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Pubbl. Gio, 10 Mar 2022

Il divieto di ingerenza del socio accomandante negli affari sociali

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Costanza Bora
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Macerata



Il presente contributo mira a scandagliare i limiti e i poteri del socio accomandante e le relative conseguenze che derivano dalla violazione del divieto imposto dall´art. 2320 c.c.


ENG This paper aims to analyze the limits and the powers of the limited partner and the related consequences deriving from the violation of the prohibition imposed by article 2320 of the Italian Civil Code.

Sommario: 1. Premessa; 2. Cenni sulle origini della società in accomandita semplice; 3. Il divieto di immistione; 4. Ambito del divieto: atti di amministrazione interna ed esterna; 5. Deroghe al divieto di immistione; 6. Sanzioni derivanti dalla violazione del divieto di immistione; 7. I diritti e i poteri dell’accomandante; 8. Le autorizzazioni e i poteri dell’accomandante; 9. Conclusioni.

1. Premessa

Una particolare tipologia di società personale, in crescente diffusione in Italia, è la società in accomandita semplice. Tale forma societaria si caratterizza per la presenza di due distinte categorie di soci, gli accomandatari, che rispondono solidalmente  e illimitatamente per le obbligazioni sociali e ai quali è affidata in via esclusiva l’amministrazione della società, ed i soci accomandanti, ai quali è inibita ogni attività gestoria e sono obbligati  solo nei confronti della società ad eseguire i conferimenti promessi, mentre i creditori sociali non hanno azione diretta nei loro confronti, neppure nei limiti del conferimento promesso e non ancora eseguito1 .

La disciplina della società in accomandita semplice è modellata su quella delle società in nome collettivo, in quanto compatibile.

È doveroso, inoltre, distinguere la società in accomandita semplice (S.a.s.), dalla società in accomandita per azioni (S.a.p.a.), società di capitali caratterizzata dalla tipica struttura della società in accomandita, ma con la contemporanea presenza delle azioni quale forma di partecipazione al capitale sociale. I soci accomandanti rispondono delle obbligazioni sociali limitatamente al valore della quota di capitale sottoscritta e, come per la S.a.s., non possono ingerirsi nella gestione dell’attività comune. I soci accomandatari sono invece solidalmente e illimitatamente responsabili delle obbligazioni sociali, ed a loro può essere affidata l’amministrazione della società.

Una peculiarità che troviamo nella Sapa, a differenza della Sas, è che i soci accomandatari sono sempre anche amministratori. In tal modo si ha una perfetta corrispondenza tra potere di gestione e assunzione della responsabilità illimitata. Infine, l’autonomia patrimoniale perfetta della società in accomandita per azioni dota questo tipo societario della personalità giuridica, di cui è priva la società in accomandita semplice2 .

L’accomandita semplice favorisce, dunque, l’aggregazione di soggetti che si propongono di gestire personalmente gli affari sociali assumendo responsabilità illimitata e di soggetti che mirano a finanziare l’attività dei primi con un rischio limitato e accettando la disparità nella direzione dell’impresa, assumendo comunque la qualifica di socio.

2. Cenni sulle origini della società in accomandita semplice

La società in accomandita semplice ha origini antiche, poiché ritroviamo la struttura già nel basso medioevo, la quale prendeva il nome di commenda e, per essere giuridicamente precisi, in questa fase embrionale assumeva le sembianze più di un contratto di finanziamento che di uno societario, tanto che alcuni studiosi la definiscono societas irregularis3.

Le ragioni che spinsero i mercanti e i detentori di beni a ricercare nuove forme giuridiche e a legarsi tramite questo genere di contratto, sono da ravvisarsi nei conflittuali e problematici rapporti tra la lex mercatoria e il diritto canonico, il quale, prescrivendo il divieto di usura, escludeva la possibilità di concedere il proprio denaro in prestito ricavandone un interesse. Da tale elemento discendeva l'impossibilità di farlo fruttare, costituendo un grande ostacolo non solo per chi avesse voluto accrescere il proprio patrimonio investendo, ma anche per l'intero sistema commerciale, dal momento che i mercatores abbisognavano sempre di capitale a credito per svolgere la loro attività. La nuova forma giuridica, pertanto, non costituiva altro che un modo raffinato di liberarsi dal divieto imposto, che era formalmente limitato al mutuo4 . 

