Un caso celebre di dolo negoziale del terzo: la vendita viziata dal comportamento fraudolento dello schiavo (D. 4, 3, 7 pr.)
Modifica paginaNel presente contributo si intende proporre una nuova chiave di lettura di un celebre passo del Digesto giustinianeo (D. 4, 3, 7 pr.), alla luce del concetto di ”terzo” nel diritto privato romano nonché della peculiare posizione giuridica rivestita dallo schiavo e delle risultanze esegetiche a cui è pervenuta la dottrina romanistica sul tema.
Sommario: 1. La nozione di 'terzo' nel diritto romano: precisazioni; 2. La fattispecie nel dettaglio e i dubbi della dottrina sull’autenticità del passo; 3. L’interpretazione di Maria Floriana Cursi. Risoluzione del problema relativo alla compatibilità del principio di sussidiarietà dell’actio de dolo con quanto sostenuto da Giuliano nella fattispecie concreta; 4. Segue: l’interpretazione di Maria Floriana Cursi. Conclusioni e critica; 5. L’interpretazione di Tommaso dalla Massara. Conclusioni e critica; 6. Una ulteriore possibile soluzione; 7. Conclusioni: la posizione giuridica dello schiavo.
1. La nozione di 'terzo' nel diritto romano: precisazioni
Affrontare il tema del dolo negoziale del terzo nel diritto romano risulta una operazione complessa sotto diversi profili. Già a prima vista, e ciò è una preoccupazione tipica del giurista moderno, si riscontra un evidente problema definitorio. Invero, a differenza di quanto accade nella moderna teoria contrattualistica, nel diritto romano non è possibile rinvenire la definizione del concetto di ‘terzo’[1]. Tale assenza è spiegabile, da un lato, tenendo conto della forma mentis fortemente pragmatica del giurista romano, volta alla soluzione del caso concreto piuttosto che all’astrazione e alla sistemazione concettuale; dall’altro lato, avuto riguardo alla struttura e al regime delle obligationes ex contractu (nella costruzione gaiana).
Su questo secondo punto, che, rispetto al primo, avrebbe bisogno di una più ampia trattazione, non è possibile soffermarsi a lungo nel presente contributo. Basti qui ricordare, nell’àmbito di una evoluzione più volte lumeggiata da autorevole dottrina[2], il ruolo della sponsio quale ‘chiave di volta’ nel cambiamento di configurazione del rapporto obbligatorio.
Già a partire dalle XII Tavole, a differenza dei praedes e dei vades, i quali costituivano forme di eterogaranzia, per cui rispondeva un terzo garante al posto del soggetto in capo al quale gravava il dovere di comportamento, la sponsio, anch’essa peraltro nata quale forma di eterogaranzia, ma a vincolo potenziale e non reale sull’ostaggio, che era invece peculiarità soltanto dei praedes e dei vades, rappresentava un atto per mezzo del quale il debitore poteva assumere simultaneamente il c.d. rapporto di dovere (‘Schuld’) e la relativa responsabilità (‘Haftung’), preannunciando così la struttura dell’obligatio ex contractu classica, avente quale momento centrale la prestazione, caratterizzata dalla patrimonialità e dall’inerenza alla persona del debitore.
In particolare, il carattere personale della prestazione operava non soltanto dal lato passivo, per cui non era più possibile assumersi la responsabilità del fatto del terzo, ma anche dal lato attivo, in modo tale che destinatario della prestazione potesse essere soltanto il soggetto che aveva preso parte al negozio. A ciò conseguiva l’esclusione – peraltro non assoluta[3] – del contratto a favore di terzi nel diritto romano, sintetizzata esplicitamente nella regola ‘alteri stipulari nemo potest’[4] e basata, appunto, sulla necessaria coincidenza tra le parti del rapporto e quelle del negozio.
Come è evidente, a fronte di tale rigidità, il rilievo del soggetto ‘terzo’ non poteva che essere circoscritto ad ipotesi particolari, da valutare caso per caso, senza incorrere in generalizzazioni. Ciò significa, in altri termini, che fornire una definizione del concetto di ‘terzo’ nel diritto romano non soltanto è impresa ardua, ma anche in una certa misura fuorviante.
Pertanto, coerentemente con tali premesse, non si cercherà qui di fornire una definizione di ‘terzo’ suscettibile di fungere da contenitore, bensì si tenterà di precisare il concetto di ‘terzo’ alla luce dell’esegesi di una peculiare nonché celebre fattispecie su cui i Glossatori basarono la distinzione, a noi nota, tra dolus causam dans e dolus incidens [5].
2. La fattispecie nel dettaglio e i dubbi della dottrina sull’autenticità del passo
Il passo è tratto dall’undicesimo libro di commento all’editto di Ulpiano e viene riportato qui di seguito nella sua versione mommseniana:
D. 4, 3, 7 pr. (Ulp. 11 ad ed.): Et eleganter Pomponius haec verba ‘si alia actio non sit’ sic excipit, quasi res alio modo ei ad quem ea res pertinet salva esse non poterit. nec videtur huic sententiae adversari, quod Iulianus libro quarto scribit, si minor annis viginti quinque consilio servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manumissum de dolo actionem (hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut [ex empto] ˂ex vendito> teneri non possit) aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est. et quod minor proponitur, non inducit in integrum restitutionem: nam adversus manumissum nulla in integrum restitutio potest locum habere[6].
Il frammento può essere suddiviso in due parti: nella prima – da ‘Et eleganter…’ a ‘salva esse non poterit’ – Ulpiano riferisce il pensiero di Pomponio sulle parole dell’editto ‘si alia actio non sit’ relative all’actio de dolo e, nello specifico, alla sua sussidiarietà; nella seconda – quindi da ‘nec videtur…’ sino alla conclusione – il giurista severiano riporta invece una sententia di Giuliano su un caso specifico[7].
Ad ogni modo, prima di analizzare dettagliatamente il testo e le sue notevoli implicazioni, risulta opportuno dare conto della dottrina che se ne è occupata, prendendo le mosse da quella meno recente, che ha riservato pesanti critiche al passo in commento.
In particolare, Lenel, nella sua palingenesi, nonché Solazzi e Biondi sulla scia di quest’ultimo, hanno ritenuto il tratto ‘aut… circumscriptus est’ inaffidabile[8].
Altra parte della dottrina tedesca si è invece spinta oltre asserendo la non genuinità dell’ampio segmento che va da ‘hoc enim…’ ad ‘…in integrum restitutionem’[9].
Ulteriori perplessità sono state infine mostrate, soprattutto sotto il profilo della incoerenza del testo, da parte di Van Oven, Brutti, d’Ors[10] e Albanese[11].
Attualmente, al contrario, si è testimoni di una diffusa inversione di tendenza. La dottrina moderna, infatti, è sostanzialmente concorde nell’affermare la genuinità del passo, sulla base di una varietà di argomenti, che qui di seguito si cercherà di meglio chiarire. A tale scopo, è necessaria una previa disamina della fattispecie contenuta in D. 4, 3, 7 pr.
In apertura, Ulpiano afferma che i verba edittali ‘si alia actio non sit’ sono stati intesi elegantemente (‘eleganter’)[12] da Pomponio. Secondo quest’ultimo, con tali parole ci si riferiva al fatto che non si sarebbe potuta tutelare la situazione del deceptus in maniera diversa.
A ciò fa seguito un caso concreto discusso da Giuliano, preceduto però da una affermazione di un certo rilievo – ‘nec videtur huic sententiae adversari, quod Iulianus libro quarto scribit’ – che fa da anello di congiunzione con quanto affermato in precedenza da Pomponio[13]. Si dice, infatti, che non sembra esservi contrasto tra quanto sostiene Pomponio stesso e quanto scritto da Giuliano nel suo quarto libro[14], allorquando prendeva in considerazione il caso di un minore di venticinque anni che, indotto in errore dai fraudolenti consigli del proprio schiavo, lo vendeva ‘cum peculio’[15] ad un altro soggetto, il quale lo avrebbe poi manomesso[16].
Vengono quindi menzionati quattro diversi rimedi processuali[17], nel seguente ordine: I. l’actio de dolo nei confronti del servo liberato, autore del dolo; II. l’azione derivante dal contratto di compravendita esperibile nei confronti del compratore; III. la nullità del contratto di compravendita; IV. la in integrum restitutio.
Si proceda dunque ad esaminare i rimedi processuali appena elencati, illustrando altresì le perplessità avanzate dalla dottrina più risalente in merito al contenuto del testo e le soluzioni di recente proposte dagli studiosi.
