La patologia del ”quadrilatero” della rappresentanza politica
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Antonio Gusmai
Il contributo si propone di indagare la funzione politica dei gruppi parlamentari. In particolare, l’obiettivo è quello di dimostrare come il gruppo parlamentare possa oggi apparire, non senza criticità, un soggetto della rappresentanza distinto dal partito politico.
Sommario: 1. A mo' di introduzione; 2. Dal «triangolo» della rappresentanza politica moderna al «quadrilatero» del parlamentarismo contemporaneo; 3. I gruppi come «soggetti della rappresentanza politica».
1. A mo' di introduzione
Il concetto di rappresentanza politica non sembra potersi irrigidire in statiche ed immutabili definizioni, valide, se così si può dire, sul solo piano teorico-concettuale[1]. Al contrario, esso tratteggia una categoria la cui morfologia si nutre dei contesti storico-politico-culturali in cui viene declinata, oltre che delle regole costituzionali destinate ad organizzare i rapporti di potere tra gli organi di vertice dello Stato-apparato.
Ciò che si vuol dire è che, per poter comprendere l’effettivo tasso di democraticità di un ordinamento, non appare sufficiente limitarsi all’analisi delle “forme” con cui esso si manifesta in “superficie”, ma occorre anche interrogare le concrete “dinamiche” che ne scandiscono il perenne divenire nelle “profondità” politico-reali[2].
Del resto, la stessa rappresentanza politica è costantemente soggetta al mobile assemblaggio tra «rapporto» e «situazione» rappresentativa[3], il cui delicato equilibrio determina differenti modi di esercizio e, soprattutto, di interpretazione della fondamentale funzione di «rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente»[4].
Se quanto sin qui argomentato risponde almeno in parte a criteri di validità logica, si dovrebbe trarre la seguente, soltanto provvisoria, conclusione. Il rapporto di rappresentanza politica impone costantemente di guardare alle concrete dinamiche di funzionamento delle Assemblee legislative, dal momento che, in una democrazia parlamentare, il pluralismo politico-sociale si invera attraverso delicati equilibri interni agli organi rappresentativi. È il “processo” assembleare, infatti, a perseguire, per il tramite di regole procedurali (costituzionali, legislative e dei regolamenti camerali), il precipuo obiettivo di realizzare i principi del relativismo politico che innervano la democrazia costituzionale[5]. Sono le disposizioni parlamentari a dettare, a livello pratico-applicativo, tempi e modi della rappresentanza stessa[6], attraverso i quali si sostanziano e vengono in essere le dinamiche democratico-rappresentative. Si realizza, cioè, l’indirizzo politico dello Stato.
Per esprimersi con stretta logica aritmetica, il «diritto parlamentare» sta al «diritto costituzionale» come il «diritto processuale» sta al «diritto sostanziale». Isolare le due dimensioni impedirebbe, forse, la possibilità di comprensione dei reali equilibri costituzionali che strutturano il nostro ordinamento giuridico-formale.
Ecco perché indagare le dinamiche assembleari ed i “processi” della rappresentanza politica assume una importanza particolare. È attraverso essi, infatti, che si produce l’ordinamento giuridico-formale. In questa prospettiva, non può essere sottovalutato il ruolo rivestito dai gruppi parlamentari nel dare concreta attuazione all’indirizzo politico dello Stato. A ben vedere, sono i gruppi, veri e propri soggetti «necessari» della rappresentanza politica che albergano nelle istituzioni parlamentari, a riempire di contenuto ed a strutturare l’organizzazione ed il funzionamento delle Assemblee legislative[7]. La rappresentanza politica moderna, in effetti, non può che manifestarsi nell’ontologica articolazione in gruppi. Non già per mezzo di singole personalità, ma attraverso raggruppamenti politico-parlamentari formati da una pluralità di individui, democraticamente legittimati, i quali condividono il medesimo progetto di trasformazione o di conservazione della società. E, al fine di attuare quel progetto, adottano, nel rispetto delle regole procedurali della democrazia parlamentare, un determinato indirizzo politico, quello appunto «di maggioranza-minoranza»[8].
È sui gruppi, quindi, che si tenterà di svolgere qualche riflessione di ordine giuridico-costituzionale, anche in vista della possibilità di riconoscere loro la facoltà di tutelare le proprie prerogative costituzionali dinanzi alla Consulta. Assumendo, cioè, la veste di «organo-potere» dello Stato[9].
2. Dal «triangolo» della rappresentanza politica moderna al «quadrilatero» del parlamentarismo contemporaneo
Il circuito della rappresentanza politica moderna dischiude, pertanto, una serie di criticità, legate al particolare processo di moltiplicazione dei soggetti (singoli eletti, partiti, gruppi) che si frappongono tra il corpo elettorale e la determinazione dell’indirizzo politico da parte dell’asse Governo-gruppi parlamentari di maggioranza. Proprio per tal motivo, sembra opportuno indagare le peculiarità del rapporto «rappresentativo» che intercorre tra «gruppi politici», «gruppi parlamentari» e «corpo elettorale».
Tradizionalmente raffigurato attraverso una triade[10], in base alla quale tra rappresentati e rappresentanti si interpone la necessaria mediazione del partito politico[11], il rapporto di rappresentanza pare aver sperimentato un patologico processo di alterazione. E tanto, proprio a causa dell’ampia autonomia politica riconosciuta, all’interno delle dinamiche assembleari, ai gruppi parlamentari. Questi ultimi, infatti, nella loro qualità di realtà collettive in grado di “istituzionalizzare” le forze politiche trasformando in concreto, mediante i lavori delle commissioni permanenti, i programmi elettorali in provvedimenti normativi, si configurano quali veri e propri soggetti della rappresentanza politica.
Soggetti indefettibili del circuito rappresentativo, la cui autonomia politica rispetto, tanto al partito di riferimento, quanto – a monte – al corpo elettorale, ha contribuito a delineare un pernicioso disallineamento verso la sola «situazione» rappresentativa, con ciò producendo una patologica – come si diceva – separazione dell’attività degli eletti dagli orientamenti espressi dagli elettori in occasione della consultazione elettorale. Nei casi in cui una simile alterazione del circuito della rappresentanza politica moderna si è di fatto verificata, il risultato è stato infatti quello di rendere concretamente possibile la sostituzione della “Nazione” rappresentante alle forze politiche elette dal corpo elettorale.
A voler esprimersi ancora mediante il ricorso alla metafora geometrica, già in altra sede[12] si è sottolineato come la progressiva acquisizione di autonomia politica dei gruppi politico-parlamentari, rispetto alle forze politico-partitiche ed al corpo elettorale, abbia contribuito a disvelare il quarto “lato” della geometria variabile della rappresentanza politica. A guardar bene, soprattutto a seguito della “svolta” maggioritaria del 1993, l’originario «triangolo» si è rivelato essere un «quadrilatero».
Quest’ultimo, rimasto per così dire latente nella prima fase repubblicana, dacché tra partiti e gruppi politici intercorreva uno stretto rapporto di subordinazione dei secondi a favore dei primi, ha successivamente reso esplicito l’affiancamento al «triangolo» elettori-partiti-eletti di un quarto elemento, i gruppi parlamentari appunto. Gruppi, i quali, nel pieno rispetto delle vigenti disposizioni regolamentari, hanno così potuto farsi essi stessi rappresentanti diretti delle presunte nuove istanze sociali provenienti dagli elettori. Ovverosia, attraverso scissioni, fusioni e costituzioni di nuovi gruppi in corso di legislatura essi hanno rescisso l’originario legame con il partito (o coalizione di partiti) di cui il gruppo medesimo era espressione ad inizio legislatura.
In tal modo, il gruppo parlamentare ha mostrato la propria potenziale funzione rappresentativa autonoma[13], mettendo in crisi tutte quelle dottrine aventi come comune denominatore l’idea che la rappresentanza sia triangolare, con i gruppi quali meri organi amministrativi delle Camere o meri organi di partito, in modo da neutralizzare la rappresentatività politica del gruppo medesimo[14].
