di Torino del 20 aprile 2012[65], che irrompe nella scia di sentenze negazioniste condividendo le tesi dottrinali, fondando la propria decisione sulla validità di un accordo stipulato tra due coniugi in sede di separazione, ma finalizzato a disciplinare i reciproci rapporti economici in vista del divorzio[66].
Il giudice torinese, motivando la pronuncia, contesta la tesi per la quale l’accoglimento di tali patti nel nostro ordinamento causerebbe una mercificazione dello status.
Si evidenzia la contraddittorietà di tale indirizzo rispetto ad altri della medesima Corte di Cassazione, la quale ha riconosciuto la validità di altri impegni preventivi, anch’essi capaci di incidere sugli status, in vista di separazione personale o dell’annullamento del matrimonio; contesta le tesi di una parte della dottrina che giustifica questo distinguo di vedute affermando una lampante differenza tra separazione e divorzio, rappresentata dal perdurare del vincolo matrimoniale nella prima ipotesi, che si distinguerebbe per il suo carattere di situazione aperta rispetto alla seconda.
Il giudice contesta che anche la separazione personale produce una modifica dello “status familiare” rispetto a quello esistente durante la convivenza matrimoniale, così come le convenzioni matrimoniali, finalizzate a disciplinare il regime patrimoniale della famiglia, incidono su uno status che i nubendi, all'atto di sottoscrizione, ancora non posseggono.
Giudica perciò incomprensibile la disparità di trattamento attuata dalla giurisprudenza di legittimità e si premura di specificare che la tesi pedissequamente seguita nelle varie pronunce della Cassazione, per cui tali accordi permetterebbero ai coniugi di individuare come causa di attribuzioni un impegno sullo status, è illogica, in quanto la causa del contratto sarebbe costituita dalla mera determinazione delle conseguenze economiche di un eventuale mutamento dello stato coniugale.
Notevole spicco all’interno del provvedimento viene dato dal ribaltamento del tradizionale approccio all’art. 160 c.c., confermando quanto sopra detto sull’ efficacia della norma, circoscritta alla sola fase fisiologica e irriferibile anche a quella patologica del rapporto coniugale, sottolineando come l’asserita indisponibilità delle attribuzioni postconiugali è inconciliabile circa la mancanza di poteri d’intervento del tribunale in relazione alle procedure di omologazione degli accordi di separazione e divorzio su domanda congiunta, posto che “ nessun giudice potrà mai d’ufficio attribuire ad un coniuge un solo centesimo a titolo di contributo al mantenimento del coniuge separato o di assegno di divorzio, in assenza di un contenzioso delle parti e di una specifica domanda sul punto”.
Il Tribunale conclude sostenendo che appare discordante con l’evoluzione di tutta la recente normativa nei più svariati settori, in cui la buona fede e la correttezza costituiscono sempre più elementi portanti ed inderogabili e principi quasi di rango superiore, ritenere che nel diritto di famiglia, al contrario, proprio tra soggetti il cui rapporto dovrebbe essere caratterizzato dal massimo livello di affidamento, un accordo economico del genere non possa essere preso in considerazione, con la conseguenza che un accordo di separazione, magari faticosamente concordato dopo lunghe trattative e «obiettivamente inteso come solutorio dell'intero complesso dei rapporti nati da un' unione sbagliata, possa essere accettato da una delle parti con la “riserva mentale” di porre tutto nuovamente in discussione al momento del divorzio.»
4. Evoluzioni normative e giurisprudenziali: possibili effetti sugli accordi prematrimoniali
Se, come detto, la giurisprudenza non risulta ancora pronta allo sdoganamento dei patti prematrimoniali, si noti tuttavia che è stato il legislatore a compiere di recente un grande passo orientato in questa direzione. Si fa infatti riferimento allo slancio verso l'abbandono di una visione forse troppo attaccata alla passata realtà sociale, rappresentato dalla riforma, contenuta nella l. 26 maggio 2016, n. 76, sulle unioni civili, le convivenze di fatto e, soprattutto, i contratti di convivenza.
Preme infatti richiamare la diversa opinione in merito a quest’ultimi rispetto agli accordi preventivi della crisi coniugale, che trova la dottrina e la giurisprudenza pressoché unanime nel confermare come questi possano legittimamente contenere pattuizioni destinate a regolamentare in via preventiva la crisi dell’unione di fatto.
