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Pubbl. Mer, 6 Lug 2022

Diritto di autodeterminazione terapeutica e suicidio medicalmente assistito: difficoltà applicative della sentenza della Corte costituzionale

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Nicola Romano



Con la sentenza n. 242/2019 la Corte Costituzionale ha contestualizzato nella normativa vigente il suicidio medicalmente assistito, riconoscendo al rifiuto o all´interruzione di trattamenti vitali la valenza di legittimo esercizio del diritto alla salute, nella sua espressione di autodeterminazione terapeutica. Tuttavia la pronuncia della Consulta ha già incontrato difficoltà di applicazione, ostacolata dall´ostruzionismo opposto dalle Aziende Sanitarie Regionali, sulla base della presunta carenza di disciplina legislativa delle procedure di verifica dei presupposti per accedere al suicidio medicalmente assistito imposte dalla Corte Costituzionale alle Aziende Sanitarie.


ENG With the sentence no. 242/2019 the Constitutional Court contextualized the medically assisted suicide in the current legislation, recognizing the validity of the lawful exercise concerning the health right to refuse or to cease vital treatments, the value of legitimate exercise of the right to health, in its expression of therapeutic self-determination. However the Council´s ruling has already encountered difficulties in its application, hampered in its implementation by the obstructionism opposed by the Regional Health Authorities, on the basis of the alleged lack of legislative discipline about the procedures in order to verify the conditions to have access to medically assisted suicide imposed by the Constitutional Court on Healthcare companies.

Sommario: 1. Premessa; 2. Il riconoscimento del valore individuale del diritto alla salute nella giurisprudenza di merito e di legittimità; 2.1 Il caso Welby; 2.2 Il caso Englaro; 2.3. Fabiano Antoniani; 3. Il principio di autodeterminazione terapeutica nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale; 4. Principio di autodeterminazione e giurisprudenza della Corte EDU: un complesso bilanciamento tra diritti individuali e interessi collettivi; 5. La Legge n. 219/2017. Un recente approdo del legislatore nazionale ad un nuovo assetto normativo ed istituzionale del diritto di autodeterminazione terapeutica; 6. Limiti e prospettive del diritto di autodeterminazione terapeutica; 6.1 L’obiezione di coscienza nella Legge n. 219/2017; 7. L’ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale; 8. La sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale sul suicidio medicalmente assistito; 9. Commenti dottrinali alla sentenza n. 242/2019; 10. Difficoltà applicative della sentenza n. 242/2019. Il caso Davide Trentini; 10.1. I casi delle Marche; 11. Conclusioni.

1. Premessa

Il concetto di salute è mutato nel corso dei secoli, assumendo significati correlati alle istituzioni politiche e alla sensibilità culturale delle diverse epoche. Da un’accezione accolta nell’antica Grecia, che vedeva strettamente collegate salute fisica e mentale, si è passati al concetto ippocratico, estremamente attuale, di salute dipendente dall’ambiente di vita e dalle sue condizioni, per infine approdare ad un significato collegato all’affermarsi della medicina, come scienza della malattia, e quindi alla salute come assenza di malattia o di inabilità.

Solamente nel 1948 si perviene ad una definizione di salute, espressa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ed accolta a livello internazionale, come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solamente l’assenza di malattia o di inabilità»[1]. L’individuo è visto nella sua complessità e la salute è una condizione di equilibrio funzionale, fisico e psichico, dinamicamente integrato nell’ambiente naturale e sociale.

Tale definizione è contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’OMS, Agenzia specializzata per le questioni sanitarie, istituita nel 1948 all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, avente come obiettivo quello di raggiungere il maggior livello possibile di salute da parte di tutte le popolazioni. Non più dunque un’accezione negativa di concetto di salute inteso come assenza di malattie, di deficit funzionali, di gravi mutilazioni, di rilevanti fenomeni patologici, ma una definizione ampia e maggiormente orientata alla soggettività, come condizione di complessiva efficienza psicofisica, di stato di benessere dell’individuo considerato nella sua molteplice dimensione fisica, psichica e relazionale.

Nella prima edizione del Glossario dei termini di promozione della salute, pubblicato dall’OMS nel 1986, come guida per i lettori di documenti e pubblicazioni dell’OMS, si afferma quanto segue: «La salute viene considerata non tanto una condizione astratta, quanto un mezzo finalizzato ad un obiettivo che, in termini operativi, si può considerare una risorsa che permette alle persone di condurre una vita produttiva sul piano individuale, sociale ed economico. La salute è una risorsa per la vita quotidiana e non lo scopo dell’esistenza. Si tratta di un concetto positivo che valorizza le risorse sociali e personali, oltre alle capacità fisiche»[2].

Tale nozione è stata criticata fin da subito perché giudicata troppo ampia e indeterminata e «La maggior parte delle critiche alla definizione dell’OMS riguarda l’assolutezza del termine ‘completo’ in relazione al benessere. Il primo problema è che esso contribuisce involontariamente alla medicalizzazione della società. Il requisito per una salute completa lascerebbe malati la maggior parte di noi per la maggior parte del tempo»[3].

In tale prospettiva, detta nozione appare a prima vista utopistica, in quanto risulta assai arduo, per non dire impossibile, configurare in un essere umano lo stato di completo e simultaneo benessere fisico, mentale e sociale, e si genera un effetto paradossale per cui nessun essere umano secondo tale definizione può dirsi sano.

Da una cultura della salute intesa esclusivamente in senso negativo, come assenza di malattie, si è passati ad una cultura positiva della salute intesa come benessere. In questo contesto si è aperto il dibattito circa la definizione di benessere, nelle sue molteplici accezioni. Il concetto di benessere può essere associato a diversi ambiti e quindi si avrà una molteplicità di benessere come, a titolo esemplificativo, un benessere fisico, un benessere psicologico, un benessere materiale, un benessere economico, un benessere spirituale, un benessere individuale, un benessere sociale.

La parola benessere deriva da ben – essere, cioè esistere bene, stare bene. Nel rapporto della Commissione Salute dell’Osservatorio Europeo su sistemi e politiche è stata proposta la definizione di benessere come «lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società»[4]. Tale definizione è stata recepita dall’Organizzazione Mondiale della Salute nel 1998 nella Dichiarazione Mondiale sulla Salute, in cui la salute stessa è intesa come una condizione di benessere fisico, psicologico e sociale.

Molto è cambiato dal 1948 ad oggi. L’aspettativa di vita è aumentata e la popolazione invecchia di più rispetto a qualche decennio fa, con un incremento delle malattie croniche e invalidanti. In queste condizioni il completo benessere della prima definizione dell’OMS è diventato un traguardo sempre più difficile da raggiungere, ma in base a tale obiettivo il personale medico si è sentito legittimato a curare il paziente anche al di là di ogni ragionevolezza[5].

Parallelamente all’accresciuta speranza di vita sono venuti alla luce conflitti etici prima sopiti e «si pensi all’esplosione di nuovi diritti – riconosciuti e affermati soprattutto per via giurisprudenziale – in materia di identità, di benessere e di salute della persona»[6].

Da questo momento inizia il progressivo abbandono di una concezione impersonale e oggettiva di benessere, per virare verso una sempre più marcata attenzione alla percezione individuale della salute e alle istanze di espressione delle scelte soggettive in ambito sanitario. Questo cambio di tendenza ha motivato, nel 2011, un’ulteriore variazione della definizione di salute da parte dell’OMS, oggi intesa come capacità di adattamento e di auto gestione di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive che la vita pone di fronte all’individuo, e quindi anche con riferimento a condizioni di malattia cronica o irreversibile.

Infatti, in considerazione di tale evoluzione, nel 2011, l’OMS ha esplicitato una nuova definizione di salute intesa come «la capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive»[7].

Per tale ragione la salute viene intesa come convivenza e accettazione dello stato di salute momentaneo, che consente di vivere autogestendosi, anche in condizioni di malattia irreversibile. Appare evidente la scomparsa dell’ottimismo della prima definizione e la presa di coscienza dell’esigenza di adattamento alle nuove frontiere della medicina.

Quel che qui rileva è che negli ultimi tempi si è andata affermando una definizione di salute che abbandona definitivamente il concetto negativo di salute come assenza di malattia, che sottolinea l’esigenza di curare le persone, non solo le malattie, che comporta il superamento di una condizione puramente biologica delle malattie, che richiama ad una responsabilità personale, che evidenzia il concetto di equilibrio dinamico fra individuo e ambiente e, infine, che esalta l’individuo nella sua unità e soggettività.

La salute diventa un processo dinamico in continuo divenire e strettamente collegata alla percezione individuale nei vari momenti della vita. Si tratta di una nuova concezione soggettivistica della salute che «è divenuta il fondamento di un concetto relativistico di beneficialità e di “bene” del paziente, non più identificato necessariamente con un bene oggettivo, ma con un bene che viene fatto corrispondere a ciò che aumenta lo stato di benessere soggettivo, secondo una “percezione” individuale di ciò che può essere considerato sinonimo di “desiderabile”, in base ai criteri di piacere/dolore, benessere/malessere, soddisfazione/insoddisfazione»[8].

In questa prospettiva, pienamente condivisibile, la salute non potrà essere identificata con una condizione stabile e perfetta, ma come un equilibrio dinamico che va a crearsi tra l’individuo e l’ambiente, non senza trascurare gli aspetti etici.

Il concetto di salute si sviluppa parallelamente con l’evolversi dell’idea di dignità e di integrità della persona. L’essere umano viene visto nella sua globalità e nella sua soggettività, nel suo valore individuale: il bene della persona non viene visto come un mero prolungamento delle funzioni vitali e il concetto di salute contempla il bene integrale dell’essere umano, in tutte le sue espressioni e non nelle sue mere funzioni vitali.

La malattia compromette l’integrità della persona, ma l’approccio esclusivamente biologico alla malattia da parte della medicina rischia di minacciare l’integralità dell’essere umano. Ne consegue la necessità di un rapporto col malato che non consideri solo gli aspetti strettamente clinici, ma abbracci anche il vissuto del paziente inteso come persona.

Infine non si può tralasciare la considerazione secondo cui la salute individuale è stata gradualmente vista in un’ottica sempre più ampia, fino ad includere tanto l’ambiente in cui l’uomo vive quanto il luogo di lavoro. Basti pensare alla Legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale che prevede tra gli obiettivi la «promozione e la salvaguardia della salubrità e dell’igiene dell’ambiente naturale di vita e del lavoro»[9].

La giurisprudenza, fin dalla prima sentenza n. 5172 del 6 ottobre 1979 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha affermato che il diritto all’ambiente salubre è corollario dell’art. 32 della Costituzione: «L’art. 32 Cost. oltre ad ascrivere alla collettività generale la tutela promozionale della salute dell’uomo, configura il relativo diritto come diritto fondamentale dell’individuo e lo protegge in via primaria, incondizionata e assoluta come modo d’essere della persona umana. Il collegamento dell’art. 32 Cost. con l’art. 2 Cost attribuisce al diritto alla salute un contenuto di socialità e di sicurezza, tale che esso si presenta non solo come diritto alla vita e all’incolumità fisica, ma come vero e proprio diritto all’ambiente salubre che neppure la pubblica amministrazione può sacrificare o comprimere, anche se agisca a tutela specifica della salute pubblica»[10].

Anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha affermato in modo significativo il diritto a vivere in un ambiente salubre, definendolo un valore primario ed assoluto[11].

Il concetto di salute si è evoluto nel tempo e al giorno d’oggi pare riduttivo voler dare una definizione che ricomprenda tutti i significati nei quali il concetto può essere inteso. Una soluzione potrebbe essere quella di considerarlo come una «formula sintetica con la quale si esprime la garanzia di una pluralità di situazioni soggettive assai differenziate fra loro e talvolta legate da un nesso tutt’altro che diretto»[12].

Parallelamente all’evolversi del concetto di salute, si è fatto faticosamente strada il diritto alla salute, che soltanto nel secondo dopoguerra viene espressamente affermato in Atti internazionali, contemporaneamente al riconoscimento a livello comunitario ed alla consacrazione nelle Carte costituzionali di molti Stati.

Il diritto alla salute trova la sua origine nell’esigenza di tutelare l’ordine pubblico e di difendere il benessere collettivo, minacciati da epidemie e pandemie, restando soltanto sullo fondo l’interesse individuale. Il singolo va curato, ma esclusivamente per salvaguardare la società, non perché sia titolare di pretese verso lo Stato. La disciplina della salute pubblica è dapprincipio affidata all’autorità politica, responsabile dell’ordine pubblico.

Solo in tempi successivi alla seconda guerra mondiale si afferma il diritto alla salute come diritto fondamentale dell’individuo, nel suo duplice aspetto di diritto di libertà erga omnes e di pretesa verso lo Stato alle prestazioni sanitarie. Contestualmente e inscindibilmente viene alla luce il principio del consenso informato, nel duplice significato di presupposto necessario di ogni trattamento sanitario e di limite nei confronti del legislatore e del medico. Il paradigma del consenso informato esprime l’autodeterminazione nelle scelte personali ed esistenziali.

L’evoluzione del diritto alla salute verso una marcata soggettività e l’attenzione alle istanze individuali di rispetto delle scelte terapeutiche hanno condotto all’affermazione manifesta del diritto di autodeterminazione terapeutica, già implicito nel testo costituzionale e poi portato ufficialmente alla luce da una coraggiosa giurisprudenza di merito e di legittimità, avallata anche dalle pronunce della Consulta, che ne ha ribadito il fondamento costituzionale.

Il dibattito che ha investito la società sulle scelte in tema di salute e di fine vita si è riverberato nelle aule giudiziarie e al contempo ha evidenziato la carenza normativa in una materia estremamente delicata e sentita dal singolo e dalla collettività. La giurisprudenza si è spinta anche ad evidenziare lo stretto legame tra autodeterminazione e dignità, concetto di difficile esplicazione, che valorizza la dimensione interiore individuale, fungendo da faro per la comprensione e l’accettazione delle scelte del malato.

In ambito nazionale, la Legge 22 dicembre 2017, n. 219, costituisce il tentativo di dare risposta alle istanze dei singoli e della collettività sul tema dell’autodeterminazione nei trattamenti sanitari, basandosi sulla pregressa esperienza giurisprudenziale di merito e di legittimità sull’argomento, e recependo i principi enunciati con vigore anche dalla Corte Costituzionale. Il principio del consenso informato, il rispetto della dignità del malato e l’esaltazione della relazione di cura tra medico e paziente costituiscono i pilastri su cui poggia la costruzione della legge.

La Consulta ha fatto recentemente riferimento alla normativa in oggetto, applicandola al tema del suicidio medicalmente assistito, richiamando al contempo l’attenzione del Parlamento su alcuni pericolosi vuoti legislativi nella stessa materia. Tale segnalazione però non ha sortito effetto, al punto da costringere la Corte ad un intervento “normativo” anomalo, che, secondo parte della dottrina, ha messo in discussione le prerogative del Parlamento e ha leso lo spirito di leale collaborazione che dovrebbe contraddistinguere i rapporti tra organi istituzionali.

La sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, se da un lato ha messo un punto fermo su un tema molto delicato come la non punibilità dell’aiuto al suicidio in presenza di specifiche condizioni, dall’altro ha aperto l’interrogativo su quale possa essere lo sviluppo futuro della Legge n. 219/2017.

Infatti, dopo l’emanazione di tali disposizioni, restano ancora aperti molti interrogativi, riconducibili alla configurazione del rapporto tra il diritto di salute, nel suo duplice aspetto soggettivistico e pubblicistico, ed il principio di autodeterminazione, come espressione del più generale principio di libertà personale, qui riferito alle scelte terapeutiche individuali.

Tale libertà è assoluta o incontra dei limiti giuridici nella sua possibilità di espressione? Si può davvero parlare di alleanza terapeutica tra medico e paziente e come deve essere ridisegnata la relazione di cura, auspicata dalla legge, per rispettare sia la libertà di scelta del malato sia l’autonomia e la professionalità del medico?

2. Il riconoscimento del valore individuale del diritto alla salute nella giurisprudenza di merito e di legittimità

Il diritto alla salute contemplato dall’art. 32 Costituzione rappresenta una fattispecie complessa ed è l’immagine di una realtà sfaccettata.

In dottrina vi è chi parla di «diritti alla salute»[13] proprio per significare la pluralità di posizioni soggettive tutelate, in quanto in un’unica disposizione costituzionale trovano riconoscimento un diritto di libertà e un diritto sociale a prestazioni. Il primo è espresso dal primo comma, prima parte dell’art. 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»), e dal secondo comma, che esclude l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari se non per disposizione di legge e comunque nel limite del rispetto della persona umana. Il secondo è fondato sul primo comma dell’art. 32, sia nella parte che tutela la salute sia in quella che impone alla Repubblica di garantire cure gratuite agli indigenti.

La disamina va qui incentrata sul diritto di libertà, applicato alla particolare fattispecie del diritto alla salute, nella sua espressione di autodeterminazione e di riconoscimento della soggettività del paziente. L’interrogativo sul carattere e sulla tutela di tale diritto può spingersi fino ad indagare quali siano attualmente i suoi limiti e le sue prospettive di sviluppo, facendo peraltro attenzione a non sconfinare dalla tematica strettamente giuridica, sebbene sia già intuibile lo stretto e a volte difficilmente dipanabile intreccio tra diritto e bioetica sul tema salute.

In questa disamina è necessario prendere le mosse dal concetto di salute, rammentando la sua evoluzione storica e la sua progressiva estensione dall’ambito della mera e statica assenza di malattie ad un’accezione di stato di benessere dinamico, come processo in continuo divenire e come accettazione della propria situazione. Va posto l’accento sulla soggettività di tale accettazione, nel significato di relatività, di riferimento alla persona in tutta la sua storia e il suo bagaglio culturale, morale ed etico. La salute non si esaurisce nell’integrità fisica e la percezione soggettiva della condizione di salute da parte del paziente diventa il faro che deve guidare le scelte terapeutiche, sia che vengano coscientemente e liberamente espresse dallo stesso, sia che debbano guidare il rappresentante dell’incapace e del paziente in stato vegetativo permanente.

Si tratta di principi faticosamente emersi dalle pronunce della giurisprudenza di merito e di legittimità, in assenza di disciplina legislativa. L’affermazione del valore della soggettività nella salute e del principio di autodeterminazione nella sua attuale espansione è piuttosto recente ed ha seguito un percorso gravoso, che ha necessitato di molti anni di enunciazioni giurisprudenziali e di studi dottrinali prima di giungere ad una chiara identificazione legislativa, che in Italia ha trovato suggello nella Legge n. 219/2017.

Si vedrà come la giurisprudenza abbia fatto applicazione dell’art. 32 Cost., che garantisce ad ogni individuo un diritto di libertà nell’ambito della salute, nel significato più ampio che quest’ultimo concetto è andato progressivamente assumendo. In altri termini, «nessun soggetto può essere obbligato, costretto o impedito, da altre persone o dalle pubbliche autorità, nei comportamenti che egli assuma o intenda assumere relativamente a quello specifico settore della vita materiale definito dal concetto di salute: in ciò si sostanzia il contenuto della libertà di salute»[14].

La libertà di salute rimette all’individuo la decisione su come godere del proprio stato di salute, includendo in questo tanto la scelta attiva di curarsi e come curarsi, quanto il diritto di rifiutare le cure. La Corte di Cassazione ha accolto questa ricostruzione della libertà di salute nella storica sentenza n. 21748/2007, pronunciata nel caso di Eluana Englaro, che si affronterà nel prosieguo. Si è affermato che il diritto alla salute «come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato»[15] e che include finanche il «diritto di lasciarsi morire»[16]. Espressioni forti, che non solo hanno aperto un varco nel muro della intangibilità della vita sostenuta da certa visione etica della sacralità della vita, ma anche ravvivato discussioni mai sopite su temi ancora drammaticamente aperti come l’eutanasia ed il suicidio assistito.

Questa configurazione della libertà di salute non esclude peraltro che possa essere soggetta a limitazioni, nel rispetto del dettato costituzionale. Al pari di tutti i diritti di libertà «anche la libertà di scelta terapeutica può incontrare e di fatto incontra, alcuni limiti. Ne consegue che il terreno dell’interpretazione costituzionale è specificamente caratterizzato dalla necessità di individuare quali diritti soggettivi, quali interessi generali e quali condizioni possano giustificare le limitazioni della libertà costituzionalmente protetta e quali, invece, debbono cedere di fronte all’affermazione di tale libertà»[17].

Si entra allora nell’ambito dei trattamenti sanitari obbligatori, coattivi e necessitati, secondo la distinzione espressa dalla Corte Costituzionale e sopra precisata.

Per giungere alla traduzione in legge del principio di libertà enunciato dall’art. 32 Costituzione è stato necessario il coraggioso apporto della giurisprudenza, che trovandosi a dirimere controversie attinenti le istanze di riconoscimento del diritto di autodeterminazione terapeutica dei cittadini ha preso posizione e ha costituito l’avanguardia del riconoscimento di tale principio.

La disamina di alcuni casi clinici famosi darà il giusto risalto alle pronunce giurisprudenziali che, nel precedente vuoto normativo, hanno segnato la traccia per il legislatore del 2017 e per la nuova disciplina di tematiche strettamente coinvolgenti il diritto e la bioetica.

Diritto e bioetica si confrontano su un terreno complesso, dove i valori in gioco sono molteplici: il diritto alla vita, la tutela della dignità personale nella malattia fino alla morte, il diritto alla salute, il diritto all’autodeterminazione, la concezione della persona nella sua integrità e integralità, il principio di beneficenza, il principio di autonomia, la solidarietà.

Nell’ambito della salute «il diritto è inevitabilmente chiamato in causa dalle questioni bioetiche»[18], non solo con riferimento alla regolazione normativa ma anche al contributo fondamentale dato dalla giurisprudenza, di cui  autorevole dottrina sottolinea l’andamento altalenante sul tema, a tratti in difesa delle istanze di attuazione della Carta Costituzionale ed a tratti contrario: «Un’attenta considerazione delle pronunce giurisprudenziali su questioni bioeticamente rilevanti, susseguitesi dagli inizi degli anni Novanta a oggi, evidenzia l’alternanza di fasi propulsive, in cui sono state pronunciate sentenze che si segnalano per la coerente e coraggiosa applicazione dei principi costituzionali e di fasi recessive, nelle quali non sono mancate decisioni al limite della denegata giustizia»[19].

L’approfondimento di alcuni esempi è di preliminare importanza al fine di comprendere come si sia giunti all’affermazione del principio di autodeterminazione e alla Legge n. 219/2017, e su quali istanze si fondino le scelte operate dal Legislatore. Anche l’esame della giurisprudenza formatasi in tali circostanze evidenzierà la sintonia tra la Legge del 2017 e le soluzioni che la giurisprudenza aveva elaborato, in assenza di norme positive, facendo riferimento ai principi costituzionali.