Oltre che disvelare un pericoloso processo di alterazione del tradizionale circuito rappresentativo, il germogliare, all’interno delle Assemblee legislative, di nuovi «partiti parlamentari»[15] non corrispondenti al quadro politico esistente al momento delle elezioni, ha peraltro comprovato l’ontologica esistenza costituzionale dei gruppi politici. In effetti, anche quando formatisi in assenza di un collegamento diretto con il corpo elettorale, l’articolazione in raggruppamenti finisce per confermare la endemica strutturazione “gruppocentrica” dell’organizzazione e del funzionamento delle Assemblee legislative. Una realtà dinamica, quest’ultima, che neppure la recente modifica dell’art. 14, co. 4 r.S.[16] sembra essere riuscita ad imbrigliare, sol che si pensi alla formazione del gruppo politico-parlamentare “Italia Viva-PSI”[17].
La novella regolamentare del 2017, questa la conclusione cui sembra potersi giungere sulla base dell’analisi delle concrete dinamiche politico-parlamentari, non si è rivelata uno strumento in grado di limitare l’incipiente creatività delle forme e delle forze della politica. Non a caso, un’interpretazione alquanto lata della disposizione citata ha permesso di aggirare il divieto di costituzione di nuovi gruppi in corso di legislatura, con inevitabili ripercussioni sulla tenuta del rapporto di rappresentanza e sulla responsabilizzazione delle forze politiche elette in Parlamento[18]. Fattori, questi ultimi, ulteriormente stressati dalla umbratile diffusione dei c.d. intergruppi parlamentari, raggruppamenti trasversali di deputati e senatori i quali, pur appartenendo a differenti gruppi politici regolarmente costituitisi ad inizio (od in corso, nei termini di cui supra) legislatura, si aggregano informalmente in vista della possibilità di tradurre particolari interessi di categoria in concreti provvedimenti normativi. Benché gli intergruppi «sembrerebbero costituire un’ulteriore manifestazione dell’esigenza di una maggiore tecnicalità nell’elaborazione di leggi destinate ad incidere trasversalmente su di una serie di settori produttivi»[19], la loro pratica affermazione si presta ad una serie di considerazioni critiche.
In particolare, essi, nel silenzio pressoché totale dei regolamenti parlamentari, lasciano trapelare la sempre più preoccupante incapacità del sistema costituzionale di distinguere ciò che dovrebbe tradursi, nel rispetto delle regole formali delle procedure parlamentari, in indirizzo politico dello Stato e quel che, invece, dovrebbe albergare all’esterno della produzione normativa statale[20]. Il riferimento, è evidente, è ad interessi privati non selezionati attraverso la consultazione elettorale. Interessi, questi ultimi, destinati ad entrare a far parte della dialettica parlamentare soltanto se in essa introdotti da forze politico-parlamentari, democraticamente legittimate, nel rispetto dei crismi di trasparenza e pubblicità che innervano l’incedere formale delle regole della democrazia costituzionale.
Ed è per questo motivo che, pur nel lodevole tentativo di tutelare taluni interessi particolarmente virtuosi[21], il fenomeno «anomico»[22] degli intergruppi parlamentari sembrerebbe imporre un tempestivo intervento di riconoscimento e di regolamentazione. La necessaria riforma dei regolamenti parlamentari, in un certo senso imposta dalla recente riduzione del numero degli eletti, potrebbe quindi rappresentare l’occasione propizia per formalizzare ciò che accade al di sotto della superficie delle regole procedurali.
Proprio il riferimento al ridimensionamento della rappresentanza politica, dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 2020[23], consente di svolgere qualche ulteriore considerazione sull’operatività dei gruppi parlamentari nel parlamentarismo contemporaneo. In effetti, al fine di evitare irresponsabili disallineamenti tra gruppo politico-partitico e gruppo politico-parlamentare, si potrebbe pensare, all’interno di un Parlamento sensibilmente ridotto nella propria dimensione numerica, di introdurre adeguate modifiche regolamentari tese a scongiurare ipotesi di distorsione patologica del rapporto rappresentativo.
Tra queste, in particolare, a rilevare potrebbe essere l’eliminazione del requisito numerico per la costituzione di un gruppo, in modo da consentire, all’interno del Parlamento, la formazione di raggruppamenti politici soltanto se questi corrispondono a forze politico-partitiche presentatesi alle elezioni e che hanno superato lo sbarramento elettorale[24].
In altre parole, nell’alveo tracciato dalla riforma regolamentare del Senato del 2017, si eviterebbe così qualsiasi scollamento, in corso di legislatura, tra soggetto politico-partitico legittimato dal voto elettorale e soggetto politico-parlamentare operante, in virtù della ridetta legittimazione democratica, all’interno del “processo” rappresentativo. Ancor più incisivamente, ad essere scongiurata sarebbe la pratica vanificazione del principio democratico. Come è stato fatto notare, infatti, oltre che «costituzionalmente necessari e legati ai partiti politici», i gruppi parlamentari sono – e devono restare – «espressione della volontà sovrana del corpo elettorale»[25]. Una conclusione, quest’ultima, in un certo senso imposta dalla circostanza che, quando chiamato ad esercitare il proprio diritto di voto, il corpo elettorale non può che presumere in termini di sostanziale coincidenza il rapporto sussistente tra i partiti politici ed i rispettivi gruppi parlamentari.
Senza poter qui approfondire gli effetti della riduzione del numero dei parlamentari sui meccanismi di formazione e di funzionamento dei gruppi[26], le riflessioni da ultimo svolte intorno alla patologia del “quadrilatero” della rappresentanza politica, come tale connotante una sorta di (corto)circuito del rapporto rappresentativo medesimo, tornano utili al fine di esprimere qualche osservazione intorno alla natura giuridica dei gruppi politici, permettendo di osservarla da una specola più propriamente costituzionale in considerazione della sua «ontologia»[27].
L’argomento appare tutt’altro che semplice[28]. Alla radice di tali difficoltà di inquadramento epistemologico v’è forse un duplice ordine di ragioni. In primis la circostanza che, in materia, parrebbero essere mancati studi specifici della giuspubblicistica italiana, la quale ha soltanto incidentalmente lambito la tematica in occasione di contributi relativi allo studio dei partiti politici[29]. In secondo luogo, il fatto che, consultando le varie definizioni di «gruppo parlamentare» contenute in questi lavori, «si ha talvolta l’impressione che esse, più che a qualificare giuridicamente il soggetto, tendano a descriverne il ruolo e le attività»[30].
Ad ogni buon conto, nelle pagine che seguono si proverà a riflettere sulla natura giuridica dei gruppi in chiave «costituzionale», con particolare attenzione alla “fisiologia” e alla “patologia” del circuito della rappresentanza politica.
3. I gruppi come «soggetti della rappresentanza politica»
Se sul piano della legislazione sub-costituzionale il gruppo parlamentare appare assumere la innovativa fisionomia dell’«organismo di diritto pubblico»[31], un discorso più ampio merita invece di essere affrontato se si assume, come s’è fatto in premessa, che il gruppo parlamentare sia un soggetto necessario del circuito della rappresentanza politica.
Tuttavia, prima di svolgere alcune riflessioni di tipo giuridico-costituzionale, sembra opportuno prendere l’abbrivio da una considerazione di carattere generale, come tale implicante una alternativa epistemologica. In primo luogo, dunque, i raggruppamenti parlamentari appaiono direttamente rappresentativi: a) dei partiti politici, quando costituiscono una loro proiezione all’interno delle Assemblee legislative; b) in via immediata, dei cittadini elettori, in tutte quelle ipotesi in cui la formazione del gruppo parlamentare precede quella del partito politico, ossia quando il gruppo si forma in Parlamento in ipotetica rappresentanza di una parte del corpo sociale non ancora politicamente aggregatasi in occasione delle consultazioni elettorali.
La prima ipotesi, per intenderci, è quella che ha trovato frequente realizzazione pratico-applicativa durante la c.d. prima Repubblica; in un arco temporale, cioè, in cui il rapporto tra partiti e gruppi è stato di tipo «bottom-up», con i gruppi tendenzialmente corrispondenti a quei partiti politici presentatisi alle elezioni. La seconda, invece, è quella, già evidenziata, molte volte manifestatasi dal 1994 in poi, con soggetti politici generalmente nati conseguentemente a trasformazioni dei gruppi avvenute in Parlamento, dunque in base ad un rapporto di tipo «up-down»[32].