Inizialmente, alcuni dubbi sulla validità di tali pattuizioni erano legati a quanto enunciato dall’art. 1, comma 56, legge 76/2016, secondo cui «Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.»
Il dettato, in un primo momento, poteva infatti far ritenere che tale forma di accordi non fosse concessa, in quanto qualsiasi patto “in previsione” della cessazione della convivenza altro non avrebbe rappresentato che una pattuizione sottoposta alla condizione, sospensiva o risolutiva, del verificarsi di tale evento.
Oggi si ritiene che tali stipulazioni siano valide e vincolanti, sulla base dell’assunto per cui i termini e le condizioni debbano ritenersi vietati se apposte all’intero contratto di convivenza, mentre sono lecite in tutti i casi in cui siano apposti a singoli pattuizioni[67].
In tal senso, le pattuizioni relative all’eventuale crisi della convivenza, essendo singole pattuizioni del contratto di convivenza, non violano in alcun modo il comma 56, in quanto non intaccherebbero la natura pura e incondizionata del contratto nel suo complesso, seppur essenzialmente caratterizzate dalla condizione della rottura del rapporto.
Nel contesto sin qui delineato va letta anche la svolta giurisprudenziale degli anni 2017[68] e 2018[69] in materia di assegno di divorzio.
Nella specie si rimarcava da tempo l’ormai inadeguatezza dell’interpretazione del matrimonio e del divorzio rispetto ai mutamenti sociali intervenuti.
La sentenza n. 11504/2017 ha peraltro confermato la natura assistenziale dell’assegno divorzile ma allo stesso tempo ha realizzato un deciso cambio di rotta nei riguardi del parametro con cui valutare l’adeguatezza dei mezze nelle fasi dell’ an debeatur.
Infatti, per la prima volta, il criterio del tenore di vita lascia il posto a quello del raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente[70].
Innescando questa sostituzione, quindi, la Corte conferma la piena applicazione del principio di “autoresponsabilità economica” già da tempo auspicata dal contesto giuridico europeo.
Dopo tale pronuncia si è aperto un ulteriore dibattito sulla nozione “mezzi adeguati”, uno dei criteri enunciati dall’art. 5, comma 6, l. 898/1970, poiché non era pacifico come questo, alla stregua del nuovo orientamento, dovesse essere interpretato.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sono dunque intervenute, risolvendo il contrasto che si era creato sul tema[71], precisando in primis che le disposizioni della legge di riforma del 1987 non prevedono in realtà l’obbligo del giudizio bifasico e il fatto di riunire il criterio assistenziale, risarcitorio e compensativo, non comporta la sovraordinazione di un criterio rispetto ad un altro ma solo l’esclusione della preminenza nella prima fase del criterio assistenziale e relegazione degli altri due alla fase del quantum.
Pertanto, nel giudizio di adeguatezza sono valutati il contributo conferito da ciascun coniuge alla vita familiare e la durata del matrimonio[72], motivo per il quale l’assegno di divorzio non rappresenta più una mera rendita assistenziale, bensì un’equa stima degli eventuali contributi dei coniugi in costanza di matrimonio per le esigenze della famiglia[73].
Il revirement della Cassazione indica quindi che l’assegno ha una natura certamente assistenziale, ma anche compensativa[74] e perequativa, poiché è previsto dallo stesso art. 5, comma 6, della l. 898/1970 la rilevanza delle scelte e ruoli sui quali si è concordata la vita familiare.
Sebbene le due sentenze delineano le premesse di un profondo ripensamento della materia rispetto all’ antistorica lettura in termini di “indissolubilità patrimoniale” del vincolo coniugale, portando in primo piano, nel richiamare il criterio dell’adeguatezza dei mezzi, il tema della “natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco”, secondo l’espressione testualmente usata dalla motivazione della decisione delle Sezioni Unite del 2018.
Espressione, questa, che rimanda al concetto più volte ribadito della solidarietà post-coniugale come criterio nella specie determinante, ma non aprioristicamente, che può quantomeno attenuarsi laddove i coniugi decidano di comune accordo di ritenersene svincolati.
Invero, gli artt. 2, 3 e 29 Cost., richiamati dalle Sezioni Unite nell’ultima sentenza, delineano i criteri di pari dignità e uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, che costituiscono una tutela della parte debole in caso di disaccordo, ma non sono certo contraddetti dal riconoscimento ai coniugi del diritto di disporre liberamente dei propri diritti e di fare reciproco affidamento sugli impegni congiuntamente e liberamente assunti[75].