Le diverse vicende Welby, Englaro e Dj Fabo sono accomunate dalla drammaticità di malattie gravi ed irreversibili, che hanno scosso dapprima la coscienza dei congiunti stretti e dei sanitari coinvolti, e poi degli organi giurisdizionali e istituzionali dello Stato fino a raggiungere l’intera società italiana e a portare alla ribalta la scottante attualità di tematiche giuridiche e bioetiche molto sentite.

Sono casi in cui è venuta in discussione la dignità del vivere e del morire e più che mai su questi temi il Diritto ha dovuto evolversi per accogliere istanze etiche rappresentative di un mutamento culturale profondo sui temi molto sentiti del consenso informato e delle scelte sul fine vita.

2.1. Il caso Welby

Il primo caso paradigmatico è quello di Piergiorgio Welby.

Piergiorgio Welby era affetto da una grave e irreversibile forma di distrofia muscolare degenerativa, che gli impediva qualsiasi movimento, tranne quelli oculari e labiali, ed era tenuto in vita dal 1997 da un respiratore artificiale. Era perfettamente lucido e capace di intendere e di volere.

Nel 2006, consapevole degli esiti infausti della propria malattia, aveva chiesto di staccare l’apparecchio vitale e, dopo il rifiuto del medico, aveva inutilmente rivolto appelli al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Commissioni Sanità e Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato per ottenere la sospensione del trattamento di assistenza respiratoria meccanica che da anni lo teneva in vita.

Nello stesso anno aveva proposto un ricorso ex art. 700 C.P.C. al Tribunale civile di Roma, facendo perno sugli artt. 13 e 32 della Costituzione. Chiedeva un provvedimento d’urgenza che ordinasse al suo medico curante di staccare il respiratore artificiale e di somministrargli contestualmente una sedazione terminale.

Con ordinanza del 16/12/2006 il Tribunale di Roma dichiarava inammissibile la domanda con la motivazione che il diritto all’autodeterminazione del paziente, ed in particolare il diritto all’interruzione del trattamento terapeutico non voluto, pur sussistendo nell’ordinamento, non era concretamente tutelato. In mancanza di disciplina giuridica era rimessa la scelta alla discrezionalità del singolo medico, alla sua coscienza individuale e alle sue concezioni etiche, religiose e professionali.

Alla base della pronuncia stava l’enunciazione che un diritto può dirsi effettivo e tutelato solo se l’ordinamento prevede la possibilità di realizzazione coattiva della pretesa, in caso di mancato spontaneo adempimento alla richiesta del titolare che intenda esercitarlo. Inoltre nell’ordinanza Il Tribunale sottolineava che quando da un trattamento sanitario dipende la vita del paziente, non si può trattare di accanimento terapeutico.

Welby moriva a Roma il 20 dicembre 2006, realizzando la propria volontà di interrompere il trattamento grazie all’intervento spontaneo di un anestesista, il dr. Mario Riccio. Quest’ultimo, essendo disponibile ad accettare la volontà del paziente, interrompeva la ventilazione meccanica, praticandogli contestualmente la sedazione terminale.

A carico dell’anestesista si apriva un procedimento sulla sua condotta professionale promosso dall’Ordine dei Medici di Cremona. Furono presi in considerazione due elementi: la volontà chiara, decisa e inequivocabile del paziente perfettamente in grado di intendere e di volere e di esprimersi, e il fatto che il dr. Riccio non aveva somministrato farmaci atti determinare la morte e che la sedazione terminale era in linea con i normali protocolli. Il caso fu archiviato.

In seguito si apriva un procedimento penale con l’imputazione per omicidio del consenziente ai sensi dell’art. 579 C.P.. Con sentenza del 23 luglio 2007, n. 2049,[20] il GUP del Tribunale di Roma dichiarava di non doversi procedere per il reato contestato.

Nella motivazione, affermava che il diritto di rifiutare le cure rientra tra i diritti personalissimi costituzionalmente protetti e, pertanto, se il medico contribuisce, in accoglimento della richiesta del paziente, a determinarne la morte interrompendo la terapia salvavita non può rispondere penalmente per omicidio del consenziente in quanto ricorre la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di rispettare la volontà consapevole del paziente contemplata dall’art. 51 C.P.

Nel caso di specie, quindi, pur sussistendo tutti gli elementi costitutivi del reato previsto dall’art. 579 C.P., ovvero la condotta (cioè il distacco del respiratore artificiale che aveva causato la morte di Welby) e l’elemento psicologico (cioè la consapevolezza che l’interruzione della ventilazione assistita avrebbe cagionato la morte del paziente), operava in favore dell’anestesista la scriminante dell’art. 51 C.P. Va sottolineato che nel caso de quo la richiesta di interruzione della terapia manifestata da Welby era perfettamente valida, essendo personale, autentica, informata e attuale.

In particolare, la sentenza in esame criticava l’ordinanza del 16/12/2006 del Tribunale di Roma nella parte in cui, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto costituzionalmente garantito, come quello all’autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari, lo lasciava sguarnito di tutela sulla base della mancanza di una disciplina legislativa ordinaria specifica.

Meritano di essere citate le parole del Giudice dell’Udienza Preliminare di Roma quando scrive: «Quando si riconosce l’esistenza di un diritto di rango costituzionale, quale quello all’ “autodeterminazione individuale e consapevole” in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta dell’esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali gli artt. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, e 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580, c.p., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio, nonché quali gli artt. 35 e 37 del codice di deontologia medica»[21].

Di grande interesse anche il prosieguo del ragionamento perché, a detta del GUP, «se si accogliesse una tale conclusione, potremmo incorrere in una palese violazione dei principi che presiedono alla disciplina della gerarchia delle fonti, in quanto non è consentito disattendere l’applicazione di una norma costituzionale sulla scorta dell'esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore, perché delle due è l’una: o si privilegia l’interpretazione che faccia salvo il principio costituzionale con immediata applicazione di quest’ultimo, disattendendo l’interpretazione contraria della norma, (omissis)oppure, in caso di insuperabile conflitto, si deve sollevare questione di legittimità costituzionale, ma certamente non si può lasciare inattuato un principio costituzionale e senza tutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende»[22].

È evidente il disagio dell’interprete che dovendo applicare un principio costituzionalmente protetto, come quello dell’autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari, si trova di fronte alla mancanza di normativa di attuazione ed addirittura a fonti di rango subordinato contrastanti con tale principio.

La pronuncia del Tribunale di Roma presenta ulteriori aspetti interessanti, in quanto svolge anche altre due considerazioni.

Innanzitutto il GUP osserva che non sussisteva neppure la necessità di ricorrere all’intervento della magistratura, in quanto il diritto di rifiutare le cure non è subordinato ad una valutazione preventiva dell’autorità giudiziaria sul singolo caso. Inoltre, il Giudice precisa che soltanto un medico, quale soggetto qualificato dotato di specifiche competenze e vincolato da doveri deontologici in ragione della sua professione, ha il dovere di rispettare il rifiuto delle cure espresso dal malato.

Nel caso in cui ponga in atto una condotta che causa la morte del paziente per volontà espressa da quest’ultimo nell’ambito del rapporto medico-paziente, risponde ad un preciso dovere che discende dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione. Al contrario, la medesima condotta posta in essere da un soggetto diverso e quindi esercitata al di fuori di un rapporto terapeutico, non risponde ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto.

Nel caso Welby risalta la grande difficoltà incontrata dai giudici nel riconoscere che il diritto di autodeterminazione del paziente potesse prevalere sulla tutela della salute, in mancanza di una disciplina legislativa che espressamente tutelasse il consenso informato e il diritto di interrompere le cure vitali, nonostante il paziente perfettamente cosciente e consapevole avesse più volte espresso la volontà in tal senso.

Il caso di Piergiorgio Welby e del dr. Riccio rivelò un vuoto normativo. Se la Legge n. 219/2017 fosse esistita all’epoca dei fatti descritti, la richiesta di Welby avrebbe potuto essere inquadrata nella previsione dell’art. 1, comma 5, della Legge menzionata, riconoscendo al paziente il diritto di pretendere la sospensione dei trattamenti vitali ed il medico che avesse agito nel rispetto della volontà del paziente sarebbe andato esente da responsabilità penale ai sensi del successivo comma 6, per cui il dr. Riccio non sarebbe stato sottoposto a processo.

2.2. Il caso Englaro

La vicenda umana e giudiziaria di Eluana Englaro rappresenta un altro caso emblematico[23] che portò all’attenzione dell’opinione pubblica il problema del diritto di autodeterminazione e che nella fattispecie riguarda un soggetto in stato di incoscienza.

Giova ripercorrere la sua storia alla luce delle numerose pronunce giurisprudenziali intervenute, poiché da tali sentenze emerge tutto il disagio giuridico che ha indotto il Legislatore a cercare di dare una risposta concreta ad una problematica così complessa.

A seguito di un incidente stradale, fin dal 1992 Eluana Englaro si trovava in stato vegetativo permanente, mantenuta in vita attraverso alimentazione artificiale, ospitata dalle Suore Misericordiose presso un istituto di Como.

Secondo la scienza medica, lo stato vegetativo permanente (SVP) è la condizione clinica del soggetto che ventila, in cui gli occhi possono rimanere aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione all’ambiente, mentre le uniche risposte motorie costituiscono una mera redistribuzione del tono muscolare.

Già dal 1999 il padre, tutore della figlia interdetta, iniziò ad avanzare le prime richieste di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, evidenziando sia la natura irreversibile della condizione vegetativa di Eluana sia la circostanza che la medesima, quando ancora si trovava in salute, in relazione ad un evento tragico capitato ad un amico, aveva espresso l’opinione di ritenere inconciliabile quella condizione di vita rispetto alle proprie convinzioni sulla vita stessa.

Tali richieste furono subito respinte dal Tribunale di Lecco con decreto del 2 marzo 1999[24] e, in secondo grado, dalla Corte d’Appello di Milano con decreto del 31 dicembre 1999[25].

Con decreto del 26 dicembre 2006 la Corte d’Appello di Milano respinse nuovamente nel merito le istanze del sig. Englaro, ma con una motivazione che mostrava un’apertura verso la rilevanza della volontà del paziente incapace, manifestata in un momento anteriore alla perdita di coscienza.

La Corte, infatti, considerò insufficienti le prove fornite in giudizio per poter effettivamente attribuire a Eluana, quando era ancora cosciente, la sicura volontà di interrompere l’alimentazione artificiale. In questa decisione la Corte affermò di non avere la possibilità di accedere a distinzioni tra vite degne e non degne di essere vissute, dovendo fare riferimento unicamente al bene vita costituzionalmente garantito, indipendentemente dalla qualità della stessa e dalle percezioni soggettive che di detta qualità si possano avere. Il bilanciamento tra il bene giuridico della vita, da un lato, e quelli della dignità e dell’autodeterminazione della persona, dall’altro, ad avviso della Corte non poteva che risolversi in favore del primo.

La decisione della Corte d’Appello di Milano fu annullata dalla Corte di Cassazione con la storica sentenza n. 21748 del 2007[26], con cui rimise le parti dinanzi ad una Sezione diversa della stessa Corte d’Appello, ritenendo insufficiente l’esame dei giudici sul punto di fatto della presunta volontà di Eluana.

Questa sentenza della Suprema Corte rappresenta uno spartiacque sulle tematiche in oggetto, poiché da un lato esclude che il diritto all’autodeterminazione possa incontrare un limite quando da esso derivi il sacrificio della vita del paziente e, dall’altro lato, afferma che il diritto alla salute costituzionalmente garantito comporta la tutela anche della sua accezione negativa, ovvero il diritto di perdere la salute, ammalarsi, non curarsi e perfino di lasciarsi morire.

In questa pronuncia la Corte di Cassazione esalta il valore del consenso informato, l’importanza della percezione individuale della salute e la dimensione soggettiva del diritto ad essa connesso, affermando: «Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, (omissis) e guarda al limite del rispetto della persona umana in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive»[27].

Questa enunciazione è coerente anche con la nuova dimensione assunta dal concetto di salute, non più come mera assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico e anche con il concetto più avanzato di salute come accettazione del proprio stato, perché «coinvolgente, in relazione alla percezione che ognuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita»[28].

Inoltre, la Corte di Cassazione differenzia nettamente l’eutanasia, quale comportamento volto ad abbreviare la vita causando positivamente la morte, dal rifiuto delle cure, anche se questo conduce alla morte. Ne consegue la precisazione che la responsabilità del medico per omissione delle cure può sussistere solo se esiste, per il sanitario, l’obbligo di eseguire la terapia, quando tale obbligo si fonda sul consenso del paziente, e pertanto cessa quando viene meno tale consenso, in conseguenza al rifiuto espresso dal paziente.

In tale occasione la Suprema Corte ha anche precisato che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso gastrico costituiscono a tutti gli effetti un trattamento sanitario, che presuppone competenze scientifiche, e che non costituisce di per sé un accanimento terapeutico, che al contrario si potrebbe prefigurare quando l’organismo non assimili più le sostanze fornite o sopravvenga uno stato di intolleranza clinicamente accertato.

Con riferimento particolare alla posizione dell’incapace, la Corte di Cassazione ha chiarito che la natura personalissima del diritto alla salute osta al riconoscimento al tutore di un potere incondizionato di disporre della salute della persona priva di coscienza. Il rappresentante deve agire nell’interesse esclusivo dell’incapace e deve ricostruirne la presunta volontà prima che cadesse nello stato di incoscienza. Di conseguenza, l’intervento dell’Autorità Giudiziaria in tale ipotesi rappresenta un controllo di legittimità della decisione assunta dal rappresentante nell’interesse dell’incapace, da cui consegue l’eventuale autorizzazione alla decisione stessa.

In sede di rinvio, la Corte d’Appello di Milano, con Decreto del 9/7/2008, accolse la richiesta del padre di Eluana, autorizzandolo a disporre l’interruzione del trattamento artificiale, sulla base della presunta volontà espressa dalla figlia, quando ancora era cosciente, ricostruita attraverso le testimonianze di parenti ed amici.

La vicenda tuttavia non si arrestò, poiché il Procuratore Generale presentò ricorso avverso tale decreto, ma fu dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 27145 del 13/11/2008.

La Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica presentarono ricorso per conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale contro la sentenza n. 21748/2007 della Corte di Cassazione e il Decreto del 9 luglio 2008 della Corte d’Appello di Milano, ma anche tale ricorso fu dichiarato inammissibile dalla Consulta con Ordinanza n. 334 dell’8 ottobre 2008. A detta delle Camere, il Giudice nei provvedimenti in oggetto si sarebbe trasformato in Legislatore, superando i limiti imposti al Potere Giudiziario dall’ordinamento.

La Corte Costituzionale con tale provvedimento svolse una funzione di pungolo al legislatore, palesemente inerte di fronte alla necessità di dare adeguata risposta normativa in un materia sentita e delicata, come il fine vita. Nella motivazione dell’ordinanza, infatti, si legge: «che la vicenda processuale che ha originato il presente giudizio non appare ancora esaurita, e che, d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti»[29].

Nella vicenda si inserì anche la Regione Lombardia che, con provvedimento del 3 settembre 2008 vietò alle proprie strutture di sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiale in favore di Eluana, in aperto contrasto con quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano. La Regione sosteneva che il decreto dei giudici meneghini non avrebbe potuto far stato nei suoi confronti, trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione.

Il padre di Eluana presentò ricorso al TAR della Lombardia, che con sentenza n. 214/2009 annullò il provvedimento della Regione Lombardia, la quale però neppure allora mise a disposizione una struttura sanitaria che permettesse la messa in atto della decisione della Corte d’Appello di Milano. La Regione Lombardia propose appello contro la sentenza n. 214/2009 del TAR, rigettato dal Consiglio di Stato con pronuncia n. 4660 del 2014.

Da segnalare anche l’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Sez. II, Ada Rossi ed altri c./ Italia – ricorso n. 55185/2008). Il 16 dicembre 2008 la Corte di Strasburgo dichiarò l’irricevibilità del ricorso presentato da 7 associazioni e 6 cittadini italiani che, con riferimento al caso Englaro, lamentavano una violazione degli articoli 2, 3 e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ovvero gli articoli che prevedono il diritto alla vita, il divieto della tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti e il diritto all’equo processo.

La Corte EDU, applicando l’articolo 34 della CEDU e la relativa giurisprudenza, respinse il ricorso, dichiarandolo irricevibile per mancanza di legittimazione ad agire dei ricorrenti in assenza della qualità di vittima. In altri termini, i ricorrenti in sede europea non coincidevano con gli attori dei processi italiani, mentre, secondo l’articolo 34 della CEDU, possono adire la Corte soltanto coloro che, persone fisiche o giuridiche, organizzazioni non governative o gruppi di privati, si pretendono vittime di una violazione da parte degli Stati aderenti alla CEDU di uno dei diritti garantiti dalla stessa o dai suoi protocolli.

Eluana Englaro morì il 9 febbraio 2009 presso una RSA di Udine, ove fu eseguito il provvedimento che autorizzava l’interruzione del trattamento artificiale.

Oltre otto anni dopo la morte di Eluana, con sentenza n. 3058/2017, il Consiglio di Stato ha condannato la Regione Lombardia al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali in favore del padre di Eluana, subiti iure proprio e iure hereditatis per la lesione alle relazioni familiari e al rapporto parentale, conseguenti alla decisione della Regione Lombardia di impedire l’interruzione dei trattamenti vitali[30].

La penosa vicenda di Eluana Englaro ha indubbiamente aperto nuovi orizzonti in tema di rifiuto o interruzione dei Life-Sustaining Treatments, con paziente privo di coscienza, illuminati dalla sentenza n. 21748/2007 della Suprema Corte, che ammette tale possibilità in presenza di due condizioni: irreversibilità della prognosi e dimostrazione dell’effettiva volontà del paziente di rifiutare i trattamenti sanitari che lo tengono in vita.

Il principio di autodeterminazione trova le sue radici nella Carta costituzionale, in accordo «al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa»[31].

Tuttavia, i principi di diritto enunciati in tale pronuncia hanno suscitato da subito molti dubbi, palesandosi il rischio di abuso di tali principi. Si pensi alla possibilità dell’errore del medico in merito all’irreversibilità della prognosi e al fatto che le opinioni espresse dal paziente, quando ancora godeva di salute, non possano essere sufficienti a suffragare la sua volontà di interruzione del trattamento vitale, essendo invece necessaria una dichiarazione scritta del paziente, mai revocata o smentita.

La sentenza n. 21748/2007 della Suprema Corte ha aperto la strada anche alla successiva giurisprudenza di merito, che è giunta ad autorizzare la negazione del consenso ai trattamenti sanitari da parte dell’amministratore di sostegno, attraverso la ricostruzione della volontà dell’incapace[32].

Anche la Giurisprudenza amministrativa è intervenuta sulla questione, ribadendo che i pazienti in stato vegetativo permanente, non in grado di esprimere la propria volontà sulle cure, non devono essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso, quando sia possibile ricostruire la loro volontà[33].

2.3. Fabiano Antoniani

Un terzo caso paradigmatico, ma diverso da quelli precedentemente esaminati, è quello di Fabiano Antoniani, noto come “Dj Fabo”.

A seguito di un incidente stradale avvenuto il 13 giugno del 2014, Fabiano era diventato cieco e tetraplegico. Dopo aver acquisito consapevolezza dell’inesistenza di cure per le sue problematiche, aveva comunicato ai propri cari la volontà di porre fine alla propria vita, fatta solo di sofferenze impossibili da alleviare con i farmaci, oltre alla sofferenza morale di aver visto sfumare una carriera da broker e all’impossibilità di coltivare la sua grande passione per la musica. Egli descriveva la condizione in cui era sprofondato come “una notte senza fine”.

Con l’aiuto della fidanzata aveva realizzato un video in cui chiedeva aiuto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, affinché gli fosse concesso di morire in Italia. Contestualmente Dj Fabo aveva acquisito informazioni sulle strutture svizzere in cui veniva praticata l’assistenza al suicidio.

Dopo il terzo rinvio della legge sul testamento biologico, Dj Fabo decideva di recarsi presso una clinica svizzera ed in questo viaggio veniva accompagnato da Marco Cappato, esponente del Partito radicale e leader dell’Associazione “Luca Coscioni”. Il suicidio assistito gli veniva amministrato dopo una visita medica e psicologica, allo scopo di confermare l’irreversibilità della sua condizione e la sua volontà di morire.

Dj Fabo moriva il 27 febbraio 2017.

In seguito è stato aperto un procedimento penale nei confronti di Marco Cappato, imputato del reato previsto dall’art. 580 C.P., per aver rafforzato il proposito suicidario di Dj Fabo e averne agevolato il suicidio. Cappato veniva assolto dalla Corte d’Assise di Milano per la parte che lo vedeva imputato di istigazione al suicidio, mentre per l’agevolazione al suicidio il processo veniva sospeso, perché la Corte aveva emesso un’ordinanza di rimessione alla Consulta per il giudizio di incostituzionalità dell’art. 580 C.P.

La Corte Costituzionale con ordinanza n. 207/2018 aveva sospeso il giudizio, riconvocandosi per il 24 settembre 2019 e invitando il Parlamento ad intervenire entro tale data per offrire «la tutela di determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti»[34]. In assenza di un’azione legislativa, la Corte programmava di riunirsi nella data indicata per riaprire il giudizio di costituzionalità.

Evitando di condannare o assolvere Cappato, la Corte d’Assise di Milano aveva portato alla luce il problema inerente la presunta incostituzionalità dell’art. 580 C.P. nella parte in cui punisce l’agevolazione al suicidio perché violerebbe i principi di libertà contenuti negli artt. 3, 13 e 117 della Costituzione.

I giudici meneghini ritennero infatti che in forza del combinato disposto di tali articoli il suicidio costituisca esercizio di libertà dell’individuo e che con la Legge n. 219/2017 il legislatore avrebbe espressamente riconosciuto ai soggetti capaci il diritto di decidere di lasciarsi morire.

Nell’inerzia del legislatore, con sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, la Corte Costituzionale sanciva l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 C.P. «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) (omissis) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»[35].

Si tornerà in seguito su questa importante pronuncia, ricca di affermazioni di principio e di spunti di riflessione sulla questione dell’autodeterminazione terapeutica, così come disciplinata dalla Legge n. 219/2017.

Il caso Dj Fabo rappresenta altresì il punto di partenza per serie e concrete riflessioni sullo spinoso tema dell’eutanasia in Italia. La differenza con i casi precedenti è che qui non si è trattato di rifiuto e interruzione delle cure vitali, ma di vera e propria causazione diretta della morte del paziente, in ossequio alla sua cosciente ed esplicita volontà di porre termine alla propria vita.

Nella fattispecie, infatti, la Corte d’Assise di Milano aveva preso in considerazione anche la Legge n. 219/2017, ritenendo che l’art, 1, comma 5, abbia introdotto nel nostro ordinamento un diritto a morire, rifiutando i trattamenti sanitari, escludendo che ciò possa essere inteso come diritto al suicidio assistito. Nell’interpretazione della Corte d’Assise, il Legislatore ha riconosciuto ad ogni soggetto capace la possibilità di disporre della propria vita nel senso di poter scegliere di non curarsi, ma non nel senso di poter richiedere al Servizio Sanitario Nazionale l’applicazione di un trattamento o anche solo la prescrizione di un farmaco che procuri la morte.