Volendo provare a fare un po' di chiarezza, anche in ordine al rapporto intercorrente tra gruppi e forze politiche operanti all’esterno del Parlamento, a livello sub-costituzionale si dovrebbe distinguere il gruppo politico-partitico (associazione non riconosciuta di diritto privato) dal gruppo politico-parlamentare (come accennato, «organismo di diritto pubblico»). Invero, sul piano meramente storico-sociologico, ciò che sembra esistere nella realtà è una pluralità di gruppi politici che, dopo l’avvento dei partiti di massa, nella loro fase genetica si costituiscono tanto all’esterno quanto all’interno del Parlamento. Ed è così che, per rimanere al fenomeno oggi più tradizionale, ossia quello di costituzione di gruppi parlamentari mediante un processo di tipo bottom-up, il gruppo politico-partitico preesistente all’esterno del Parlamento ha, dopo le elezioni, la possibilità di “duplicarsi” all’interno delle Camere al fine di concorrere, assieme agli altri gruppi politico-parlamentari, alla definizione dell’indirizzo politico dello Stato.
In prima battuta, sembra dunque potersi dire con sufficiente certezza che il gruppo politico nasca come associazione di diritto privato e, nei fatti, appaia come una sub-unità del partito. Le cose sembrano complicarsi nel momento in cui, esaurita la fase elettorale ed iniziata la legislatura, a ciascun membro del neoeletto Parlamento viene imposto l’obbligo di iscriversi ad un gruppo parlamentare. Proiezione, ma inizialmente sarebbe meglio dire “duplicazione” camerale, del gruppo politico-partitico collocato all’esterno delle Camere. Dunque, ed è da qui che appare opportuno prendere le mosse al fine di provare a definire la sua natura giuridico-costituzionale, il gruppo politico, in quanto dotato di un apparato più o meno ideologico condiviso dai suoi membri, rappresenta un’entità unitaria esistente nella realtà sociale ex art. 49 Cost., a prescindere dalla sua formale istituzionalizzazione all’interno delle Assemblee legislative, i cui regolamenti prescrivono regole sui gruppi di mera attuazione degli artt. 72, comma 3, e 82, comma 2, della Carta repubblicana.
Di conseguenza, l’inizio della Legislatura – questa la seconda osservazione di ordine logico-costituzionale – sembrerebbe giuridicamente segnare la linea di confine tra la fase «privatistica» del gruppo politico e quella «pubblicistica» del gruppo stesso. In altre parole, costituendosi in seno alle Camere, il raggruppamento “pubblicizza” la sua attività politica, intanto trasformatasi in «parlamentare». Entra, cioè, a far parte dell’ordinamento giuridico dello Stato. Se il fenomeno appena descritto riguarda la dimensione collettiva del raggruppamento politico, l’istituzionalizzazione del gruppo fa sì che i rispettivi membri, una volta eletti, appaiono mantenere lo status di componenti di un’associazione di diritto privato (gruppo-partito) fino al momento della scelta di iscriversi al gruppo parlamentare. Una volta iscrittisi, i parlamentari, pur mantenendo la qualità di membri dell’associazione «gruppo-partito politico», sommano, in aggiunta ad essa, la qualifica di membro del «gruppo-politico parlamentare». E, nella loro qualità di componenti di un raggruppamento, essi, assieme a tutti gli altri gruppi regolarmente costituitisi, parteciperanno alla precipua funzione di realizzare l’indirizzo politico dello Stato.
Ed è proprio questa funzione, necessariamente pubblica, a far assumere ai gruppi politico-parlamentari la natura di «organismi di diritto pubblico». In altri termini, non è il mero fatto di essere ed operare all’interno delle Camere, ma è l’attività funzionalmente deputata al perseguimento dell’indirizzo politico che, sul piano sub-costituzionale, causa quella mutazione genetica del gruppo cui s’è accennato. Trasforma, cioè, giuridicamente, l’«associazione politica» operante in Parlamento in «organismo di diritto pubblico»[33].
Una volta chiarito che, a livello sub-costituzionale, è l’attività di indirizzo politico a modificare funzionalmente la natura del gruppo da associazione di diritto privato a soggetto di diritto pubblico, sul piano giuridico-costituzionale sembrano potersi sostenere almeno tre argomenti.
In primo luogo, essendo il gruppo parlamentare un soggetto necessario della rappresentanza politica, per quanto le dinamiche della realtà storica abbiano messo in evidenza il suo essere (anche) altro dal partito politico, a livello teorico esso dovrebbe essere considerato un ente espressione della rappresentanza dei partiti politici. Se invero si vuole mantenere la fisiologia del «triangolo della rappresentanza politica» (costituito dalla triade elettori-eletti-partiti politici), quello che oggi è divenuto un vero e proprio quarto soggetto della rappresentanza politica – il gruppo parlamentare, appunto – non può che costituzionalmente risultare espressione del partito politico votato dagli elettori.
Insomma, sul piano della rappresentanza politica, bisognerebbe considerare gruppo politico-partitico e gruppo politico-parlamentare come una realtà unitaria, legati tra loro da un vero e proprio rapporto di rappresentanza. Ogni disallineamento tra gruppo politico-partitico e gruppo politico-parlamentare, come detto, farebbe di quest’ultimo un soggetto della rappresentanza autonomo, del tutto svincolato da qualsiasi ipotesi di legittimazione democratica diretta[34]. Con il risultato, peraltro, di invertire i fisiologici rapporti di forza esistenti tra gruppi e partiti, introducendo un ulteriore filtro rappresentativo, ad effetto invero distorsivo, tra il corpo elettorale rappresentato e la nazione rappresentante.
Quest’ultima sostanzialmente legittimata ad interpretare liberamente, id est irresponsabilmente, rispetto al partito le istanze sociali provenienti dalla realtà rappresentata. A disvelare, cioè, una pericolosa smaterializzazione del «rapporto» nella «situazione» rappresentativa, ossia, dell’elemento democratico (il «rapporto», appunto) nella dimensione oligarchica (la «situazione») dell’attività rappresentativa. In altre parole, richiamando quanto si è provato ad argomentare in precedenza, il «quadrilatero» rappresenta la patologia del circuito rappresentativo, come tale espressione di una ipostatizzata idea di rappresentanza politica foriera di irresponsabili alterazioni della geografia politica tratteggiata dal voto elettorale[35].
Ed è proprio dal momento che il disallineamento tra partito politico e gruppo parlamentare costituisce una patologica espressione di un (corto)circuito rappresentativo, si dovrebbe insistere verso soluzioni – come quella della necessaria coincidenza tra soggetto politico presentatosi alle elezioni e raggruppamenti politici formatisi in Parlamento – in grado di limitare, se non obliterare del tutto, irresponsabili artifici della creatività politica, spesso ben lontani dal perseguimento dell’”interesse della Nazione” (ex art. 67 Cost.).
In secondo luogo, poiché esiste un «nucleo duro» dell’art. 67 Cost., consistente non già nell’impossibilità da parte del gruppo politico-partitico di imprimere direttive al gruppo politico-parlamentare[36], ma riassumibile nell’impossibilità per l’eletto di perdere il proprio seggio, sotto questo aspetto, la previsione del gruppo Misto nei regolamenti parlamentari, nonostante il nome, non sembra propriamente riguardare il gruppo in sé, quanto le prerogative del singolo eletto. La sua ratio appare essere quella di garantire il libero mandato del rappresentante e, pertanto, la sua «somma funzione» appare coincidere con l’assicurare il «sommo dissenso», consentendo la permanenza dell’eletto all’interno di un gruppo politico (eventualmente articolato in «componenti») necessariamente parlamentare[37].
Con la necessaria precisazione, però, che tale raggruppamento non si costituisce per volontà dei membri che ad esso intendono iscriversi. Esso, cioè, non deve la sua presenza assembleare ad una manifestazione di volontà dei parlamentari che non aderiscono ad altri gruppi politici o che, in corso di legislatura, da questi ultimi intendono dissociarsi. Ecco perché, già in altra sede, si è avuto modo di precisare che il gruppo Misto sarebbe forse meglio rinominarlo “Nazionale”[38]. E tanto, dal momento che, nell’alveo di una fisiologica articolazione (triangolare) del rapporto rappresentativo, in esso devono trovare libertà di espressione esclusivamente quei membri del Parlamento che rappresentano «la Nazione» (art. 67 Cost.) in modo divergente rispetto alle forze politiche nelle cui fila sono stati eletti. E dalle quali, soprattutto, si sentono di dissociarsi in quanto ritenute responsabili – politicamente parlando – della mancata, distorta o soltanto parziale attuazione del programma elettorale in cui hanno riposto fiducia gli elettori.