L'accordo in questione prevedeva che il capitalista, detto commendator o socio stans, rimanendo in patria, affidava ad un soggetto terzo, l’ accomandatarius, merci, denaro e carovane mercantili, e quest’ultimo, dotato di risorse e capitale, si impegnava a compiere una spedizione d’oltre mare durante la quale concludeva una serie di affari, spendendo il suo nome e accollandosi la responsabilità nei confronti dei terzi; il fine di tale operazione era di ottenere il più ampio margine di profitto ed essere conseguentemente remunerato sulla base di una percentuale sul ricavato, detta provvigione, o mediante mercede fissa, ossia somme prestabilite.

Per di più, la libertà negoziale che derivava da questo istituto era assoluta, poiché la commenda poteva essere a tempo indeterminato, con relativa attribuzione all’accomandatarius di notevoli poteri institori, esercitabili secondo il suo libero apprezzamento, ovvero il socio stans poteva definire nei minimi dettagli quanto e cosa vendere o comprare, i luoghi d’acquisto o di vendita e la durata massima della commenda.

Questa non fu che la primissima forma di commenda, che negli anni si perfezionò maggiormente venendo definita dalle fonti “collegantia” poiché, vista la fortuna che percepivano i commendatores, anche gli accomandatari vollero partecipare con le proprie risorse economiche, all'ovvio fine di incrementare le loro entrate e acquisendo la qualifica di domini stantes. Peraltro, non era inusuale, soprattutto dalla fine del XIII secolo, che coloro che rivestivano il ruolo di accomandatari fossero al contempo commendatores in altri affari o che delegassero il capitale o i beni ricevuti a dei “sottoconsorziati, i quali si obbligavano a svolgere al loro posto le incombenze.

Per quanto attiene al regime della responsabilità in questa nuova e più complessa forma d'intesa, per il commendator il rischio insito nella commenda era limitato al capitale messo a disposizione, essendo il fondo sociale distinto dai beni particolari dello stesso e alla medesima sorte sarebbe stato assoggettato l'imprenditore, qualora avesse voluto partecipare bilateralmente al conferimento del capitale.

L’accomandatario, che sottoscrivendo il contratto si era già assunto i rischi tipici del commercio, quali, ad esempio, naufragi, furto della merce, possibili assalti di pirati o il pericolo di finire in dissesto o in fallimento, era invece, come nel nostro attuale ordinamento, obbligato e illimitatamente responsabile nei confronti dei terzi.

3. Il divieto di immistione

L’articolo 2320 del Codice civile prevede che «i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari». Il divieto d’immistione descritto dalla disposizione proibisce all’accomandante l’esercizio dei poteri di amministrazione, interna ed esterna, che per legge spettano agli amministratori soci accomandatari.

La norma è alquanto rigida, poiché inibisce l’esercizio degli stessi poteri mediante procura generale ammettendo come unica condizione ammissibile quella di compiere singoli affari in forza di una procura speciale.

Si evince che il rigoroso divieto non possa giustificarsi esclusivamente in chiave di tutela dei creditori sociali. Le relative sanzioni operano infatti in ogni caso, anche quando costoro siano resi edotti di trattare con il socio accomandante5 .

Questo limite mira altresì a preservare un interesse generale, che si esplica nello schema dualistico tipico del contratto sociale, emergente dalle esigenze pratiche collegate e risalenti alle radici storiche dell’istituto; in particolare, dall’esigenza di potenziamento della «mercatura» che l’idea di accomandita poteva favorire attraverso l’incontro della componente mercantile con quella capitalistica6.

Ciò che la norma è orientata a garantire è, dunque, l’interesse ad un responsabile ed oculato esercizio del potere economico e di conseguenza il divieto è espressione del principio, comune a tutte le società personali, della indissociabilità del potere di gestione dalla responsabilità personale illimitata dei soci amministratori7.