Fin tanto che si predicava la funzione esclusivamente o prevalentemente assistenziale dell’assegno divorzile, la sua natura indisponibile era il corollario, coerente, ma tecnicamente non corretto poiché equiparata a quella alimentare, della tradizionale e consolidata affermazione per cui la parte che ha diritto ad una qualsiasi prestazione assistenziale è ontologicamente debole e quindi non adeguatamente competente a stipulare ex ante accordi che abbiano per oggetto il proprio diritto[76].
Ora, la valorizzazione della componente compensativa delle prestazioni patrimoniali post-divorzili non può effettuarsi se non a discapito, quanto meno parziale, di quella assistenziale, venendo meno l’equivoco del carattere indisponibile delle stesse.
Inoltre, la ratio decidendi sostanziale posta alla base dell’orientamento giurisprudenziale contrario alla validità piena dei contratti sugli effetti economici del divorzio è da individuarsi nell’interesse patrimoniale del beneficiario del credito costituito dall’assegno divorzile a conservare un tenore di vita più agiato.
La nullità dei contratti in vista del divorzio è, in altri termini, funzionale ad un sistema di regole di diritto volte a garantire al creditore dell’assegno una adeguata partecipazione, tendenzialmente vitalizia, alle risorse economiche dell’ex coniuge.
È pertanto evidente che il filone giurisprudenziale precedente alle sopracitate sentenze sull’assegno di divorzio e quello riguardante la nullità dei contratti in vista dello scioglimento del legame familiare si sorreggevano l’un l’altro poiché dipendenti dallo stesso paradigma ideologico: la nullità del contratto prematrimoniale implica come corollario che la determinazione dell’assegno sarà realizzata dall’autorità giudiziaria per garantire al coniuge economicamente più debole un tenore di vita analogo al precedente, parametro che in realtà estraneo alla lettera della disciplina vigente e di creazione giudiziale[77].
In conclusione, ciò che si evince, a favore dell’ammissibilità degli accordi in vista della crisi coniugale, è che può formare oggetto di contrattazione privata la sola componente compensativa-perequativa, disponibile, mentre quella assistenziale è intoccabile per la sua intrinseca finalità di tutela dei bisogni primari del coniuge economicamente debole.
Argomentazione che si collega anche al problema della salvaguardia del principio rebus sic stantibus, in realtà già risolto efficacemente dalla dottrina tramite logiche deduzioni, ma che trova ulteriore conferma in tale pronunciato. In particolare, si è evidenziato, come l’operatività di detto principio debba ritenersi inderogabile con riferimento alla sola componente assistenziale-alimentare dell’assegno stesso, mentre la restante componente compensativa-perequativa, non essendo protetta da tale regime di indisponibilità, può essere liberamente negoziata, anche con efficacia preclusiva di ogni successiva pretesa[78].
5. Prospettive evolutive.
È oggi maturata una più evoluta coscienza dei confini pubblico-privato, per cui lo Stato e il diritto giurisprudenziale tendono ad assumere un atteggiamento di maggior indifferenza ideologica, rinunciando, in attuazione dell’art. 29 Cost., comma 1, ad imporre alla coppia o ai divorziati modelli di condotta o stili di vita precostituiti ed eteronomi[79].
In passato le suggestioni dello Stato etico spingevano i giudici e il legislatore a circondare i rapporti tra i coniugi di un gravoso apparato di formalizzazione legale, imponendo nella quasi totalità dei rapporti familiari l’intervento dell’autorità giudiziaria e comminando sanzioni volte a colpire ogni deviazione rispetto ad un modello ideale di relazione coniugale cui si pretendeva di imporre, per legge o per sentenza, efficacia di vincolo giuridico.
Nell’ultimo decennio si è assistito ad un’estensione dello spazio dell’autonomia familiare, di libertà e ad una spinta verso il pluralismo sociale e giuridico, andando a ridurre i margini dell’intervento pubblico e della coercizione legale, come ben segnalato dall’ultima introduzione legislativa che concerne il contratto di convivenza.
Si sta attuando quello che da tempo è chiaro: la famiglia è governata da regole di formazione spontanea e come tale connotata da libertà normativa e attuativa[80].