Ed è così che il parlamentare volontariamente fuoriuscito o espulso dal partito/gruppo di appartenenza dovrà, qualora non decidesse di dimettersi dalla carica, confluire nel gruppo “Misto”. All’uopo, ad esempio, si potrebbe pensare di introdurre, nei regolamenti parlamentari, un’iscrizione motivata a tale gruppo, in cui il parlamentare renda edotte le Camere e gli elettori di tutte quelle ragioni che lo hanno portato ad abbandonare il raggruppamento d’origine. In tal modo, il «nucleo duro» del principio del libero mandato parlamentare non subirà alcun tipo di lesione, essendo esso preordinato a garantire la possibilità per gli eletti di far valere il proprio dissenso avverso qualsiasi eccesso di autorità da parte del raggruppamento di appartenenza, senza con ciò decadere dalla carica.
Il gruppo Misto, questa la conclusione cui pare potersi giungere sulla base dell’analisi delle concrete dinamiche assembleari, sembra costituzionalmente necessario[39] proprio perché preordinato a garantire il libero esercizio del mandato parlamentare. Ciò che si vuol dire è che il gruppo Misto, così come ogni raggruppamento politico, invera anch’esso una realtà ontologica alle istituzioni parlamentari. Basti pensare al fatto che, pur in assenza di iscritti, non viene cancellato dal novero delle possibili forme costituzionali in cui è legittimata a manifestarsi l’articolazione politica intra-parlamentare. Al contrario, esso vive in quiescenza. La volontà dell’eletto, pertanto, non risulta essere costitutiva della sua giuridica esistenza. Essa rileva soltanto per (ri)attivarlo, ossia per la sua esclusiva messa in funzione.
In terzo luogo, se sul piano giuridico-costituzionale il raggruppamento politico-parlamentare costituisce una realtà rappresentativa di un fenomeno che dovrebbe apparire «unitario» (lo stesso gruppo politico-partitico che, dopo le elezioni, si costituisce in seno alle Camere nelle medesime sembianze), a configurarsi come «potere» dello Stato legittimato a sollevare conflitto di attribuzione dovrebbe pertanto essere non soltanto il singolo eletto, ma anche e soprattutto il raggruppamento politico-parlamentare. Appare invero del tutto illogico, stando anche agli orientamenti da ultimo espressi dalla Consulta, che la singola porzione di rappresentanza che la Costituzione attribuisce all’eletto (ex art. 67 Cost., «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione») possa valere più della somma delle quote di rappresentanza espresse dai parlamentari all’interno del gruppo politico regolarmente costituitosi in seno alle Camere[40]. Nel far ciò, la Consulta, peraltro sul solo piano formale, parrebbe assecondare rigurgiti proto-liberali tendenti, come noto, a sbilanciare il rapporto rappresentativo sulle singole individualità, piuttosto che sui raggruppamenti assembleari.
Bisognerà così attendere che il giudice delle leggi avverta l’esigenza di riconsiderare le dinamiche assembleari, al fine di risolvere le implicazioni derivanti dal patologico quadrilatero della rappresentanza politica[41].
In definitiva, in un momento storico caratterizzato da profonde incertezze, derivanti dalla incapacità politica dei rappresentanti di rimodulare gli assetti delle regole parlamentari a seguito della riduzione del numero degli eletti, forse occorrerebbe partire proprio da qui: dal riconoscimento, anche formale, del gruppo quale «soggetto della rappresentanza». Soggetto, cioè, non riducibile a solo organo assembleare o associazione di diritto privato, mera derivazione del partito politico.
[1] Si intende qui richiamare il titolo dell’importante contributo di H.F. Pitkin, (1972), Il concetto di rappresentanza, Rubbettino, Milano, 2017, le cui conclusioni, in punto di ricostruzione teorico-concettuale del fenomeno rappresentativo, non sembrano, tuttavia, del tutto corrispondere ai risultati cui giungerà il presente contributo.
[2] Riflessioni, queste ultime, che traggono origine dal bel contributo di E.-W. Böckenförde, Democrazia e rappresentanza, in Quaderni Costituzionali, n. 2/1985, pp. 231.
[3] La distinzione teorico-concettuale tra “rapporto” e “situazione” rappresentativa risale a D. Nocilla, R. Ciaurro, Rappresentanza politica, in Enc. Dir., XXXVIII, Giuffrè, Milano, 1987, spec. 556-567. In particolare, gli Autori evidenziano come «tutte le tesi, per le quali la rappresentanza si definisce come mera situazione di potere del rappresentante, spostano verso quest’ultimo la sovranità, nel senso di attribuirgliene l’esercizio in modo completo e definitivo, restandone tutt’al più al rappresentato l’astratta titolarità, e sono perciò incompatibili con il principio della sovranità popolare, proprio perché la volontà popolare ipotetica e l’interesse pubblico, che quest’ultima persegue, altro non sarebbero rispettivamente che la volontà dello stesso rappresentante e l’interesse pubblico così come da quest’ultimo interpretato» (p. 560).
[4] Secondo la celebre definizione fornita da C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, 277. Ed è proprio per questo motivo che, a detta dello studioso di Plettenberg, «rappresentare» non può rivelarsi che «qualcosa di esistenziale».
[5] Sembra essere proprio questo uno dei lasciti più preziosi della teoria kelseniana della democrazia rappresentativa. Com’è troppo noto per potersi soffermare con l’analiticità che uno studio siffatto richiederebbe, per il Maestro praghese la democrazia rifiuta «l’idea di un assoluto trascendente a questa esperienza», non essendo compatibile con alcun valore o verità assoluta. La democrazia, infatti, è lo stesso Kelsen a precisarlo, «non è un terreno adatto all’ideale del capo, non essendo adatto al principio di autorità; e se il padre, in quanto esperienza primigenia di ogni autorità, rappresenta l’ideale, la democrazia – secondo il suo concetto – è una società senza padre. Essa vuol essere una società di equiordinati, possibilmente senza capi. Il suo principio è il coordinamento, e la fratellanza matriarcale la sua forma primitiva. Sicché, il trinomio della rivoluzione francese – libertà, uguaglianza, fraternità – assume in democrazia un significato più profondo che mai». Le citazioni riportate sono tratte, rispettivamente, da H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, il Mulino, Bologna, 1981, 139, e Id., Forme di governo e concezioni del mondo, in Id., Il primato del parlamento, a cura di C. Geraci, Giuffrè, Milano, 1982, 51. La concezione kelseniana della democrazia deve ritenersi, contrariamente ad una certa impostazione teorica, «formale» e non già «formalista», come si è avuto modo di precisare in altra sede. Sul punto, sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, Appunti a margine del Kelsen “parlamentarista”, teorico di una concezione realistica della democrazia, in PasSaggi costituzionali, 1/2021, ETPbooks 2021, Atene, 255 ss.
[6]Del resto, A. Mannino, S. Curreri, Diritto parlamentare, FrancoAngeli, Milano, 2019, 17, hanno evidenziato che il diritto parlamentare si configura come complesso di regole «strettamente collegato al principio democratico, che ispira e condiziona al contempo la forma di stato, la forma di governo e, di conseguenza, l’organizzazione e il funzionamento delle Camere, cui la Costituzione affida il compito di esprimere e realizzare la sovranità del popolo».
[7] Sul punto, per i necessari riferimenti teorici, come tali impossibili da compulsare in poche righe, sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, Il gruppo parlamentare, Profili evolutivi di un soggetto della rappresentanza politica, Cacucci, Bari, 2019, spec. 71 ss.
[8] Il riferimento è, ovviamente, alla densa riflessione di H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., 97-98, il quale fa notare come, «una dittatura della maggioranza sulla minoranza non è possibile, a lungo andare, per il semplice fatto che una minoranza, condannata a non esercitare, nel modo più assoluto, nessuna influenza, finirà col rinunciare alla sua partecipazione – soltanto formale e perciò per lei senza valore e perfino dannosa – alla formazione della volontà generale, togliendo con ciò alla maggioranza – che già per definizione non è possibile senza la minoranza – il suo carattere stesso di maggioranza. […]. Tutta la procedura parlamentare tende a creare un medio termine fra gli interessi opposti, una risultante delle forze sociali di senso contrario. I diversi interessi dei gruppi rappresentati in Parlamento, potranno esprimersi, manifestarsi in una procedura pubblica trovando, in quella parlamentare, le garanzie necessarie. E se la caratteristica procedura dialettico-contraddittoria parlamentare ha un senso alquanto profondo, tale senso potrà essere soltanto quello di fare della tesi e dell’antitesi degli interessi politici, in qualsiasi modo, una sintesi. […] non […] una verità superiore, assoluta, un valore assoluto superiore agli interessi dei gruppi, ma un compromesso».