Oltre alla responsabilità verso i terzi e la società per i danni ad essi arrecati, valevole sempre come principio generale, la violazione di tale divieto implica l’applicazione di una duplice sanzione: la responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali (rendendo responsabile l’accomandante nei confronti dei creditori sociali non solo per le obbligazioni che fanno capo alla società al momento dell’atto d’ingerenza, ma anche per le obbligazioni pregresse e future), e l’esclusione dalla società.

4. Ambito del divieto: atti di amministrazione interna ed esterna

Il divieto di ingerenza riguarda tanto le decisioni di carattere interno relative alla gestione sociale, quanto l’assunzione della rappresentanza della società di fronte ai terzi, che si manifesta quando tale socio tratta e conclude affari in nome della società, salvo che allo stesso non sia stata rilasciata procura speciale per un singolo affare.

Si può quindi affermare che all’accomandante è precluso, per quanto attiene alla prima sfera di interesse, proporre atti di amministrazione in senso stretto e atti di opposizione ad operazioni sociali proposte dai soci accomandatari, in quanto per legge riservati agli amministratori, né può decidere  sull’opposizione  proposta contro operazioni sociali dagli altri soci accomandatari, poiché si tratterebbe di atto decisionale, quindi riservato ai soci accomandatari8 .

Sotto il profilo della rappresentanza, la Cassazione e la giurisprudenza di merito si sono fatti carico di individuare degli atti che, se compiuti dal socio accomandante, integrano la violazione del divieto ex art. 2320 c.c.; questi sono, ad esempio, l’accomandante che paghi i debiti sociali scegliendo creditori da soddisfare o le modalità di pagamento9, che designi l’amministratore  provvisorio con modalità illegittime10, che assuma procura  istitoria11,  che impegni fideiussoriamente la società12, che sistemi o gestisca i rapporti con i creditori o debitori della società qualificandosi come titolare della stessa13, che conduca trattative inerenti ad un affare sociale successivamente concluso da un accomandatario14.

Come suddetto, il legislatore ammette, solo in questo secondo ambito, la deroga per cui l’accomandante può agire in virtù di procura speciale per singoli affari.

Pertanto, qualora non si verifichi questa condizione, l’accomandante è equiparabile al falsus procurator, ergo, l’atto concluso deve considerarsi inefficace per la società, la quale non sarà responsabile degli atti posti in essere in nome e per conto della stessa.

Allo stesso tempo il socio violerà l’art. 2320 c.c., subendone le relative sanzioni, ogni qual volta compia un atto senza il placet della società, che si può manifestare prima dell’esecuzione dell’atto, tramite, appunto, procura speciale, o dopo il compimento dello stesso, mediante ratifica15 .

La dottrina si è dedicata alla ricerca delle ragioni che giustificano l’applicazione della sanzione in caso d’ingerenza dell’accomandante nonostante la non imputabilità alla società dell’atto d’immistione. L’intento del legislatore è efficacemente individuato nella circostanza che il divieto colpisce non solo la conclusione di affari per la società, ma anche le semplici trattative condotte in nome della stessa, e ciò in quanto «il legislatore ha inteso sanzionare anche i prodromi dell’ingerenza»16 .  Di conseguenza anche la mera conduzione di trattative per un singolo  affare deve essere autorizzata, giacché il fine ultimo del divieto consiste nella salvaguardia di «un assetto di poteri, ispirato al principio della sovraordinazione dell’accomandatario e della subordinazione dell’accomandante nell’esercizio dei propri poteri partecipativi, attraverso sanzioni rigorose, volte ad impedire in radice il sorgere di fenomeni degenerativi, a prevenire quindi anche le alterazioni solo potenzialmente dannose»17 .