Proprio sulla base di questo presupposto, si è affermato che «l’elevato livello del contenzioso familiare è determinato da regole di diritto sostanziale circa la crisi della famiglia che per molti versi appaiono superate dalla coscienza sociale e idonee a creare il conflitto piuttosto che ridurlo»[81].
Sicché il diritto che regola i rapporti di famiglia, anche nella fase della crisi coniugale, si costituisce come sistema mobile e aperto ad un continuo rinnovamento[82].
A corroborare il processo concernente l’evoluzione dell’autonomia negoziale tra i coniugi, si riscontrano numerose proposte di legge[83], tra cui quella recentissima n. 244 presentata il 23 marzo 2018[84] e recante il titolo “Modifiche al codice civile e altre disposizioni in materia di accordi prematrimoniali”, che suggerisce l’introduzione dell’art. 162 bis nel codice civile, recante la disciplina del contenuto e della forma degli accordi prematrimoniali sulla regolamentazione dell’eventuale separazione, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Il disegno di legge n. 1151, comunicato alla Presidenza del Consiglio in data 19 marzo 2019 e presentato dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Conte assieme con il Ministro della giustizia Bonafede, reca una delega al Governo per la revisione ed integrazione del codice civile in diversi ambiti del diritto, tra cui un criterio di delega riguarda «la stipulazione di accordi tra nubendi, coniugi nonché parti di una programmata o costituita unione civile, volti a regolamentare i rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell’eventuale crisi del rapporto, nonché i criteri per l’indirizzo della vita familiare e per l’educazione dei figli, salvaguardando comunque le norme imperative, i diritti fondamentali della persona umana, l’ordine pubblico e il buon costume», ampliando così il novero delle convenzioni matrimoniali già presenti nel codice civile.
6. Conclusione
All’esito di tale analisi si comprende come la mancanza di una normativa, ancora ad oggi, che disciplini gli accordi preventivi in vista della crisi familiare sia il frutto di un ingiustificato apriorismo da parte della dottrina e della giurisprudenza.
Si è voluto evidenziare come gli accordi in cui i coniugi predeterminano le conseguenze postmatrimoniali in caso di un eventuale crisi siano del tutto ammissibili se posti in essere dai coniugi con un elevato grado di consapevolezza, utilizzando i giusti strumenti negoziali, seguendo determinate linee guida per non valicare i limiti imposti dall’ordinamento e che, anche questo accadesse, il ruolo e il relativo intervento del giudice sarebbero sempre garantiti.
Pertanto vi è la necessità ed urgenza di una regolamentazione normativa dei suddetti accordi, poiché oltre a non risiedere in essi nessuna contrarietà all’ordine pubblico, sarebbero portatori di indubbi vantaggi nei confronti di più parti.
I coniugi risolverebbero ex ante le questioni economiche che si creerebbero in sede di crisi, dirimendole con serenità come avviene per ogni questione riguardante l’ambito familiare nella sua fase fisiologica, con conseguente maggior tutela anche nei confronti dei figli, che verosimilmente, subirebbero minori contrasti tra i genitori.
Anche i costi derivanti da un eventuale separazione e divorzio, a maggior ragione se contenzioso, sarebbero minori, proprio in virtù del previo accordo, con il quale la separazione o il divorzio sarebbero ragionevolmente conclusi tramite negoziazione assistita e da qui deriverebbe altresì un alleggerimento del carico giudiziale.
Non è peraltro ammissibile sacrificare i patti in questione, che certamente conferirebbero ai coniugi un’autonomia negoziale tale da conseguire i vantaggi sopra descritti, adducendo la prioritaria esigenza della tutela del soggetto economicamente più debole. Una visione coerente con questo bisogno non dovrebbe allora ammettere che vi sia possibilità di scegliere tra comunione legale e separazione dei beni, posto che il soggetto destinato a subire le prevaricazione del coniuge più forte all’interno dell’accordo è lo stesso al quale potrebbe venire imposto, sempre dal coniuge più forte, il regime della separazione dei beni e di conseguenza l’attuazione di questa convenzione matrimoniale non sarebbe il frutto di una consapevole riflessione e di una libera valutazione degli interessi in gioco.