I. Per quanto concerne l’actio de dolo, è stato autorevolmente sostenuto da Bernardo Albanese che il suo richiamo nel testo non fosse genuino[18] a fronte di una serie di ragioni. In primo luogo, ci si richiama ad un brano estratto dalle Istituzioni di Gaio, che così recita:
Gai 4, 78: Sed si filius patri aut servus domino noxam commiserit, nulla actio nascitur. nulla enim omnino inter me et eum, qui in potestate mea est, obligatio nasci potest; ideoque et si in alienam potestatem pervenerit aut sui iuris esse coeperit, neque cum ipso neque cum eo, cuius nunc in potestate est, agi potest […].
Secondo Gaio viene meno la responsabilità nossale quando il servo o il figlio soggetto alla potestà paterna commettono un delitto nei confronti del dominus o dell’avente potestà. In questi casi – dice Gaio –, poiché non sorge alcuna obbligazione tra il soggetto a potestà e il titolare della potestà stessa, non potrà concedersi alcuna azione.
Per il grande romanista palermitano, tale testimonianza verrebbe altresì rafforzata da quanto affermato in una costituzione dell’imperatore Gordiano[19]:
C. 2, 30, 2 [Imp. Gordianus A. Solanae]: etsi minor annis, ut adlegas, constituta servum tuum ab eo circumscripta in consilio manumisisti, tamen vindictae impositio, qua libertas iusta munitur, nec obtentu quidem aetatis rescindi potest. indemnitati vero tuae, a manumisso scilicet sarciendae, ab eo cuius iurisdictio est, quatenus iuris ratio permittit, consuli debet [a. 241]).
In questo provvedimento si riporta il caso di un minore di venticinque anni a cui non viene concessa l’azione di dolo contro lo schiavo ingannatore da lui stesso liberato[20]. Questa soluzione, messa in stretta connessione con il principio gaiano sopra riportato, portava l’Albanese a sostenere l’inaffidabilità del richiamo all’actio de dolo nel passo giulianeo.
Contro tale ipotesi si è però efficacemente argomentato – in primis dal Brutti, sino ad arrivare ai recenti contributi di Cursi e dalla Massara[21] – che esiste un testo, tratto sempre dall’undicesimo libro ad edictum di Ulpiano, nel quale si afferma esattamente il contrario, ossia che, analogamente a quanto accade in D. 4, 3, 7 pr., possa essere concessa al deceptus minore di venticinque anni l’azione di dolo (o un’actio utilis[22]) contro lo schiavo[23]. Si tratta di:
D. 4, 4, 11 pr. (Ulp. 11 ad ed.): Verum vel de dolo vel utilis actio erit in id quod minoris interfuit non manumitti: proinde quidquid hic haberet, si non manumisisset, id ei nunc praestabitur. sed et nomine earum rerum, quas dominicas servus manumissus supprimebat, competunt adversus eum actiones ad exhibendum et furti et condictio, videlicet quoniam et manumissus eas contrectabat. ceterum ex delicto in servitutem[24] facto domino adversus eum post libertatem actio non competit: et hoc rescripto divi Severi continetur[25].
Accanto all’actio de dolo e ad un’actio utilis[26] sono indicati nel brano anche altri rimedi processuali, con l’importante limite, però, di non poter esperire alcuna azione nei confronti del manomesso per i delitti commessi da quest’ultimo durante il periodo di schiavitù.
Ora, come si nota, il fatto che il principio gaiano affermato in Gai 4, 78 sia qui richiamato unitamente all’azione di dolo non può essere indenne da conseguenze, pena la non genuinità finanche di D. 4, 4, 11 pr.[27]. Sotto questo profilo, come ha da ultimo ben osservato il dalla Massara, è da sostenere l’idea secondo cui il dolo non sia da annoverare tra i delitti sottoposti al divieto espresso da Gaio[28], in quanto “… mostra una natura latamente delittuale, ma – tenuto conto anche dell’uso piuttosto elastico che nelle fonti si riscontra del termine delictum – al contempo non in tutto assimilabile… ai tipici delicta di furtum, rapina, damnum iniuria datum e iniuria”[29].
II. In ordine al secondo rimedio sopra riportato, quanto espresso dalle parole tra parentesi ‘hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit’[30] indica che in concreto non è stato commesso dolo da parte del compratore; pertanto, non può essere data alcuna azione contrattuale contro di lui (azione contrattuale che, come si è correttamente puntualizzato in passato, non poteva che essere l’actio venditi, e non l’actio empti[31]).
Ad ogni modo, si ponga ora il caso in cui il dolo fosse stato posto in essere anche dall’acquirente: come detto, in questa ipotesi sarebbe stata concessa contro di lui l’azione contrattuale. In altri termini, si sarebbe trattato di una ipotesi di collusio tra lo schiavo ed il compratore[32]. Tale collusio, a parere di chi scrive, si sarebbe potuta manifestare attraverso un preventivo accordo tra lo schiavo e il suo compratore, oppure – in maniera più velata ma altrettanto efficace – sulla base della mera conoscenza del dolo dello schiavo da parte del compratore (in sostanza, quindi, senza alcun preventivo contatto tra questi ultimi). Naturalmente, in entrambe le ipotesi quest’ultimo si sarebbe aggiudicato un vantaggio che doveva interessare in qualche modo il peculium del servo.
È ipotizzabile, infatti, che il compratore, dopo aver manomesso lo schiavo, abbia trattenuto proprio quale contropartita il peculio assieme al quale il servo era stato venduto. Per fare ciò, lo schiavo aveva con una certa probabilità tratto in inganno il suo padrone sull’entità stessa del peculium, facendogli credere che il suo valore fosse inferiore a quello reale. In compenso, l’acquirente si sarebbe così aggiudicato un peculio di importo superiore al prezzo della compravendita[33].
III. Strettamente collegata al richiamo all’actio de dolo è l’affermazione della nullità della compravendita nell’ipotesi in cui il minore di venticinque anni sia stato raggirato dallo schiavo ‘in hoc ipso ut venderet’, ossia “sul fatto stesso di concludere la compravendita”[34]. La stretta connessione tra le due ipotesi si può facilmente ricavare dal passo, quando si afferma in prima battuta ‘… si minor annis viginti quinque consilio servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manumissum de dolo actionem…’, e, successivamente, per mezzo di un ‘aut’, si dice che ‘… aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est…’.
Buona parte della dottrina ha in passato fortemente dubitato dell’affidabilità del richiamo alla nullità della vendita, e ciò sulla base del fatto che due soluzioni differenti – azione di dolo e nullità della compravendita – sarebbero prospettate in forza dello stesso presupposto, l’inganno perpetrato dal servo[35]. Si darebbe così luogo ad una insanabile contraddizione, rendendo il passo sostanzialmente incomprensibile.
Al contrario, la dottrina più recente ha tentato – per così dire – di “salvare” tale passaggio, basandosi su vari argomenti.
In particolare, secondo un recente ed importante contributo di Maria Floriana Cursi[36], le due ipotesi, una sanzionata con l’azione di dolo, e l’altra con la nullità della compravendita, presuppongono naturalmente entrambe la condotta fraudolenta dello schiavo, ma tale condotta inciderebbe diversamente sul negozio, determinando così due differenti situazioni.
Da un lato, affinché l’inganno possa rendere nulla l’emptio-venditio, lo stesso dovrebbe incidere su circostanze determinanti, quale è evidentemente la volontà stessa di concludere il contratto; dall’altro lato, nel caso di applicazione dell’azione di dolo, l’inganno dello schiavo dovrebbe aver riguardo soltanto a profili accessori (quali, ad esempio, l’entità del peculium), in modo tale che non si potrà pervenire alla caducazione del contratto (infatti, in questa ipotesi, la compravendita rimarrebbe valida), ma soltanto all’esposizione del servo – che, si noti bene, non è parte contrattuale – ad una condanna pecuniaria per tramite dell’actio de dolo. A diversità di presupposti sostanziali corrisponde quindi una diversità di rimedi[37].
IV. Per quanto attiene alla in integrum restitutio[38], sono riportate nella chiusa di D. 4, 3, 7 pr. le seguenti parole: ‘Et quod minor proponitur, non inducit in integrum restitutionem: nam adversus manumissum nulla in integrum restitutio potest locum habere’. Ora, è chiara la ragione per cui in questa ipotesi non viene concessa la in integrum restitutio (in primo luogo quella connessa all’età del dominus, tralasciando quella propter dolum)[39]: il favor libertatis la impedisce[40], come impedisce la rimessione in pristino basata sull’arbitratus de restituendo[41] inserito nella formula dell’actio de dolo[42]. Pertanto, lo schiavo manomesso non sarebbe più potuto tornare alla sua condizione di servo del minore di venticinque anni[43].