Tale comportamento, anzi, è espressamente vietato dalla L. n. 219/2017, art. 1, sesto comma, in quanto contrario a norme di legge.

Dalla nutrita rassegna giurisprudenziale concernente i tre casi paradigmatici di Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e Dj Fabo, pur nella loro diversità, emerge un comune denominatore, vale a dire il porre al centro dell’attenzione le istanze individuali di salute, l’autonomia del paziente e la sua libertà di determinarsi.

La libertà di salute tocca il valore unitario e inscindibile della persona, che non è più considerata solo nella sua fisicità, ma anche in base al suo vissuto e ai suoi convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici. In quest’ottica il paziente non è più in condizione di soggezione al medico, ma diventa protagonista di quell’alleanza terapeutica, che rappresenta anche uno degli obiettivi della recente Legge Gelli – Bianco n. 24 dell’8 marzo 2017, cioè quello di «rinsaldare l’essenziale patto solidale tra medici (e più in generale tra esercenti la professione sanitaria) e pazienti, consentendo ai primi di recuperare la necessaria serenità d’azione e garantendo ai secondi un ombrello di protezione effettivo ed efficace»[36].

3. Il principio di autodeterminazione terapeutica nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale

Secondo una delle prime accezioni in cui è stato usato, il principio di autodeterminazione è quello «in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna)»[37].

Fu proposto durante la Rivoluzione Francese e poi sostenuto da statisti come Lenin e Wilson. Quest’ultimo lo affermò in occasione del Trattato di Versailles del 1919, che pose fine al primo conflitto mondiale e poi fu enunciato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945). Il principio di autodeterminazione dei popoli fu successivamente ribadito nella Dichiarazione dell’Assemblea generale sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960), nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966), e nella Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata all’Assemblea generale dell’ONU nel 1970.

Nel linguaggio corrente il diritto all’autodeterminazione viene inteso come diritto individuale di scelta autonoma e indipendente. Tale espressione venne anche utilizzata nelle lotte femministe per i diritti civili e politici delle donne a partire dal 1800 e poi particolarmente sviluppatesi negli anni Sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti e Settanta in Italia.

Con il termine autodeterminazione si adopera quindi una nozione che ha rilevanza giuridica nel contesto del diritto internazionale e che nel linguaggio comune assolve a un compito politico – rivendicativo, ma è un concetto che ha trovato spazio anche nelle Carte costituzionali dei singoli Stati e a livello comunitario sovranazionale.

La Costituzione italiana non contiene un riferimento esplicito al principio di autodeterminazione, ma dall’esame della giurisprudenza di merito e di legittimità nei tre casi paradigmatici sopra considerati, si è visto come le espressioni “principio di autodeterminazione” e “diritto all’autodeterminazione terapeutica” siano correntemente utilizzate in relazione all’art. 32 Cost., come esplicitazione del diritto fondamentale alla salute e del divieto di subire un determinato trattamento sanitario contro la propria volontà, salvi i casi previsti dalla legge e comunque sempre nel rispetto della persona umana.

Come si è accennato, anche la giurisprudenza costituzionale più recente, intervenuta nel caso Dj Fabo, ha fatto applicazione di tale concetto, che peraltro aveva già trovato esplicitazione in alcune pronunce precedenti della Consulta, venendo alla luce nella stretta trama che lega gli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione ed in particolare nella inscindibilità tra diritto alla salute e principio del consenso informato.

Il concetto emerge negli anni Novanta del secolo scorso, quando la Corte Costituzionale generalizza il principio secondo il quale non si può essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori contro la propria volontà, stabilisce che la libertà di disporre del proprio corpo è espressione della libertà personale riconosciuta e protetta dall’art. 13 Cost. come diritto inviolabile che garantisce la persona non diversamente dal diritto alla vita ed all’integrità fisica[38] e sottolinea il legame con il diritto alla salute, citando «l’autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale»[39].

Con sentenze n. 438/2008 e n. 253/2009 la Corte Costituzionale cita il diritto di autodeterminazione definendolo “fondamentale della persona” e ponendolo ancora una volta in relazione al principio del consenso informato, che costituisce il caposaldo del diritto individuale ad essere informato in modo completo ed esaustivo per poter decidere consapevolmente ed autonomamente riguardo ai trattamenti sanitari a cui sottoporsi.

Nella prima delle sentenze citate, la Corte afferma che «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione»[40].

Similmente nella seconda sentenza la Corte ribadisce che «il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute»[41].

Con queste sentenze la Corte Costituzionale affronta per la prima volta il tema del fondamento costituzionale del consenso informato agli atti medici e lo fa in modo inatteso e innovativo[42], trattandosi di affermazioni impegnative e rilevanti, rese nell’ambito di giudizi in via principale relativi ad alcune leggi rispettivamente della Regione Piemonte e della Provincia autonoma di Trento, che disciplinavano il consenso dei genitori e dei tutori per l’uso di sostanze psicotrope sui minori.

La Corte affronta in queste sentenze il problema del riparto di competenze tra Stato e Regioni in tema di consenso informato, riservando al legislatore statale l’individuazione dei soggetti abilitati ad esprimerlo per trattamenti su minori e la determinazione delle forme del suo rilascio.

In queste pronunce, la Corte Costituzionale afferma l’esistenza di un autonomo diritto all’autodeterminazione in ordine alla propria salute, distinto dal diritto alla salute stesso, definendolo un diritto fondamentale della persona. Il percorso argomentativo muove non solo dall’art. 32 Cost., ma dai principi espressi dall’art. 2 Cost. che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona e dall’art. 13, primo comma, Costituzione, disposizione che non solo contempla l’inviolabilità della libertà personale, ma in essa «è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo»[43] e di perseguire il pieno sviluppo di sé come singolo e nelle relazioni sociali, in conformità all’art. 2.

La libertà di cura contemplata dall’art. 32 Cost. in forma negativa, cioè come divieto di subire un determinato trattamento sanitario contro la propria volontà assume, alla luce delle disposizioni degli artt. 2 e 13 Cost., una connotazione attiva come libertà di decidere del proprio corpo, di scegliere se, come, dove e quando curarsi, accedendo ad un trattamento sanitario appropriato da un punto di vista clinico ma anche conforme alla soggettività del paziente in ogni suo aspetto.

L’esplicita affermazione della Consulta sull’autonoma esistenza di un diritto di autodeterminazione non dovrebbe suffragare dubbi sulla reale portata di tale principio e sul suo fondamento costituzionale, ma il dibattito dottrinale è da sempre molto acceso. Posto che non esiste una norma costituzionale che riconosca claris verbis un diritto all’autodeterminazione, la dottrina ha cercato in vario modo di ricomprenderlo tra i diritti costituzionali o, all’opposto, si è battuta per la sua esclusione dal novero di tali diritti.

Parte della dottrina costituzionalistica prende spunto dall’art. 13 Cost., letto congiuntamente ad altre disposizioni, come per l’appunto il diritto a rifiutare le cure di cui all’art. 32 Cost., e reputa che si debba riconoscere un più generale diritto all’autodeterminazione della persona[44]. È una lettura che si richiama alle argomentazioni svolte dalla giurisprudenza costituzionale.

Questa teoria è stata criticata da chi ritiene «poco convincente il richiamo all’art. 13 della Costituzione che riguarda in modo specifico le restrizioni fisiche poste in essere dalla autorità inquirenti (e non come pure talvolta prospettato la “libertà morale”). Più corretto il riferimento rappresentato dall’art. 32 della Costituzione, che richiedendo il consenso della persona per le terapie, e quindi riconoscendo il “diritto a rifiutare le cure”, implicitamente riconosce un diritto del paziente a che la malattia faccia il suo corso, anche scontando un esito letale della stessa»[45].

Vi è anche chi ha individuato nella Costituzione italiana e nelle più recenti Carte internazionali e sovranazionali un generale diritto all’autodeterminazione come espressione di una sovranità su di sé e sul proprio corpo, che si tradurrebbe in un moderno Habeas corpus[46]. La matrice del principio viene fatta risalire alla Magna Charta Libertatum del 1215: «Pensiamo, ad esempio, alla Magna Charta e al suo habeas corpus, all’antica promessa che, nel 1215, il re fa ad ogni “uomo libero”: non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese»[47].

Secondo questa lettura, la nostra Costituzione rinnova il patto tra autorità statale e cittadini, in quanto solo il legislatore può imporre trattamenti sanitari obbligatori, senza mai violare il limite del rispetto della persona umana.

Altri indirizzi dottrinari escludono o al contrario inseriscono il diritto all’autodeterminazione tra i diritti costituzionali, facendo leva su due interpretazioni alternative della clausola dell’art. 2 Cost. sui diritti inviolabili dell’uomo: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Alcuni studiosi danno un’interpretazione restrittiva del catalogo dei diritti costituzionali, in particolare quelli fondamentali, che sarebbero un corpo chiuso, cioè unicamente quelli espressamente previsti, e non ammettono la possibilità di una lettura estensiva dell’art. 2 Cost. Anzi, tale norma rappresenterebbe il limite e il bilanciamento di libertà, diritti e doveri, e ammetterne di nuovi creerebbe uno squilibrio, in quanto i diritti costituzionalmente previsti incorrono in una serie di limiti, mentre questi nuovi presunti diritti non essendo espressamente positivizzati, godrebbero di un regime privilegiato[48].

Questa parte della dottrina costituzionalistica esclude la sussistenza nel nostro ordinamento di un generale principio di autodeterminazione in ambito sanitario dal quale far discendere la tutela di generiche pretese riguardanti il governo del proprio corpo, a meno che esse non siano espressamente contemplate nei singoli diritti di libertà riconosciuti dalla Costituzione[49].

La Costituzione non parla di autodeterminazione in alcuna delle sue disposizioni e, in linea con le Carte costituzionali del secolo scorso, essa tende a tutelare specifiche situazioni di libertà e non una generica libertà individuale. Viene quindi escluso che si possa ragionare di diritto di autodeterminazione costituzionalmente protetto, in quanto: «La Costituzione, che si esprime con un linguaggio giuridico in termini di diritti e di libertà, non esprime una nozione di autodeterminazione, ma semmai può qualificare alcune scelte e decisioni dell’individuo in modo puntuale»[50].

Secondo questa interpretazione, la Costituzione ha tipizzato un complesso di figure e le ha qualificate come diritti e libertà, cioè «come situazioni positivamente contemplate e tutelate distintamente in base a discipline particolari e tipiche»[51].

In quest’ottica non si potrebbe parlare di un’autodeterminazione dell’individuo generalmente meritevole di tutela in ambito costituzionale, quanto di un giudizio sulla meritevolezza delle singole decisioni assunte[52]. Secondo questo orientamento, «i costituenti non avrebbero inteso consacrare nell’art. 32 Cost. il principio di autonomia rispetto alle cure come specificazione di un più generale principio di libertà che informerebbe l’intera Costituzione, mentre miravano soltanto ad escludere il ripetersi di alcuni drammatici episodi di utilizzo delle persone a fini sperimentali, i quali erano stati perpetrati specialmente ( ma non soltanto) durante il regime nazifascista»[53].

Altra parte della dottrina reputa, invece, che l’art. 2 Costituzione sia una clausola aperta, sulla base del principio che l’ordinamento giuridico debba non solo tutelare ma anche sviluppare il panorama dei valori e della persona. Le libertà costituzionali non devono essere ingabbiate in rigide situazioni giuridiche, che possono invece espandersi in maniera non assoluta, trovando un sostegno e al contempo un limite nella Costituzione e nelle forze politiche, sociali e culturali che l’hanno generata[54].

Seguendo il ragionamento, pur in assenza di norme positive, troverebbero tutela costituzionale anche quei diritti che si possono ricavare dalla Carta stessa e che si connoterebbero come diritti impliciti, che garantiscono le libertà riconosciute costituzionalmente.

Anche se nella sua prima giurisprudenza la Corte Costituzionale aveva adottato un’interpretazione restrittiva dell’art. 2 Cost.[55], quello enunciato nelle righe precedenti sembra essere l’orientamento adottato attualmente dalla Consulta, che più volte è intervenuta per adeguare il testo costituzionale alle esigenze reali, e che nel corso della sua opera giurisprudenziale ha identificato “nuove” fattispecie tutelate dalla Carta, ampliando la tutela dei cittadini, come è testimoniato dalle decisioni sul tema del “diritto alla vita”[56], del “diritto all’identità personale”, della libertà personale garantita non solo contro la coercizione fisica ma anche come libertà morale[57], del “diritto d’informazione”[58], dell’‟obiezione di coscienza”[59].

Il diritto di autodeterminazione affonda le sue radici nell’art. 2 Costituzione e si esplica in molti settori della vita dei cittadini, che in quanto uomini ed esseri liberi godono di quei diritti inviolabili che sono a loro riconosciuti per il solo fatto di essere persone. Gli artt. 13, 23, 24, 32 della Carta costituzionale, ad esempio, esplicitano la titolarità di un diritto di scelta in capo agli individui in specifici ambiti della vita, ma possono essere individuate nuove situazioni soggettive protette in ambito costituzionale.

La Corte, nel suo ruolo di interprete della Costituzione, ha evidenziato in tema di salute e di consenso informato, il collegamento tra gli articoli 2, 13 e 32. Dal combinato disposto di tali norme ha affermato la sussistenza del diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica, come espressione della libera e consapevole scelta di accettare o rifiutare i trattamenti sanitari.

Per completezza va citato un ulteriore indirizzo dottrinario, secondo cui dai diritti enumerati nella Carta si può desumere un principio generale di tutela della libertà e dell’autonomia privata e ad esso sarebbe riconducibile l’autodeterminazione, perché «le libertà si realizzano attraverso l’azione del singolo nella società, nell’intessere rapporti con i consociati, con funzione, di volta in volta, di presupposto, di ausilio o di vera e propria realizzazione del contenuto della libertà»[60].

L’impostazione non è prima facie convincente, in quanto se l’autodeterminazione trovasse fondamento nell’autonomia privata, cioè nel potere del privato di regolare i propri interessi e di decidere della propria sfera giuridica, solo coloro che hanno la capacità d’agire potrebbero compiere scelte libere e ciò si scontrerebbe con il principio dell’inalienabilità dei diritti umani riconosciuti ad ogni individuo in quanto persona. In altri termini, l’autodeterminazione sarebbe negata a coloro che non dispongono della capacità di agire, mentre, come si è visto nei casi paradigmatici innanzi esaminati e come si esaminerà nella Legge n. 219/2017, tale diritto è riconosciuto in presenza di certi presupposti anche ai soggetti incapaci di agire.

4. Principio di autodeterminazione e giurisprudenza della Corte EDU: un complesso bilanciamento tra diritti individuali e interessi collettivi

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), è un trattato internazionale firmato nel 1950 dal Consiglio d'Europa, volto a tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali in Europa. Tutti i 47 Stati che formano il Consiglio d'Europa sono parte della convenzione, 28 dei quali sono membri dell'Unione Europea (UE). La Convenzione ha istituito la Corte Europea dei diritti dell'uomo, per la tutela contro le violazioni dei diritti umani. Ogni persona, i cui diritti sono stati violati nel quadro della Convenzione da uno Stato che vi aderisce, può adire alla Corte. Le sentenze rese dalla Corte EDU sono vincolanti per i paesi interessati. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa vigila sull'esecuzione delle sentenze.

Il Trattato di Lisbona, in vigore dall’1 dicembre 2009, comprensivo del Trattato dell’Unione Europea (TUE) e del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), con l'articolo 6, paragrafo 2, ha reso obbligatoria l'adesione dell'UE alla CEDU. Ciò significa che l'UE, come già avviene per i suoi Stati membri, è soggetta, per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali, al riesame da parte di un organo giuridico esterno, ovvero la Corte Europea dei diritti dell'uomo.

Dopo l'adesione, i cittadini dell'UE, ma anche i cittadini di paesi terzi presenti sul territorio dell'UE, possono contestare gli atti giuridici adottati dall'UE direttamente dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell'uomo, sulla base delle disposizioni della CEDU, nello stesso modo in cui possono contestare gli atti giuridici adottati dagli Stati membri dell'UE.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), nota come Carta di Nizza, è stata proclamata solennemente nel 2000 a Nizza dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione dell’UE. Dopo essere stata modificata, fu poi nuovamente proclamata nel 2007. Tuttavia, solo con l'adozione del trattato di Lisbona il 1o dicembre 2009, la Carta ha acquisito efficacia diretta, come previsto dall'articolo 6, paragrafo 1, del TUE, diventando così una fonte vincolante di diritto primario.

Parallelamente al meccanismo di controllo “esterno” previsto dall'adesione dell’Unione Europea alla CEDU per garantire la conformità della legislazione e delle politiche ai diritti fondamentali, si era rivelato necessario un meccanismo di controllo «interno» a livello UE per consentire un controllo giudiziario preliminare e autonomo da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Da ciò, l’esigenza sentita di una Carta dei diritti specifica dell'UE, e in occasione del Consiglio europeo di Colonia del 1999 fu decisa la convocazione di una convenzione per elaborare una Carta dei diritti fondamentali.

Anche se il campo di applicazione della Carta di Nizza è potenzialmente molto ampio, dato che la maggior parte dei diritti che riconosce sono concessi a “tutti”, indipendentemente dalla nazionalità o dallo status, l'articolo 51 del Trattato limita la sua applicazione alle istituzioni e agli organi dell'UE e agli Stati membri, quando agiscono nell'attuazione del diritto dell'UE. Tale disposizione serve a tracciare il confine tra l'ambito di applicazione della Carta e quello delle Costituzioni nazionali e della CEDU.

In virtù dell’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la sanità pubblica è una competenza condivisa fra l’Unione europea e i Paesi dell’UE, e l’azione dell’Unione «completa le politiche nazionali, si indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale. Tale azione comprende la lotta contro i grandi flagelli, favorendo la ricerca sulle loro cause, la loro propagazione e la loro prevenzione, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria, nonché la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero»[61].

Mentre i paesi dell’UE definiscono ed attuano i propri servizi sanitari nazionali e l’assistenza medica, l’UE integra le politiche nazionali attraverso la sua strategia sanitaria per prevenire le malattie, promuovendo stili di vita sani; mira a facilitare l’accesso a un’assistenza sanitaria migliore e più sicura, a contribuire a sistemi sanitari innovativi, efficienti e sostenibili, ad affrontare le minacce transfrontaliere, a mantenere le persone sane per tutta la loro vita e a sfruttare nuove tecnologie e pratiche. La prevenzione e la risposta alle malattie sono due temi centrali per la salute pubblica nell'UE e la prevenzione tocca molti settori, quali la vaccinazione, la lotta contro la resistenza antimicrobica, le azioni contro il cancro e un'etichettatura dei prodotti alimentari responsabile.

L’Unione Europea quindi non definisce le politiche sanitarie, ma svolge un’azione di coordinamento.

Ai sensi dell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, viene tutelato il diritto all’integrità della persona. In forza di tale disposizione: «1. Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani»[62]. Nella stessa Carta di Nizza, l’art. 35 recita:

 «Ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell'attuazione di tutte le politiche ed attività dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana»[63].

Contrariamente a quanto si riscontra nell’art. 32 Cost., che comprende molteplici situazioni soggettive inerenti alla salute, tutelate in un’unica disposizione, nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE il legislatore comunitario ha distinto e identificato il diritto fondamentale alla salute, o meglio il diritto all’integrità fisica e psichica, tutelato con lo strumento del consenso libero e informato della persona interessata, dalla dimensione pubblica della tutela della salute, dalla quale scaturisce il diritto sociale ad accedere alla prevenzione sanitaria e ad ottenere trattamenti medici erogati dallo Stato.

Giova sottolineare che l’integrità psicofisica è collocata nel Titolo Primo intitolato “Dignità” e quindi tra i primi principi della Carta, in quanto considerata elemento essenziale della dignità umana. La protezione della salute ed il diritto di accesso ai servizi sanitari di prevenzione e cura sono inclusi tra i diritti sociali del Titolo Quarto intitolato “Solidarietà”.

L’integrità psicofisica viene indissolubilmente collegata al consenso libero e informato, come strumento primario di tutela della medesima nell’ambito della biologia e della medicina, esaltando l’autodeterminazione e un concetto di salute intimamente legato alla libertà individuale. Ciò «significa che non si può disintegrare il valore della salute da quello della libertà, e assegnare a scopo del rapporto terapeutico il primo valore, e a funzione di tutela della libertà del paziente il secondo»[64].

L’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE è dedicato alla protezione dei dati personali, da intendersi come diritto alla vita privata. Esso afferma al primo comma che ogni persona ha diritto alla protezione dei dati personali, mentre il secondo comma recita: «Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica»[65].

La Corte di Strasburgo ha fatto applicazione del diritto alla vita privata sancito dall’art. 8 della CDFUE in varie pronunce, affermando che «In ambito sanitario, il rifiuto di accettare un trattamento particolare potrebbe, inevitabilmente, condurre a un esito fatale, ma l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente, se è un adulto e sano di mente, costituirebbe un attentato all’integrità fisica dell’interessato che può mettere in discussione i diritti protetti dall’art. 8 par. 1, della Convenzione»[66].

Ed ancora più incisivamente la Corte EDU dichiara che: «La libertà di accettare o rifiutare uno specifico trattamento medico, o di scegliere una forma alternativa di trattamento costituisce aspetto essenziale del principio di autodeterminazione e di autonomia personale. Un paziente adulto e capace è libero di decidere, per esempio, se sottoporsi a un trattamento chirurgico o, per lo stesso motivo, di ricevere una trasfusione di sangue»[67].

In questa pronuncia la Corte europea esalta la percezione individuale della salute, coerentemente con i valori culturali, religiosi e familiari del paziente, che deve avere la possibilità di fare scelte coerenti con i propri valori, per quanto tali decisioni appaiano irrazionali o imprudenti ad altri.

La Corte europea dei diritti dell’uomo mostra di intendere il principio di autodeterminazione «come aspetto eminente del rispetto della vita privata, della dignità e della libertà individuale, rispetto ai quali la discrezionalità degli Stati, il margine di apprezzamento loro riservato dal 2° comma dell’art. 8 è inevitabilmente contenuto in limiti ristretti»[68]. Con ciò non viene negata rilevanza ad altri diritti o interessi contrapposti, di tipo collettivo, ma significa contenere in spazi angusti la discrezionalità degli Stati nel fare questo bilanciamento.

In questo contesto va ricordata anche la decisione resa dalla Corte EDU in data 16 dicembre nel caso Englaro, sopra citata, che dichiarò l’irricevibilità del ricorso presentato da 7 associazioni e 6 cittadini italiani che lamentavano una violazione degli articoli 2, 3 e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Davvero interessante la motivazione espressa dalla Corte di Strasburgo, che mette in luce il criterio soggettivo, adottato dai giudici italiani, riferito alla convinzioni e alla volontà presunta della singola persona, da cui consegue l’impossibilità di riconoscere ai ricorrenti la qualità di vittime, neppure potenziali.