È, al contrario, ampiamente condivisibile che l’intesa preventiva, lungi dal condizionare le scelte dei coniugi in merito al proprio status, integri uno strumento di tutela proprio della parte debole, mettendola a riparo da qualsivoglia pericolo. I motivi di forte tutela per quest’ultima risiedono infatti nel regolare i rapporti patrimoniali in un momento in cui tra gli sposi regna la pace e l’amore.
Inoltre, considerando il fenomeno dell’emancipazione femminile, l’argomento della “protezione”, è certamente necessario in mancanza di adeguate statuizioni degli interessati, ma non può nemmeno manifestarsi in astratto, contro la volontà dei contraenti, mediante interventi connessi ad una concezione paternalistica dei rapporti tra individuo e poteri dello Stato, trattandosi di soggetti non colpiti da alcuna forma di incapacità.
L’auspicio è che si possa superare la sfiducia verso l’autonomia negoziale e, nella specie, che possa esservi un capovolgimento di dogmi ormai appartenenti al passato in favore di una continua e propositiva evoluzione dell’ autoregolamentazione degli aspetti postmatrimoniali da parte dei coniugi.
[1] A. GORGONI, Accordi in funzione del divorzio tra autonomia e limiti, in Pers. Merc., 2018, 4, p. 256
[2] V. De Vellis- V. Tagliaferri, I patti prematrimoniali, Milano, Giuffrè, 2015, p. 42
[3] Cass., sez I, 24 febbraio 1993, n. 2270, in Corr. giur., 1993, 820 con nota di G. LOMBARDI, La Cassazione privilegia l'autonomia negoziale dei coniugi negli accordi separazione
[4] Sul punto v. anche, Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, in Corr. giur., 2004, p. 307
[5] P. RESCIGNO, Interessi e conflitti nella famiglia: l’istituto della “mediazione familiare”, in Alpa- Danovi (a cura di) la risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura, Milano, 2004, pp. 356 ss.
[6] Cass., 12 settembre 1997, n. 9034, in Dir. fam., 1998, p. 81
[7] Cass., 3 maggio 1984, n. 2682, in Riv. dir. int. Priv., 1985, p. 579
[8] G. OBERTO, I contratti della crisi coniugale,I , Padova, Cedam, 1999, p. 563
[9] Cass., 6 aprile 1977, n. 1305, in Foro it., 1977, I, c. 2247, che confermò il principio della disponibilità dell’assegno relativamente alla componente risarcitoria e compensativa, estendendolo poi esplicitamente “agli assegni anche futuri”; Cass., 3 luglio 1980, n. 4223, in Dir. fam., 1980, p. 1133 ss. la Corte persino più esplicitamente affermò che “la volontà di rinunziare all’assegno di divorzio può manifestarsi anche prima dell’instaurazione del giudizio di scioglimento del matrimonio, ma limitatamente alle componenti risarcitoria e compensativa, in quanto riferite ad elementi determinabili in quel momento”
[10] Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184
[11] Generalmente ammessi, in merito alle componente risarcitoria e compensativa, dall’orientamento giurisprudenziale sino a questa pronuncia, v. Cass., 6 aprile 1977, n. 1305, in Foro it., I, p. 2247
[12] Cass., 5 dicembre 1981, n. 6461, in Foro it., Mass., 1981, c. 1620
[13] Cass., 11 dicembre 1990, n. 11788, in Arch. civ., 1991, p. 417
[14] Cass., 2 luglio 1990, n. 6773, in Giur. it., 1990, Mass., 809
[15] Cass., 1 marzo 1991, n. 2180, in Giur. it., 1991, Mass., p. 199
[16] Cass., 20 settembre 1991, n. 9840, in Giur. it., 1992, I, 1, p. 1078
[17] Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, in Giust. Civ., 1992, I, p.1239
[18] Cass,. 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863
[19] G. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, cit., p. 583
[20] Cass., sez I, 14 giugno 2000, n. 8109, in Fam. e dir., 2000, p. 429 ss., con nota di V. CARBONE, accordi patrimoniali deflattivi della crisi coniugale, il quale si dice sorpreso di vedere come davanti a casi così la Corte non riconosca che “il principio dell’indisponibilità, nella sua assolutezza, non sussiste senza dover ricorrere ad ambiguità o sotterfugi per riconoscere la validità di un contratto tipico della crisi coniugale.