[9] Sul punto, lo si preannuncia già, la Corte costituzionale non ha assunto posizioni lineari. Si veda infra, parg. 3.
[10]Si veda, su tutti, G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Dem. dir., 2009, 345-346; Id., Il rapporto partito-eletto: per un’interpretazione evolutiva dell’art. 67 della Costituzione, in Pol. dir., 3/2013, 275 ss., il quale parla, a più riprese, di un «triangolo» costituito da tre soggetti: «eletti-partiti-elettori».
[11]Come ha evidenziato N. Bobbio, Rappresentanza e interessi, in G. Pasquino (a cura di), Rappresentanza e democrazia, Laterza, Bari, 1988, 23-24, è proprio «l’intermediazione dei partiti fra elettori ed eletti» ad aver «semplificato il sistema della rappresentanza e semplificandolo lo ha reso di nuovo possibile». Nello stesso senso dello studioso torinese, H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., 57 ha fatto incisivamente notare che «solo l’illusione o l’ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici».
[12] Sul punto, sia consentito ancora – per i necessari approfondimenti teorico-ricostruttivi – il rinvio a A. Gusmai, Il gruppo parlamentare, cit., 271 ss.
[13]Oggi, peraltro, anche economica, essendo i bilanci dei gruppi superiori a quelli dei partiti. Per averne contezza, è sufficiente leggere i dati di un recente studio intitolato “Partiti deboli, democrazia fragile”, rinvenibile al seguente indirizzo: https://www.openpolis.it/esercizi/la-vera-cassa-sono-igruppi-parlamentari/.
[14]Idee, queste, attraverso le quali si riesce a mantenere in piedi la tesi del c.d. triangolo della rappresentanza politica proprio attraverso tale processo di inglobamento del gruppo parlamentare o all’interno della dimensione privatistica (organo del partito politico) o all’interno delle Camere (organo a mera rilevanza giuspubblicistica).
[15]In merito alla questione dell’autonomia del gruppo dal partito politico si veda S. Curreri, I gruppi parlamentari nella XIII legislatura, in Rassegna parlamentare, 2/1999, 272 ss. e Id., I nuovi gruppi parlamentari tra problematiche giuridiche e prospettive politiche, in Forumcostituzionale, 24 aprile 2006, 1 ss. Il fenomeno dei partiti di formazione proprio dai parliamentary parties che ha preso vita la tendenza a formare raggruppamenti politici, Raggruppamenti che poi, come visto, hanno caratterizzato in maniera significa i successivi sviluppi del rapporto rappresentativo. Sulla genesi dell’«organizzazione parlamentare» in Inghilterra, G.D. Ferri, Studi sui partiti politici, Edizioni Dell’Ateneo, Roma, 1950, 13 ss., il quale rammenta che, nella storia inglese, il cosiddetto Parliamentary Party risale alla seconda metà del XVII secolo, mentre la vera e propria Party Organisation iniziò ad affermarsi coll’Associazione Liberale di Birmingham. Di «parliamentary party anglosassone», inteso come «nucleo che ha germinato il partito», discutono invece G. Negri – G.F. Ciaurro, Gruppi parlamentari, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 2. Per di più, è appena il caso di far notare che nello stesso Stato liberale i gruppi erano “puramente” parlamentari, non essendosi i partiti ancora evoluti in associazioni solidamente ramificate nel tessuto sociale. Tali esperienze storiche dimostrano che in Parlamento possono mancare i partiti, ma in nessun caso i gruppi, i quali, proprio per tal motivo, come anticipato, devono ritenersi una realtà ontologica sul piano costituzionale-sostanziale.
[16] In base alla suddetta disposizione, «ciascun Gruppo […] deve rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l'elezione di Senatori. Ove più partiti o movimenti politici abbiano presentato alle elezioni congiuntamente liste di candidati con il medesimo contrassegno, con riferimento a tali liste, può essere costituito un solo Gruppo, che rappresenta complessivamente tutti i medesimi partiti o movimenti politici. È ammessa la costituzione di Gruppi autonomi, composti da almeno dieci Senatori, purché corrispondenti a singoli partiti o movimenti politici che si siano presentati alle elezioni uniti o collegati. I Senatori che non abbiano dichiarato di voler appartenere ad un Gruppo formano il Gruppo misto». Inoltre, l’art. 15, comma 3, r.S., precisa che «[…] nuovi Gruppi parlamentari possono costituirsi nel corso della legislatura solo se risultanti dall'unione di Gruppi già costituiti». Non v’è dubbio, pertanto, che il nuovo gruppo “Italia Viva-PSI”, non esistendo al momento elettorale (elezioni del 4 marzo 2018), si ponga in evidente contrasto con il combinato disposto degli articoli citati. Anche se, non può sottolinearsi come le citate disposizioni regolamentari siano apparse sin da subito in grado di comportare il rischio di forzature interpretative tese ad eludere la ratio della novella. In merito, tra i primi a denunciare tali aporie, S. Curreri, Osservazioni a prima lettura sulla riforma organica del Regolamento del Senato, in Rassegna Parlamentare, n. 3/2017, pp. 645 ss.; Id., Liste-matrioska e gruppi parlamentari, in laCostituzione.info, 22 gennaio 2018; G. Piccirilli, Finalmente una (prima) riforma del Senato. Luci ed ombre di un intervento che necessita di essere completato, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2017.
[17] Costituito il 18 settembre 2019. Formalmente l’iniziativa origina da una lettera diretta al Presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, con la quale il senatore Riccardo Nencini (proveniente dalla componente P.S.I. del Gruppo Misto, del quale era l’unico membro) comunica l’avvenuta costituzione del nuovo gruppo “Italia Viva-PSI”. Esso è composto, prevalentemente, da senatori renziani provenienti dal gruppo “Partito Democratico”, anche se non mancano membri provenienti da altri gruppi (come la senatrice Gelsomina Silvia Vono, inizialmente iscritta al gruppo “MoVimento 5 Stelle”; e Donatella Conzatti, proveniente dal gruppo “Forza Italia-Berlusconi Presidente”).Sulla discussa e assai discutibile vicenda si veda G. Maestri, Il nuovo gruppo “Psi-Italia viva” al Senato: le falle della riforma “antiframmentazione” del Regolamento, in laCostituzione.info, 19 settembre 2019; A. Mannino – S. Curreri, Diritto parlamentare, FrancoAngeli, Roma, 2019, 72 ss.; U. Ronga, Partiti personali e vicende dei gruppi parlamentari nell’esperienza recente. Contributo allo studio della XVII e della XVIII Legislatura, in federalismi.it, n. 12/2020, 227 ss.; M. Podetta, La nuova disciplina dei Gruppi al Senato tra demagogia riformista, dubbi costituzionali e distorsioni applicative, in Costituzionalismo.it, n. 1/2020, parte II, spec. 197 ss.
[18]A ben vedere, la costituzione meramente parlamentare del gruppo politico “Italia Viva – PSI” ha palesato tutte le criticità rilevate allorquando, in occasione delle votazioni parlamentari svoltesi in occasione della crisi del governo c.d. Conte II, fu prospettato il possibile “ritiro”, da parte del senatore Nencini, del simbolo del “PSI”. Circostanza, quest’ultima, che avrebbe posto più di un interrogativo sulla perduranza stessa del gruppo, proprio a causa della discutibile vicenda che ne ha caratterizzato la genesi. Sulla problematica, cfr. le considerazioni di S. Curreri, Si scioglierà il gruppo parlamentare Italia Viva – P.S.I. al Senato?, inwww.lacostituzione.info, 21 gennaio 2021.
[19] L’osservazione è di F. Sicuro, Il sistema delle commissioni parlamentari alla prova del ridimensionamento della rappresentanza politica, in Forumcostituzionale.it, 1/2021, 656.