Entrando nel merito, la Corte europea affermò che se le autorità nazionali competenti fossero state chiamate a pronunciarsi sulla questione del mantenimento del trattamento medico dei ricorrenti, esse non avrebbero potuto non considerare la volontà dei malati espressa tramite i loro tutori, che hanno preso posizione in difesa del diritto di vivere dei loro congiunti, e i pareri dei medici specialisti.

I giudici europei esclusero che le decisioni adottate nel caso Englaro potessero ledere i diritti della Convenzione europea perché il criterio adottato non è uniforme per tutti, ma riferito alla soggettività del paziente interessato.

5. La Legge n. 219/2017. Un recente approdo del legislatore nazionale ad un nuovo assetto normativo ed istituzionale del diritto di autodeterminazione terapeutica

La nutrita giurisprudenza formatasi nel corso degli anni fino ai nostri giorni in tema di diritto alla salute e di autodeterminazione terapeutica mette in evidenza una lacuna legislativa. Se da un lato l’art. 32 della Costituzione afferma a chiare lettere che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, dall’altro il frequente ricorso alla magistratura per dirimere controversie attinenti alle scelte terapeutiche ha portato alla luce una carenza di normazione primaria, non colmata dalla Legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, e dai provvedimenti successivi in materia sanitaria.

Molte sono le situazioni problematiche, come nei tre casi paradigmatici esaminati, causate sia dall’evoluzione del concetto di salute verso un’esaltazione della dignità del malato e della sua individualità, sia dalla trasformazione del rapporto medico-paziente che si evolve da una visione puramente paternalistica in un concetto di collaborazione terapeutica. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso queste mutazioni avevano motivato uno sviluppo eccessivo della cosiddetta medicina difensiva.

La medicina difensiva è indirettamente collegata al tema dell’autodeterminazione, in quanto rappresenta un naturale sviluppo della favorevole attenzione riservata dalla giurisprudenza alle scelte terapeutiche individuali, sempre più frequentemente in contrasto con le indicazioni del medico, con la sua scienza e la sua deontologia professionale. Giova un cenno al riguardo al fine di meglio comprendere una delle tematiche cardine che connotano la Legge n. 219/2017.

«Errores medicorum terra tegit»[69]: la terra copre gli errori dei medici, affermava Cicerone volendo significare che difficilmente gli errori dei medici venivano portati nelle aule giudiziarie. Il concetto espresso da questa antica massima è rimasto intatto fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso: l’idea comunemente accettata era che solo il medico è in grado di sapere come agire, perché lui possiede il titolo universitario, e va rispettato nelle sue indicazioni terapeutiche. In origine vi era un atteggiamento di grande comprensione e deferenza per l’operato del medico che quotidianamente deve fare i conti – sia perché errare humanum est sia perché la medicina non è una scienza esatta – con l’errore professionale «disgraziato fardello della scienza medica»[70].

Progressivamente è avvenuto un mutamento culturale nel senso di un «passaggio dall’accettazione della morte e della malattia considerate come una parte della propria esistenza al loro rifiuto quali eventi avversi da scongiurare ad ogni costo. Ciò ha comportato la trasformazione del diritto alle cure in una pretesa alla guarigione, con conseguente imputazione di ogni tipo di insuccesso all’operatore sanitario»[71].

È terminato il timore reverenziale nei confronti del professionista ed il cittadino, maggiormente informato dei propri diritti e con maggiori aspettative verso la Sanità, si è mostrato meno incline ad accettare insuccessi nelle cure. La giurisprudenza ha alimentato questo mutamento culturale, con la lettura dei principi giuridici in tema di responsabilità sanitaria nettamente orientata a favore del paziente. E’ la stessa Corte di Cassazione a cogliere questo ribaltamento di fronte, laddove descrive: «la mutazione genetica della figura del professionista, un tempo genius loci ottocentesco, oggi ambita preda risarcitoria»[72].

Il processo di oggettivazione e di esasperazione della responsabilità sanitaria è all’origine della cosiddetta medicina difensiva. Secondo un’appropriata e sintetica definizione «per “medicina difensiva” invero si intende la messa a punto e lo sviluppo di strategie terapeutiche (commissive od omissive) mirate, prima ancora che a fornire la cura migliore, a proteggere il professionista o la struttura sanitaria dalle potenziali implicazioni di responsabilità che potrebbero gravare su di loro, specie al cospetto di casi particolarmente problematici»[73].

Quando si parla di medicina difensiva bisogna distinguere tra medicina difensiva passiva (o negativa) e medicina difensiva attiva (o positiva). La medicina difensiva passiva consiste nel rifiuto del medico di occuparsi del caso che gli viene sottoposto, quando le probabilità di successo della terapia attuabile siano scarse o inesistenti. Il rifiuto viene attuato esplicitamente oppure con mezzi che dimostrano l’impossibilità di intervento. Questa fattispecie può essere oggetto d’interesse per il giudice penale ai sensi dell’art. 328 C.P. (“Rifiuto d’atti d’ufficio”) o per l’organo disciplinare del professionista.

La medicina difensiva attiva è l’abitudine, venutasi a formare a seguito del minore favor giurisprudenziale per i professionisti sanitari, di prescrivere al paziente una serie di accertamenti inutili e dispendiosi al fine di evitare future azioni di responsabilità e di poter dimostrare nell’ipotesi di evoluzione negativa della patologia di aver fatto tutto quanto fosse necessario per evitare questo sviluppo sfavorevole.

Uno degli obiettivi della recente Legge Gelli – Bianco dell’8 marzo 2017, n. 24[74], è stato proprio quello di «rinsaldare l’essenziale patto solidale tra medici (e più in generale tra esercenti la professione sanitaria) e pazienti, consentendo ai primi di recuperare la necessaria serenità d’azione e garantendo ai secondi un ombrello di protezione effettivo ed efficace»[75].

L’art. 1 della Legge n. 24/2017, intitolato «Sicurezza delle cure in sanità» afferma che la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività. Detta sicurezza si realizza mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative. Tutto il personale sanitario è tenuto a concorrere alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private.

Segue una disciplina dettagliata della responsabilità delle strutture sanitarie e dei professionisti sanitari, avendo sempre di mira sia l’esigenza di arginare la medicina difensiva attiva, come risultato di una combinazione tra eccessiva litigiosità e giurisprudenza sbilanciata a sfavore degli operatori sanitari, privati dell’indispensabile serenità nell’esplicazione del loro lavoro, ma anche la necessità di tutelare concretamente chi si affida alle cure.

La preoccupazione di rinsaldare il rapporto “medico – paziente”, smarrito nelle aule giudiziarie, si ritrova nella successiva Legge 22 dicembre 2017, n. 219, «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», ed in particolare in alcune norme palesemente pensate al fine di rafforzare l’alleanza terapeutica tra paziente e professionista sanitario e per dare respiro all’autodeterminazione del malato, salvaguardando al contempo la professionalità e la deontologia del personale sanitario.

L’incipit della legge n. 219/2017 è interamente dedicato al principio del consenso informato, in applicazione dell’indicazione data dalla Consulta: «Il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale»[76].

L’art. 1, comma 1,  della Legge n. 219/2017 merita citazione testuale: « La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge»[77].

Mentre viene definitivamente consacrato il principio del consenso informato quale «espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico»[78] e come presupposto imprescindibile di ogni terapia, il legislatore chiarisce immediatamente i riferimenti normativi individuati nel nostro testo costituzionale, ossia la promozione e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo (art. 2), l’inviolabilità della libertà personale (art. 13) e il diritto alla salute (art. 32). Gli ulteriori principi che costituiscono la matrice del consenso nella pratica clinica vengono identificati nei primi tre articoli della CDFUE, che sanciscono l’inviolabilità della dignità umana, il diritto alla vita, il diritto all’integrità fisica e il riconoscimento del principio del consenso informato.

Non lascia spazio a dubbi neppure la parte della disposizione in esame in cui viene affermata la tutela dell’autodeterminazione personale. Il concetto di autodeterminazione entra a pieno titolo nella normativa nazionale, in stretta relazione con gli artt. 2, 13 e 32 della Carta costituzionale e inscindibilmente collegato con i temi della tutela della vita e della salute.

«Il legislatore sceglie di esordire mettendo in chiaro i suoi riferimenti in modo niente affatto scontato. In particolare fra i presupposti indicati nel testo della legge fa finalmente la sua comparsa anche l’autodeterminazione come autonomo principio fondamentale, accanto e in dialogo con gli altri principi costituzionali elencati nell’incipit»[79].

Il percorso di affermazione del paradigma del consenso informato in ambito giuridico, giunto a compimento in Italia con la Legge n. 219/2017, è stato travagliato e ha ricevuto il suo primo impulso a livello internazionale nel secondo dopoguerra, come reazione alle sperimentazioni naziste nei campi di sterminio. A livello internazionale si è sentita l’esigenza di individuare alcuni principi di carattere generale da rispettare nella sperimentazione che riguarda esseri umani. Tali principi sono stati primariamente affermati nel Codice di Norimberga (1947), e poi nella Dichiarazione di Helsinki (1964 -2013) e nel Belmont Report (1979).

In questi documenti internazionali viene affermato che il partecipante alla sperimentazione deve essere messo a conoscenza della caratteristiche della ricerca a cui prende parte. Inoltre è affermato che la scelta se partecipare a uno studio deve essere compiuta in base ad un percorso informativo in cui vengono resi noti la finalità, la metodologia adottata e i risultati attesi dalla ricerca.

È di grande rilievo anche la Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e la biomedicina, nota come Convenzione di Oviedo, adottata dal Consiglio d’Europa nel 1997, che rappresenta il primo strumento giuridico internazionale che disciplina in modo sistematico i diritti della persona in rapporto agli avanzamenti della medicina e della biologia, riconoscendo espressamente nel Titolo Secondo il principio del consenso informato.

Va precisato che l’Italia ha sottoscritto tale Convenzione ed ha approvato la legge di autorizzazione alla ratifica n. 145 del 2001, ma non ha completato l’iter di ratifica secondo la procedura prevista dall’art. 33 della Convenzione, omettendo di depositare lo strumento di ratifica, e pertanto la Convenzione non risulta entrata in vigore nel nostro Paese, pur costituendo un basilare punto di riferimento.

Anche la giurisprudenza ha riconosciuto a tale accordo internazionale una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: «Esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzato nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad esso conforme»[80].

La stessa Corte Costituzionale, nell’ammettere le richieste di referendum su alcune norme della Legge 19 febbraio 2004, n. 40, concernente la procreazione medicalmente assistita, ha precisato che l’eventuale vuoto normativo conseguente al referendum non si sarebbe posto in contrasto con i principi della Convenzione di Oviedo, recepiti nel nostro ordinamento con la Legge n. 145/2001 (Corte Cost. n. 46, 47, 48 e 49/2005), con ciò confermando implicitamente che i principi ivi affermati fanno parte del nostro ordinamento.

Secondo la Convenzione, la sperimentazione deve essere ispirata al principio di proporzionalità tra rischi e benefici attesi, è richiesta l’approvazione del progetto da parte dell’organo competente, la persona partecipante deve essere adeguatamente informata e deve aver prestato il proprio consenso, sempre modificabile.

Un posto di rilievo occupa anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata a Nizza nel 2000 così come modificata nel 2007, che fa parte del diritto dell’Unione, con lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 TUE). Nell’art. 3 della Carta di Nizza si prevede, nell’ambito della medicina e della biologia, il rispetto del consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge. Gli artt. 1, 2 e 3 della CDFUE sono espressamente richiamati dalla Legge n. 219/2017.

Nel contesto nazionale il principio del consenso informato era già desumibile a livello di normazione primaria dalla Legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, che all’art. 1, secondo comma, afferma che «La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana»[81] e all’art. 33 sancisce il carattere «di norma volontario»[82] dei trattamenti sanitari.

Anche il più recente Codice di deontologia medica, approvato nel 2018, all’art. 35 prevede che «Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato»[83].

La solida matrice costituzionale del consenso informato, come principio legittimante ogni trattamento sanitario, è stata affermata dalla Corte Costituzionale nelle pronunce n. 438 del 2008 e n. 253 del 2009, già esaminate, che ha sottolineato quanto segue: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione»[84].

La chiara esplicitazione della Consulta in tema di consenso informato e di autodeterminazione nel contesto sanitario è stata integralmente recepita dalla Legge n. 219/2017, «che ha il pregio di sintetizzare in un unico testo normativo la complessa eterogeneità dei possibili contesti di cura all’interno dei quali il consenso trova espressione, e di modularne modalità, portata ed efficacia»[85]. Le parole della Corte Costituzionale hanno illuminato il percorso del legislatore, suggerendo anche applicazioni di carattere operativo nell’ambito della relazione di cura e del rapporto di fiducia tra medico e paziente, con riferimento al linguaggio e al tempo della comunicazione. Infatti, per poter esprimere un consenso valido, è necessario che le informazioni siano correttamente trasmesse al paziente e adeguatamente comprese, in modo da concretizzare una effettiva e consapevole adesione al progetto terapeutico.

Nel secondo comma dell’art. 1 della Legge in esame viene in evidenza la preoccupazione di promuovere e valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, come premessa condizionante la possibilità di esprimere un consenso davvero informato. La legge la tratteggia come il punto di incontro tra «l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico»[86].

Viene superato l’approccio prettamente paternalistico e, come ben espresso dalle parole del Consiglio di Stato «la  "cura"  non  è  più  quindi  un  principio  autoritativo,  un'entità  astratta,  oggettivata, misteriosa  o  sacra,  calata  o  imposta  dall'alto  o  dall'esterno,  che  ciò  avvenga  ad  opera  del medico,  dotato  di  un  elevato  e  inaccessibile  sapere  specialistico,  o  della  struttura  sanitaria  nel suo  complesso,  che  accoglie  e  "ingloba"  nei  suoi  impenetrabili  ingranaggi  l'ignaro  e  anonimo paziente, ma si declina e si struttura, secondo un fondamentale principium individuationis che è espressione  del  valore  personalistico  tutelato  dalla  Costituzione,  in  base  ai  bisogni,  alle richieste, alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente»[87].

Questo non deve condurre ad un soggettivismo curativo o un relativismo terapeutico, in cui è “cura” solo quello che il malato vuole, perché nell’alleanza terapeutica il ruolo del medico resta insostituibile per selezionare le opzioni curative scientificamente valide ed indirizzare la scelta del paziente. Il consenso informato consente al paziente «di compartecipare alla decisione medica in un contesto relazionale che non contempla soltanto l’adesione alla proposta curativa unilateralmente formulata dal medico ma che prevede, altresì, la definizione condivisa della cura da erogare»[88].

La difficoltà di bilanciare il diritto all’autodeterminazione del paziente con l’autonomia professionale del professionista sanitario rappresenta uno dei punti dolenti della relazione di cura, e la Legge n. 219/2017 disciplina espressamente alcuni contesti in cui può venire particolarmente in risalto la problematicità di tale rapporto, come ad esempio la situazione d’urgenza, i casi di morte imminente o di prognosi infausta a breve termine, la condizione delle persone incapaci, la variabilità del consenso del minore, la malattia cronica e le cure palliative.

Per completezza, va detto che il diritto all’informazione comprende anche il diritto di non sapere, contemplato dal terzo comma dell’art. 1. Il rifiuto ad essere informati può essere totale o parziale e la scelta espressa va registrata nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

I casi di Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e Fabiano Antoniani, con le sentenze che li hanno accompagnati, hanno lasciato ampia traccia nella Legge n. 219/2017, ed in particolare nel quinto comma dell’art. 1, laddove si afferma che il paziente capace di agire ha il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia, nonché il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.

La rinuncia del trattamento terapeutico può avere come conseguenza diretta o indiretta la morte della persona. In tal caso, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.

Si tratta dell’affermazione legislativa del diritto di autodeterminazione terapeutica[89] a cui fa riscontro l’esenzione da responsabilità civile o penale del medico che rispetti la volontà validamente espressa dal paziente. Infatti in forza del sesto comma dell’art. 1: «Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali»[90].

In tema di consenso informato, la sentenza della Corte di Cassazione n. 21748/2007 resta comunque un faro per i casi in cui il paziente non sia in grado di esprimere la sua volontà a causa di un’incapacità e non abbia previamente indicato le sue volontà attraverso le DAT oppure tramite la pianificazione condivisa delle cure. In questi casi, necessita prima vedere se c’è un fiduciario indicato dalla persona oppure un amministratore di sostegno nominato dal Giudice Tutelare che possa esprimere il consenso informato. In mancanza di tali figure, i sanitari dovranno ricostruire la volontà del paziente.

Se anche quest’ultima operazione fosse impossibile, ad esempio per assenza di familiari del malato, rimane in capo ai sanitari la responsabilità di compiere la scelta più consona per la persona, in base ai principi di appropriatezza e proporzionalità. Infine resta sempre aperta la via della richiesta di un parere di un Comitato bioetico oppure il ricorso al giudice competente per i provvedimenti del caso.

La dettagliata configurazione del consenso informato nella Legge n. 219/2017 è strettamente collegata alle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), disciplinate dall’art. 4 della Legge. Anche dette “biotestamento” o “testamento biologico”, esse consentono ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità, di autodeterminarsi e, dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, di esprimere, con determinate modalità, le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Contestualmente la persona può indicare un fiduciario per rappresentarla nelle relazioni con il medico e con la struttura sanitaria.

È interessante notare che anche questa norma della legge n. 219/2017 era stata preconizzata dalla giurisprudenza costituzionale, che, con sentenza n. 262 del 14 dicembre 2016, aveva  sottolineato la necessità di un intervento legislativo per disciplinare le dichiarazioni anticipate di trattamento, suggerendo che : « Data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona, una normativa in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita – al pari di quella che regola la donazione di organi e tessuti – necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di «ordinamento civile», disposta dalla Costituzione. Il legislatore nazionale è, nei fatti, già intervenuto a disciplinare la donazione di tessuti e organi, con legge 1 aprile 1999, n. 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti), mentre, in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, i dibattiti parlamentari in corso non hanno ancora sortito esiti condivisi e non si sono tradotti in una specifica legislazione nazionale»[91].

Secondo autorevole dottrina, il testamento biologico non rientrerebbe nella tutela costituzionale dell’art. 32 quale diritto di libertà, ma sarebbe espressione della discrezionalità del legislatore manifestatasi nella L. 219/2017. Più in particolare, le DAT avrebbero natura di atto negoziale e sarebbero frutto dell’esercizio di un potere giuridico, mentre la libertà di salute non consiste in un potere «bensì nella pretesa del soggetto titolare, protetta dall’ordinamento a che tutti gli altri si astengano dall’intervenire nell’ambito materiale rappresentato dalla sua condizione psicofisica, in ordine alla quale egli è abilitato ad adottare, momento per momento le scelte preferite»[92].

In presenza di biotestamento, invece, non vi è un generale dovere di astensione di tutti gli altri soggetti, ma si crea uno specifico vincolo giuridico in capo a determinati soggetti, principalmente professionisti sanitari. La natura negoziale del biotestamento, come espressione di un potere giuridico che richiede la capacità di agire, sarebbe ulteriormente dimostrata dal fatto che la legge riserva la possibilità di esprimere le DAT esclusivamente ai soggetti maggiorenni capaci di intendere e di volere.

Nell’ambito dell’alleanza terapeutica e dell’autodeterminazione delineate dalla Legge n. 219/2017 si colloca anche la pianificazione condivisa delle cure disciplinata dall’art. 5, che può essere realizzata nel caso dell’evolversi di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione, con prognosi infausta. In tal caso il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi alla pianificazione concordata, qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o nella condizione di incapacità.

Un posto di rilievo nella Legge n. 219/2017 occupa anche l’art. 2, la cui rubrica recita: «Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita». Ricorre il termine “dignità” riferito alla fase ultima della vita, quando il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cura e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie alle cure, il medico può ricorrere, con il consenso del paziente, alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore.

Per meglio comprendere il significato intrinseco del diritto di autodeterminazione sancito dalla Legge n. 219/2017, pare infine necessario appuntare l’attenzione sulle parole usate dal legislatore nell’art. 1, comma 1 della Legge: «La presente legge(omissis) tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona».

Si parla di un diritto alla dignità, che si insinua tra diritto alla vita, diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione, quasi a suggerirne una nuova connotazione. Cosa intende il legislatore per diritto alla dignità? Ogni malato definisce la propria dignità, ma il giudice, eventualmente chiamato a pronunciarsi su scelte esistenziali fondamentali, a quali valori dovrà conformarsi? La dignità, che funge da parametro delle scelte attraverso le quali una persona definisce il significato della propria esistenza, diventa al contempo un limite nelle mani del magistrato, che dovrà individuarne i contorni, richiamandosi ai valori della collettività in un determinato momento storico, oppure adottando un atteggiamento critico, non passivo, che evita imposizioni. 

Appartengono a questo secondo approccio le coraggiose sentenze che hanno consentito di dare una svolta anche legislativa al tema dell’autodeterminazione in ambito sanitario, come potere di realizzare la propria sfera personale. Nel pensiero platonico ed aristotelico la dignitas è collegata alla posizione sociale del cittadino nella polis ed è concepita come una relazione virtuosa ed equilibrata con la città. Nel pensiero Cristiano, la dignitas vede l’uomo concepito ad immagine e somiglianza di Dio e il corpo, tempio dello Spirito, è intoccabile. L’individuo è persona unica e irripetibile e l’uomo, unione di corpo e anima, diviene sacro, come ben espresso dalla filosofia Scolastica medievale e da San Tommaso d’Aquino.

Con il Giusnaturalismo e poi John Locke, considerato uno dei padri del costituzionalismo moderno, si giunge alla distinzione tra essere umano, come entità puramente biologica, e persona, come titolare di diritti. Storicamente è stato Immanuel Kant (1724 – 1804) ad attribuire alla dignità un significato che oggi fa parte della nostra sensibilità, cioè il riconoscimento della dignità come valore intrinseco e incondizionato di ogni essere umano in quanto persona, cioè in quanto potenzialmente capace di moralità. In una delle sue opere più importanti, la “Fondazione della metafisica dei costumi” del 1785, il filosofo tedesco definisce l’idea di dignità come appartenente ad ogni essere umano e solo agli esseri umani.

La dignità è un’esclusiva dell’uomo e ciò che conta non è lo status sociale, ma il solo fatto di essere un uomo. Questo rende ogni essere umano, in quanto persona, un fine in sé, un valore intrinseco e incondizionato, ed ogni uomo ha il diritto/dovere di opporsi ad ogni asservimento. La visione cristiana della dignità conduce a un’etica della sacralità della vita, di ispirazione religiosa, che valorizza il principio di tutela incondizionata dell’esistenza dell’essere umano, indipendentemente dalle condizioni in cui essa si esplica. L’approccio centrato sulla difesa della vita, come bene fondamentale, afferma l’assoluta inviolabilità dell’esistenza umana.