Accanto allo schema tradizionale di violazione del divieto, rappresentato dalla sistematica partecipazione dell’accomandante ad atti di gestione, se ne è affacciato un altro, individuabile in un’attività dell’accomandante che impartisce direttive e istruzioni all’accomandatario in via riservata, per così dire, senza «spendita del nome», evitando quindi una qualsiasi forma di esteriorizzazione dell’intervento dello stesso accomandante in atti, interni o esterni di amministrazione. Ciò rappresenta a tutti gli effetti una gestione "occulta" o indiretta dell’accomandante18 . 

Infatti, la generica espressione letterale, secondo cui «i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione», non contraddice una portata del divieto comprensiva tanto degli atti di gestione diretta quanto degli atti di gestione indiretta, e quindi compiuti per interposizione degli accomandatari.

L’esigenza di estendere il divieto a questi ultimi atti s’impone anzitutto per ragioni di ordine sistematico. Il tradizionale principio, che sottende l’ordinamento delle società di persone, del necessario collegamento fra esercizio del potere e assunzione del rischio in funzione dell’interesse generale ad una amministrazione responsabile dell’impresa sociale, verrebbe irrimediabilmente frustrato dalla possibilità di una sovraordinazione occulta del socio accomandante a tutto danno della posizione  degli accomandatari, solo in apparenza amministratori, ma in realtà meri esecutori di direttive informali impartite dallo stesso accomandante.

Infine, si ritiene necessario analizzare il tradizionale e controverso tema sui labili confini del divieto d’immistione in esame. Tale principio è stato infatti oggetto di dubbi interpretativi da parte di dottrina e giurisprudenza, e proprio a tal proposito la Cassazione ha svolto la propria funzione chiarificatrice, sancendo che ai fini dell’integrazione della violazione del divieto, con riferimento ai rapporti obbligatori con i terzi estranei alla società, si debbano unicamente considerare gli atti amministrativi attinenti al momento genetico del rapporto in cui si manifesta la scelta operata dall’imprenditore. Ne consegue che «tutto quanto attiene al momento esecutivo dell’adempimento delle obbligazioni che da quel rapporto derivano implica l’estraneità dell’accomandante rispetto alla gestione dell’attività»19 .

Inoltre, parte della dottrina, è concorde nel ritenere che uno sporadico ed isolato atto di ingerenza sia inidoneo a violare tale divieto, potendosi dubitare che addirittura possa essere ritenuto un atto di gestione, poiché il concetto stesso è “semanticamente indissociabile dal concetto di serialità: un atto può qualificarsi come “atto di gestione” del soggetto che lo pone in essere, non gi à astrattamente in virtù della sua natura e dei suoi contenuti, ma solo in quanto si ponga come elemento di una serie,  quindi  di un’attività20 . Non è però dello stesso parere la Corte di Cassazione, la quale ha affermato che “ai fini dell’assunzione della responsabilità illimitata sia sufficiente anche un unico atto o comportamento dell'accomandante, non essendo, invece, necessario il compimento sistematico o reiterato di atti di ingerenza”21 .

5. Deroghe al divieto di immistione

Il divieto di immistione negli affari sociali gravante sull’accomandante non si applica in determinate ipotesi, due di queste espressamente previste dall’art. 2320 c.c., mentre altre sono da sempre oggetto di disamina dottrinale.

Come già accennato, un’eccezione si riscontra nel caso di procura speciale per singoli affari riguardanti l’attività esterna.

In primo luogo, occorre precisare che scarsa rilevanza è da attribuire al nomen iuris dell’atto con cui si concede il potere di rappresentanza, poiché ogni qual volta si conferisca in capo all’accomandante una procura definita dalle parti (colposamente o dolosamente) “speciale”, ma che in realtà  per la sua indeterminatezza lascia all’accomandante ampi e autonomi poteri decisionali, sarà sempre possibile riqualificarla come “generale”, in violazione quindi del disposto ex art. 2320 c.c.22 .

Chiaro è anche che, ai fini del rispetto della norma, bisognerà predeterminare gli affari per i quali l’accomandante è investito del potere di rappresentanza della società, così garantendo che il potere di direzione degli affari sociali resti nelle mani degli accomandatari anche per il compimento di singole operazioni.