3. L’interpretazione di Maria Floriana Cursi. Risoluzione del problema relativo alla compatibilità del principio di sussidiarietà dell’actio de dolo con quanto sostenuto da Giuliano nella fattispecie concreta
Dopo aver illustrato nel dettaglio il testo in esame, dando altresì conto di autorevoli opinioni dottrinali – in particolare, quella di Maria Floriana Cursi –, rimane peraltro una questione ancora aperta. Come noto, l’azione di dolo non può essere concessa in presenza di rimedi tipici, in quanto sussidiaria a questi ultimi. E proprio con riguardo a D. 4, 3, 7 pr. si tratta di stabilire se il principio di sussidiarietà dell’actio de dolo, presente nella prima parte del testo (‘si alia actio non sit’), sia compatibile o meno con quanto affermato da Giuliano nella seconda parte. Da questo punto di vista, l’esegesi del brano proposta dalla Cursi non lascia spazio a dubbi. L’actio de dolo è compatibile con tutti gli altri rimedi elencati, poiché:
- il ricorso alla in integrum restitutio è escluso[44];
- la possibilità di esperire l’azione contrattuale contro l’acquirente è anch’essa esclusa;
- il regime dell’azione di dolo stessa e quello della nullità della compravendita sono tra loro compatibili[45].
4. Segue: l’interpretazione di Maria Floriana Cursi. Conclusioni e critica
Risolta anche quest’ultima questione, si può concludere affermando che, attraverso tale rinnovata e pregevole esegesi, Maria Floriana Cursi è riuscita a dimostrare la sostanziale genuinità del passo nella sua interezza[46].
Nonostante ciò, a parere di chi scrive, rimangono ancora dei punti su cui risulta utile soffermarsi.
Invero, a livello meramente formale, il testo viene quasi sempre riportato – e non solo dalla Cursi, beninteso, ma anche dalla maggior parte degli Autori sopra citati nelle note – nella sua versione mommseniana caratterizzata dalla parentesi ‘… (hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit)…’. Tale segno diairetico, a dire il vero, avrebbe però bisogno di essere giustificato (cosa che solitamente la dottrina non fa), in quanto il passo può parimenti essere ricostruito senza l’utilizzo della parentesi, ed a tale ricostruzione conseguono, come si vedrà più avanti, anche modifiche contenutistiche.
A livello sostanziale, invece, il passo manifesta una intrinseca contraddizione – che il Brutti già aveva fatto a suo tempo notare[47], seguito poi anche dalla Cursi[48] – su un punto, che si rivela sì sanabile, ma non senza difficoltà.
Per un verso, infatti, si esclude espressamente l’applicazione nel caso concreto della in integrum restitutio a causa del favor libertatis, in modo tale che lo schiavo già manomesso non ritorni ad essere schiavo a tutti gli effetti; per l’altro verso, invece, si afferma la nullità della vendita, soluzione quest’ultima però che comporterebbe il ritorno del servo allo stato servile, in quanto condurrebbe altresì alla nullità della manomissione.
Pertanto, con la negazione della in integrum restitutio adversus libertatem si favorirebbe lo schiavo manomesso, mentre con l’affermazione della nullità della vendita lo stesso verrebbe posto in una situazione paradossalmente contraria.
Anche in questo caso viene però in soccorso un passo, in tema di manomissioni testamentarie, sulle base del quale la contraddizione sopra descritta può essere superata. Il testo, riportato soltanto nella parte che ai nostri fini interessa, è il seguente:
D. 40, 4, 29 (Scaev. 23 dig.): […] quaesitum est, hi qui testamento libertatem acceperunt utrum liberi an servi sint. respondit filium quidem nihil praeiudicii passum fuisse, si pater eum ignoravit, et ideo, cum in potestate et ignorantis patris esset, testamentum non valere. servi autem manumissi si per quinquennium in libertate morati sunt, semel datam libertatem infirmari contrarium studium favore libertatis est.
Nell’ipotesi descritta dal presente passo, in forza del principio del favor libertatis (comune a D. 4, 3, 7 pr.), gli effetti della manomissione testamentaria non vengono intaccati sebbene sia rilevata la nullità del testamento ab initio.
Pertanto, la nullità dell’atto che è allo stesso tempo presupposto della manomissione non importa necessariamente la nullità di quest’ultima. In questo senso, ipotizzando che il giurista[49] intendesse fare uso della stessa soluzione anche per D. 4, 3, 7 pr.[50], sarà di conseguenza più difficile – anche se non del tutto escluso – dubitare dell’autenticità del richiamo alla nullità della emptio-venditio. Invero, è non tanto sulla genuinità di quest’ultimo richiamo, quanto sul significato stesso di ‘nulla est venditio’ che si snoda un recente e molto pregevole contributo del dalla Massara[51].
5. L’interpretazione di Tommaso dalla Massara. Conclusioni e critica
Ai fini della propria ricerca, quest’ultimo autore prende le mosse dalle parole del Biondi, secondo cui nel diritto romano classico “… non poteva affatto presentarsi ai romani quella distinzione fra dolo causam dans e incidens. L’actio doli, come tutte le azioni romane, aveva un contenuto sempre fisso e invariabile; l’effetto era, in ogni caso, identico: costringere, cioè, il reo a prestare all’ingannato una pena il cui ammontare era calcolato secondo l’id quod interest. Dunque, la questione fra dolo che intacca l’essenza stessa del negozio, e dolo che ne intacca solo gli elementi accidentali o secondari, non poteva proporsi: o l’agire di una persona non aveva i caratteri e la gravità del dolus, ed allora era inesperibile l’actio doli, o si accordava l’esercizio di detta azione ed allora l’effetto era sempre uno e costante, vale a dire attribuire all’offeso una pena equivalente all’id quod interest, mai però la nullità del negozio”[52].
Quanto espresso a modo di obiezione dal Biondi coglie – secondo il dalla Massara – un aspetto fondamentale della questione, relativo alla stessa “proponibilità logica”[53] della distinzione tra dolo determinante e dolo incidente. Si tratta, infatti, di “… un’obiezione che muove dai principi fondamentali del processo formulare: non v’è dubbio infatti che la condemnatio non avrebbe potuto avere per oggetto altro che una somma di denaro; invece, sarebbe stata impensabile una pronuncia che oggi chiameremmo di natura costitutiva, ossia intesa a introdurre per via giudiziale una modificazione della situazione di diritto, tale per cui si pervenga – nell’ipotesi del dolo – all’effetto della caducazione contrattuale”[54]. Ed è proprio su quest’ultimo profilo che l’esegesi del dalla Massara maggiormente si concentra.
Secondo l’importante studioso, l’affermazione per cui la venditio è nulla sarebbe da valutarsi sulla base di un angolo visuale diverso, per quanto ancora conservativo, rispetto a quello utilizzato dalla Cursi. Nello specifico, egli sostiene che la compravendita non si è mai perfezionata, in quanto le parti non sono addivenute ad alcun accordo a causa della condotta fraudolenta dello schiavo[55]. Egli riconsidera il contratto in chiave consensualistica e pone a fondamento di una tale soluzione l’aggettivo nullus-a-um (indefinito in latino; qualificativo, invece, in italiano e nelle altre lingue europee occidentali[56]), a cui i giuristi romani, nella maggior parte dei casi, conferivano un significato diverso da quello a noi noto[57]. Essi intendevano infatti indicare con tale aggettivo una vera e propria assenza del contratto (il contratto letteralmente ‘non è’, oppure ‘nessun contratto’)[58].
A fronte di tali considerazioni, il dalla Massara – nonostante ammetta espressamente come in D. 4, 3, 7 pr. “… sia leggibile la traccia della distinzione tra i due tipi di dolo…”[59] – conclude escludendo la presenza del dolus causam dans nella fattispecie e, più in generale, nello stesso pensiero classico romano. Al contrario, egli ritiene che nel diritto romano sia proponibile soltanto la figura del dolo incidente, sanzionato in forma di condanna pecuniaria nell’id quod interest per mezzo dell’actio de dolo, la quale ultima ritrova la propria eredità nel disposto di cui all’odierno art. 1440 c.c.[60].
Per concludere quanto sino ad ora rappresentato sull’interpretazione del romanista vicentino, non rimane che soffermarsi su due punti che, forse, risultano tuttora non del tutto chiari.