[21] attraverso la tecnica del distinguishing, con la quale il giudice va a dimostrare che l'identità tra la fattispecie portata al suo esame e quella del precedente è solo apparente
[22] E. RUSSO, Il divorzio all’americana; ovvero l’autonomia privata nel rapporto patrimoniale, in Foro it., 2001, I, 1320; G. CECCHERINI, i contratti tra i coniugi in vista del divorzio: regole operative e limiti di liceità, in Foro it., I, 2000, 1335
[23] M. FINOCCHIARO, Sull’assetto dei rapporti patrimoniali tra coniugi. Una rivoluzione annunciata solo dalla stampa, in Guida al dir., 2000, 24, p. 43
[24] Parte della dottrina ha ravvisato nell’intervento della Cassazione la tecnica del prospective overruling di matrice anglosassone, dal momento che pur avendo ribadito l’orientamento negazionista, sembra ridurne l’importanza e che ne abbia limitato l’ambito di applicazione, finendo implicitamente per conferire rilievo agli accordi preventivi di divorzio. v. F. ANGELONI, La Cassazione attenua il proprio orientamento negativo nei confronti degli accordi preventivi di divorzio: distinguishing o prospective overruling?, in Contratto ed Impresa, Padova, 2000, 3, pp. 1152 e 1154
[25] D. RUGGIERO, Gli accordi prematrimoniali, Napoli, 2005, p. 87
[26] Cass., 1 dicembre 2000, n. 15349, in Giust. civ., 1993, I, p. 605
[27] G. OBERTO, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. e dir., 2012, p. 80
[28] Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064, in Arch. Civ., 2004, p. 1335
[29] R. FRANCO, L’autonomia negoziale nel governo della crisi familiare: spinte evolutive e persistenti resistenze, in Landini – Palazzo (a cura di), Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, Milano, 2018, p. 126
[30] Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Fam. dir., 2012, p. 92 ss. Nel caso di specie i nubendi, un giorno prima del matrimonio, stabiliscono con scrittura privata che qualora il matrimonio dovesse fallire per separazione o divorzio, la moglie cederà al marito la piena proprietà di un immobile a titolo di indennizzo delle spese che il marito sosterrà per la ristrutturazione in un altro immobile, da adibire a casa coniugale, sempre di proprietà della moglie. Per riequilibrare i valori del trasferimento immobiliare e dell’esborso di denaro, il marito trasferirà alla moglie la proprietà di un titolo BOT pari a lire 20.000.000. L’esecuzione del contratto è, quindi, per una parte immediata, per l’altra parte sospensivamente condizionata alla separazione o al divorzio.
[31] Spese per la ristrutturazione e cessione gratuita dell’immobile.
[32] Per cui il debitore può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta con il consenso del creditore.
[33] V. DE VELLIS- V. TAGLIAFERRI, I patti prematrimoniali, cit., p. 56
[34] F. SANGERMANO, Riflessioni su accordi prematrimoniali e causa del contratto: l'insopprimibile forza regolatrice dell'autonomia privata anche nel diritto di famiglia, in Corr. giur., 2013, pp. 4 ss. Nel definire la causa concreta dell’accordo prematrimoniale assume rilievo decisivo «l’oggettivazione contrattuale delle finalità soggettive perseguite dai nubendi». Ciò che emerge e che viene sottaciuto dalla Cassazione è l’ «interesse familiare intrecciato con quello patrimoniale modellato dai futuri coniugi nella prospettiva eventuale del fallimento del matrimonio»
[35] G. OBERTO, Gli accordi prematrimoniali in Cassazione, ovvero quando il distinguishing finisce nella haarspaltemachine, in Fam. dir., 2013, pp. 326 ss.
[36] G. OBERTO, op. ult. cit., p. 323
[37] G. GABRIELLI, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Riv. dir. Civ., I, 1996, p. 695. L’autore è però contrario alla validità degli accordi preventivi, ritenendo che questi violino l’art. 160 c.c.
[38] Art. 12 della legge 6 novembre 2014 n.162
[39] M. MORETTI, Gli accordi “ora per allora” e nullità del matrimonio, commento a Cass. 13 gennaio 1993, n. 348, in Contratti, 1993, pp. 137-141
[40] G. DORIA, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, Giuffrè, 1996, p. 178
[41] V. DE VELLIS- V. TAGLIAFERRI, I patti prematrimoniali, cit., p. 49
[42] A. GORGONI, Accordi definitivi in funzione di divorzio: una nullità da ripensare, in Landini e Palazzo (a cura di), Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, Milano, Giuffrè, 2018 , p.302; T. MONTECCHIARI, Diritto agli alimenti e al mantenimento, in Strumenti del diritto, Torino, 2020, pp. 161 ss.