Secondariamente, è necessario analizzare il concetto di “singolo affare”; nell’accezione commerciale, si fa riferimento non per forza ad un unico atto giuridico, bensì anche ad un’operazione che comprenda una pluralità di atti, purché finalizzati ad un risultato economico unitario. L’assunto può essere fondato sull’analogia riscontrabile con il mandato, il quale può comprendere non solo gli atti per i quali è stato conferito, ma anche quelli che sono necessari al loro compimento23 .

Deve trattarsi quindi di una singola iniziativa economica, ancorché per la sua realizzazione sia necessario il compimento di più atti predeterminati dagli accomandatari amministratori.

La ratio della norma impone altresì la repressione di fattispecie elusive, quali il rilascio di procure in bianco o ripetute procure speciali per singoli affari, in quanto anche in tal caso verrebbe consentito di fatto all’accomandante di esercitare un potere gestorio per più affari.

Riassumendo, il rilascio di procure generali, generiche, speciali per più affari o reiterate per singoli affari deve ritenersi inammissibile. Nel caso l’atto fosse compiuto dall’accomandante in base ad una delle precitate procure non è vincolante per la società, ed è produttivo delle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto di ingerenza negli affari sociali.

Il secondo comma dell’art. 2320 c.c. disciplina che «i soci accomandanti possono tuttavia prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori». Infatti, il principio per cui il potere di amministrazione spetta esclusivamente al socio accomandatario, non implica che l’amministratore, nell’esercizio dei suoi poteri, non possa avvalersi della collaborazione di terzi, purché ciò non mascheri una sostituzione "di fatto" nell’esercizio dell’amministrazione della società. Pertanto, elemento imprescindibile per tale collaborazione dell’accomandante è che questa si realizzi su una base di un rapporto di subordinazione 24 .

Infine, una dibattuta questione, che vede favorevole parte della dottrina25 a cui si è unita recentemente parte della giurisprudenza, ravvisa una terza ipotesi di eccezione alla violazione del divieto in esame, che si concretizza nel compimento di atti necessari e urgenti di ordinaria amministrazione da parte dell’accomandante unico superstite, in caso di assenza o impedimento di tutti gli amministratori accomandatari. Ciò in forza dell’applicazione analogica dell’art. 2323 c.c. secondo comma, per cui da un lato, se vengono a mancare tutti gli accomandatari, per il periodo indicato dal comma precedente, gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione e, dall’altro, che l’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario.

Già sul piano testuale, infatti, la norma di cui all’art. 2323 c.c. non esclude esplicitamente che l’accomandante possa essere nominato amministratore provvisorio, ciò potendo rispondere ad una reale esigenza operativa della società.

D’altra parte, come osservato in dottrina, la stessa affermazione che l’amministratore provvisorio non assume la qualità di accomandatario ha un senso soltanto con riferimento all’accomandante che è nominato a tale carica. Ad opinare diversamente, infatti, occorrerebbe concludere che la norma imponga, di necessità, la nomina ad amministratore provvisorio di un soggetto estraneo alla compagine sociale; una tale soluzione non appare convincente: infatti, non si comprende per quale motivo una società personalistica debba essere costretta a nominare un terzo esterno alla stessa come amministratore provvisorio.

Ebbene, si ritiene che la nomina  ad amministratore provvisorio dell’accomandante si rende possibile in ragione della doppia limitazione che la legge pone all’amministratore provvisorio medesimo: limitazione temporale, in primo luogo, essendo la sua attività destinata a concludersi in un periodo predefinito entro l’orizzonte del semestre e, sotto altro profilo, limitazione dei poteri essendo l’amministrazione provvisoria destinata ad avere ad oggetto esclusivamente l’ordinaria amministrazione della società.

Va da sé che, ove l’accomandante-amministratore provvisorio non limitasse la propria attività alla sola ordinaria amministrazione, tornerebbe ad applicarsi la norma generale secondo la quale il socio accomandante che contravviene al divieto di immistione assume la responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali e può essere finanche escluso dalla società.