Il primo aspetto concerne il riferimento che il dalla Massara fa a quanto sostenuto dal Van Oven in merito al c.d. “principio classico di irrilevanza del dolo del terzo”[61]. Lo studioso olandese è persuaso che il richiamo alla nullità della compravendita – dovuto probabilmente ad un non molto acuto “… professeur byzantin du IV ou V siècle, nourri de philosophie et de rhètorique et un adhèrant convaincu du dogme de la volontè…”[62] – sia del tutto fasullo in quanto smentisce tale principio.
A questo punto, presumibilmente tentando di fornire base testuale al richiamato principio, il dalla Massara cita D. 4, 3, 1, 2 (celeberrimo brano ulpianeo contenente le definizioni di dolus malus fornite prima da Servio e poi da Labeone), da cui però non è dato ricavare alcunché circa l’irrilevanza del dolo del terzo[63]. Anzi, dalle parole utilizzate dal dalla Massara pare desumersi che tale passo del Digesto fosse già stato riportato dallo stesso Van Oven nel suo contributo, ma di ciò non v’è traccia.
Tuttavia, a parte questa piccola notazione, credo che la strada scelta dal dalla Massara, ovvero quella di riconsiderare il tratto ‘… aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est’ in chiave maggiormente consensualistica, sia quella più consona agli sviluppi del diritto romano classico.
Il secondo punto riguarda invece la struttura stessa del testo latino, così come riportato nell’Editio maior del Mommsen (e anche nell’edizione di Mommsen-Krüger), che crea non pochi problemi. Data l’importanza di tale aspetto, l’intero testo merita di essere nuovamente riletto, ed a ciò viene dedicato il paragrafo che segue.
6. Una ulteriore possibile soluzione
Dato che la prima parte del testo, da ‘Et eleganter…’ a ‘…non poterit’, non comporta problemi alla sua struttura complessiva, la rilettura si limiterà alla seconda parte (per intederci, quella dove viene riportata la sententia di Giuliano), questa volta però senza prendere a base la versione mommseniana[64]. Dunque:
D. 4, 3, 7 pr. (Ulp. 11 ad ed.): […] nec videtur huic sententiae adversari, quod Iulianus libro quarto scribit, si minor annis viginti quinque consilio servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manumissum de dolo actionem. hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut [ex empto] ˂ex vendito> teneri non possit, aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est. et quod minor proponitur, non inducit in integrum restitutionem: nam adversus manumissum nulla in integrum restitutio potest locum habere.
Nello specifico, senza apportare alcuna potatura al testo, si è eliminata la parentesi ‘… (‘hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit’)…’ e si è inserito il punto fermo dopo ‘… dandam in manumissum de dolo actionem’, in modo da scomporre la prima frase (da ‘nec videtur huic sententiae adversari, quod Iulianus libro quarto scribit, si minor annis viginti quinque consilio servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manumissum de dolo actionem.’) dalla seconda (‘hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit, aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est. et quod minor proponitur, non inducit in integrum restitutionem: nam adversus manumissum nulla in integrum restitutio potest locum habere.’)[65].
Ora, questa netta separazione tra le due proposizioni impone una serie di riflessioni. A livello puramente formale e linguistico, nel secondo periodo l’espressione ‘… nullam esse venditionem…’ è parallela a ‘… carere dolo emptorem…’ ed entrambe sono rette da ‘… sic accipimus…’; nel primo periodo, invece, ‘… dandam... actionem’ dipende da ‘… Iulianus... scribit…’: ciò evidentemente non solleva alcun contrasto tra le due locuzioni. In altre parole, l’alternativa (introdotta per mezzo dell’‘aut’) non sarebbe più riscontrabile tra ‘… si minor annis viginti quinque consilio servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manumissum de dolo actionem…’ e ‘… aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est…’, come accade nella prime due possibili interpretazioni del testo, ma tra ‘… carere dolo emptorem…’ e ‘… aut nullam esse venditionem…’. In questo senso, come si può notare, l’eliminazione della parentesi ‘… (‘hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit’)…’ dal testo porta con sé alcuni cambiamenti contenutistici.
Sotto questi profili, stando alla presente proposta di ricostruzione del passo, è molto probabile che il tratto da ‘hoc enim sic accipimus…’ a ‘… locum habere’ non sia di derivazione giulianea, come anche la serie di rimedi in esso contenuti, ma sia nella sua totalità di pugno ulpianeo. Ciò vale a dire che Giuliano avrebbe soltanto proposto quale rimedio l’actio de dolo, e non gli ulteriori elencati in successione nel brano, che sarebbero invece invenzione di Ulpiano.
Un primo forte indizio in tale direzione è dato dall’espressione ‘hoc enim sic accipimus…’[66], con cui il giurista di Tiro intendeva evidentemente introdurre le proprie puntualizzazioni, le quali non potevano che avere ad oggetto un aspetto problematico non risolto da Giuliano e relativo nello specifico alla sussidiarietà dell’actio de dolo.
In questo senso, si può ipotizzare che Ulpiano, dopo aver citato Pomponio e il principio ‘si alia actio non sit’ e aver riportato la oramai nota sententia di Giuliano – nella quale, sebbene venisse affermata la concessione dell’azione di dolo, non si teneva di per sé conto del carattere sussidiario della stessa –, abbia, proprio in conseguenza di tale lacuna, tentato di rendere compatibile il principio edittale della sussidiarietà con il parere giulianeo.
Al fine di rendere coerente quanto descritto da Giuliano con il principio appena richiamato, è lecito pensare che Ulpiano abbia appunto elencato un ventaglio di rimedi che, almeno in astratto, potevano tutti essere preferiti all’actio de dolo nel caso concreto. Tali rimedi consistevano proprio nell’actio venditi contro il compratore e nell’in integrum restitutio.
Per quanto riguarda l’actio venditi, il giurista severiano doveva dare per presupposto che questa non fosse configurabile per due ragioni, alternative tra loro (si veda in questo senso l’‘aut’), ossia:
- nell’ipotesi – rappresentata dall’espressione ‘… carere dolo emptorem…’ – in cui mancasse il dolo dell’acquirente stesso (in particolare quando quest’ultimo era ignaro dell’inganno perpetrato dallo schiavo nei confronti del venditore);
- nel caso – rappresentato dall’espressione ‘… nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet…’ – ove la natura dell’errore in cui era stato indotto il minore di venticinque anni impedisse di per se stessa la vendita.
A differenza del primo punto, che appare chiaro nella sua ratio, il secondo punto merita di essere osservato più da vicino.
Il senso dell’espressione ‘… nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet…’ potrebbe meglio comprendersi tenuto conto della riflessione che i giuristi romani hanno sviluppato, soprattutto a partire da Labeone, sul profilo consensualistico nei contratti[67]. Ulpiano certamente conosceva bene tale dibattito ed è molto probabile che egli abbia, proprio alla luce di ciò, tentato di dare delle solide fondamenta alla propria argomentazione. In specie, sono persuaso dal fatto che le parole sopra richiamate siano manifestazione di una certa attenzione ulpianea alla prospettiva consensualistica, già da quest’ultimo evocata in altri testi della compilazione[68], e in particolare in D. 18, 1, 9 pr. (Ulp. 28 ad Sab.)[69], dove in apertura egli afferma chiaramente che ‘In venditionibus et emptionibus consensum debere intercedere palam est: ceterum sive in ipsa emptione dissentient…, emptio imperfecta est…’.
Questo passo è, come noto, fondamentale ai fini della teoria dell’errore in tema di compravendita[70], e, nei limiti di quanto a noi qui interessa, può essere invocato per un confronto con D. 4, 3, 7 pr. Mi sembra infatti che si possa riscontrare, valorizzando il tutto in chiave maggiormente consensualistica, una certa concordanza tra le seguenti espressioni[71]:
- ‘… in hoc ipso ut venderet…’ (D. 4, 3, 7 pr.) e ‘… in ipsa emptione…’ (D. 18, 1, 9 pr.);
- ‘… nullam esse venditionem…’ (D. 4, 3, 7 pr.) ed ‘… emptio imperfecta est…’ (D. 18 1, 9 pr.), incisi da considerare equivalenti e che stanno a significare che la fattispecie giuridica della compravendita non si è perfezionata[72].
Prendendo le mosse da D. 18, 1, 9 pr., è evidente come qui il dissenso verta sulla natura stessa del contratto concluso (‘… in ipsa emptione…’) e sia cagionato da quello che la dottrina identifica con il termine error in negotio (che, nel caso di specie, viene definito error in ipsa emptione)[73], esempio quest’ultimo – se volessimo mutuare il linguaggio giuridico moderno – di errore ostativo (o errore sulla dichiarazione), che rende l’emptio, appunto, imperfecta[74].