[43] F. CERRI, gli accordi prematrimoniali, Milano, Giuffrè, 2011, p.86; G. AUTORINO STANZIONE, L’autonomia privata nel divorzio, in Autorino Stanzione – Musio, Il divorzio, Disciplina, procedura e profili comparatistici, Milano, Ipsoa, 2002 , p. 215, l' autrice conclude che «sarà, dunque, quaestio facti l'individuazione, caso per caso, dello scopo dell'accordo per verificare se l'intento delle parti sia esclusivamente quello di regolare in via preventiva i loro rapporti patrimoniali conseguenti alle eventuali divorzio, oppure di negoziare illecitamente il consenso allo scioglimento del matrimonio».
[44] D. RUGGIERO, Gli accordi prematrimoniali, op. cit., p. 200
[45] E. DALMOTTO, Indisponibilità sostanziale e disponibilità processuale dell' assegno di divorzio, nota a Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Giur. it., I, 1, 1993, p. 345
[46] Nega la possibilità di un’ estensione analogica G. DORIA, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, cit., p. 184 ss
[47] M. SANTIESE, Coordinate ermeneutiche del diritto Civile, a cura di M. Santiese, Torino, 2014, p. 22
[48] In questo senso G. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, cit., p. 462 ss.; G. CECCHERINI, Contratti tra coniugi in vista della cessazione del ménage, Padova, 1999, p. 127 e ss.; F. ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, Cedam, 1997 , pp. 277 ss.; A. PALAZZO, Casa familiare, divorzio e convenzioni stipulate tra coniugi separandi, in Quadrimestre, 1993, p. 824; E. RUSSO, l'autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, in Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, p. 159 ss.
[49] M. SANTIESE, op. cit., p. 22
[50] Cass., 6 novembre 1976, n. 4034, in Fam. dir., 1977, p. 278
[51] A. FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, pp. 609 ss.; F. ANGELONI, Autonomia private potere di disposizione nei rapporti familiari, cit., pp. 271-292, 308 e 555; G. OBERTO, I contratti alla crisi coniugale, I, cit., pp. 452 ss.
[52] Cass., 22 marzo 2001, n. 4099, in Giust. civ., 2001, I, 1189
[53] D. VINCENZI AMATO, Gli alimenti. Struttura giuridica e funzione sociale, Milano, 1973, pp. 139 ss; G. TEDESCHI, Gli alimenti, in Tratt. di dir. civ. e comm., a cura di Vassalli, Torino, 1951, p. 366. La norma è difatti tesa a tutelare l’ avente diritto agli alimenti contro atti che potrebbero nuocergli e rendere vana la cautela che l'ordinamento ha posto per la sua sopravvivenza, nel caso di bisogno. Pertanto, è inammissibile la cessione o compensazione del diritto agli alimenti e sono inoltre riconosciute a questo le caratteristiche dell' imprescrittibilità, dell’ irrinunziabilità, dell' impignorabilità ed insequestrabilità.
[54] M. COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio, e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, V, pp. 115 ss.
[55] V. DE VELLIS- V. TAGLIAFERRI, I patti prematrimoniali, cit., p. 51
[56] E. DALMOTTO, Indisponibilità sostanziale e disponibilità processuale dell' assegno di divorzio, cit., p. 346
[57] Cass., 11 giugno 1981, n. 3777 già più volte richiamata
[58] E. REDENTI, Diritto processuale civile, 1, Milano, 1995, p. 94
[59] M. VELLANI, Il pubblico ministero nel processo, II, Bologna, 1970, p. 615 ss.
[60] D. RUGGIERO, op. cit., p. 198
[61] Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, cit.
[62] M. COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, cit., p. 114
[63] A. GORGONI, Accordi definitivi in funzione del divorzio: una nullità da ripensare, in Landini e Palazzo (a cura di), cit., p. 297; C. IRTI, L' accordo di corresponsione una tantum nelle procedure stragiudiziali di separazione e divorzio: spunti di riflessione sulla gestione della crisi coniugale tra autonomia delle parti e controllo del giudice, in Nuove leggi civ., 2017, 4, pp. 812 ss.