Ne consegue che in nessuna circostanza può essere giustificata un’azione che intenzionalmente e direttamente danneggi la vita umana, dalla fecondazione alle fasi critiche di malattia e di fine vita. La vita è indisponibile dal soggetto stesso e inviolabile dagli altri, perché è un dono di Dio all’uomo e il suo valore è assoluto e prevalente su qualsiasi altro.

Invece, l’etica della qualità della vita di matrice laica, valorizza la percezione individuale dell’esistenza, nel suo evolversi verso un’idea che varia da persona a persona. In questa seconda prospettiva trova accoglienza anche il concetto di salute così come diffuso oggi, che non consiste solo in un’assenza di malattia o infermità, ma in uno stato di benessere psicofisico e nell’accettazione delle proprie condizioni.

La vita umana è vista come un processo evolutivo, non solamente come il funzionamento di un organismo. Viene valorizzata la dimensione personale e soggettiva della salute e le decisioni inerenti il benessere di un paziente non possono essere assunte oggettivamente, ma solo in relazione alle preferenze del malato. La qualità della vita non può essere determinata in base a criteri oggettivi: solo il malato, affetto da una malattia a prognosi infausta o gravemente invalidante, può valutare se un trattamento sanitario e il conseguente prolungamento della sopravvivenza sia conciliabile con un livello di qualità della vita da lui considerato accettabile.

La normativa attuale pare improntata al rispetto dei valori propugnati dalla seconda concezione, dove assume significato dominante la qualità della vita e le decisioni sui trattamenti sanitari a cui sottoporsi vengono rimesse al malato, unico soggetto in grado di decidere cosa sia apprezzabile e dignitoso per lui, nel vivere e nel morire.

Senza entrare in approfondimenti filosofici e in tematiche più strettamente bioetiche, pare che in questa sede il faro della ricerca debba essere circoscritto al contesto in cui il concetto di dignità deve essere applicato, vale a dire la malattia nel suo significato più ampio oggi accolto, e non debba essere avulso dal quadro normativo in cui è inserito.

Nella pratica clinica, le scelte terapeutiche sono guidate da un complesso di norme, giuridiche, scientifiche, professionali ed organizzative, ma in questo scenario l’appello alla dignità umana svolge un ruolo primario e rende rilevante l’affermazione legislativa della sua tutela. Il diritto alla vita, alla salute e all’autodeterminazione sarebbero svuotati di significato se non fossero rapportati alla dignità del malato, e il principio del consenso informato perderebbe valore se il dato puramente biologico venisse disgiunto da quello esistenziale.

Parte della dottrina giunge ad identificare l’autodeterminazione con la dignità: «L’autodeterminazione costituisce lo strumento per sottrarre l’individuo alle decisioni altrui, coincide con la dignità, in quanto assicurando il rispetto dell’identità personale esclude che il soggetto ed il suo corpo divengano strumenti di scopi ed interessi altrui, allontanandosi da una incondizionata libertà di alterazione e trasformazione»[93].

Le due diverse concezioni della sacralità della vita e della qualità della vita conducono a risposte opposte su temi tuttora aperti, come ad esempio l’eutanasia, non contemplata dal nostro ordinamento, sebbene la Legge n. 219/2017 abbia compiuto passi significativi nella direzione del riconoscimento di un diritto di morire dignitosamente.

6. Limiti e prospettive del diritto di autodeterminazione terapeutica

L’autodeterminazione in generale presuppone la capacità dell’individuo di scegliere in piena consapevolezza e libertà il proprio percorso esistenziale, orientandolo in base alle convinzioni personali. Un limite a tale libertà di scelta è rappresentato dal principio del neminem laedere, in base al quale tutti sono tenuti al dovere di non ledere l'altrui sfera giuridica, di non arrecare danno agli altri. È la regola posta a fondamento della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 C.C.

In ambito sanitario, l’autodeterminazione assume connotati peculiari e l’interrogativo di fondo che si pone è se il diritto di operare scelte esistenziali fondamentali, che coinvolgono la propria identità, come accade nei trattamenti terapeutici, incontri dei limiti.

Scendendo nel dettaglio della normativa vigente, una prima indagine può essere svolta con riferimento al caso non infrequente del paziente incapace di agire, come ad esempio nella vicenda di Eluana Englaro. Quali sono i limiti in questa particolare fattispecie?

Il caso di Eluana Englaro ci introduce al tema dell’applicazione del diritto di autodeterminazione nel caso di paziente incapace di agire, distinguendo tra l’ipotesi in cui la persona maggiorenne e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali abbia formalizzato le DAT in epoca precedente alla perdita di coscienza o di capacità, e quindi all’interdizione o all’amministrazione di sostegno, e l’ipotesi in cui non le abbia formalizzate. Nel primo caso le DAT manterranno piena valenza ed applicabilità in relazione alle convinzioni e preferenze del disponente[94], ma se il paziente nulla ha disposto prima di divenire incapace, quid iuris?

Va premesso che per minori ed incapaci non possono esservi Disposizioni Anticipate di Trattamento, in quanto l’art. 4 della Legge n. 219/2017 richiede come presupposto la maggiore età e la capacità di intendere e di volere. La Legge n. 219/2017 ha regolamentato la situazione di minori e incapaci, disponendo con l’art. 3, quinto comma, quanto segue: «Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’art. 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli art. 406 e seguenti del Codice civile o del medico o del legale rappresentante della struttura sanitaria».

In tutti i casi in cui il paziente non abbia redatto direttive anticipate di trattamento, i familiari dovranno preliminarmente provvedere alla nomina di un tutore o di un amministratore che potrà interagire con il medico per far valere la volontà dell’incapace.

Quando le questioni attinenti al fine vita riguardano persone incapaci, gli interrogativi giuridici e bioetici assumono risvolti particolari. Nel caso del paziente incosciente viene in gioco, non solo il rapporto medico/paziente, ma anche quello con i familiari o la persona che deve interpretare la volontà del paziente. Il caso di Eluana Englaro ne è una dimostrazione, laddove il conflitto tra interesse pubblico alla difesa della vita e diritto soggettivo all’autodeterminazione è esploso in tutta la sua drammaticità resa ancora più acuta dallo stato di incoscienza del malato, il quale non ha più alcun modo di comunicare all’esterno le proprie scelte di vita.

È innegabile che oggigiorno l’ordinamento riconosce al soggetto capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere le cure vitali. Tuttavia non risulta semplice applicare tale diritto all’incapace che pure è persona e in quanto tale non può essere privata dei diritti fondamentali, primo fra tutti il diritto personalissimo alla vita, inviolabile da parte di tutti i terzi, ma disponibile da parte del suo titolare. A ciò si aggiunga «anche il diritto di non ricevere trattamenti che si possano fondatamente ritenere in contrasto con la volontà, nota o solo presumibile, dei soggetti incapaci, oltre che in contrasto con il loro interesse»[95], così come è stato affermato da certa dottrina.

Il modello normativo attuale è improntato all’idea che il paziente incapace mantiene, nonostante la sua condizione, il diritto di non essere escluso dalle decisioni che lo riguardano, e che può manifestare la sua volontà tramite un rappresentante che se ne faccia portavoce, sia che la volontà sia stata da lui espressa quando era capace, sia che venga ricostruita sulla base delle sue concezioni della vita e della dignità personale.

Come si è visto, la problematicità della vicenda di Eluana è consistita proprio nella difficoltà di ricostruzione della sua volontà, cioè di dare un fondamento giuridicamente accettabile alle cosiddette “scelte ora per allora di tipo implicito”. Eluana era stata dichiarata interdetta per assoluta incapacità con sentenza del Tribunale di Lecco. La sua volontà è stata ricostruita dalla Corte d’Appello di Milano sulla base della sua storia personale e delle testimonianze di familiari ed amici, giungendo ad affermare che “oggi” ella avrebbe scelto di morire, che aveva scelto “allora per ora”.

Un diritto fondamentale come quello all’autodeterminazione terapeutica non può essere precluso perché il soggetto diventa incapace, e quindi è giusto ricostruire la volontà del soggetto per bocca di chi ha convissuto con lui e lo ha conosciuto[96]. Resta però sempre aperto un interrogativo: Eluana, quando era in stato di capacità, aveva espresso il suo pensiero in merito allo stato vegetativo permanente ed aveva affermato che avrebbe desiderato morire, se mai vi si fosse trovata. Ma sarebbe stata della stessa opinione, una volta trovativisi?

Inoltre, nel caso di paziente incapace, che prima di divenire incosciente non abbia esternato la sua volontà con le DAT, si pone il problema di rapportare la presunta volontà del malato con quella del familiare o della persona chiamata a interpretare la volontà del malato e a farsene portavoce. Chi può decidere se la volontà presunta del malato sia realmente quella rappresentata dal familiare? E ancora, si pensi al caso in cui le convinzioni etiche del rappresentante sul tema del fine vita entrino in conflitto con quelle del malato in stato di incoscienza irreversibile, che le aveva precedentemente esternate: si potrebbe ipotizzare un conflitto di interessi tale da necessitare l’intervento del giudice per la sostituzione del rappresentante?

Per la vicenda Englaro si è già visto che la questione dell’interpretazione della volontà, in mancanza di un’espressa previsione normativa, è stata risolta con il ricorso alla teoria delle “scelte ora per allora di tipo implicito” e nella fattispecie volontà del rappresentato e del rappresentante coincidevano, per cui non si ponevano problemi di contrasto.

L’art. 3 della Legge 219/2017 parla di rifiuto delle “cure proposte” dal medico. Riguarda anche il fine vita? Si dovrebbe poter rispondere positivamente e quindi considerare cure proposte dal medico anche la nutrizione e l’idratazione artificiali. Verificandosi oggi il caso Englaro, il contrasto tra il padre di Eluana, tutore della figlia interdetta, e l’équipe sanitaria potrebbe essere risolto con il ricorso al giudice tutelare.

La Legge n. 219/2017 risolve il contraddittorio tra i diversi soggetti interessati alla controversia (paziente minore o incapace oppure rappresentante del paziente da un lato e medico dall’altro) facendo ricorso al giudice, terzo super partes, non portatore di interessi, che valuterà le istanze delle parti, tenendo conto della specificità del caso concreto. Sul giudice grava la responsabilità e la competenza di stabilire un equilibrio tra i valori della vita, della salute e della libertà di autodeterminazione.

Come ben affermato dalla sentenza n. 21748/2007 della Corte di Cassazione, il decisore sostitutivo non ha la responsabilità di decidere “al posto di” ma “con” l’incapace. «Egli deve agire nell’esclusivo interesse dell’incapace e nella ricerca del best interest deve ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche»[97].

Ma se da un punto di vista strettamente giuridico l’esigenza di disciplina del conflitto tra le istanze individuali del paziente ad una dignità del fine vita e le pressioni pubbliche per la garanzia di tutela della vita e della salute hanno trovato una regolamentazione, non altrettanto si può dire per i conflitti bioetici che il fine vita infiamma nel confronto tra il paziente e i suoi familiari, da un lato, e il personale sanitario, dall’altro. Ed è ovvio che sia così, in un terreno in cui il diritto non può sconfinare nella regolamentazione di convinzioni che travalicano l’aspetto giuridico, implicando scelte di portata etica.

A complicare le cose, molte volte le tensioni etiche si intrecciano, nelle situazioni di fine vita, con interessi familiari ed economici che rendono difficile districare la matassa della reale consistenza dei valori in gioco. Ad esempio, le esigenze di risparmiare sui costi in un bilancio familiare non florido o la considerazione dell’età avanzata del paziente potrebbero suggestionare la mente di chi deve decidere per il malato o addirittura la mente del malato stesso, se è cosciente. Da ciò la necessità di valutare con attenzione se la volontà rappresentata costituisca davvero l’espressione del diritto di autodeterminazione dell’incapace.

6.1 L’obiezione di coscienza nella Legge 219/2017

Un altro limite nell’espressione legislativa del diritto di autodeterminazione concerne l’autonomia professionale e l’obiezione di coscienza dei professionisti sanitari.

Si potrebbe infatti obiettare che se la nuova normativa legittima il diritto di autodeterminazione, non riconosce lo stesso diritto ai medici che non vedono riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza. Inoltre se davvero l’interpretazione del diritto di libertà come autodeterminazione giunge fino a legittimare il suicidio, ciò contrasterebbe con il principio della vita come bene indisponibile, affermato dagli artt. 579 e 580 del Codice Penale e 5 del Codice Civile.

Come è evidenziato dalla dottrina costituzionalistica, nel contesto delle problematiche inerenti il diritto di autodeterminazione si pone anche la questione inerente l’obiezione di coscienza. L’interrogativo è se l’obiezione di coscienza del professionista sanitario trovi esplicita o implicita ammissibilità nella Legge n. 219/2017, e, in caso negativo, se il diritto di autodeterminazione del paziente contrasti con i principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità del medico.

Preliminarmente però è necessario distinguere tra autonomia professionale e obiezione di coscienza vera e propria. L’autonomia professionale consente al medico di agire secondo le proprie competenze e conoscenze, potendo legittimamente rifiutare un trattamento richiesto dal paziente se, alla luce del quadro clinico del paziente e di parametri oggettivi e verificabili, quel trattamento risulti inappropriato nel caso specifico. L’autonomia professionale è tutelata dall’art. 1, comma 6, della legge n. 219/2017 («Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alla buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali»[98]), la cui portata si esaminerà più avanti in dettaglio.

L’obiezione di coscienza è in generale il rifiuto di obbedire a una legge o a un comando dell’autorità perché considerato in contrasto con i principi e le convinzioni personali. In ambito sanitario consiste nel rifiuto per ragioni etiche di un trattamento appropriato e lecito nel caso specifico. «L’esercizio responsabile dell’autonomia professionale non è solo un diritto, ma è anche un dovere del medico, il cui ruolo non è quello di assecondare acriticamente le pretese del paziente. L’obiezione di coscienza non è invece un dovere nei confronti della comunità, bensì solo un diritto che l’ordinamento riconosce al soggetto quando siano presenti determinati presupposti»[99].

Con parere pubblicato il 30 luglio 2012 il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso sul tema dell’obiezione di coscienza, affermando che si tratta di un diritto costituzionalmente fondato, con dimensione democratica e che va esercitato in modo sostenibile. Sostenibilità significa che «la tutela giuridica dell’obiezione di coscienza non deve limitare né rendere più gravoso l’esercizio dei diritti riconosciuti per legge né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dall’appartenenza al corpo sociale»[100].  La coscienza del singolo non si esaurisce nella dimensione deontologica e l’obiezione di coscienza proprio in quanto situazione giuridicamente tutelata deve integrarsi nell’ordinamento come avviene per tutti i diritti: il riconoscimento del potere di sottrarsi a un comandamento legale deve essere giustificato, nel rispetto dei principi di legalità e di certezza del diritto. L’obiezione di coscienza non può ridursi ad un arbitrario rifiuto di obbedire, ma deve avere una valenza intersoggettiva che per la bioetica sono i diritti inviolabili della persona costituzionalmente riconosciuti.

L’esercizio di una professione comporta, non solo una discrezionalità tecnica, ma anche una deontologia. Spesso si trascura che il riconoscimento di diritti implica la previsione di obblighi corrispondenti e quindi la pretesa di comportamenti che possono essere incompatibili con la deontologia professionale o le convinzioni personali.

Il documento ribadisce concetti già espressi in precedenti pronunciamenti: nel maggio 2004 con riferimento alla possibilità per il medico di rifiutare la prescrizione o la somministrazione della contraccezione d’emergenza, e nel febbraio 2011 con riferimento al farmacista e alla possibilità di rifiutare la vendita di prodotti contraccettivi d’emergenza. Inoltre il parere del 2012 affronta anche questioni di dettaglio sulla tematica dell’obiezione di coscienza, come l’esigenza dei controlli di coerenza e la distinzione tra obblighi di fare e di non fare, e si conclude con la raccomandazione che nella tutela dell’obiezione di coscienza, come diritto garantito dalla Costituzione, siano previste misure adeguate a garantire l’erogazione dei servizi, ponendo attenzione a non discriminare né gli obiettori né i non obiettori.

L’obiezione di coscienza è ammissibile secondo la Legge n. 219/2017?

I pareri sono difformi e la discordanza nasce già a monte, cioè dalla configurazione del diritto di autodeterminazione come diritto costituzionale oppure no. Vi è chi ritiene che: «Se si dovesse ammettere un diritto all’autodeterminazione di rango costituzionale (collegato ad esempio alla tesi della libertà morale), dovrebbe riconoscersi sempre e comunque come conseguenza di questo il diritto all’obiezione di coscienza. Un diritto costituzionale generale di libertà, infatti, potrebbe comportare sempre la giustificazione dell’obiezione di coscienza rispetto a quello che comandano o vietano le leggi dell’ordinamento»[101].

Secondo parte della dottrina, la convinzione che nell’art. 1 della Legge n. 219/2017 sia previsto un diritto all’obiezione di coscienza nasce da un’errata interpretazione della norma. Infatti «se con il consenso informato una persona vincola il medico a non applicare un dato trattamento sanitario sul proprio corpo o un dato accertamento diagnostico, il medico non può, facendo leva sulla propria coscienza, obbligarlo al trattamento o all’accertamento rifiutato»[102]. Il solo caso in cui il medico non è tenuto a rispettare la volontà della persona è previsto dal sesto comma dell’art. 1, vale a dire quando il paziente esiga trattamenti sanitari contrari alle norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Ne consegue che se ad esempio il paziente esigesse un trattamento eutanasico, trattandosi di trattamento contrario alla legge, il medico sarebbe esonerato dal rispettarne la volontà.

Anche a parere di altri studiosi, la Legge n. 219/2017 non prevede la possibilità di obiezione di coscienza, che è invece espressamente prevista nel caso di interruzione volontaria della gravidanza (L. n. 194/1978, art. 9) o di procreazione medicalmente assistita (L. n. 40/2004, art. 16). «Né la stessa può riconoscersi in base ai principi generali in quanto, con la legge sul consenso informato, non si prospetta la possibilità che il medico debba compiere atti che contrastino con la sua coscienza, quanto che debba astenersi dall’effettuare trattamenti ed accertamenti, ove il paziente non voglia. La differenza è tra compimento di atti ed astensione da essi. Ove il paziente voglia ad esempio sottoporsi ad un intervento chirurgico che per il medico sia in contrasto con i principi di coscienza, quest’ultimo può invocare l’obiezione di coscienza e non agire. Al contrario, egli non può invocarla per agire, vale a dire per effettuare l’intervento quando il paziente non voglia»[103].

La volontà del paziente prevale sulle convinzioni del medico, anche se dal rispetto della volontà possa derivare la morte della persona. Si sottolinea altresì che l’art. 17 del Codice Deontologico Medico, secondo il quale il medico non può provocare la morte dell’assistito, si riferisce al compimento di atti e non all’astensione da essi.

Altra dottrina ritiene di non poter individuare, al di là del silenzio normativo sul punto, un nucleo di valori tale da legittimare l’obiezione di coscienza, e non sarebbe possibile neppure invocare come giustificazione la ritenuta sacralità o indisponibilità della vita o della persona. Ciò in quanto l’autodeterminazione terapeutica si pone proprio a presidio «di un’idea piena e precisa dell’esistenza e del rispetto dell’individuo nella propria unicità, biografia, integrità: con il che una eventuale obiezione finirebbe (omissis) per ledere in qualche misura proprio la “sacralità” che vorrebbe esprimere»[104].

Secondo altra dottrina, non solo la Legge n. 219/2017 non prevede l’obiezione di coscienza, ma sembra escluderla in modo incontrovertibile, in quanto tale istituto potrebbe essere invocato solo in presenza di un’espressa previsione normativa e tale previsione si porrebbe in contrasto con il diritto all’autodeterminazione e alla salute, che l’ordinamento riconosce come assoluti[105].

Filippo Anelli, Presidente nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, nel suo intervento al Convegno tenutosi il 10 aprile 2018 a Milano sulle DAT afferma che: «Questa legge mette in crisi il principio della beneficialità, cardine dell’etica medica, secondo cui il medico deve agire per prevenire e curare le malattie. Nessuno di noi vuole curare un paziente contro la sua volontà, ma non vogliamo nemmeno che a un medico sia imposto di effettuare un trattamento che in coscienza non si sente di fare. D’altra parte i medici si assumeranno sempre meno rischi per evitare conseguenze legali, non si azzarderanno più a derogare dalle linee guida nel tentativo di salvare il paziente, per timore di avere problemi legali. Il medico diventerà sempre più un tecnico e sempre meno un professionista»[106].

Altri autori evidenziano la difficoltà dottrinale sul tema dell’obiezione di coscienza in questo contesto normativo, in quanto non è comprensibile in quali circostanze si potrebbe attuare. Inoltre potrebbe concretarsi in azioni che comporterebbero un’imposizione di trattamento sanitario, in violazione dell’art. 32 della Costituzione.

«In primis perché non è chiaro verso quale comportamento specifico si attuerebbe l’obiezione. Non siamo in una situazione simile a quella dell’aborto, in cui si può definire facilmente la fattispecie a cui ci si riferisce. Qui si tratterebbe di comportamenti non sempre e univocamente determinabili, che anzi in talune situazioni sarebbero professionalmente leciti, se non doverosi»”[107].

E’ legittimo allora chiedersi quale futuro sia riservato all’obiezione di coscienza in rapporto al diritto di autodeterminazione terapeutica del malato.

La maggioranza della dottrina concorda sulla non ammissibilità dell’obiezione di coscienza nella Legge n. 219/2017. D’altronde, se si volesse sostenere un implicito riconoscimento dell’obiezione di coscienza, si farebbe rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta, vale a dire il potere del medico di decidere in base alle proprie convinzioni etiche, imponendo al paziente l’inizio o la prosecuzione di un trattamento indesiderato.

Suffraga questa tesi anche quella parte della dottrina che, nel riconoscere la negazione della tutela dell’obiezione di coscienza, si chiede se essa potrebbe essere introdotta con una modifica della legge. «La risposta è certamente positiva, con l’unica precisazione che la legge dovrebbe anche farsi carico di prevedere adeguati meccanismi per far sì che l’esercizio di tale diritto non vanifichi l’effettività della legge stessa, né dia luogo a irragionevoli disuguaglianze fra medici obiettori e non. Si tratterebbe, in altri termini, di fare in modo che quelle garanzie che la legge riconosce al paziente, cioè la possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento proposto dal medico e rinunciare a qualsiasi trattamento già in corso, possano comunque trovare realizzazione nonostante il riconoscimento dell’obiezione di coscienza»[108].

Più esplicitamente qualche autore riconosce il fondamento costituzionale dell’obiezione di coscienza e «il rilievo scriminante dell’obiezione di coscienza, almeno nei casi in cui essa sia opposta verso obblighi la cui osservanza sarebbe in grado di compromettere, in qualsiasi fase, una vita umana, ha fondamento costituzionale ed è direttamente deducibile dagli artt. 2 e 3 della Costituzione»[109]. Di conseguenza sarebbe necessario un superamento della visione tradizionale sull’obiezione di coscienza «muovendo dalla riflessione sul ruolo della libertà di coscienza fra i beni di rilievo costituzionale»[110], come evidenziato dalla sentenza n. 467 del 19/12/1991 della Corte Costituzionale sull’obiezione di coscienza, anche se l’impostazione tradizionale non ammette la sostenibilità di un rilievo generale della libertà di coscienza nei confronti della legge.