Nel diritto romano, tuttavia, come si è accennato, la prospettiva dell’errore è fortemente permeata dall’elemento consensualistico; pertanto, ciò che conta è la presenza o meno del consenso sul regolamento d’interessi convenuto. Se il consenso manca o se vi è dissenso[75], la fattispecie giuridica non può essere integrata.
Ciò precisato su D. 18, 1, 9 pr., a me sembra che anche il richiamo alla nullità della vendita in D. 4, 3, 7 pr. possa essere spiegato in analoghi termini[76]. Il dominus minore di venticinque anni, sulla base dell’influsso fraudolento dello schiavo[77], potrebbe non essersi reso conto di aver venduto il suo stesso servo, essendo caduto in errore sulla portata della propria dichiarazione.
Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che pensasse ad una locatio rei – ovvero di dare temporaneamente a godimento lo schiavo dietro il pagamento di un corrispettivo –, mentre invece concludeva, non rendendosene conto, un contratto di compravendita. Si tratterebbe pertanto di un errore ostativo unilaterale, avente ad oggetto la natura stessa del negozio concluso e produttivo di dissenso rilevante ai fini della mancata integrazione della fattispecie giuridica[78]. Anche qui perciò, come nella soluzione proposta dal dalla Massara, la compravendita non è mai venuta ad esistenza.
Sebbene vi sia la consapevolezza che una tale soluzione può essere avanzata soltanto con cautela, si può affermare, in conclusione, che la stessa, oltre ad aver reso forse giustizia all’elemento testuale, eliminando la parentesi (hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit), si rivela altresì maggiormente aderente alla linea di pensiero dei giuristi romani sul problema del consenso.
Portata a termine la complessa esegesi del passo, ora non resta che concentrarsi sulla posizione (giuridica) del servo, fondamentale ai fini della presenta ricerca.
7. Conclusioni: la posizione giuridica dello schiavo
Lo schiavo, nel caso di specie, si trova in una posizione peculiare. Egli è tanto res quanto uomo capace, poiché dotato di astuzia, di indurre altri in errore al fine di guadagnarsi la libertà[79]. Egli è quindi, in quanto res, oggetto del contratto, e in quanto uomo, autore del dolo. Ed ancora, poiché non è di certo parte contrattuale, deve giocoforza concludersi che egli è terzo rispetto al negozio[80].
Ciò considerato, si faccia ulteriormente una distinzione tra i rimedi considerati di possibile applicazione in D. 4, 3, 7 pr., ovvero l’actio de dolo e la nullità della compravendita, il tutto alla luce delle interpretazioni del testo illustrate nei precedenti paragrafi.
Per quanto concerne l’actio de dolo – caratterizzata da una intentio in personam scripta che, unitamente alla previsione dell’infamia in caso di condanna, imponeva l’obbligo di indicare precisamente l’autore del dolo –, il fatto che la condotta fraudolenta fosse stata posta in essere dalla controparte contrattuale o da un terzo estraneo al contratto non rilevava giuridicamente: l’importante era che venisse sanzionato l’autore del dolo, chiunque esso fosse[81] (naturalmente, come si è più volte prospettato, se il dolo fosse comune al compratore, egli risponderebbe a titolo contrattuale). In questo senso, pertanto, a prescindere dalla soluzione del caso concreto che si ritenga più verosimile, limitatamente all’actio de dolo non vi sarebbe comunque nulla da obiettare.
Al contrario, nell’ipotesi della nullità della vendita si devono distinguere due diversi effetti, corrispondenti il primo alla soluzione facente capo alla Cursi (a), e il secondo alla soluzione del dalla Massara (b) nonché a quella proposta nel presente contributo (c), sopra ampiamente illustrate. Pertanto:
a) sulla base della soluzione della Cursi, si avrebbe la nullità del contratto di compravendita a causa del dolus causam dans di un terzo. Ciò significa, da un lato, che il compratore, ignaro del comportamento fraudolento del terzo, deve subire a proprio svantaggio gli effetti di tale condotta (profilo quindi relativo alla tutela dell’affidamento); mentre, dall’altro lato, enfatizzando il rilievo del dolo del terzo – in caso di dolo determinante –, si rinviene la volontà di proteggere il deceptus contro l’inganno da lui subito (e ciò pur sempre a fronte dell’esigenza inderogabile di mantenere in condizione di libertà lo schiavo manomesso). Se la questione della tutela dell’affidamento non risulta essere decisiva[82], molto più problematico è invece giustificare una tale soluzione alla luce del principio di irrilevanza del dolo del terzo. In quest’ultima ipotesi, quindi, delle due l’una: o si ammette la nullità della vendita come eccezione a tale principio, oppure si deve propendere per un'altra soluzione;
b) con riguardo alla soluzione del dalla Massara, le ultime perplessità non possono sussistere, in quanto le volontà delle parti, a causa del dolo del servo, non si sono mai incontrate e il contratto, pertanto, non è venuto ad esistenza. Stando a questa ipotesi, la prospettiva dell’azione di dolo e quella ove si afferma che la venditio è nulla si collocano su due piani diversi tra loro, sulla base di presupposti del tutto differenti, per cui “… poco importa che la “causa impediente sia ravvisabile nell’attività della controparte oppure in quella del terzo”[83]. Naturalmente, anche in questo caso, l’esigenza di base è quella di mantenere in libertà il manomesso;
c) con riguardo, infine, alla mia ipotesi, nulla diverge in termini di effetti rispetto a quanto sostenuto dal dalla Massara. Come si è visto, le differenze rispetto all’interpretazione dell’importante studioso si risolvono su altri piani.
[1] Sebbene non sia presente alcun termine latino equivalente alla nozione a noi usuale di ‘terzo’, è utile menzionare qui di seguito alcune espressioni degne di nota, tra le quali: a) tertius (nelle varie declinazioni), lemma che naturalmente può fuorviare, ma che, al contrario, o funge da nome proprio (come, ad esempio, in D. 28, 5, 16) o da aggettivo riguardante situazioni diversificate tra loro, peraltro non riferibili a una generica terza parte rispetto al contratto (cfr. D. 19, 2, 24, 4); b) alter (nelle varie declinazioni), lemma che nelle fonti è forse quello che più si avvicina al concetto di ‘terzo’ come lo si intende: si veda, ad esempio, D. 4, 3, 7, 6; D. 44, 4, 2, 1; D. 45, 1, 38, 17; c) alienus (nelle varie declinazioni), rinvenibile in D. 44, 4, 11 pr.
[2] Si veda, per tutti, M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, Giuffrè, 1990, p. 501 ss.
[3] Era ad esempio concesso al terzo beneficiario la possibilità di esperire, sebbene in casi eccezionali e comunque non prima della fine del III secolo d.C., una actio utilis.
[4] D. 45, 1, 38, 17 (Ulp. 49 ad Sab.): Alteri stipulari nemo potest, praeterquam si servus domino, filius patri stipuletur: inventae sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest: ceterum ut alii detur, nihil interest mea. plane si velim hoc facere, poenam stipulari conveniet, ut, si ita factum non sit, ut comprehensum est, committetur stipulatio etiam ei, cuius nihil interest: poenam enim cum stipulatur quis, non illud inspicitur, quid intersit, sed quae sit quantitas quaeque condicio stipulationis.
La letteratura sul tema, come si può immaginare, è vastissima; pertanto, è il caso di ricordare soltanto i contributi principali: G. WESENBERG, Verträge zugunsten Dritter: Rechtsgeschichtliches und Rechtsvergleichendes, Weimar, Böhlau, 1949 (con precedente letteratura); H. ANKUM, Une nouvelle hypothèse sur l’origine de la règle «alteri dari stipulari nemo potest», in Ètudes offertes à Jean Macqueron, Aix-en-Provence, Facultè de Droit et des Sciences Èconomiques, 1970, p. 21 ss.; M. KASER, Zur Interessenbestimmung bei den sogenannten unechten Verträgen zugunsten Dritter, in H. Hübner-E. Klingmüller-A. Wacke (Hrsg.), Festschrift für Erwin Seidl zum 70. Geburtstag, Köln, Peter Hanstein Verlag, 1975, p. 75 ss. (ora anche in M. KASER, Römische Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode, Wien-Köln, Böhlau, 1986, p. 197 ss.); M. TALAMANCA, s.v. Obbligazioni (dir. rom.), in EdD, 29, 1979, p. 1 ss.; O. BEHRENDS, Überlegungen zum Vertrag zugunsten Dritter im römischen Privatrecht, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, V, Milano, Giuffrè, 1984, p. 1 ss. (ora anche in ID., Institut und Prinzip. Ausgewählte Aufsätze, II, herausgegeben von M. Avenarius, R. Mayer-Pritzl und C. Möller, Wallstein, Göttingen, 2004, p. 839 ss.); W. BAYER, Der Vertrag zugunsten Dritter, Tübingen, Mohr Siebeck, 1995, p. 5 ss.; G. FINAZZI, Il contratto a favore di terzo proprio nell’esperienza giuridica romana, in C. Russo Ruggeri (cur.), Studi in onore di Antonino Metro, II, Milano, Giuffrè, 2009, p. 423 ss.; da ultimo, A. TORRENT RUIZ, Los contratos a favor de terceros. Del derecho romano a los Principles, Definitions and Model Rules of the European Private Law, Madrid, Edisofer, 2015, p. 11 ss.