[64] D. RUGGIERO, op. cit., p. 199
[65] Trib. Torino sez. VII ord. 20 aprile 2012, in Fam. dir., 2012, p. 803 ss.
[66] L’accordo prevedeva che la corresponsione dell’assegno di mantenimento del marito alla moglie si esaurisse con l’istaurazione della causa di divorzio, con promessa della moglie di non pretendere né l’assegno divorzile né la liquidazione una tantum. Tuttavia, una volta instaurato il giudizio di divorzio, la moglie richiedeva l’assegno a suo favore, che veniva negato dall’ordinanza in commento.
[67] R. MAZZARIOL, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, Napoli, 2018, p. 208; G. RIZZI, La convivenza di fatto e il contratto di convivenza, in Notariato, 2017, 1, p. 28 ss.; A. CIMMINO, Rapporti patrimoniali tra conviventi, Milano, 2017, 67 ss.
[68] Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, in Foro it., 2017, I, c. 1859
[69] Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Riv. dir. fam. e pers., 2018, II, 869
[70] L’iter procedimentale con cui il giudice valuta se assegnare e in che misura l’assegno divorzile rimane inalterato: il giudice verifica che il coniuge che lo richiede non abbia, o non possa avere per ragioni oggettive, mezzi per essere economicamente autosufficiente; in seconda battuta, il giudice dovrà valutare il quantum dell’assegno, tenendo conto dei criteri enunciati dall’art. 5, l. 898/1970 ma con un altro parametro di valutazione, poiché si asserisce che l’assegno in esame è predisposto non per assicurare all’ex coniuge il medesimo tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio, bensì l’indipendenza economica, che consta nel permettergli di condurre un’esistenza libera e dignitosa.
[71] Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, cit.
[72] Quest’ultimo elemento ha una grande rilevanza, in quanto la durata più o meno lunga del vincolo incide necessariamente sul riconoscimento del diritto all’assegno. Ne deriva che nei matrimoni di breve durata è escluso il diritto all’assegno divorzile: in Cass., 26 marzo 2015, n. 6164, in Fam. dir., 2016, p. 30, con nota di E. AL MUREDEN, Breve durata del matrimonio ed esclusione dell’assegno di mantenimento.
[73] T. MONTECCHIARI, Diritto agli alimenti e mantenimento, cit., p. 131
[74] C.M. BIANCA, Le Sezioni Unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955, nt. 4, il quale afferma che agganciare la valutazione dell’assegno anche alla funzione compensativa non equivale a retribuire il coniuge per l’attività svolta nella cura della prole o nell’assolvimento delle faccende domestiche e quant’altro, bensì vuol dire compensare, per quanto possibile, la disparità che la rottura del matrimonio crea nelle rispettive condizioni di vita.
[75] G. OBERTO, Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam. e dir., 2003, p. 389 ss. (parte I), 495 ss. (parte II)
[76] C. RIMINI, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. dir., 2018, p. 1042
[77] M. PALAZZO, Contratti in vista del divorzio e assegno postmatrimoniale, in Landini – Palazzo (a cura di), Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., p. 280
[78]A. BUSANI, I contratti nella famiglia. Regolamentazione patrimoniale precedente, durante e dopo il matrimonio, l'unione civile e la convivenza, Padova, 2020, p. 315
[79]M. Palazzo, Contratti in vista del divorzio e assegno postmatrimoniale, cit., p. 284
[80] G. FURGIUELE , Libertà e famiglia, Milano, 1979, p. 69 ss.
[81] R. ROSETTI, Le nuove prospettive del diritto di famiglia, in La Magistratura, Organo della A.N.M., luglio- dicembre 2014, 3-4, consultabile online in www.associazionenazionalemagistrati.it
[82] V. SCALISI, Le stagioni della famiglia nel diritto dall’unità d’Italia ad oggi, in Riv. dir. civ., 2013, p. 1045
[83] Rispettivamente il d.d.l S/2629 (XVI), d’iniziativa dei senatori Filippi, Garavaglia e Mazzatorta, comunicato alla Presidenza del Senato il 18 marzo 2011 recante il titolo “Modifiche al codice civile e alla l. 1 dicembre 1970 n. 898, in materia di patti prematrimoniali” e la proposta dell’associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani
[84] D’iniziativa della deputata Morani