[20] Una preoccupazione, quest’ultima, che non sembra invero condivisa da una parte della dottrina, la quale, aderendo ad una concezione della rappresentanza politica che parrebbe oltremodo sbilanciata sulle prerogative dei singoli parlamentari, giunge a rinvenire negli intergruppi uno strumento di emersione del pluralismo sociale nel processo assembleare. Il riferimento è a L. Bartolucci, Una nuova stagione per gli intergruppi parlamentari tra rimescolamento politico e next generation EU, in Federalismi, 17/2021, spec. 31-32.
[21] Si pensi, tra gli altri, al neo-intergruppo parlamentare “Stop palmoil”, il quale si ripropone il virtuoso – appunto – obiettivo di porre fine a qualsiasi incentivo a favore della combustione di olio di palma nella produzione biocarburante ed energia elettrica verde.
[22] Così come si è avuto modo di definirlo in altra sede. Sul punto, sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, Alcune riflessioni sui gruppi parlamentari dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 2020, in Forumcostituzionale.it, 1/2021, spec. 43-47.
[23] Una modifica costituzionale, quest’ultima, che ha suscitato un intenso dibattito dottrinale, riguardante tanto le premesse, quanto le conseguenze di un significativo ridimensionamento della quantità e della qualità della rappresentanza politica. Il numero di contributi stratificatisi sul punto, la ricchezza degli spunti ricostruttivi ivi contenuti e la pluralità di considerazioni da essi dischiuse non possono essere compulsate in poche righe. Per questo motivo, tra essi, tutti importanti ai fini della presente ricostruzione teorica, cfr. almeno M. D’amico, Una nuova stagione di riforme costituzionali “a tappe” e le sue insidie, in federalismi.it, 9 settembre 2020; M. Luciani, Un “taglio” non meditato, in E. Rossi (a cura di), Meno parlamentari, più democrazia?, Pisa University Press, Pisa, 2020, p. 245 ss.; A. Algostino, Perché ridurre il numero dei parlamentari è contro la democrazia, in Forumcostituzionale.it, 30 settembre 2019; N. Lupo, Riduzione del numero dei parlamentari e organizzazione interna delle Camere, in Forumcostituzionale.it, fasc. 3/2020, 326 ss. e Id., Dopo la riduzione dei parlamentari e nel mezzo della pandemia, una “finestra d’opportunità” per il rinnovamento del parlamentarismo in Italia?, in Osservatorio sulle fonti – Editoriale n. 3/2020; S. Curreri, Gli effetti politico-istituzionali negativi di questa riduzione del numero dei parlamentari, in E. Rossi (a cura di), Meno parlamentari, più democrazia?, cit., 235 ss. La riduzione del numero degli eletti, tuttavia, potrebbe dischiudere effetti non solo radicalmente “negativi”, a partire da una maggiore responsabilizzazione delle forze politico-parlamentari nella determinazione dell’indirizzo politico. Sul punto, non può che rinviarsi ad A. Pertici, La riduzione del numero dei parlamentari potrà rispondere alle attese?, in E. Rossi (a cura di), Meno parlamentari, più democrazia?, cit., pp. 257 ss.
[24] Ciò che si intende dire è che, in un Parlamento ridimensionato, a rilevare non dovrebbe più tanto essere la consistenza numerica del raggruppamento, quanto la corrispondenza ad una formazione politica che si è presentata alle elezioni ed ha ricevuto consensi da una frazione del corpo elettorale. In tal modo, si potrebbe pensare, ad esempio, come avviene nel Senato belga, di introdurre la regola per cui i parlamentari possono organizzarsi in gruppi seguendo l’ordine delle liste nelle quali sono stati eletti, senza possibilità di scelta. O, per meglio dire, assicurando all’eletto la possibilità di aderire, naturalmente anche in corso di Legislatura nel rispetto dell’art. 67 Cost., a due soli gruppi: quello generato dalla forza politica di appartenenza presentatasi alle elezioni o, come unica alternativa, al gruppo Misto (nel Senato belga, invece, il parlamentare che abbandona il gruppo diviene “indipendente”). Il tutto, magari, per evitare verticalizzazioni nelle associazioni politiche, nell’auspicabile vigenza di almeno due innovazioni legislative: da un lato, l’adozione di un sistema elettorale di stampo proporzionale, anche in ragione della probabile torsione maggioritaria derivante dalla riduzione del numero dei parlamentari in relazione alla rappresentatività dei territori; dall’altro, l’adozione di una nuova legge sui partiti che imponga a tutti gli iscritti il rispetto di requisiti minimi di democrazia interna. Per un esame più esaustivo di simile problematiche, come detto acuite dalla recente riduzione del numero degli eletti di cui alla legge costituzionale n. 1 del 2020, si rinvia ad A. Gusmai, Alcune riflessioni sui gruppi parlamentari, cit., 22-38.
[25] Così, incisivamente, A. Mannino, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 2010, 67.
[26] In disparte da ogni considerazione circa «lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa», per rievocare una bella riflessione di A. Ruggeri, Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le flebili speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta Online, n. 1/2021, 123 ss.
[27]Anche se non si è ancora affrontata nel merito la questione attinente alla natura giuridica dei gruppi, è doveroso evidenziare che tanto nel caso in cui si ritenga il Parlamento composto da gruppi-organi, quanto nel caso in cui si intenda il Parlamento come organo complesso frazionato al proprio interno in gruppi-associazioni, v’è la presenza di un elemento comune necessario. Invero, comunque si vogliano qualificare, i gruppi sono parte necessaria di un organo costituzionale – il Parlamento, appunto – che di per sé è organo collegiale, ossia rappresenta esso stesso, sul piano istituzionale, un Gruppo di rappresentanti, matrice del fenomeno. Poiché però, per poter funzionare, il Parlamento ha bisogno di frazionarsi al proprio interno in gruppi politici tra loro contrapposti – si pensi alla composizione di organi collegiali ristretti, come le commissioni permanenti, da formarsi in proporzione ai gruppi presenti in Parlamento, ecco che, sul piano costituzionale-sostanziale, sembra possibile sostenere che i gruppi siano una realtà inscindibile dalle Assemblee legislative. Per tal motivo, essi paiono doversi intendere alla stregua di una entità istituzionale ontologica. L’ontologia costituzionale dei gruppi parlamentari è – come intuibile – una tesi sostenibile in conseguenza della vigenza di democrazie rappresentative. Senza i rappresentanti che svolgono i lavori all’interno di un’Assemblea rappresentativa, i gruppi sembrano perdere importanza, potendo assumere le manifestazioni politico-democratiche connotazioni solipsistiche. Per i necessari approfondimenti teorici sulla ontologica esistenza costituzionale dei gruppi politici sia nuovamente consentito il rinvio ad A. Gusmai, Il gruppo parlamentare, op. cit., 101-109.
[28] Per un’esaustiva ricognizione dei vari orientamenti dottrinali, si veda A. Ciancio, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Giuffrè, Milano, 2008, 30-39. Altra valida rassegna, arricchita da puntuali riferimenti giurisprudenziali, è quella di S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parlamento della Repubblica: organi, procedure, apparati, n. 12, Roma, II, Camera dei deputati, 2008, 659-704.
[29] In tal senso anche A. Ciancio, op. ult. cit., 30.
[30] È questo un rilievo mosso da S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 659- 660, il quale come esempio emblematico riporta le definizioni che ne danno D. Resta, Saggi sui gruppi parlamentari, Grafica 2000, Città di Castello, 1983, 34, secondo cui «i gruppi parlamentari sono organi interni delle Camere a struttura collegiale dotati di ogni potere decisionale e vincolati all’indirizzo politico del partito, costituenti centro d’imputazione di attività nell’ambito delle Camere e che danno vita ad un ordinamento speciale dotati di potestà regolamentare la cui costituzione è obbligatoria in base a quanto statuito dalle norme costituzionali e dai Regolamenti delle Camere in quanto l’esistenza di essi è necessaria all’esistenza delle Camere stesse»; ed E. Colarullo, Rappresentanza politica e gruppi delle assemblee elettive, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 25 settembre 1999, Giappichelli, Torino, 2001, 95, a parere del quale i gruppi «sono al contempo organi del Parlamento e proiezione dei diversi orientamenti della rappresentanza». Per una ricognizione delle tre tradizionali macro-tesi sulla natura giuridica dei raggruppamenti politico-parlamentari (privatistica, pubblicistica o c.d. mista), sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, I gruppi parlamentari e la concezione eurounitaria di P.A.: è possibile qualificarli «organismo di diritto pubblico»?, in Questa Rivista, 2/2021, spec. 5-11, lì dove si è provato ad argomentare come, andando oltre le suddette tre “classiche” macro-tesi, sarebbe opportuno declinare la natura giuridica del gruppo parlamentare nei termini della innovativa figura dell’«organismo di diritto pubblico».