6. Le sanzioni derivanti dalla violazione del divieto di immistione

La prima sanzione che deriva dall’indebita ingerenza dell’accomandante negli affari sociali, non espressamente descritta dalla norma, trova applicazione in forza della disciplina civilistica del falsus procurator dell’art 1398 c.c., per cui l’accomandante che abbia contrattato in nome della società, senza procura o eccedendo i relativi limiti, «è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per aver confidato senza sua colpa nella validità  del contratto», e la responsabilità indubbiamente sussiste anche nei confronti della società medesima; questa sorte potrà essere evitata solo qualora vi sia la ratifica della società.

La violazione del divieto di immistione, non corredato da previa procura speciale o successiva ratifica, ha poi come conseguenza automatica l’assunzione della responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali verso i terzi.

L’accomandante risponderà illimitatamente non solo delle obbligazioni relative all’atto compiuto in violazione di tale norma, ma di tutte le obbligazioni sociali, quindi anche per quelle pregresse.

Pacifica sembra essere l’opinione secondo cui l’accomandante non acquista, per la sola violazione del divieto anzidetto, la qualità di accomandatario, ossia la qualifica di amministratore della società. L’accomandante, nonostante la responsabilità illimitata, non acquista alcun potere di amministrazione, poiché, in caso contrario, potrebbe essere facilmente aggirata la struttura societaria prescelta, con la conseguenza che la volontà dei soci espressa al momento della costituzione, verrebbe alterata dal comportamento di un unico socio26 .

Inoltre, è applicabile l’art. 147 l. fall., alla luce del quale in caso di fallimento di una società si estende il fallimento a tutti i soci illimitatamente responsabili. Secondo parte della dottrina la norma non distinguerebbe tra coloro che siano tali ab origine per contratto sociale e quelli che lo siano diventati per effetto di vicende particolari, tra cui l’accomandante che si sia ingerito nell’amministrazione della società27 .

Terza ed ultima conseguenza, soltanto eventuale, della violazione dell’art. 2320 c.c., consiste nell’esclusione dell’accomandante dalla società, giustificata da un inadempimento del contratto sociale a norma dell’art. 2286 c.c.

Per quanto concerne il procedimento di esclusione, regolato dall’art. 2287 c.c., richiede la maggioranza, per teste, dei soci, senza contare l’accomandante da escludere e negandosi altresì l’iniziativa e il diritto di voto ai soci che abbiano acconsentito al compimento dell’atto “incriminato"28 .

7. I diritti e i poteri dell’accomandante

Il legislatore, nello stesso art. 2320 c.c., lascia all’accomandante, privato dei poteri gestori, i diritti spettanti ad ogni socio di società personale, andandoli tuttavia leggermente a limare.

Il diritto alla comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, annesso a quello di consultare i libri e gli altri documenti della società, appare più limitato dal punto di vista temporale e contenutistico, di quello in capo ad ogni socio di società di persone. Da un lato, infatti, l’accomandante sembrerebbe non avere diritto al rendiconto infra-annuale degli affari compiuti dagli amministratori (previsto invece dall’art. 2261, primo comma), dall’altro, la consultazione dei libri sociali è strettamente finalizzata alla verifica dell’esattezza del bilancio annuale e non anche all’informativa su singole operazioni.

Dottrina29 e giurisprudenza maggioritaria sono altresì concordi che vi sia anche un diritto di intervento del socio in questione in sede di approvazione di bilancio, non costituendo, come altri sostengono, nessuna forma di ingerenza.

È altresì concesso all’accomandante il potere di compiere atti di ispezione e di sorveglianza, per attuare un controllo di legalità formale e sostanziale sull’operato degli amministratori, che implica la possibilità di impugnazione per falsità o per violazione di norme di legge o dell'atto costitutivo, ma non può estendersi ad un sindacato di merito della gestione.  Inoltre, nella prassi, è usuale che si costituisca un comitato di sorveglianza composto da accomandanti e, nel caso, anche di accomandatari non amministratori, che agirebbe come mandatario degli accomandanti che lo hanno nominato. Ciò al fine ultimo di non gravare l’attività sociale da continue ispezioni da parte di ogni accomandante, che potrebbe condurre ad un rallentamento dell’attività stessa.