Le norme che ammettono l’obiezione di coscienza sono considerate eccezionali, anche se a ben riflettere ciò contrasta con il rango di principio fondamentale costituzionalmente garantito riconosciuto alla libertà di coscienza.

La mancata previsione dell’obiezione di coscienza nella Legge n. 219/2017 affonda le sue radici in una concezione discutibile del rapporto tra medico e paziente, dove la relazione di cura è “burocratizzata” ed il ruolo del medico svilito a quello di un tecnico che esegue disposizioni. Lo scopo perseguito dal legislatore di ravvivare il rapporto di alleanza terapeutica tra medico e paziente risulta in parte frustrato, in favore della certezza del diritto e nel timore di esporre l’assistenza sanitaria a pericolose derive che lascino agli esercenti le professioni sanitarie un eccessivo spazio di riconoscimento della libertà di coscienza.

I capisaldi della professione sanitaria, cioè i principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità enunciati nel Codice Deontologico, escono indeboliti dal confronto con il diritto di autodeterminazione del paziente, ma la scelta del Legislatore è stata chiara. Diversamente si sarebbero posti evidenti problemi di conciliare l’obiezione di coscienza con un diritto, che non può soffrire limitazioni se non quelle espressamente previste dal sesto comma dell’art. 1 L.219/2017.

Per doverosa completezza, si ricorda che in tempi immediatamente successivi all’approvazione della legge, alcune strutture sanitarie private o accreditate, di ispirazione cattolica, hanno comunque rivendicato un diritto all’obiezione di coscienza.

Recentemente la Corte Costituzionale ha fatto un cenno all’obiezione di coscienza nella sentenza n. 242/2019, pronunciata nel caso Cappato, dopo l’emanazione della Legge n. 219/2017, affermando: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»[111].

Un altro argomento spinoso riguarda il caso dei Life-sustaining treatments, ossia dei trattamenti di sostegno vitale. Nasce spontaneo l’interrogativo: esistono limiti giuridici al diritto del malato, sancito dall’art. 1, comma 5, della Legge n. 219/2017 di rifiutare in tutto o in parte accertamenti diagnostici o trattamenti sanitari indicati dal medico, anche quando siano necessari per la sopravvivenza del paziente?

Partendo dall’assunto che rinunciare a qualcosa che non compromette la qualità della vita è diverso dal rinunciare o rifiutare terapie che garantirebbero la sopravvivenza, si comprende che l’incrocio delle motivazioni giuridiche, professionali, tecniche, deontologiche, culturali, religiose ed etiche dei soggetti coinvolti nel caso di un paziente che rifiuti i Life-sustaining treatments è assai complesso ed in questo intreccio addentrarsi è facile come perdersi.

Un chiaro limite al diritto di autodeterminazione del malato si ricava dal testo dell’art. 1, comma 6: «Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alla buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali»[112].

Con questa disposizione il legislatore opera un esplicito richiamo all’appropriatezza clinica dei trattamenti sanitari «valutata dai curanti, che hanno la competenza per farlo sul piano degli standard scientifici e professionali vigenti, nel rispetto della propria coscienza[113], anche se “non vi è coincidenza tra appropriatezza clinica e proporzionalità delle cure»[114]. Questo concetto è stato espresso anche da Papa Francesco nel Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del fine vita del 16 novembre 2017 nei seguenti termini: «per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale»”[115].

 Non sarebbe peraltro messa in discussione la preminenza dell’autonomia del paziente sull’autonomia del medico e tra i primi commentatori della nuova disciplina «sembra prevalere una lettura largamente riduttiva della proposizione indicata, che si limiterebbe a sancire il principio della inesigibilità di trattamenti “stravaganti”, che non abbiano superato la soglia giuridica minima di collaudo o che addirittura siano ripudiati dalla comunità scientifica»[116]. Più in dettaglio, vi è convergenza sul fatto che questa normativa chiarisce che «non si ha diritto di richiedere, e quindi di ottenere, qualunque somministrazione di pseudo farmaci o presunte terapie o interventi e strumenti medico-sanitari non comprovati dall’evidenza scientifica e validati dalla comunità scientifica (come invece è capitato nel nostro Paese con il c.d. caso Di Bella e il caso Stamina)»[117].

Ma allora l’interrogativo è: al di fuori del caso in cui il paziente esiga i trattamenti sanitari citati dall’art. 1, comma 6, della Legge n. 219/2017, che il medico può rifiutare, il diritto di autodeterminazione terapeutica è assoluto? La questione è di difficile soluzione, ma stando alla lettera della Legge si dovrebbe propendere per la risposta affermativa.

Si consideri l’ipotesi, di certo non infrequente, in cui il paziente rifiuti l’esecuzione o la prosecuzione di un trattamento ritenuto appropriato dal medico che lo cura, con la consapevolezza informata e documentata che tale decisione può condurlo alla morte. In tal caso, secondo la lettera del dato normativo attuale, al diritto di autodeterminazione terapeutica del malato corrisponde il dovere del medico, che non potrà che sottomettersi alla volontà del paziente, previa corretta e documentata informazione sulle conseguenze di tale decisione. In merito i pareri dottrinali sono discordanti.

Questa ipotesi di una soggettivizzazione piena del divieto di accanimento terapeutico viene messa in discussione da chi contesta che il diritto di autodeterminazione sia assoluto.  «Potrebbe infatti sembrare che la volontà del paziente – o del disponente – operi fino al punto di esonerare del tutto il medico dal suo potere-dovere di agire o non agire secondo scienza e coscienza (omissis), anche a dispetto della sua autonomia professionale e della sua stessa coscienza morale»[118]. Questa dottrina spiega la svolta legislativa con il superamento di una visione paternalistica del rapporto di cura, ma ciò non comporterebbe la realizzazione di «un’autodeterminazione assoluta del paziente, per cui il trattamento sanitario degrada ad attività puramente esecutiva della sua volontà e da questa giustificata»[119]. Le due prospettive, del paternalismo e dell’autodeterminazione assoluta, dovrebbero essere mediate da quell’alleanza terapeutica, «che non lascia il paziente nell’esclusivo potere del medico né fa di quest’ultimo un esecutore della volontà del paziente»[120]. Il che rientrerebbe nella finalità esplicitata dall’art. 1, secondo comma, di promuovere e valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, che si basa sul consenso informato.

Questa parte della dottrina pone l’accento sul valore sociale della vita, secondo il quale la Legge n. 219/2017 non ha inteso riconoscere il diritto all’autodeterminazione terapeutica come assoluto, legittimando una corrispondente autodeterminazione per la morte, a cui «non può essere riservato neppure uno spazio marginale. In nessun caso la scelta di (lasciarsi) morire può rappresentare un valore per la comunità giuridica. Ma ciò non perché la vita di ciascuno debba intendersi strumentale alla vita di una qualche comunità più ampia, bensì perché la vita di ciascuno si realizza davvero solo nella partecipazione, nell’esistere e nell’agire insieme con gli altri. Sicché negarsi all’altro in maniera definitiva significa negarsi in maniera definitiva al proprio compimento, precludersi il proprio destino di felicità»”[121].

Dal che consegue che si dovrebbe compiere uno sforzo per ricondurre i precetti della Legge n. 219/2017 entro la prospettiva ermeneutica corretta dell’alleanza terapeutica, «riservando alla professionalità e alla coscienza del medico il difficile compito di definire di volta in volta il confine sottile che separa l’autentica autodeterminazione terapeutica dall’autodeterminazione per la morte»”[122].

Volendo invece accettare la tesi che il diritto di autodeterminazione sia assoluto, bisognerebbe trarre la conseguenza che con la legge n. 219/2017, attraverso il veicolo dell’autodeterminazione terapeutica, abbia fatto ingresso nel nostro ordinamento anche l’autodeterminazione per la morte come un valore.

In questo senso si esprimono chiaramente alcuni studiosi. Aderendo alla prospettiva dell’autodeterminazione assoluta del paziente, con riferimento all’accanimento terapeutico, essi affermano che «il caso dell’accanimento terapeutico rappresenta solo una delle tante situazioni in cui la persona può esigere il rispetto della dignità del vivere e del morire, pur mantenendo comunque il valore di un limite invalicabile nell’assenza o nell’impossibilità di una decisione dell’interessato»[123]. Ed ancora che «il combinarsi di consenso, rifiuto di cure, limiti all’attività terapeutica mostra come ormai quasi tutti gli antichi problemi possano ritenersi risolti, e come il diritto di morire secondo volontà e dignità sia divenuto parte del patrimonio giuridico d’ogni persona»[124].

Ne conseguirebbe il riconoscimento di un vero e proprio diritto di (lasciarsi) morire e si dovrebbe risolvere in senso affermativo la questione della legittimità del suicidio assistito, in forza di una “lettura aperta” dell’art. 3 della Costituzione che vieta ogni discriminazione fondata sulla condizione personale, da cui il riconoscimento dell’eguaglianza di fronte alla morte.

Va ricordato che l’art. 1, quinto comma, della Legge n. 219/2017, precisa che nutrizione e idratazione artificiali sono considerati trattamenti sanitari, in quanto somministrazione su prescrizione medica di nutrienti, mediante dispositivi medici. La scelta legislativa ha risolto un problema rovente, cioè quello di decidere se interventi di sostegno vitale come l’alimentazione, l’idratazione e la ventilazione forzate appartengano all’ambito delle terapie, e quindi rientrino nella sfera del consenso/rifiuto dell’interessato o, invece, rientrino nella sfera dell’indisponibilità e coercibilità.

Alcuni autori condividono tale scelta legislativa perché: «La legge n. 219/2017 ha recepito e fatto proprio un orientamento della scienza medica e della giurisprudenza, il quale riconosce a tali interventi - ancorché non possano ritenersi terapie in senso stretto – un carattere invasivo, nonché requisiti e condizioni di professionalità, di cognizioni tecniche e di procedure sanitarie. Da ciò discendono l’assimilabilità di quegli interventi a un trattamento sanitario, che deve essere subordinato come tale al consenso dell’interessato, perché rientra nella sfera della sua disponibilità»[125].

Si potrebbe ritenere che in caso di sospensione della nutrizione e idratazione artificiale la causa della morte sia l’azione del medico che interrompe il trattamento vitale e non la malattia, ma questa appare una concezione riduttiva della malattia, vista come un’alterazione di una singola funzione dell’organismo. Tale visione non considera la persona nella sua globalità, al cui interno si individuano le singole funzioni, tra cui la nutrizione. A supporto interviene l’affermazione di Papa Francesco, secondo il quale «gli interventi tecnologici sul corpo possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona»[126].

A sostegno della tesi secondo cui il diritto di autodeterminazione terapeutica è assoluto, giova richiamare alcuni passi molto chiari della motivazione della citata sentenza n. 21748/2007 della Corte di Cassazione nel caso Englaro: «Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. (omissis) Il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto dell’interessato c’è spazio per una strategia della persuasione (omissis) ma di fronte a un rifiuto informato, autentico e attuale, non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico»[127].

Il principio di autodeterminazione terapeutica affermato dalla Legge n. 219/2017, che riconosce al malato il diritto di rifiutare trattamenti sanitari e di scegliere consapevolmente di morire, assume in quest’ottica una valenza etica profonda di rispetto della persona e dei valori insiti in tale scelta.

La morte diventa passaggio e la sua scelta può essere scelta di un passaggio da rispettare.

7. L’ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale

Dopo la morte di Fabiano Antoniani, era stato aperto un procedimento penale nei confronti di Marco Cappato, imputato del reato previsto dall’art. 580 C.P., per aver rafforzato il proposito suicidario di Dj Fabo e averne agevolato il suicidio. Cappato veniva assolto dalla Corte d’Assise di Milano per la parte che lo vedeva imputato di istigazione al suicidio, mentre per l’agevolazione al suicidio il processo veniva sospeso, perché la Corte aveva emesso ordinanza (del 14 febbraio 2018) di remissione alla Consulta per il giudizio di incostituzionalità dell’art. 580 C.P.

In primo luogo, secondo il giudice rimettente, la disposizione avrebbe violato gli artt. 2 e 13, primo comma, Cost. Tali disposizioni, sancendo il principio personalistico, che pone l'uomo e non lo Stato al centro della vita sociale, e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba avere luogo. La norma si porrebbe in contrasto anche con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU i quali, nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita ed il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero, in base all'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, che l'individuo abbia il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita possa finire, e che l'intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.

In secondo luogo la Corte milanese contestava il trattamento sanzionatorio riservato alle condotte in questione, censurando l'art. 580 c.p., nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione all'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.

La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018, sospendeva il giudizio, riconvocandosi per il 24 settembre 2019 e invitando il Parlamento ad intervenire entro tale data per offrire «la tutela di determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti»[128]. In assenza di un’azione legislativa, la Corte programmava di riunirsi nella data indicata per riaprire il giudizio di costituzionalità[129].

Si tratta di un’ordinanza densa di significato e di spunti di riflessione per il legislatore, che viene esplicitamente invitato ad intervenire. Nell’ordinanza la Corte affermava che l’art. 580 C.P. è funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento. Infatti, il legislatore penale intende proteggere il soggetto da decisioni in suo danno; non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l’interessato, crea intorno a lui una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo.

Inoltre la Corte compie un’affermazione importante in tema di diritto a rinunciare a vivere, ponendosi in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, che nega l’esistenza di un vero e proprio diritto a morire. Secondo le parole della Corte: «dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)»[130].

La Corte individua quattro requisiti che possono legittimare l’aiuto al suicidio, riferendosi «alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.»[131].

In simili casi, la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, tramite richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua.

La disciplina recata dalla Legge n. 219/2017, prosegue la Corte, «recepisce e sviluppa le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di Cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748) – nonché le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico: principio qualificabile come «vero e proprio diritto della persona», che «trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (sentenza n. 438 del 2008), svolgendo, in pratica, una «funzione di sintesi» tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute (sentenza n. 253 del 2009)»[132].

A detta della Corte, entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli un’unica modalità per congedarsi dalla vita, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive.

La Corte ritiene che semplicemente dichiarando incostituzionale l’art. 580 C.P. avrebbe lasciato priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi. In tal modo «qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti»[133].

La Corte esterna in modo assai esplicito le sue preoccupazioni, ma «reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale»[134].

Questa ordinanza rappresenta una nuova tecnica decisoria, che qualcuno ha definito ad «incostituzionalità differita»[135], perché la Corte afferma che è illegittimo punire chi agevola il suicidio del malato che, in piena libertà e consapevolezza, decide di rifiutare terapie mediche che gli infliggono sofferenze fisiche o morali, e che reputa contrarie al suo senso di dignità. Tuttavia, nell’urgenza di un intervento del legislatore per definire modi e condizioni di esercizio del diritto a ricevere un trattamento di fine vita, la Corte, utilizzando i propri poteri di gestione del processo costituzionale, differisce a data futura la relativa declaratoria, assegnando termine al legislatore per emendare il vizio, anche nell’esigenza «di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità» [136].

A seguito dell’ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale, il Comitato Nazionale di Bioetica ha pubblicato il 30 luglio 2018 il primo parere sul suicidio medicalmente assistito, distinto dall’eutanasia.  Se ne fa un cenno doveroso, pur non addentrandosi nei dettagli e nelle problematiche etiche inerenti il suicidio assistito.

Il CNB ha inteso fare chiarezza portando gli argomenti pro e contro e, pur nella spaccatura di vedute al suo interno, è giunto alla formulazione di alcune raccomandazioni condivise, auspicando che il dibattito sull’aiuto medicalizzato al suicidio si sviluppi nel rispetto di tutte le opinioni al riguardo «ma anche con la dovuta attenzione alle problematiche morali, deontologiche e giuridiche costituzionali che esso solleva e col dovuto approfondimento che esige una tematica così lacerante per la coscienza umana»[137].

8. La sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale sul suicidio medicalmente assistito

Nell’inerzia del legislatore, preso atto dell’inutile decorso del termine concesso al Parlamento con l’ordinanza n. 207/2018, al fine di colmare il vuoto normativo in tema di fine vita, all’udienza del 24 settembre 2019, la Consulta decideva di non procrastinare oltre la decisione. Con sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, sanciva l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 C.P. «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) (omissis) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»[138].

La Corte precisa che la carenza di disciplina legislativa che può derivare dalla declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma, non può essere di ostacolo alla pronuncia, come da giurisprudenza risalente (sentenza n. 59 del 1958 Corte Cost.). Quando però i vuoti di disciplina «rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa), questa Corte può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016[139].

Nella motivazione, la Corte Costituzionale ribadisce le quattro condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio e richiama la Legge n. 219/2017, grazie alla quale per pazienti come Dj Fabo sarebbe già possibile chiedere un aiuto a morire.

La Consulta ripete che «entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita»[140].  Attraverso un ragionamento per analogia, la Corte afferma che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale può, a determinate condizioni, decidere di porre termine alla propria esistenza interrompendo il trattamento, non c’è motivo per cui la stessa persona, sempre a certe condizioni, non possa decidere di morire giovandosi dell’aiuto di altri, che lo sottragga al decorso più lento e doloroso.

Quindi la Corte riconosce l’estensibilità della disciplina prevista agli artt. 1 e 2 della Legge n. 219/2017 anche ai soggetti che, in presenza delle specifiche condizioni esplicitate, chiedano l’aiuto di terzi nel porre fine alla propria vita, affidando la verifica delle modalità di esecuzione e delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio alle strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale. Richiede poi, per la delicatezza dei valori in gioco, l’intervento di un organo collegiale terzo, dotato di adeguate competenze, che possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità e che la Corte, in attesa di un adeguato intervento legislativo, identifica con i Comitati etici territorialmente competenti.

Inoltre, per non intaccare in alcun modo l’obiezione di coscienza, la Corte sottolinea che la declaratoria di incostituzionalità si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nella particolare fattispecie delineata, ma non prevede alcun obbligo di procedere in capo ai professionisti sanitari, che restano liberi di scegliere secondo la propria coscienza se esaudire o no la richiesta del malato.

Infine la Corte si rivolge ancora una volta al Parlamento per «ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati»[141].

9. Commenti dottrinali alla sentenza n. 242/2019

Molti i commenti dottrinali alla sentenza n. 242/2019 della Consulta, che ha suscitato diverse ed opposte reazioni.

Certa dottrina ha colto la valutazione politica data dalla Corte, sottolineando che «L’ incriminazione dell’art 580 c.p. è difatti intrisa dell’ideologia fascista che vedeva la vita quale “bene non disponibile da parte del suo titolare perché a disposizione della collettività, di conseguenza il suicidio era connotato da elementi di disvalore per la collettività statale in quanto sottraeva forza lavoro e cittadini alla patria. Un orientamento che, come esplicitato dalla Corte, non ha più alcuna ragion d’essere nel nostro ordinamento costituzionale, improntato com’è al principio personalista enunciato all’art. 2 e 13 Cost[142].

Altra dottrina evidenzia la delicata opera di bilanciamento di valori costituzionalmente protetti, come il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione, che ispira la decisione, affermando che «In sostanza la Corte, con la sentenza 242/2019, opera un bilanciamento-contemperamento tra il dovere costituzionale di garanzia che grava sullo Stato e che rende legittimo e proporzionato, in linea generale, il ricorso alla sanzione penale per la protezione nei confronti dei terzi del diritto alla vita, ed il diritto all’autodeterminazione individuale della persona dotata di piena autonomia decisionale che, in condizioni di gravissima sofferenza, richieda il loro intervento/aiuto nella sua esecuzione, non riuscendo a realizzare autonomamente (e cioè senza l’aiuto materiale di terzi) la decisione di suicidarsi. Applicando il principio costituzionale di eguaglianza/proporzionalità, ritiene però che tale contemperamento possa ‘giustificare’ soltanto, a fronte dell’aiuto materiale effettivamente fornito dal terzo, una limitatissima area, oggetto di specifici accertamenti e verifiche, di sottrazione alla perseguibilità penale dell’aiuto al suicidio prevista in generale dall’art. 580 CP.»[143].

Altri studiosi hanno posto l’accento sull’ «elevato contenuto normativo»[144] di questa pronuncia, con cui la Corte, recependo nuove istanze sociali, dovute agli enormi progressi della medicina nel prolungare la vita, ha ritenuto di rimuovere «quelle limitazioni che irragionevolmente comprimono la libertà di autodeterminazione del malato terminale nella scelta di quei trattamenti che gli consentano di congedarsi rapidamente dalla vita»[145]. Tuttavia, nel superare l’inerzia del legislatore, la Corte avrebbe utilizzato una pronuncia creativa che incide notevolmente sull’autonomia del Parlamento. In altri termini, il contenuto molto articolato e puntuale della sentenza e dell’ordinanza n. 207/2019, che l’ha preceduta, sarebbe stato mosso dall’intento di agevolare l’intervento auspicato del legislatore, ma al contempo trapelerebbe la sensazione che quest’ultimo abbia preferito affidare alla Corte Costituzionale il compito di riformare l’art. 580 C.P., tradendo lo spirito di leale e dialettica collaborazione che dovrebbe contraddistinguere i rapporti istituzionali.

Inoltre, questa sentenza sarebbe criticabile, in quanto ha determinato notevoli problemi in sede di attuazione. Infatti, come evidenziato anche dal Comitato nazionale di bioetica nel suo parere del 18 luglio 2019[146], prima di poter mettere in pratica il suicidio medicalmente assistito, è necessario garantire l’accesso senza ostacoli alle cure palliative su tutto il territorio nazionale e provvedere ad una adeguata formazione del personale sanitario.

Un’altra prospettiva esamina la sentenza n. 242/2019 alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e rileva che «si pone in linea con la giurisprudenza della Corte EDU sul diritto a morire con dignità, attestando, tra le righe, la dimensione morale del consenso come elemento centrale delle decisioni di fine vita»[147].

Pur se formulata in termini molto circoscritti, la pronuncia segue il solco tracciato dalla Corte EDU verso il riconoscimento pieno del diritto a morire con dignità. Si ricordi che la Corte europea, pur con molta cautela, si è espressa in tema di suicidio assistito nel caso Pretty c. Regno Unito con sentenza del 29 aprile 1992. In un passaggio della decisione, richiamato anche dalla sentenza della Consulta in esame, la Corte EDU ha affermato che dal diritto alla vita garantito dall’art. 2 CEDU non può derivare un diametralmente opposto diritto alla morte, ma ciò non esaurisce definitivamente la questione, in quanto la Corte riconosce che le scelte di fine vita rientrano a pieno titolo nell’autonomia personale, sancita dall’art. 8 CEDU.

La libertà di scegliere come e quando porre fine alla propria vita rientra nell’art. 8 CEDU e quindi ogni ingerenza da parte dello Stato dovrà rispettare i parametri posti dal secondo comma della norma, che recita: «Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o  della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui»[148]. L’interferenza statale nelle scelte di fine vita ha un margine ampio, ma deve garantire l’equilibrio tra l’interesse individuale e quello collettivo.