[5] Per citare i principali contributi: S. SOLAZZI, Studi sull’‘actio de peculio’, II, in BIDR, 18, 1906, p. 229 ss.; G. LONGO, Contributi alla dottrina del dolo, Padova, Cedam, 1937, p. 20 ss.; J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, in Studi in memoria di Emilio Albertario, I, Milano, Giuffrè, 1953, p. 273 ss.; P. STEIN, Fault in the formation of contract in Roman Law and Scots Law, Edinburgh-London, Oliver and Boyd, 1958, p. 88 ss.; B. ALBANESE, La sussidiarietà dell’actio de dolo, in AUPA, 28, 1961, p. 188 ss.; A.S. HARTKAMP, Der Zwang im römischen Privatrecht, Amsterdam, Hakkert, 1971, p. 140 ss.; M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, Milano, Giuffrè, 1973, p. 11 ss.; M.G. ZOZ, ‘Restitutio in integrum’ e manomissioni coatte, in SDHI, 39, 1973, p. 125 ss.; B. KUPISCH, ‘In integrum restitutio und vindicatio utilis’ bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, Berlin-New York, de Gruyter, 1974, p. 250 ss. (su questo lavoro risulta molto utile anche la recensione di G. CERVENCA, in Labeo, 24, 1978, p. 213 ss.); A. WACKE, ‘Circumscribere’, gerechter Preis und die Arten der List, in ZSS, 94, 1977, p. 237 ss.; ID., Kannte das Edikt eine ‘in integrum restitutio propter dolum’?, in ZSS, 88, 1971, p. 111 ss.; M. KASER, Zur ‘in integrum restitutio’, besonders wegen metus und dolus, in ZSS, 94, 1977, p. 144, nt. 158; A. D'ORS, Una accion de dolo dada al menor contra su esclavo manumitido: una revision de Ulp. 4.3.7 pr. y 4.4.11 pr., in SDHI, 46, 1980, p. 31 ss.; G. MACCORMACK, Dolus in decisions of the mid-classical jurists (Iulian-Marcellus), in BIDR, 96-97, 1993-1994, p. 88; E. STOLFI, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio, II. Contesti e pensiero, Milano, LED Edizioni Universitarie, 2002, p. 260 ss.; S. MARTENS, Durch Dritte verursachte Willensmängel, Tübingen, Mohr Siebeck, 2007, p. 87 ss. e 103 ss., con attenzione soprattutto agli sviluppi nel diritto intermedio e ‘Dogmengeschichte’; M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, Napoli, Jovene, 2008, p. 71 ss. (gli stessi rilievi sono presenti in C. Cascione-C.M. Doria (cur.), Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, II, Napoli, Ed. Scientifica, 2007, p. 1229 ss.); T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, in L. Garofalo (cur.), ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di Mario Talamanca, II, Padova, Cedam, 2011, p. 609 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, in L. Garofalo (cur.), Tutele rimediali in tema di rapporti obbligatori. Archetipi romani e modelli attuali, Torino, Giappichelli, 2015, p. 307 ss.; E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, in AUPA, 59, 2016, p. 113 ss.
[6] O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889 [rist. Roma 2000], § 385, c. 466.
[7] Tuttavia, secondo E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, cit., p. 122, la casistica dell’opera giulianea “… in genere non sembra riprodurre questioni reali sottoposte alla valutazione del giurista”.
[8] Rispettivamente O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, cit., § 385, c. 466, nt. 1, che cita il Noodt; S. SOLAZZI, Studi sull’‘actio de peculio’, II, cit., p. 242, nt. 1; B. BIONDI, Dolus causam dans e incidens, in Scritti giuridici, 3, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 301-303 (precedentemente in Dir. comm. 2, 1912, p. 13 ss.), p. 302, nt. 1. Ritiene invece genuino questo tratto K.A. VON VANGEROW, Lehrbuch der Pandekten, III, Marburg u. Leipzig, Elwert, 18697, p. 277 ss.
[9] Cfr. rispettivamente E. HUSCHKE, Weitere Beiträge zur Pandektenkritik, in ZSS, 9, 1888, p. 354 ss.; G. BESELER, Einzelne Stellen, in ZSS, 45, 1925, p. 435; K. HELDRICH, Das Verschulden beim Vertragsabschluβ im klassischen römischen Recht und in der späteren Rechtsentwicklung, Leipzig, Weicher, 1924, p. 17. Per G. LONGO, Contributi alla dottrina del dolo, cit., p. 21 ss., invece, è da ritenere sospetto il tratto ‘hoc enim… circumscriptus est’.
[10] In ordine, J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., p. 278 ss., vede nel tratto ‘aut… circumscriptus est’ un glossema bizantino, su cui sarebbe poi intervenuto un primo sconosciuto annotatore, il quale avrebbe escluso l’azione derivante dal contratto soltanto a scopi esplicativi, per poi lasciare addirittura spazio a un successivo e non specificato autore grazie al quale il testo ci sarebbe giunto con il richiamo all’impossibilità della restitutio in integrum (sulle osservazioni del Van Oven, prende ampiamente posizione T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 627 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 322 ss.). Per M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., p. 21 ss., anche sulla base della dottrina meno recente, il richiamo alla nullità della vendita non è da considerarsi autentico. Da ultimo, anche per A. D'ORS, Una accion de dolo dada al menor contra su esclavo manumitido: una revision de Ulp. 4.3.7 pr. y 4.4.11 pr., in SDHI, 46, 1980, p. 36, è da escludere la classicità della nullità della vendita.
[11] B. ALBANESE, La sussidiarietà dell’actio de dolo, cit., p. 190 ss. L’eminente autore, in particolare, ritiene rimaneggiato il passo sia con riferimento alla nullità della vendita sia con riguardo all’azione di dolo.
[12] Su ‘eleganter’ si veda da ultimo E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, cit., p. 141 ss., che, proprio con riferimento al passo in commento, afferma, in contrasto con altre opinioni, che “l’elegantia è piuttosto, qui come altrove, una qualifica che attiene alla brillantezza non solo della formulazione, ma anche della scelta (etimologicamente) di una certa soluzione giuridica (rispetto, evidentemente, ad altre in astratto praticabili), e quindi del ragionamento che vi era sotteso e in essa veniva riversato in modo preciso e perentorio…”. Su ‘eleganter’ come connesso “al concetto di ‘scelta’ [eligere] di una opinione su altre logicamente concorrenti”, si rinvia a M. MIGLIETTA, «Servius respondit». Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana (Prolegomena I), Trento, Università degli Studi di Trento, 2010, p. 150 ss. e nt. 213, ove ampia bibliografia.
[13] Persuasivo è quanto sostenuto da T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 631 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 325, secondo cui “la citazione di Giuliano è… riportata da Ulpiano con la preoccupazione che dalla sua lettura non risulti intaccata la regola generale subito prima espressa”.
[14] Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, cit., § 49, c. 325.
[15] Il fatto che assieme allo schiavo venisse venduto anche il peculium di quest’ultimo era considerata una “Ausnahme”; infatti, nella normalità dei casi, il peculium dello schiavo sarebbe rimasto nella disponibilità del venditore (cfr. D. 21, 2, 3, nonché D. 18, 1, 29 ss.). Sul punto si veda S. HEINEMEYER, Der Freikauf des Sklaven mit eigenem Geld – Redemptio suis nummis, Berlin, Duncker & Humblot, 2013, p. 108 ss., la quale cita proprio come eccezione a tale regola D. 4, 3, 7 pr. (p. 108, nt. 192). Sempre per quanto concerne questo testo non vede il trasferimento del peculium come assoluta eccezione A. WACKE, Peculium non ademptum videtur tacite donatum. Zum Schicksal des Sonderguts nach der Gewaltentlassung, in Iura. Rivista internazionale di diritto romano e antico, 42, 1991, p. 65, nt. 49.