Unico ampliamento nei confronti dell’accomandante si rileva nell’art. 2321 c.c., dettando che non è tenuto “alla restituzione degli utili riscossi in buona fede secondo il bilancio regolarmente approvato”, a differenza di quanto avviene per i soci di società in nome collettivo e per i soci accomandatari. Tale deroga al principio della ripartizione dell’indebito trova la sua giustificazione proprio in base al limitato esercizio del potere di controllo che a questo è attribuito.

8. Le autorizzazioni e i pareri dell’accomandante

L’accomandante, se l’atto costitutivo lo prevede, può dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni.

Il termine “autorizzazione” significa approvare o meno un certo atto che, proprio alla luce del divieto ex art. 2320 c.c., deve essere già stato definito dall’accomandatario. Per "parere" si intende invece, sia esso facoltativo od obbligatorio, un elemento esterno al processo decisionale, la cui omessa acquisizione non incide sulla validità o sull’efficacia dell’atto compiuto dall’amministratore.

L’espressione “determinate operazioni”, inoltre, esclude certamente anche in quest’ambito che i patti sociali possano prevedere la necessità del consenso degli accomandanti per le operazioni sociali in genere, ma anzi delinea che debbano essere già decise previamente, nell’atto costitutivo, singole operazioni o categorie di operazioni identiche, assoggettate al parere o all’autorizzazione degli accomandanti.

Ci si è inoltre interrogati su una controversa questione, quella relativa all’efficacia nei confronti dei terzi dell’atto compiuto dall’accomandatario in assenza di autorizzazione o con una denegata autorizzazione. Alcuni, ritengono che l’atto  compiuto  senza rispettare tale iter inefficace nei confronti dei terzi30 , tuttavia la Suprema Corte, ha ritenuto che la clausola dei patti sociali  che prevede l’autorizzazione o il parere degli accomandanti non incide in alcun modo sul potere rappresentativo  degli amministratori,  i quali saranno soltanto responsabili nei rapporti interni con i primi in caso di inosservanza della clausola stessa31 .

9. Conclusioni

Con il presente approfondimento si è cercato di scandagliare i limiti e le deroghe volute dal legislatore affinché non si operi una modifica della struttura stessa della società in accomandita semplice, tesa a garantire la tutela dell’interesse che la società ha ad essere amministrata da coloro che, essendo esposti a un rischio illimitato, garantiscono un’oculata e responsabile gestione dell’impresa.

Indubbiamente vi sono diversi orientamenti dottrinali contrastanti, su questioni interpretative ivi riportate, che attengono al sottile confine tra violazione del divieto di immistione e compimento di un atto gestorio una tantum, che per alcuni non sarebbe idoneo ad integrare la suddetta violazione. Per altro verso, non è ancora ritenuta adeguata da tutti gli autorevoli autori l’immediata conseguenza derivante dall’assunzione della responsabilità illimitata da parte del socio accomandante, che configurerebbe l’assoggettamento altresì al fallimento, sempre nella prospettiva del compimento di un atto di amministrazione meramente occasionale.


Note e riferimenti bibliografici

1 G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 9 ed., Torino, 2012

2 M. GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, pp. 194 e ss.

3 U. SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, Torino, 1998 

4 U. SANTARELLI, op. cit

5 Cass, 6 Giugno 2000, n. 7564, in Fall., 2001, 1442

6 P. MONTALENTI, Il socio accomandante, in Quaderni giur. comm., Milano, 1985, p. 107 e ss.

7 F. GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, Giuffrè, Milano, 2007, p. 465

8 G. COTTINO, Le società - Dirittto commerciale, Padova, 1999, p. 106; contra MONTALENTI, Il socio accomandante, cit., p. 312, il quale sostiene che all’accomandante deve ritenersi consentita una limitata partecipazione alla gestione sociale, in quanto dall’art. 2257, comma 3° c.c. si evincerebbe che a tale socio è consentita la possibilità di decidere sull’opposizione proposta contro gli atti di amministrazione.