[31] Com’è noto, la prima definizione normativa di organismo di diritto pubblico risale alla direttiva 89/440/CE, la quale risultava preordinata alla individuazione della sostanziale natura giuridica di quell’elevato numero di enti operanti nell’ambito dei singoli Stati membri che, pur avendo connotazioni pubblicistiche, in quanto patrimonializzati (o controllati o sovvenzionati) dallo Stato o da altro ente pubblico, non risultavano tuttavia qualificabili come pubblici alla stregua di una valutazione formale. A tale esito conduceva, infatti, la loro mancata inclusione nel novero delle persone giuridiche di diritto pubblico tassativamente individuate nell’Allegato I della previgente direttiva 71/305/CEE. Siffatta impostazione sostanzialista è stata pienamente confermata dal Legislatore europeo anche nell’impianto di una serie di direttive datate 26 febbraio 2014 (2014/23/UE, 2014/24/UE, 2014/25/UE), le quali hanno riprodotto pedissequamente la nozione di organismo di diritto pubblico elaborata dalle abrogate direttive nn. 17 e 18/2004. Qualifica, questa, attribuibile a un «qualsiasi soggetto», avente anche natura giuridica privata, che mostra di possedere tre requisiti: a) essere stato istituito «per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale»; b) essere dotato di «personalità giuridica»; e, non da ultimo, c) svolgente un’attività «finanziata in modo maggioritario dallo Stato». Come si è già provato ad argomentare in altra sede, i gruppi parlamentari sembrerebbero possedere tutti gli elementi necessari affinché un ente possa essere considerato «organismo di diritto pubblico». In effetti, a guardar bene, essi si formano nelle Camere per dare concreta attuazione all’indirizzo politico, con ciò soddisfacendo il primo elemento richiesto dalla normativa citata. E tanto, dal momento che il gruppo non può che essere istituito per «soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale» e, in particolare, per dare concreta attuazione al circuito della rappresentanza politica. Quanto al secondo dei requisiti richiesti (la ersonalità giuridica), appare evidente che i gruppi, una volta costituiti all’interno del Parlamento secondo le regole prescritte dai regolamenti di ciascuna Camera, non possono che assumere rilievo per il diritto pubblico, dismettendo la veste di mera associazione non riconosciuta appartenente alle forze politiche esistenti al di fuori delle Assemblee, prima del momento elettorale e dell’inizio della Legislatura. Ed è così che la procedura di costituzione del gruppo all’interno della Camera, un po’ come per le associazioni l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, sembra conferire, a tale peculiare tipologia di ente politico, un’automatica acquisizione della personalità giuridica pubblica. Non riconoscere soggettività giuridica a tali gruppi equivarrebbe a confonderli totalmente con il partito politico, equiparando l’attività dei gruppi politici interna al Parlamento a quella svolta al di fuori del recinto istituzionale. Per ciò che da ultimo attiene alla compresenza del terzo requisito, ossia quello «del finanziamento pubblico maggioritario», è risaputo che ai gruppi «sono assicurate a carico del bilancio della Camera le risorse necessarie allo svolgimento della loro attività». In tal modo elidendo ogni dubbio circa la derivazione pubblicistica delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle attività dei raggruppamenti. Peraltro, queste ultime sono divenute ormai superiori a quelle detenute dai partiti politici, i cui bilanci consentono una minore capacità di spesa di quella consentita ai gruppi. Per una analisi più completa della configurabilità del gruppo parlamentare come «organismo di diritto pubblico» sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, Il Gruppo parlamentare, cit., pp. 306 ss. Inoltre, sempre sulla medesima problematica, cfr., se si vuole, A. Gusmai, I gruppi parlamentari e la concezione eurounitaria di P.A., op. et loc. ult. cit.
[32]Si pensi, da ultimo, al gruppo politico “Liberi e Uguali”, costola parlamentare del Partito Democratico e, soprattutto, per la sua incidenza sulla stabilità governativa, al gruppo politico “Italia Viva – PSI”.
[33] In definitiva, questa la maggiore utilità scientifica di una tale classificazione, considerare i gruppi parlamentari come «organismi di diritto pubblico», consente chiaramente di distinguere i gruppi politici esterni al Parlamento (i partiti), da quelli che in esso invece si vanno formando, in tal guisa mettendo in luce gli inevitabili profili pubblicistici di tali formazioni politiche, profili che, accogliendo le tesi c.d. «miste», in sede applicativa non dirado sembrano rimanere adombrati. Del resto, come meglio si vedrà a breve, la stessa Consulta, nel ritenere i gruppi parlamentari «espressioni istituzionali del pluralismo politico», sembra abbia ben chiara la loro rilevanza pubblicistica. Se così non fosse, in tutte le decisioni susseguitesi negli anni avrebbe certamente evitato di specificare che si tratta, in ogni caso, di una realtà «istituzionale». La qualifica dei gruppi come “espressioni istituzionali del pluralismo politico” è da ultimo ribadita in Corte cost., ord. n. 60 del 2020. Ma la giurisprudenza è granitica. Si vedano, anche, Corte cost., sentt. n. 174 del 2009; n. 193 del 2005; n. 298 del 2004 e n. 49 del 1998).
[34] È in quest’ottica che sembra doversi leggere la recente riforma del regolamento del Senato del 20 dicembre 2017, la quale, come visto, ha voluto cristallizzare il principio della necessaria identità tra soggetto politico-elettorale e soggetto parlamentare. Di contrario avviso sembra invece essere, da ultimo, E. Rinaldi, Partiti politici, gruppi parlamentari e art. 67 della Costituzione, in Gruppodipisa.it, testo provvisorio della Relazione al Convegno nazionale dell’Associazione Gruppo di Pisa dal titolo “Partiti politici e dinamiche della forma di governo”, svoltosi a Napoli il 14-15 giugno 2019, p. 18, la quale, all’uopo sostiene: «Non è dubbio ovviamente che la libertà del mandato parlamentare non implichi un diritto illimitato di cambiare gruppo o di costituirne uno nuovo, ma mi sembra meritevole di considerazione la circostanza che se uno o più parlamentari lamentino una deviazione del partito dal programma sottoposto agli elettori debbano avere a disposizione una sede in cui confrontarsi democraticamente. Diversamente, una misura che renda dannosa o che comunque limiti la possibilità di cambiare gruppo tende a porsi in rapporto problematico con l’art. 67 Cost.». In linea con tale assunto sono, anche, M. Manetti, Regolamenti di Camera e Senato e la trasformazione dell’assetto politico-parlamentare, in federalismi.it, n. 13/2018, 4-5; e G. Santini, I Gruppi parlamentari all’esordio della XVIII legislatura, in Osservatoriosullefonti.it, n. 3/2018, 22 ss. Come visto, però, sembra opportuno rimarcare, i parlamentari non in linea col partito una sede democratica già ce l’hanno, ed è il «gruppo misto»: luogo, quest’ultimo, spesso sottovalutato, ma che de iure condito appare di per sé in grado di assicurare il rispetto del «triangolo» della rappresentanza politica moderna.
[35] Del resto, una qualche consapevolezza di tale stato delle cose, probabilmente l’ha avuta anche il legislatore della c.d. I Repubblica: l’abrogato art. 3, comma 3, della legge n. 195 del 1974 (legge sul finanziamento pubblico dei partiti), correttamente qualificava i gruppi parlamentari come «rappresentanze parlamentari dei partiti», con ciò mostrando coerenza sistemica e volontà di evitare degenerazioni del circuito «triangolare» della rappresentanza politica moderna. Sul punto, A. Mannino, I partiti politici davanti alla Corte costituzionale, in Forumcostituzionale.it, 3 maggio 2006, 1, non manca di precisare che «la politica nazionale trascende […] l’attività politica che si svolge nell’ambito della società e si identifica con quella compiuta all’interno dell’organizzazione costituzionale dello stato, nella quale i partiti operano in via immediata per mezzo dei propri candidati eletti, riuniti in gruppi parlamentari. Solo in tal modo trova giustificazione l’esclusività della funzione, altrimenti inconcepibile in una società e in un ordinamento pluralisti, che l’art. 49 Cost. riserva ai partiti politici».