In ogni caso, per una panoramica più ampia sulla questione, cfr. F. REDUZZI MEROLA, ‘Servo parere’. Studi sulla condizione giuridica degli schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, Napoli, Jovene, 1990, p. 58 ss., p. 87 ss. e p. 278.
[16] Si veda sul punto l’osservazione di E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, cit., p. 121, nt. 32.
[17] Si noti bene, però, che la in integrum restitutio è pur sempre uno strumento magis imperii quam iurisdictionis (D. 50, 1, 26 pr. [Paul. 1 ad ed.]), pertanto, il termine ‘processuali’, è stato utilizzato in senso lato e per comodità espositiva.
[18] Cfr. B. ALBANESE, La sussidiarietà dell’actio de dolo, cit., p. 190 ss. Concorda G. LONGO, Sul regime giustinianeo dell’actio de dolo, cit., p. 769.
[19] Cfr. B. ALBANESE, La sussidiarietà dell’actio de dolo, cit., p. 202 ss.
[20] A sostegno della pretesa del minore parrebbe presentarsi la sola eventualità di un rimedio in sede di cognitio extra ordinem.
[21] Rispettivamente, quindi, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., p. 29 ss.; M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 74 ss.; T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 642 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 336 ss.
[22] Sono enunciate anche ulteriori alternative: si parla infatti di azioni ad exhibendum, condictio e actio furti, con l’unico limite della non esperibilità dell’azione nei confronti del manomesso per i delitti commessi quando era ancora schiavo.
[23] Anche in questo caso, a causa del favor libertatis, non può essere concessa la in integrum restitutio.
[24] Anche ‘in servitute’. Si veda Mo.-Kr., nt. 5.
[25] O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, cit., § 402, c. 474.
[26] La quale, come afferma T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 644 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 338, dovrebbe essere modellata sull’actio de dolo, nonostante ciò si ponga apparentemente in contraddizione con il principio di sussidiarietà. Su tali argomenti si rinvia a A. WATSON, Actio de dolo and actiones in factum, in ZSS, 78, 1961, p. 393 ss.
[27] Così B. ALBANESE, La sussidiarietà dell’actio de dolo, cit., p. 196. Contra però M. KASER, Zur ‘in integrum restitutio’, besonders wegen metus und dolus, cit., p. 144, nt. 158.
[28] T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 644 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 338 ss. Così anche M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 76 ss. In precedenza e con questa prospettiva si veda M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., p. 33, per il quale “dal punto di vista teorico, l’impossibilità di configurare un vincolo obbligatorio tra dominus e sottoposto, che è alla base della formulazione gaiana, non viene messa in discussione. Infatti, un vero e proprio vincolo obbligatorio – sia pure sui generis – nasce dal dolo soltanto dopo la causae cognitio del pretore, cioè, nel nostro caso, quando egli concede l’azione contro lo schiavo manomesso: può essere considerato un vincolo tra liberi”.
[29] Così T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 645 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 339.
[30] Certo, il fatto che nell’edizione mommseniana queste parole siano tra parentesi sembra, da un lato, renderle meno importanti, mentre dall’altro porta a riflettere. In effetti, un incipit come ‘hoc enim sic accipimus…’ non può che far pensare al fatto che ci si trovi di fronte a un tentativo di spiegazione promosso da Ulpiano stesso, al fine di meglio chiarire la fattispecie. Sul punto, però, si veda più ampiamente infra, punto B.5), ove si propone una ulteriore possibile soluzione del passo in esame.
[31] Tra i vari si vedano J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., p. 277, e A. WACKE, ‘Circumscribere’, gerechter Preis und die Arten der List, cit., p. 236 ss. Più di recente anche T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 632 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 327.
[32] Per quanto concerne la collusio in generale, sia in àmbito sostanziale sia in àmbito processuale, si rinvia, da ultimo, a R. SCEVOLA, La collusio nella prospettiva della giurisprudenza classica: origini storiche, aspetti concettuali e profili rimediali, in SC, 27, 2014, p. 237 ss. Molto più risalente, ma ancora fondamentale sull’argomento è lo studio di T. MAYER-MALY, «Collusio» im Zivilproceβ, in ZSS, 71, 1954, p. 242 ss.
Nel libro e nel titolo delle Pandette di cui ci si sta occupando (D. 4, 3) sono presenti espresse ipotesi di collusio. Esse si trovano in D. 4, 3, 7, 9 (Ulp. 11 ad ed.): Si dolo malo procurator passus sit vincere adversarium meum, ut absolveretur, an de dolo mihi actio adversus eum qui vicit competat, potest quaeri. et puto non competere, si paratus sit reus transferre iudicium sub exceptione hac ‘si collusum est’: alioquin de dolo actio erit danda, scilicet si cum procuratore agi non possit, quia non esset solvendo, ed in D. 4, 3, 5 (Ulp. 11 ad ed.): Ideoque si quis pupillus a titio, tutore auctore colludente, circumscriptus sit, non debere eum de dolo actionem adversus Titium habere, cum habeat tutelae actionem, per quam consequatur quod sua intersit. plane si tutor solvendo non sit, dicendum erit de dolo actionem dari ei.
[33] Cfr. T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 634 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 329. La stessa ipotesi, anche se meno sviluppata, era già stata avanzata molto tempo fa da J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., p. 276. Contra M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., p. 22, nt. 24, secondo cui tale ipotesi sarebbe priva di riscontro nel testo. Più conservativa, invece, M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 78 ss. Da ultimo, concorda con le osservazioni del dalla Massara, E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, cit., p. 121 ss.
Quale alternativa alla soluzione sopra proposta nel testo, è stato anche ipotizzato che l’inganno perpetrato dallo schiavo avesse ad oggetto l’inclusione stessa del peculium nel contratto di compravendita. In questo senso, A. WACKE, ‘Circumscribere’, gerechter Preis und die Arten der List, cit., p. 237 ss., e A. D'ORS, Una accion de dolo dada al menor contra su esclavo manumitido: una revision de Ulp. 4.3.7 pr. y 4.4.11 pr., cit., p. 33 ss.
[34] Questa è la traduzione dell’espressione fornita da S. SCHIPANI (cur.), Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae, I, 1-4, Milano, Giuffrè, 2005, p. 298. Nella traduzione tedesca (O. BEHRENDS-R. KNÜTEL-B. KUPISCH-H.-H. SEILER (Hrsg.), Corpus Iuris Civilis. Text und Übersetzung, cit., p. 361), la stessa espressione viene similmente tradotta con “… gerade in dem Punkt, daβ er verkaufte…”.
[35] Cfr., tra gli altri, J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., p. 278.
[36] M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 78 ss.
[37] Sostiene M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 78 ss., che Giuliano “ha distinto un’incidenza parziale del dolo sulla vendita, nel primo caso, da un rilievo determinante, nel secondo… E allora possiamo ritenere che nel primo caso il consiglio fraudolento dello schiavo possa riguardare profili accessori quali… il trasferimento del peculio – elemento che nel passo è espressamente richiamato, con riflessi indiretti sul prezzo della vendita –; nel secondo, invece, possa aver determinato il minore a vendere lo schiavo. La differenza tra le due fattispecie giustifica, a questo punto, il diverso rimedio suggerito dal giurista, rendendo compatibile la nullità della vendita con la concessione dell’azione di dolo nei confronti dello schiavo”. In questo senso, anche se in precedenza, A. WACKE, ‘Circumscribere’, gerechter Preis und die Arten der List, cit., pp. 237-238. Sembra aderire a questa interpretazione anche E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, cit., p. 122. Contra, da ultimo, T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 651 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 344 ss.
Per quanto concerne la prospettiva rimediale in ordine alla nullità della vendita (causata dal dolo determinante), è verosimile che fosse esperibile il rimedio generale della condictio da parte del venditore minore di venticinque anni nei confronti del compratore. Tale condictio doveva evidentemente servire quale rimedio a fronte di un arricchimento privo di giusta causa. Sposa questa soluzione M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 80, nt. 38 (con ulteriore letteratura a nt. 40), la quale cita, a sostegno della propria tesi, D. 4, 4, 48, 1 (Paul. 1 sent.): ‘minor ancillam vendidit: si eam emptor manumiserit, ob hoc in integrum restitui non poterit, sed adversus emptorem quanti sua interest actionem habebit’, in cui si parla di una actio adversus emptorem quanti sua interest, nella qual ultima sarebbe appunto ravvisabile il rimedio della condictio. Sull’argomento puntuali osservazioni di R. FERCIA, Il contratto annullabile e la sua ‘ombra’: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, in L. Garofalo (cur.), ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di Mario Talamanca, II, cit., p. 553 ss.