La sentenza n. 242/2019 è stata anche aspramente criticata da chi l’ha letta come un «ulteriore atto di protezione dell’anarchia»[149]. Con riferimento in particolare al concetto di dignità, viene evidenziato che «La Corte costituzionale sembra certificare, accogliendo le tesi enunciate, la scomparsa del fondamento del diritto, sia di quello classico sia di quello moderno – e la sua sostituzione con la insindacabile scelta soggettiva. Il Collegio dei giudici delle leggi ammette, per esempio, esplicitamente (Ordinanza n. 207/2018) che ognuno ha un proprio concetto di dignità sulla base del quale ha il diritto ex articolo 32 Costituzione di rifiutare il mantenimento artificiale in vita non più voluto; anzi ha il diritto di porre fine alla propria vita»[150].

La sentenza in oggetto rappresenterebbe il tentativo di quadratura del cerchio, in quanto il principio personalistico a cui si ispira la Costituzione, se portato alle estreme conseguenze, non consentirebbe di conservare l’ordinamento giuridico: «questo infatti è sempre limite (sostanziale e/o procedurale) all’autodeterminazione assoluta della volontà della persona, al pieno sviluppo della sua libertà negativa, al suo sviluppo e alla sua realizzazione»[151].

Tuttavia la Corte tuttavia pone quattro condizioni per la legittimità costituzionale dell’assistenza al suicidio, che rappresentano dei limiti alla libertà negativa del soggetto: tali imposizioni, a detta della critica, sarebbero arbitrarie, contraddittorie e stabilirebbero una disuguaglianza tra persone (malate e sane) e tra persone malate (la patologia deve essere irreversibile e la sofferenza deve essere insopportabile), anche se la valutazione della sofferenza è lasciata alla valutazione soggettiva del malato.

Un’altra questione problematica in questa pronuncia riguarderebbe il concetto di terapia. «La soppressione della propria vita non può rientrare tra gli atti terapeutici che tendono, invece, a conservare la vita, possibilmente in condizioni di perfetta salute. L’affermazione secondo la quale la scelta del suicidio è scelta terapeutica appare non condivisibile, assurda»[152].

10. Difficoltà applicative della sentenza n. 242/2019. Il caso Davide Trentini

Le diatribe in tema di suicidio assistito non sono terminate con la sentenza n. 242/2019 ed anzi successivamente la pronuncia è stata invocata a sostegno di tesi diverse, come nel processo promosso avanti la Corte d’Assise d’appello di Genova a carico di Mina Welby e Marco Cappato, imputati di concorso nel reato di cui all’art. 580 C. P. per avere aiutato Davide Trentini, malato di sclerosi multipla dal 1993, non dipendente da Life-sustaining treatments, ad accedere al suicidio assistito in Svizzera il 13 aprile 2017. In primo grado gli imputati erano stati assolti dalla Corte d’Assise di Massa con sentenza del 27/7/2020, n. 1.

Alla prima udienza del processo d’appello del 28 aprile 2021, la Corte di Genova, con un procedimento lampo, ha confermato la sentenza pronunciata nel luglio 2020 dalla Corte d’assise di Massa che aveva assolto Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di aver aiutato a morire Davide Trentini. Fino alla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, l’assistenza al suicidio era sempre e comunque un reato. Quella pronuncia, invece, ha aperto una finestra di non punibilità in presenza di alcune tassative circostanze, fra le quali la presenza di trattamenti salvavita.

Ma cosa volevano intendere i giudici della Consulta con questa espressione? Fino alla sentenza di Massa, era riferita a interventi quali ventilazione polmonare, idratazione e nutrizione artificiali e trattamenti similari. La decisione di primo grado, confermata ora in appello, ha invece ricompreso in questa espressione anche la sottoposizione a semplici farmaci la cui mancata somministrazione potrebbe provocare la morte.

Si è avuto quindi un ampliamento della sfera di non punibilità dell’aiuto al suicidio ed è stato stabilito un precedente importante, che rende possibile l’aiuto al suicidio anche della persona capace di autodeterminarsi, affetta da patologia irreversibile, che produca sofferenze intollerabili e che sia tenuta in vita da trattamenti farmacologici.

La difesa degli imputati Welby e Cappato aveva già posto l’accento sul fatto che, se il presupposto di essere sottoposto a trattamenti di sostegno vitale fosse stato considerato una condizione necessaria e non solo eventuale per poter accedere al suicidio assistito, si sarebbe creata una discriminazione ai sensi dell’art. 3 della Costituzione, fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti, pur affetti da patologia anche gravissima e con forti sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora. Inoltre a questi ultimi verrebbe imposto, anche per il futuro, di accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione e idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di poter richiedere l’assistenza al suicidio, prospettando in questo modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo ragionevole.

10.1. I casi delle Marche

Recentemente è salito alla ribalta della cronaca il caso di Mario (nome di fantasia), malato tetraplegico marchigiano di 43 anni, costretto a letto da 10 anni a causa di un gravissimo incidente stradale che gli ha lesionato la spina dorsale e che oltre un anno fa ha fatto richiesta di accedere al suicidio medicalmente assistito, come consentito dalla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale.

Inizialmente l’Azienda Sanitaria Unica Regionale (A.S.U.R.) ha respinto la richiesta, senza neppure attivare le procedure di verifica previste dalla sentenza della Consulta, costringendo Mario a rivolgersi al Tribunale di Ancona, che con ordinanza 9 giugno 2021 ha intimato all’A.S.U.R. di rispettare l’obbligo di accertare le condizioni necessarie per l’accesso alla pratica.

Sul caso è intervenuto anche il Ministero della Salute con una nota inviata il 9 novembre 2021 alla Conferenza delle Regioni, con cui esortava i Presidenti regionali a dare concreta attuazione a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale e sottolineava la responsabilità del Servizio Sanitario Nazionale.

Il 23 novembre 2021 Mario ha ricevuto il parere del Comitato Etico Regione Marche, che ha riscontrato la presenza delle quattro condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale, trattandosi di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetto da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili e pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Tuttavia il percorso di Mario verso la liberazione “dalla condanna a soffrire ogni giorno di più ed essere torturato” (come da lui precisato) si interrompeva e il malato ha dovuto diffidare l’A.S.U.R. inadempiente, che si trincerava dietro all’assenza di una legge che definisca le procedure di applicazione della sentenza della Corte Costituzionale, ad attivare le procedure di verifica.

E’ da rilevare che, secondo la Corte, l’Azienda sanitaria deve solo verificare le modalità di attuazione della scelta del paziente e l’ultimo tassello mancante, dopo il via libera del Comitato Etico regionale, era l’individuazione del farmaco e la modalità di autosomministrazione.

Finalmente in data 12 febbraio 2022 è giunta la notizia che il Comitato tecnico multidisciplinare di esperti, istituito dall’A.S.U.R., ha deciso l’appropriatezza del farmaco Tiopentone per dare concreta attuazione alla richiesta di suicidio medicalmente assistito di Mario.

Vi è poi il caso di un altro paziente, tetraplegico da 8 anni, anche lui residente nelle Marche, che da 17 mesi attendeva una risposta alla sua richiesta di concludere dignitosamente una vita diventata ormai soltanto sofferenza, ma la sua richiesta era stata bloccata dall’Azienda sanitaria della sua Regione. Dopo due diffide ed una denuncia, il 18 gennaio 2022 si è svolta la prima udienza del procedimento di urgenza in Tribunale e con una ordinanza di fine gennaio, i giudici marchigiani hanno ordinato alla A.S.U.R. Marche di procedere con la verifica delle condizioni per l’accesso all’aiuto al suicidio assistito.

L’ordinanza ha rigettato tutte le contestazioni formulate dall’A.S.U.R. Marche, che continuava ad opporsi alla decisione della Corte costituzionale, sminuendone o addirittura cercando di annullarne la portata normativa.

11. Conclusioni

Il mutamento di prospettiva nella percezione della salute ha profondamente innovato anche la concezione del diritto alla salute.

A tutt’oggi la salute non è più percepita come mera assenza di malattia o disabilità, ma come la capacità della persona di adattarsi e autogestirsi nelle sfide sociali, fisiche ed emotive che quotidianamente deve affrontare. È una visione concreta, non utopistica   come lo era la prima definizione di salute dell’OMS, in cui si parlava di uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. La salute è diventata un processo dinamico in continuo divenire, strettamente rapportato alla percezione soggettiva dell’individuo, esaltato nella sua integralità e dignità. 

I progressi della medicina e della chirurgia hanno comportato miglioramenti e traguardi impensabili fino a pochi decenni fa, ma hanno anche creato situazioni di difficoltà e sofferenza, laddove il mantenere in vita un corpo in condizioni difficili può creare un conflitto tra la volontà individuale e l’esigenza pubblica di garantire le migliori prestazioni sanitarie. Si è posto quindi l’accento sulla soggettività della salute, sull’integrità della persona e sulla dignità del malato, che devono sempre guidare le scelte terapeutiche e la relazione di cura tra medico e paziente.

Questa attenzione alla persona, nella sua integralità, ha condotto all’affermazione del diritto di autodeterminazione terapeutica, dapprima riconosciuto a livello giurisprudenziale e successivamente trasfuso dal Parlamento nella recente Legge n. 219/2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.

Nel nostro ordinamento, il principio di autodeterminazione trova il suo primo germe nell’art. 32 della Costituzione, laddove nel secondo comma si afferma l’intangibile volontarietà dei trattamenti sanitari, a cui il cittadino può essere obbligato soltanto per disposizione di legge. La giurisprudenza costituzionale ha sviluppato e approfondito il concetto dell’autodeterminazione, con specifici riferimenti ai rapporti intercorrenti tra il diritto alla salute sancito da tale disposizione e l’inviolabilità della libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost., sotto l’egida del principio fondamentale espresso dall’art. 2 Cost.

Il diritto di autodeterminazione, pur non espressamente contemplato nel testo costituzionale, trova fondamento nella Carta e si è affermato sulla base di una lettura evolutiva dei diritti fondamentali in essa enunciati che non sono da considerare un numero chiuso, ma da implementare in base all’evoluzione sociale. Ciò è avvenuto grazie all’art. 2 della Costituzione, considerato una clausola aperta che consente l’esplicitazione di nuovi diritti, come è accaduto ad esempio con il diritto alla riservatezza, il diritto all’identità personale e il diritto alla genitorialità.

Il principio di autodeterminazione risulta implicito nell’ordinamento giuridico italiano come fattore preparatorio e necessario per il godimento dei diritti individuali, e si esprime sotto forma di libertà soggettiva, di scelta finalizzata alla realizzazione della propria identità e personalità, connotandosi anche in senso negativo come libertà di non scegliere. Come ben evidenziato dalla Consulta in tema di scelte terapeutiche, la normativa costituzionale di riferimento si completa con l’art. 13 Cost., che valorizza il diritto alla libertà personale anche in relazione al suo aspetto morale, come diritto inviolabile della persona di essere aderente in ogni fase della sua vita alla personale concezione di esistenza, e con l’art. 32 Cost., che afferma la regola della volontarietà dei trattamenti sanitari.

Il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e svolge una innovativa funzione di sintesi tra il diritto alla salute e quello all’autodeterminazione, poiché al diritto di ogni persona di essere curata corrisponde il diritto di ricevere le opportune informazioni sul percorso terapeutico proposto, sulle possibili conseguenze e sulle eventuali terapie alternative.

Nel nostro ordinamento, la Legge n. 219/2017 rappresenta il tentativo del Legislatore di colmare i vuoti normativi, evidenziati dalle numerose sentenze pronunciate in situazioni talvolta drammatiche di fine vita, dove il diritto del malato all’autodeterminazione terapeutica, riconosciuto dalla Costituzione, si scontrava con la carenza di normazione primaria di attuazione.

È apprezzabile la scelta operata dalla Legge n. 219/2017 di promuovere e valorizzare la relazione di fiducia e di cura tra paziente e medico come condizione preliminare dell’espressione di un consenso davvero informato, coerentemente con il principio personalistico che impronta la nostra Costituzione, che vede nella persona umana un valore etico in sé e che vieta ogni strumentalizzazione della medesima, concependo l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo, e non viceversa.

L’evoluzione del concetto di salute non ha toccato solo la natura fisica e psichica della stessa, ma ha determinato il superamento della visione paternalistica della relazione di cura tra paziente e medico. La tutela costituzionale del diritto alla salute si realizza in una disciplina legislativa che pone al centro l’alleanza terapeutica tra il malato e il professionista sanitario, all’interno della quale il paziente non è più soggetto passivo, destinatario di trattamenti, ma parte attiva che porta nella relazione la sua formazione culturale, le sue convinzioni religiose e morali, le sue aspettative, e si confronta con la formazione scientifica e le proposte terapeutiche del medico.

L’approccio corretto alla malattia non deve minare né l’integrità né l’integralità della persona.

Una doverosa riflessione riguarda la difficile convivenza tra istanze etiche e istanze di regolamentazione giuridica. Discutendo di diritto alla vita, nella fase acuta e problematica della malattia fino alla morte, di diritto alla salute e di diritto all’autodeterminazione, si è evidenziata una contrapposizione tra l’etica della sacralità della vita e l’etica della qualità della vita.

«Non vivere bonum est, sed bene vivere», scriveva Lucio Anneo Seneca[153], e «Non est vivere, sed valere vita est» affermava Marziale[154]. I conflitti interiori nelle situazioni problematiche della malattia sono sempre esistiti, e, ora più di allora, postulano risposte giuridiche adeguate, in quanto il diritto non può restare cieco e sordo di fronte alle invocazioni di regolamentazione di tali circostanze. Il diritto all’autodeterminazione implica che lo Stato non può sostituire la propria volontà a quella degli individui, ma ciò non significa che possa disinteressarsi delle condizioni materiali necessarie affinché tale diritto possa esplicarsi.

La Legge n. 219/2017 appare indubbiamente motivata dalla costruzione di una cultura orientata alla qualità della vita, con un apprezzabile tentativo di superamento della rimozione della morte, nel rispetto di diritti e principi costituzionali. L’evento “morte” che pone individuo e società di fronte a scelte angoscianti e culturalmente complesse è ancora oggetto di rimozione, individuale e collettiva. La nuova normativa, lungi dall’esorcizzare il tabù della morte, ha il pregio di colmare alcuni vuoti legislativi, che la giurisprudenza aveva parzialmente riempito, e di offrire strumenti pratici per valorizzare le scelte di fine vita, conciliando la necessità giuridica di regolare tali scelte con l’esigenza etica della loro giustizia.

Il rifiuto o l’interruzione di trattamenti medici vitali hanno la valenza di legittimo esercizio del diritto alla salute. La norma positiva rinvia alla valutazione soggettiva del malato, che dovrebbe ragionare insieme al medico curante sull’opportunità e utilità di un trattamento da intraprendere o se le scelte adottate in precedenza, in presenza di un mutamento delle condizioni, siano ancora sostenibili o siano divenute irragionevoli. La corretta informazione sulla diagnosi, la prognosi, le eventuali alternative terapeutiche, i rischi e le possibili complicanze si inquadra in questo percorso di rinnovata collaborazione tra medico e paziente, nell’ottica di fornire al malato ogni sostegno, sottraendolo a un abbandono terapeutico ingiusto e incivile.

La salute viene intesa come espressione della dignità della persona e, attraverso il consenso informato, in essa si fondono l’aspetto positivo del diritto alla cura e quello negativo del diritto al rifiuto della cura: dignità nel vivere per il primo aspetto, dignità nel morire per il secondo aspetto. In questo contesto non è il paziente a dover giustificare le sue scelte terapeutiche, ma è l’opera del medico che deve avere adeguata giustificazione giuridica, nel rispetto dei diritti del paziente alla libertà personale (art. 13 Cost.) e alla salute (art. 32 Cost.), in quanto la finalità terapeutica in sé non è una giustificazione sufficiente.

L’introduzione del “morire con dignità” non deve essere considerato l’effetto di un abbandono del valore della vita, ma va correlato alla disponibilità di strumenti che oggi consentono un prolungamento della vita, anche in situazioni in cui in passato la morte sarebbe sicuramente sopraggiunta. Pensiamo sempre all’esempio di Eluana Englaro e alla sua battaglia per ottenere il diritto di morire con dignità.

La considerazione della persona, oltre che nella sua integrità fisica meramente biologica, anche nella sua integralità di essere umano con il suo personale bagaglio culturale ed il suo fardello di dolore fisico e psicologico, di solitudine, di stanchezza di vivere, di paura della sofferenza, possono ben legittimare la disponibilità assoluta e incoercibile del diritto di vivere, a cui fa da contraltare nel malato irreversibile il diritto di morire dignitosamente, quando le condizioni della malattia lo conducano verso un’agonia senza sbocco. Sarebbe contraddittorio riconoscere l’integralità della persona e negarle il diritto di autodeterminarsi, quando questa integralità sia ormai irrimediabilmente compromessa.

Il diritto di autodeterminazione terapeutica del malato sancito dalla Legge n. 219/2017 privilegia la visione del malato nella sua integralità e soggettività morale. L’etica kantiana di valorizzazione della dignità di ogni essere umano, indipendentemente dal suo status, perché l’essere umano è già fonte di per sé di valore, in quanto potenzialmente capace di moralità, esalta la soggettività umana.

In questa prospettiva il sacrificio dell’autonomia del paziente, in nome di un bene di cui il medico sarebbe l’unico e legittimo interprete, non trova più spazio e la legge n. 219/2017 è espressione di una relazione di cura ispirata alla qualità della vita.

Necessita però mettere in guardia dal rischio di un’eccessiva esaltazione dell’individualità nel diritto di autodeterminazione sotto molteplici aspetti.

Innanzitutto nella prospettiva dell’intersoggettività, cioè se il principio di autodeterminazione si riduce ad una scelta personale, senza limiti di ordine sociale, rischia di restare confinata  in una dimensione esclusivamente individualistica e privata, e di non tenere sufficientemente conto della componente sociale, cioè della  relazione con gli altri e della responsabilità che coinvolge l’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, come afferma l’art. 2 della Costituzione.

In altre parole, l’enfatizzazione del principio di autodeterminazione potrebbe fornire un alibi per la responsabilità della società, che abbandona fisicamente e psicologicamente persone sole e indigenti, motivandole alla scelta della morte.

Sullo sfondo di tale affermazione si agita il problema del valore della solidarietà nella società. Se è vero che il legislatore ha colto la sensibilità della società nei confronti del valore dell’autodeterminazione, essa è una sensibilità ispirata ad un’etica dei diritti, tipica della società liberale, più che ad un’etica dei doveri e della solidarietà. In sostanza, la legge ha forse trascurato – a favore del diritto – l’umanità e la compassione, giungendo ad un eccesso di normatività.

Inoltre appare pericoloso basare la relazione di cura unicamente sul principio del consenso informato che esprime il rispetto delle libertà personale, ma rischia di enfatizzare l’autonomia individuale, mettendo in ombra altri aspetti presenti nella relazione, come la fragilità e la dipendenza del paziente. Il malato si trova in una condizione di debolezza, per cui esaltare la sua capacità di autodeterminazione potrebbe produrre l’effetto paradossale di lasciarlo solo con le sue scelte esistenziali o di metterlo in balia di chi può esercitare su di lui un potere fisico o anche solo un’influenza morale.

In altri termini, non va sottaciuto il rischio di pensare in maniera riduttiva, riconducendo tutto al faro dell’autonomia, soprattutto se si considera che molte scelte terapeutiche riguardano individui la cui autonomia è fortemente intaccata, se non inesistente. Non si può accettare un concetto di autonomia come pura e semplice libertà di agire in base alle proprie preferenze, ma bisogna sempre fare riferimento alla dignità della persona umana. Un’errata identificazione tra autonomia e dignità umana porterebbe a legittimare scelte autonome, ma moralmente inaccettabili, perché degradanti per la dignità umana.

Di conseguenza, bene ha fatto il legislatore a porre l’accento sull’importanza della relazione di cura, che, se ben impostata, favorisce l’empowerment individuale, aiutando il processo di consapevolezza e di autodeterminazione del paziente nell’assunzione delle decisioni inerenti la propria vita.

La malattia compromette l’integrità della persona, ma l’approccio esclusivamente biologico alla malattia da parte della medicina rischia di minacciare l’integralità dell’essere umano. Ne consegue la necessità di un rapporto col malato che non consideri soltanto gli aspetti strettamente clinici, ma abbracci anche il vissuto del paziente come persona. Da questo diverso e aggiornato approccio alla persona, vista nella sua unità, discende una diversa visione del modus operandi del medico, che deve agire non solo in base alle proprie competenze scientifiche, ma anche nel rispetto della volontà del paziente e a vantaggio della sua integrità e integralità.

L’esigenza di rapportare il diritto di autodeterminazione del paziente con la visione della persona nella sua integralità rinvia alla necessità di un approccio corretto ai concetti di malattia e di cura, in cui la clinica è una pratica umana e scientifica, ma anche intrinsecamente morale, dove la medicina dovrebbe esplicare la funzione che l’ha contraddistinta fin dalla sua nascita, cioè di prestare aiuto a una persona malata. In questa relazione di cura, il medico non può certo attenersi solo all’aspetto prettamente tecnico e scientifico, ma dovrà interagire con il malato, visto nella sua complessità di persona posta di fronte alla malattia, nel duplice aspetto di patologia oggettiva e di sofferenza esistenziale soggettiva.

I medici hanno abdicato alla componente ippocratica e filosofica della loro funzione, quella comunicativa, relazionale, di ascolto. «Scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile» scriveva Franz Kafka in “Un medico di campagna[155]. La medicina, tecnologicamente sempre più avanzata, ha dilatato anche la distanza fisica tra medico e malato, passando dai trenta centimetri di stetoscopio che nell’Ottocento hanno cominciato a separare l’orecchio del medico dal corpo del paziente, fino ad arrivare agli strumenti diagnostici più sofisticati.

La seconda dimensione dell’umano che è evidenziata nel diritto di autodeterminazione del malato è la soggettività morale, cioè l’esperienza di essere gli unici artefici della nostra vita, essendo affidate alla nostra responsabilità tutte le scelte che ci riguardano. E questo si verifica a maggior ragione in ambito sanitario, dove le nostre scelte riguardano beni fondamentali come la salute, che toccano direttamente la nostra identità personale. Tanto più nel caso di una malattia inguaribile, in cui spetta alla nostra soggettività morale dare un senso a quello che ci accade.

La sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, da un lato ha segnato un significativo passo in avanti in tema di fine vita, applicando in presenza di determinati presupposti la nuova normativa sul consenso informato e le DAT alla particolare fattispecie del suicidio medicalmente assistito; ma dall’altro resta la necessità di serie riflessioni giuridiche e culturali sulla delicata materia della tutela delle persone nella malattia in generale e nella fase terminale della vita in particolare.