9 Cass., 18 febbraio 1992, n. 1974, in Giur. it., 1993, c. 618; Cass., 14 gennaio 1987, n. 172, in Fall., 1987, p. 388

10 Cass., 28 novembre 1992, n. 12732, in Nuova giur. civ. comm., 1993, p. 828

11 Cass., 13 marzo 1982, n. 1632, in Foro it., 1983, c. 1983

12 Cass., 15 dicembre 1982, n. 6906, in Giur. comm., 1983, p. 851.

13 Trib. Genova, 5 maggio 1995, in Fall., 1996, p. 179

14 Trib. Milano, 8 novembre 1990, in Foro it., 1992, c. 3412.

15 La soluzione è ormai pacifica in dottrina e in giurisprudenza, v. G. FERRI, Delle società, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1960, p. 492; Cass., 22 maggio 1978, n. 3092, in Giur. comm., 1979, II, 191; Cass, 21 ottobre 1998, n. 10447, ivi, 1999, II, p. 609; Cass. 19 novembre 2004, n. 21891, in Società, 2005, 896

16 P. MONTALENTI, il socio accomandante, cit., p. 332

17 P. MONTALENTI, op. cit., p. 333. Segue successivamente questa tesi anche Cass., 27 aprile 1994, n. 4019, in Foro it., 1995, I, c. 912, la quale conferma che l’interferenza dell’accomandante “pur non producendo gli effetti dell’atto di amministrazione, e pur non impegnando la società, è tuttavia sintomatico di un processo patologico che incide sui caratteri tipici della società in accomandita semplice, nella quale il potere di amministrazione è riservato in via esclusiva al socio accomandatario”.

18 W. BIGIAVI, Ingerenza dell'accomandante, accomandante occulto, accomandita occulta, in Riv. dir. civ., 1959, pp. 155 ss.

19 Cass., 14 gennaio 1987, n. 172, in Dir. fall., 1987, II, 335

20 G. GRIPPO, La gestione «occulta» dell’accomandante, in Contratto e impresa, Milano, 1996, pp. 842 e ss.

21 Cass. 6 giugno 2000, n. 7554, in Soc., 2000, 1445; Nello stesso senso: Cass., 7 dicembre 2012, n. 22246, in Giust. civ., 2013, I, 594 ss

22 Cass., 6 dicembre 1984, n. 6429, in Foro it., 1985, I, 26898; Cass., 17 marzo 1998, n. 2854, in Giur. it, 1998, 1413; Cass., 19 dicembre 2008, n. 29794, in Fall., 2009, 1001

23 P. MONTALENTI, il socio accomandante, cit., p. 133

24 G. FERRI, Delle società, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, cit., p. 487. In giurisprudenza Cass., 13 marzo 1982, n. 1632, in Foro it., 1983, c. 800

25 P. MONTALENTI, cit., pp. 336 e ss.

26 C. CONFORTI, La società in accomandita semplice, Napoli, 2006, p. 344

27 La questione non trova l’appoggio unanime della dottrina, tanto che si è affermato che, invece, il socio accomandante potrebbe essere dichiarato fallito solo qualora si sia ‘‘sistematicamente’’ ingerito nelle scelte gestionali della società e quindi solo ove si verifichi una “riqualificazione giuridica” della sua posizione sociale, da accomandante ad accomandatario. Così ritiene G. PLASMATI, Il divieto di ingerenza negli affari sociali ex art. 2320 c.c. e il fallimento del socio accomandante alla luce della legge di riforma fallimentare, in Contratto e impresa, Padova, 2007, pp. 854 e ss.

28 C. COTTINO, Le società- Diritto commerciale, cit., p. 110

29 F. DI SABATO, Manuale delle società, Milano, 1999, p. 129; R. COSTI, Note sul diritto di informazione e di ispezione del socio, in Riv. Società, 1963, p. 81

30 P. MONTALENTI, il socio accomandante, cit., p. 188

31 Cass., 10 agosto 1992, n. 9454, in Giur. comm., 1994, II, p. 811