[36] Nonostante quanto, anche recentemente, affermato dalla Corte costituzionale. Il riferimento è alla sentenza n. 207 del 2021, in cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento avverso l’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015). Ad essere sospettata era, infatti, la violazione dell’art. 67 della Costituzione, dal momento che, attraverso una serie di obbligazioni contratte da un candidato poi eletto, quest’ultimo si sarebbe impegnato a versare, con costanza, determinate somme a favore del partito. Senza poter in questa sede dilungarsi nelle vicende di merito della suddetta questione di costituzionalità, ciò che più rileva è che, la Consulta, parrebbe nuovamente riaffermare una concezione liberale del rapporto rappresentativo, come tale eccessivamente sbilanciato sulle singole personalità elette e sulle relative prerogative costituzionale. Si legge, infatti, nella pronuncia della Corte che “Come in tutti quelli di derivazione liberale, anche nel nostro ordinamento costituzionale – che pure, all’art. 49 Cost., sottolinea il ruolo essenziale dei partiti per la determinazione della politica nazionale – la garanzia del libero mandato non consente l’instaurazione, in capo ai singoli parlamentari, di vincoli – da qualunque fonte derivino: legislativa, statutaria, negoziale – idonei a incidere giuridicamente sullo status del parlamentare e sulle modalità di svolgimento del mandato elettivo”. Ancora una volta, quindi, finisce per accreditare un’eccessiva sovrapposizione tra il piano dello status parlamentare, come tale garantito dalla libertà del mandato politico, e quello delle modalità di svolgimento del mandato stesso, le quali, al contrario, potrebbero essere regolate da direttive di partito senza con ciò incorrere nella lesione del principio del libero mandato. Continuare a sovrapporre il piano della rappresentanza del corpo elettorale con quello della rappresentanza dei partiti si rivela, ancora una volta, foriero di pressoché totale irresponsabilità politica degli eletti.
[37] In questo, sembrano doversi considerare ancora attuali le osservazioni di G. Negri – G.F. Ciaurro, Gruppi parlamentari, op. cit., 6, secondi i quali «la libertà dei membri del parlamento di associarsi in gruppi è condizionata e limitata da norme costituzionali e regolamentari che presuppongono e prescrivono la formazione di gruppi parlamentari con determinate caratteristiche, ed attribuiscono funzioni di rilevanza generale ai gruppi così costituiti. La costituzione di tali gruppi è intesa come necessaria: se i gruppi non si formassero, gli organi parlamentari non potrebbero costituirsi e tutto il sistema si incepperebbe. Per di più, dette norme non consentono la libertà di «non» associarsi, obbligando i parlamentari che non aderiscono ad alcun gruppo a confluire in un unico gruppo misto». In questo senso, ma soltanto limitatamente ad esso, può valere quanto sostenuto da G.U. Rescigno, Gruppi parlamentari, cit., 796: «in realtà il gruppo misto non è un gruppo parlamentare in senso proprio, ma un espediente tecnico, cui si ricorre per ovviare ad inconvenienti pratici». Tuttavia, l’A., nell’intento di negare qualsivoglia rilevanza pubblicistica ai gruppi parlamentari, giunge a definirlo tale («espediente tecnico») esclusivamente «per consentire ai deputati non legati a gruppi o che non raggiungono il numero minimo prescritto, di partecipare ai lavori delle Camere a parità con gli altri membri».
[38] È quanto si è provato a sostenere in A. Gusmai, Alcune riflessioni sui gruppi parlamentari, op. cit., 38-43. In tal modo, esso dovrebbe e potrebbe realisticamente fungere da luogo di denuncia, ossia da Aula di “vetro” all’interno delle Camere, in grado di rendere trasparente all’osservatore lo stato di benessere/malessere in cui versa il sistema politico. Il variare delle sue dimensioni ed il moltiplicarsi, nel suo seno, di eventuali nuove correnti politiche, appare infatti rappresentare un quadro di sintesi della condizione in cui versa il rapporto fiduciario che lega Parlamento e Governo in un dato momento storico. Pertanto, di conseguenza, sembra assumere le sembianze di un nitido fotogramma, in grado di offrire preziose indicazioni agli elettori e ad altri organi costituzionali circa la stabilità del Governo in carica. E tanto, anche solo per tale ragione legata, per così dire, alla «trasparenza istituzionale», il gruppo Misto (recte: Nazionale) sembra rivelare alcuni aspetti positivi, potendo ancora mantenere una rilevante funzione di garanzia nei confronti del sistema parlamentare: da una parte, infatti, potrebbe essere considerato come l’indice rivelatore di accountability della classe politica, nel senso che appare essere il gruppo “visibile” dal quale cittadini informati possono trarre sicure deduzioni in merito alla capacità delle forze politiche di realizzare obiettivi di programma, sbandierati nelle campagne elettorali. Dall’altra, al contempo, esso rimane, de jure condito, pur sempre l’unica sostanziale garanzia di libertà del singolo parlamentare, il solo spazio pubblico istituzionale, cioè, in cui a trovare riparo è in primis il nucleo duro dell’art. 67 della Carta fondamentale.
[39] Ciò non significa, naturalmente, che in futuro non possano escogitarsi altre soluzioni a garanzia del libero mandato. Purché, però, esse non siano orientate ad isolare l’eletto, parcellizzando la rappresentanza politica con soluzioni dal tenore «individualista».
[40] La titolarità della legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione, seppur timidamente ed in via ipotetica, è stata riconosciuta al singolo parlamentare a partire da Corte cost., sent. n. 379 del 1996. L’astrattezza di tale legittimazione è poi stata confermata dalla Consulta poco dopo, nella ord. n. 177 del 1998. Sul punto, ampiamente, C.P. Guarini, Spunti ricostruttivi sulla (problematica) legittimazione del singolo parlamentare al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in Rivista AIC, n. 4/2017, 8 ss.; e, anche, M.C. Carbone, Legge elettorale e conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: qualche breve considerazione, in Dirittifondamentali.it, n. 1/2018, 7 ss. Diversa, come noto, è l’ipotesi del singolo cittadino in veste di componente «dell’organo costituzionale “corpo elettorale”» (cfr. Corte cost., ord. 284 del 2008), o quella del singolo «nella qualità di cittadino che adempie ai doveri costituzionali di fedeltà e difesa della Repubblica» (Corte cost., ord. 121 del 2011). Casi, questi, in cui la Consulta ha sempre mantenuto un forte atteggiamento di chiusura, non riconoscendo loro alcuna legittimazione ai fini del promovimento del conflitto. In merito, da ultimo, si veda P. Logroscino, La Corte costituzionale ancora sulla “impossibile” legittimazione del singolo cittadino al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (a margine dell’ordinanza 39/2019 della Corte costituzionale), in federalismi.it, n. 8/2019.
[41] Non è possibile qui trattenersi oltre sul punto. È sufficiente dare contezza di un dato. La Corte, con l’ord. n. 17 del 2019 ha: da un lato espressamente riconosciuto ai singoli parlamentari la possibilità di sollevare conflitto di attribuzione; dall’altro ha soltanto implicitamente configurato la medesima possibilità in capo ai gruppi parlamentari (di fatto, nel caso di specie, negandola per vizi formali). Successivamente, con l’ord. n. 60 del 2020, la Consulta sembra essere tornata sui suoi passi, rendendo irrealizzabili le condizioni necessarie affinché il gruppo parlamentare possa effettivamente sollevare il conflitto. Revirement, questo, verificatosi anche nei confronti dei singoli parlamentari (si veda, ex multis, la recente ord. n. 256 del 2021, con cui il giudice delle leggi ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da alcuni deputati appartenenti alla componente politica “L’Alternativa C’è” del gruppo Misto della Camera dei deputati, i quali lamentavano la lesione delle proprie prerogative costituzionali derivante dall’impossibilità di accedere all’Aula in applicazione delle nuove regole poste a presidio della salute pubblica – cosiddetta “certificazione verde Covid-19”). Per una ricostruzione delle problematiche qui solo accennate si veda, tra gli altri, C.P. Guarini, L. Grimaldi, Un altro tassello alle (de)limitazioni soggettive e oggettive del ricorso al conflitto tra poteri per la tutela del giusto procedimento legislativo (ovvero sull’ordinanza della Corte costituzionale n. 60 del 2020), in Nomos. Le attualità nel diritto, fasc. 2/2020.