La Corte Costituzionale però si è rivolta al Parlamento per ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi enunciati: ancora una volta la giurisprudenza indica la via maestra al legislatore, che tarda ad attivarsi e a dare alla luce provvedimenti esaustivi e soddisfacenti per le istanze sociali e culturali in tema di fine vita. 

Le recenti difficoltà di applicazione della sentenza n. 242/2019 sul suicidio medicalmente assistito palesano carenze normative che ostacolano la concreta realizzazione delle legittime aspettative di cittadini, la cui situazione di malattia estrema rispetta tutti i requisiti sanciti dalla Corte Costituzionale per avere accesso ad una morte dignitosa e desiderata.

Oggi in Italia esistono delle regole precise per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, sancite dalla Corte Costituzionale; il reiterato ostruzionismo delle Aziende sanitarie sta comportando non solo la negazione di diritti costituzionali, ma soprattutto il prolungarsi delle sofferenze dei malati.

Sono previste anche delle procedure che includono la modalità di autosomministrazione del farmaco da parte del paziente. La validazione del farmaco e delle modalità di autosomministrazione nei casi delle Marche creano un precedente, ma, a distanza di tre anni dalla pronuncia della Consulta, il Parlamento non è ancora riuscito a varare una legge che definisca compiutamente le procedure di applicazione della sentenza de qua. Ancora più grave sarebbe se il Parlamento approvasse una normativa, come quella in discussione alla Camera, che restringe anziché ampliare le regola già definite dalla Corte Costituzionale.

Il tema del fine vita e della sua regolamentazione continua ad incontrare ostacoli di vario genere, legislativi, politici, sociali e culturali, che non permettono di prevedere i tempi della compiuta disciplina di una materia inevitabilmente intrecciata con questioni morali ed etiche, rendendo arduo il percorso delineato dalla Corte Costituzionale nella sua storica sentenza n. 242/2019.


Note e riferimenti bibliografici

[1]www.dors.it

[2] www.dors.it

Questo Glossario di Promozione della Salute è stato redatto per conto dell’OMS da Don Nutbeam del Collaborating Centre for Health Promotion dell’OMS, Department of Public Health and Community Medicine, Università di Sidney, Australia. Una bozza finale del glossario è stata preparata come documento da distribuire in occasione della Quarta Conferenza Internazionale di Promozione della Salute Nuovi Attori per una Nuova Era: Portare la Promozione della Salute nel XXI secolo, Jakarta, Indonesia, 21-25 luglio 1997. La bozza finale è stata successivamente revisionata per rispondere dei risultati emersi da quella Conferenza, in particolare dalla Dichiarazione di Jakarta per Portare la Promozione della Salute nel XXI secolo.

[3] P. DA COL e S. KOTERLE, La salute come capacità di adattamento, da www.saluteinternazionale.info

[4]www.lizardmed.eu

[5]In questo senso E. PASINI, in www.evasiopasini.it, secondo il quale:

«Questo atteggiamento ho portato al rischio di insostenibilità della spesa farmaceutica dei paesi industrializzati ed a problematiche etiche. Di fatto, nei paesi del mondo ad alto reddito per un paziente ultraottantenne con scarse possibilità di vita si spendevano migliaia di euro per allungare di qualche giorno o mese la sua vita. Le stesse somme di denaro avrebbero potuto salvare migliaia di bambini nati in un paese meno fortunato».

[6] G.M. FLICK, La salute nella Costituzione Italiana: un diritto di ciascuno, un interesse di tutti, in www.portale.fnomceo.it.

[7]www.saluteinternazionale.info

[8] www.treccani.it

[9] www.gazzettaufficiale.it

[10] Cass. S.U. 6 ottobre 1979, n. 5172, in Giust. Civ. 1980, I, 1970 ss.

[11] Cfr. Corte Cost. 28 maggio 1987, n. 210, in Giurisprudenza costituzionale, 1987, I, 1577 ss.; Corte Cost. 30 dicembre 1987, n. 641, ibidem, 1987, 3788 ss.; Corte Cost. 16 marzo 1990, n. 127, ibidem, 1990, 718 ss.; Corte Cost. 20 dicembre 1996, n. 399, ibidem, 1996, 3646 ss.

[12] M. LUCIANI, Salute – I. Diritto alla salute – dir. Cost, in Enc. Giur. XXVII, Roma, 1991, 1.

[13] D. MORANA, La salute come diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2018, 22.

[14]D. MORANA, La salute come diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2018, 33.

[15] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, in www.aduc.it

[16] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[17] M. CARTABIA, La giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 32, secondo comma della Costituzione italiana, in Quad. cost., 2012, 455 ss.

[18] P. BORSELLINO, Bioetica tra “morali” e diritto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018, 77.

[19]  P. BORSELLINO, op. cit., 78.

[20]  G.u.p. Tribunale di Roma, 23 luglio 2007, n. 2049, in www.penale.it

[21] G.u.p. Tribunale di Roma, 23 luglio 2007, n. 2049, ibidem.

[22] G.u.p. Tribunale di Roma, 23 luglio 2007, n. 2049, ibidem.

[23] Per Azzalini e Molaschi si tratta di «un caso divenuto, come noto, emblematico della “lotta” per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica nel nostro Paese». M. AZZALINI – V. MOLASCHI, Autodeterminazione terapeutica e responsabilità della p.a. Il suggello del Consiglio di Stato sul caso Englaro, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2017, 1525.

[24] Il Tribunale di Lecco dichiarò inammissibile la richiesta del tutore perché in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento vigente, in particolare dell’art. 2 Costituzione, alla luce del principio di indisponibilità del diritto alla vita (art. 579 C.P.).

[25] La Corte d’Appello di Milano rigettò il reclamo proposto dal tutore in quanto ritenne non possibile la decisione a causa del dibattito che era ancora aperto sulla qualificazione del trattamento di idratazione e nutrizione artificiale somministrato a Eluana Englaro.

[26]  Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[27] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[28] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[29] Corte Cost, 8 ottobre 2008, n. 334, in www.giurcost.org

[30] Cons. Stato, III sez., 21 giugno 2017, n. 3058, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2017, 1533. Il Consiglio di Stato afferma che: «Il diniego assistenziale opposto dalla Pubblica Amministrazione nella fase di attuazione del diritto all’autodeterminazione è illegittimo e diviene fonte di responsabilità risarcitoria sia nei confronti del paziente, che dei congiunti, iure hereditatis e in proprio», quando sia accertata l’incompatibilità di un determinato trattamento sanitario o di una determinata condizione che ne consegua, con il profilo identitario della persona in questione, e ciò anche con riguardo ai trattamenti di sostegno vitale, nonché di alimentazione e idratazione artificiale.

[31] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[32] Trib. Reggio Emilia, Decreto 24 luglio 2012, in Banca Dati Pluris www.pluris-cedam.utetgiuridica.it

[33]  TAR Lazio, 12 settembre 2009, n. 8650, in Il merito, 2009, in www.ilmerito.it.

[34] Corte Cost. 16 novembre 2018, n.207, in www.cortecostituzionale.it

[35] Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242, in www.cortecostituzionale.it

[36] F. GELLI – M. HAZAN, La riforma “Gelli”, principi ispiratori e coordinate di base, da La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, a cura di G. Alpa – M. Hazan – D. Zorzit – Giuffrè, Milano, 2017, 12.

[37] www.treccani.it

[38] Corte Cost., 22 ottobre 1990, n. 471, in Foro It., 1991, I, 14; Corte Cost. 9 luglio 1996, n. 238, in www.giurcost.org

[39] Corte Cost., 22 giugno 1990, n. 307, in www.giurcost.org; nello stesso senso, Corte Cost., 23 giugno 1994, n. 258, e Corte Cost., 18 aprile 1996, n. 118.

[40] Corte Cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. Cost. 2008, 6, 4946 ss.

[41] Corte Cost. 23 luglio 2009, n. 253, in www.giurcost.org

[42] In questo senso il commento alla sentenza n. 438/2008 di R. BALDUZZI – D. PARIS, Corte Costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giur. Cost. 2008, 6, 4953 ss.

[43] Corte Cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. Cost. 2008, 6, 4946 ss.

[44] In tal senso P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione, Giuffrè, Milano, 2007, p.242 ss., e P. ZATTI, Principi e forme del governo del corpo, in Il governo del corpo, a cura di Canestrari ed altri, I, da Trattato di biodiritto, a cura di S. Rodotà e P. Zatti, Giuffrè, Milano, 2011, 99 ss.

[45] A. BARBERA, Un moderno habeas corpus?, in www.forumcostituzionale.it

In questo senso anche S. CANESTRARI, Rifiuto informato e rinuncia consapevole al trattamento sanitario da parte di paziente competente, da S. Canestrari, G. Ferraro, C. Mazzoni, S. Rodotà, “Il governo del corpo”, II, Giuffrè, Milano, 2011, 1901 ss.

[46] In questo senso S. RODOTÀ, Habeas corpus, da Trattato di biodiritto, a cura di S. Rodotà e P. Zatti, vol. I, Ambito e fonti del biodiritto, Giuffrè, Milano, 2010, 169 ss.

[47]S. RODOTÀ, “Antropologia dell’homo dignus”, in www.antoniocasella.eu

[48] In questo senso si esprime P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, Giappichelli Editore, Torino, 2002.

[49] Cfr. S. MANGIAMELI, Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?, Relazione tenuta al IV Laboratorio sublacense su “La comunità familiare e le scelte di fine vita”, Abbazia di Santa Scolastica, Subiaco, 3-5 luglio 2009, p. 7, in www.forumcostituzionale.it, 20, secondo il quale “La circostanza poi che il rifiuto della terapia e il lasciarsi morire (e perfino il suicidio) non trovi una sanzione penale ciò non vuol dire che la condotta rientri nell’esercizio di un diritto di libertà e che si possa considerare lecita secondo l’ordinamento. Infatti questa condotta ancorché non sanzionata, per il fatto stesso che possa danneggiare la propria vita, o possa farla finire volontariamente, infrange il precetto legislativo che muove dall’indisponibilità della vita. Né questo è l’unico caso di condotte non sanzionate che non possono costituire esplicazione di un diritto costituzionale”.

[50] S. MANGIAMELI, op. cit., ibidem, 3.

[51] S. MANGIAMEL, op. cit., ibidem, 3.

[52] In senso analogo cfr. L. ANTONINI, Autodeterminazione nel sistema dei diritti costituzionali, in www.personaedanno.it

[53] A. CARMINATI, L’affermazione del principio costituzionale di autodeterminazione terapeutica e i suoi possibili risvolti nell’ordinamento italiano, in www.giurisprudenzapenale.com. Questa lettura dei lavori dell’Assemblea Costituente è stata criticata da V. Pocar perché riduttiva, Sessant’anni dopo. L’art. 32 della Costituzione e il diritto all’autodeterminazione, in Soc. Dir., 2009, 3, 159 ss. Qui l’autore ha ripercorso analiticamente le tappe dei lavori, dimostrando che i costituenti avrebbero sancito il principio della libera disponibilità del corpo in via generale, ai sensi dell’art. 13 Cost. e, nell’ambito della salute, ai sensi dell’art. 32 Cost.

[54] In tal senso, A. BARBERA, Art. 2 Costituzione, estratto dal volume Principi fondamentali Art. 1-12, Collana Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Zanichelli, Bologna/Il Foro italiano, Roma, 1975.

[55]In senso restrittivo, Corte Cost. 3 luglio1956, n. 11, in www.giurcost.org

[56] Corte Cost.18 febbraio 1975, n. 27; Corte Cost. 30 gennaio 1997, n. 35; Corte Cost. 25 giugno 1996, n. 223.

[57] Corte Cost. 22 marzo 1962, n. 30.

[58] Corte Cost. 2 aprile 1969, n. 84; Corte Cost. 11 luglio 1990, n. 348.

[59] Corte Cost. 6 maggio 1985, n. 164; Corte Cost. 19 luglio 1989, n. 470; Corte Cost. 16 dicembre 1991, n. 467.

[60] M. ESPOSITO, Profili costituzionali dell’autonomia privata, CEDAM, Padova, 2003, 193.

[61] www.privacy.it

[62] www.eur-lex.europa.eu

[63] www.eur-lex.europa.eu

[64] P. Zatti, Rapporto medico paziente e integrità della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 12, 408.

[65] www.eur-lex.europa.eu

[66] Corte EDU, Pretty v. UK, 29 aprile 2002, in Foro it., 2003, IV, c. 57. In senso analogo Corte EDU, Jehowah’s Witnesses of Moscow v. Russia, 10 giugno 2010; Corte EDU, HAAS v. Suisse, 20 gennaio 2001; Corte EDU. S.H. and Others v. Austria, 1 aprile 2010.

[67] Corte EDU, Jehowah’s Witnesses of. Moscow v. Russia, 10 giugno 2010, in www.biodiritto.org, dove testualmente si legge: «The freedom to accept or refuse specific medical treatment, or to select an alternative form of treatment, is vital to the principles of selfdetermination and personal autonomy. A competent adult patient is free to decide, for instance, whether or not to undergo surgery or treatment or, by the same token, to have a blood transfusion».

[68] G. FERRANDO, Diritto alla salute e autodeterminazione tra Diritto europeo e Costituzione, in www.consiglio.regione.campania.it

[69] www.dizionario-italiano.it

[70] Trib. Lecce, 18 luglio 1919, citato da A.FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Giuffrè, Milano, 1999, 245.

[71]D. PITTELLA, L’evoluzione della responsabilità civile in ambito sanitario, da La responsabilità sanitaria – commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, a cura di Guido Alpa, Pacini Giuridica, Pisa, 2017, 236.

[72] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619, in Corr. Giur., I, 2008, 42.

[73]  F. GELLI – M. HAZAN, La riforma “Gelli”, principi ispiratori e coordinate di base, da La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, Giuffré, Milano, 2017, 7.

[74] «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie».

[75]  F. GELLI – M. HAZAN, op. cit., ibidem, 12.

[76] Corte Cost. 23 dicembre 2008, n. 438, ibidem.

[77] www.quotidianosanita.it

[78] Corte Cost. 23 dicembre 2008, n. 438, ibidem.

[79] A. CARMINATI, op. cit, ibidem, 3.

[80] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[81] www.gazzettaufficiale.it

[82] www.gazzettaufficiale.it

[83] www.studiocataldi.it

[84] Corte Cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. Cost. 2008, 6, 4946 ss.

[85] L. BUSATTA – E. FURLAN, “Consenso informato: nuovo paradigma normativo della Medicina?”, in Questioni di vita. Un’introduzione alla bioetica, a cura di C. Viafora, E. Furlan, S. Tusino, Franco Angeli, Milano, 2019, 252.

[86] www.quotidianosanita.it

[87]Consiglio di Stato, 2 settembre 2014, n. 4460, in www.federalismi.it

[88] A. CARMINATI, op. cit., ibidem, 10.

[89]Azzalini sostiene che: «Tutti i referenti necessari a sancire l’indiscutibile esistenza di un pieno diritto all’autodeterminazione terapeutica erano già presenti nel nostro ordinamento e nel nostro sistema, come del resto riconosciuto dalla giurisprudenza ben prima dell’entrata in vigore della legge n. 219/2017» e che la stessa deve essere intesa anche «come una sorta di ricognizione volta a riaffermare in maniera unitaria quei principi». Così M. AZZALINI, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Responsabilità civile e previdenza, 2018, 9.

[90] www.quotidianosanita.it

[91] Corte Cost. 14 dicembre 2016, n. 262, in www.cortecostituzionale.it

[92] D. MORANA, La salute come diritto costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2018, 124.

[93] G. MARINI, Il consenso, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà – P. Zatti, Giuffrè, Milano, 2010, 394.

[94] In tal senso si è espresso anche Gambino, secondo il quale: «Se dunque il principio di autodeterminazione è così chiaramente e nettamente affermato -  e con esso certo e sicuro il corrispondente diritto della persona informata a rifiutare le cure mediche – allo stesso criterio interpretativo occorre rifarsi quando il soggetto non sia più in grado di esprimere validamente e di manifestare una volontà che al momento della pienezza dello stato di salute la persona aveva chiaramente manifestato in una qualche modalità legislativamente regolata e comunque di fede certa». Così S. GAMBINO, Diritto alla vita, libertà di morire con dignità, tutela della salute. Le garanzie dell’art. 32 della Costituzione, Relazione al Convegno internazionale “Del diritto alla vita”, Messina 24 – 25 marzo 2011, in www.forumcostituzionale.it

[95]  P. BORSELLINO, op. cit., 419.

[96]Cons. Stato, III sez., 21 giugno 2017, n. 3058, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2017, 1533. Nella sentenza, pronunciata nel caso Englaro, il Consiglio di Stato afferma che: «Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del soggetto, e conseguentemente la facoltà di rifiuto dei trattamenti sanitari, incontri un limite nella sua incapacità, una volta che sia ricostruito, sulla base di parametri accertati giudizialmente e di una adeguata istruttoria, il volere del paziente in tal senso o sia desunta l’incompatibilità di un determinato trattamento sanitario, o di una determinata condizione che ne consegua, con il profilo identitario della persona in questione, e ciò anche con riguardo ai trattamenti di sostegno vitale, nonché di alimentazione ed idratazione artificiale».

[97]  Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[98] www.quotidianosanita.it

[99] D. PARIS, Legge sul consenso informato e le DAT: è consentita l’obiezione di coscienza del medico? in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, n. 1/2018.

[100] www.bioetica.governo.it

[101] S. MANGIAMELI, op. cit., ibidem, 21.

[102] M. MAINARDI, Testamento biologico e consenso informato Legge 22 dicembre 2017, n. 219, Giappichelli Editore, Torino, 2018, 11.

[103] B. DE FILIPPIS, Biotestamento e fine vita, - Nuove regole nel rapporto medico – paziente: informazioni, diritti, autodeterminazione, CEDAM, Padova, 2018, 100.

[104] M. AZZALINI – V. MOLASCHI, Autodeterminazione terapeutica e responsabilità della p.a. Il suggello del Consiglio di Stato sul caso Englaro, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2017, 1531.

[105] In tal senso si eprimono Muià e Brazzini affermando: «Posto che tale istituto, invocabile per rifiutarsi di sottostare a un dovere giuridico imposto dall’ordinamento, perché in contrasto inconciliabile con un’altra regola della propria coscienza, necessita di un’espressa previsione, non può trovare spazio di fronte al riconoscimento sostanzialmente assoluto dei diritti all’autodeterminazione ed alla salute del paziente». Così P.P. MUIÀ – S. BRAZZINI, La legge sul consenso informato e le DAT. Diritti del paziente e doveri del medico, Primiceri editore, Padova, 2018, 141.

[106]  F. ANELLI, Convegno sulle DAT, in www.tempi.it

[107]  C. CASALONE, Abitare responsabilmente il tempo delle DAT, in www.aggiornamentisociali.it

[108] D. PARIS, op. cit., ibidem.

[109]L. EUSEBI, Obiezione di coscienza del professionista sanitario, p. 5 in www.centridiateneo.unicatt.it

[110] L. EUSEBI, op. cit, ibidem, 8.

[111] www.cortecostituzionale.it

[112] www.quotidianosanita.it

[113] C. CASALONE, Diritto sulla vita e valore della vita – Prospettiva etico-teologica, in AA. VV., Il diritto sulla vita, a cura di Valentina Verduci, Pacini Giuridica, Pisa, 2018, 48.

[114] C. CASALONE, op. cit. ibidem.

[115] PAPA FRANCESCO, Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del “fine-vita 16 novembre 2017, in www.press.vatican.va

[116]  E. BILOTTI, L’efficacia delle disposizioni anticipate di trattamento, in AA. VV., Il diritto sulla vita, op. cit., 85.

[117]  L. FORNI,“Scelte giuste, anche alla fine della vita: analisi etico-giuridica della legge n.  219/2107”,

p. 16, in www.giurisprudenzapenale.com

[118] E. BILOTTI, op. cit., ibidem, 83.

[119] E. BILOTTI, op. cit. ibidem, 83.

[120] E. BILOTTI, op. cit. ibidem, 83.

[121]E. BILOTTI, op. cit, ibidem, 91.

[122] E. BILOTTI, op. cit., ibidem, 91.

[123] S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2009, 247.

[124] S. RODOTÀ, op.cit., 253.

[125]G. M. FLICK, Dignità del vivere e dignità nel morire: un (cauto) passo avanti, in  AA. VV., Il diritto sulla vita, op. cit., 28.

[126]  PAPA FRANCESCO, Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del “fine-vita” 16 novembre 2017, ibidem.

[127] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ibidem.

[128]Corte Cost. 16 novembre 2018, n.207, in www.cortecostituzionale.it

[129] A parere di Azzalini, con l’ordinanza n. 297/2018 «la Corte ha inequivocabilmente ravvisato una défaillance di tutela nell’ordinamento italiano in relazione alla mancanza di una previsione che consenta alla persona gravemente malata di richiedere ai sanitari, quantomeno in presenza di taluni presupposti da definire, un aiuto attivo nel porre fine ad un esistenza percepita come non più corrispondente alla propria concezione di dignità e del sé». Così M. AZZALINI, Il “caso Cappato” tra moniti del legislatore, incostituzionalità “prospettate” ed esigenze di tutela della dignità della persona, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2019, 541.

[130] Corte Cost. 16 novembre 2018, n. 207, ibidem.

[131] Corte Cost. 16 novembre 2018, n. 207, ibidem.

[132] Corte Cost. 16 novembre 2018, n. 207, ibidem.

[133] Corte Cost. 16 novembre 2018, n. 207, ibidem.

[134] Corte Cost. 16 novembre 2018, n. 207, ibidem.

[135] M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte Costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in

www.questionegiustizia.it

[136] Corte Cost. 16 novembre 2018, n. 207, ibidem.

[137] www.bioetica.governo.it

[138] Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242, in www.cortecostituzionale.it

[139] Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242, ibidem.

[140] Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242, ibidem.

[141] Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242, ibidem.

[142] F. CERQUOZZI, Caso Cappato, la sentenza 242 Corte Costituzionale del 2019 sulla punibilità dell’aiuto al suicidio ed il diritto all’autodeterminazione terapeutica, in www.iusinitinere.it

[143] S. TRENTANOVI – G.B. GOTTARDI, Commento alla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sull’art. 580 C.P., in www.personaedanno.it

[144] M. PICCHI, Considerazioni a prima lettura sulla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, in

www.osservatoriosullefonti.it

[145] M. PICCHI, op. cit, ibidem.

[146] Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, in www.bioetica.governo.it

[147]L. POLI, La sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, in www.osservatorioaic.it

[148] www.mondodiritto.it

[149]A. AREBI, Le motivazioni della Corte Costituzionale sul suicidio assistito: ulteriore atto di protezione dell’anarchia da parte del giuspositivismo assoluto, in www.filodiritto.com

[150] A. AREBI, op. cit. ibidem.

[151] A. AREBI, op. cit. ibidem.

[152] A. AREBI, op. cit. ibidem

[153]L. A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, libro VIII, par. 70.

[154] MARZIALE, Epigrammi, libro VI, 70, 15.

[155]F. KAFKA, Un medico di campagna, in www.balbruno.altervista.org

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