[38] Classici studi sulla in integrum restitutio sono i seguenti: E. LEVY, Zur Lehre von den sog. ‘actiones arbitrariae’, in ZSS, 36, 1915, p. 1 ss.; ID., Zur nachklassischen ‘in integrum restitutio’, in ZSS, 68, 1951, p. 410 ss. (entrambi anche in Gesammelte Schriften, I, Köln-Graz, 1963, rispettivamente 321 ss. e 446 ss.); M. LAURIA, ‘Iurisdictio’, in Studi in onore di Pietro Bonfante, II, Milano, Treves, 1930, p. 479 ss.; E. CARRELLI, L’‘intercessio’ della donna e la ‘restitutio in integrum’ del creditore, in SDHI, 3, 1937, p. 305 ss.; ID., ‘Decretum’ e ‘sententia’ nella ‘restitutio in integrum’, in AUBA, 1, 1938, p. 129 ss.; ID., Sul ‘beneficium restitutionis’, in SDHI, 4, 1938, p. 5 ss.; G. CERVENCA, Studi vari sulla «restitutio in integrum», cit.; L. RAGGI, La ‘restitutio in integrum’ nella ‘cognitio extra ordinem’. Contributo allo studio dei rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiale in età classica, Milano, Giuffrè, 1965; M. SARGENTI, Studi sulla ‘restitutio in integrum’, in BIDR, 69, 1966, p. 193 ss.
[39] Secondo A. WACKE, Kannte das Edikt eine ‘in integrum restitutio propter dolum’?, cit., p. 113, “bezeichnenderweise denkt der Jurist auch hier nur an eine Restitution wegen Minderjährigkeit; nicht etwa wegen dolus, die auch Volljährigen zustatten kommen müβte”.
Importante, almeno per quanto riguarda la in integrum restitututio adversus libertatem, è D. 4, 4, 9, 6 (Ulp. 11 ad ed.): ‘adversus libertatem quoque minori a pretore subveniri impossibile est’. Sul punto, T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 635 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 330, riprende qui le parole di un maestro tedesco, B. KUPISCH, ‘In integrum restitutio und vindicatio utilis’ bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., p. 251, secondo cui “insbesondere auf fr. 7 pr. und fr. 9,6 wird der Satz gestützt, daβ es (wegen des favor libertatis) i.i.r. gegen Freilassungen (genauer: gegen den Freigelassenen) nicht gibt. Unter i.i.r. versteht man hier also den Rechtsbehelf als solchen, ohne Unterschied des Restitutionsgrundes. Die Tatsache, dass der manumissus hingegen der Dolusklage unterliegt (fr. 7 pr.), führt sodan zu dem Schluβ, daβ die Dolusklage kein i.i.r. ist”. Sulla scia di Kupisch anche H. ANKUM, Eine neue Interpretation von Ulpian Dig. 4.2.9.5-6 über die Abhilfen gegen ‘metus‘, in Festschrift für H. Hüber zum 70. Geburtstag, Berlin–New York, 1984, p. 7, nt. 20.
[40] Per M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., p. 22, l’esclusione della restitutio in integrum “… non può considerarsi all’epoca di Giuliano come l’applicazione meccanica di un principio tradizionale e indiscusso, ma implica invece una scelta a favore del mantenimento della libertà del manomesso”.
[41] Cfr. D. 4, 3, 18, 1 (Paul. 11 ad ed.): ‘Non tamen semper in hoc iudicio arbitrio iudicis dandum est: quid enim si manifestum sit restitui non posse (veluti si servus dolo malo traditus defunctus sit) ideoque protinus condemnari debeat in id quod intersit actoris?’.
Nega qualsiasi rilevanza alla clausola arbitraria B. BIONDI, Studi sulle ‘actiones arbitrariae’ e l’‘arbitrium iudicis’, cit., p. 78 ss., il quale ritiene che nel diritto classico l’actio de dolo non potesse essere arbitraria, essendo “la facoltà di restituire la cosa per evitare la condanna… completamente il prodotto di una innovazione giustinianea la quale riuscì a snaturare il carattere e la struttura classica dell’actio doli”. Questa interpretazione è oggigiorno del tutto superata.
Tuttavia, la letteratura è divisa sull’interpretazione da dare al passo appena riportato. Una parte della dottrina afferma che l’inserimento della clausola arbitraria nella formula della actio de dolo era eventuale già a partire dalla fase in iure. Così, per P. LAMBRINI, ‘Actio de dolo malo’ e accordi privi di tutela contrattuale, in Ead., Studi sull’azione di dolo, Napoli, Jovene, 2013, p. 41 ss., nel caso in cui la restituzione fosse impossibile (come nell’ipotesi prospettata da Paolo sopra richiamata a inizio nota), era già il magistrato nella fase in iure del processo a non inserire nella formula l’arbitratus de restituendo, con conseguente condanna in id quod intersit actoris (senza la pesante conseguenza dell’infamia: affermazione quest’ultima che però non poggia su alcun riscontro testuale [contra da questo punto di vista (anche con sospetti di interpolazione del testo), B. ALBANESE, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, Palermo, Università di Palermo, 1982, p. 196, nt. 547.]). Questa soluzione era stata già adottata in precedenza da C.A. CANNATA, Profilo istituzionale del processo privato romano, II, Il processo formulare, Torino, Giappichelli, 1982, p. 109, nt. 9, ed è oggi seguita anche da T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 626, nt. 32 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 321, nt. 32. Contra di recente, peraltro con validi argomenti e resoconto puntuale della più autorevole dottrina, S. VIARO, L’‘arbitratus de restituendo’ nelle formule del processo privato romano, Napoli, Jovene, 2012, p. 164 ss.
[42] Così T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., pp. 636-637 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 331.
[43] Sempre sulla base della interpretazione del testo fornita da Cursi, è peraltro utile fare una breve precisazione in ordine al rimedio della in integrum restitutio, questa volta in connessione con la nullità della vendita (e, naturalmente, con il dolus causam dans che ne è causa). Afferma infatti l’autrice che “… potrebbe darsi… che Giuliano abbia enfatizzato, in caso di dolo determinante [che avrebbe condotto alla nullità della vendita], il rilievo del dolo del terzo per ottenere un risultato che per il minore fosse analogo alla restitutio…” (M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 81).
[44] Al contrario, in normali circostanze – come, ad esempio, in D. 4, 3, 1, 6 (‘Idem Pomponius refert Labeonem existimare, etiamsi quis in integrum restitui possit, non debere ei hanc actionem competere. Et si alia actio tempore finita sit, hanc competere non debere, sibi imputaturo eo qui agere supersedit: nisi in hoc quoque dolus malus admissus sit ut tempus exiret la in integrum restitutio’) –, la possibilità di tutelarsi per mezzo della in integrum restitutio avrebbe comportato l’esclusione dell’actio de dolo nel caso concreto.
[45] M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., p. 79 ss.
[46] Ivi, p. 81 ss.
[47] M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., pp. 22-23 (in particolare, nt. 26), afferma, proprio in ragione di tale contraddizione, la non genuinità del richiamo alla nullità della vendita. È bene inoltre far notare che l’importante studioso cita anche D. 40, 4, 29 (sopra riportato nel testo), ma – nonostante quest’ultimo brano corrobori l’assunto per cui gli effetti della manomissione rimangono fermi anche nel caso di rilevazione di nullità dell’atto ab initio – resta comunque convinto del fatto che la contraddizione di cui si tratta non possa essere superata.
[48] M.F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., la quale prende in considerazione la pesante obiezione di Brutti a p. 73, nt. 19, e a p. 80, nt. 39.
[49] Qui viene utilizzata genericamente la parola ‘giurista’ poiché, come vedremo infra, non è sicuro che si tratti di Giuliano (riportato da Ulpiano) o di Ulpiano soltanto.
[50] Sulla conoscenza da parte di Ulpiano o Giuliano di una tale possibile soluzione non credo si debba disputare, data anche la distanza temporale che separava questi ultimi con Scevola.
[51] Si tratta di T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 611 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 307 ss., già ampiamente citato nelle note precedenti.
[52] B. BIONDI, Dolus causam dans e incidens, cit., p. 301 ss., citato da T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 622 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., pp. 317-318.
[53] ID., Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 623 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 318.
[54] ID., Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 623 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 318.
[55] ID., Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 651 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 344 ss., afferma efficacemente che “nel dire che la vendita è nulla, s’intende esprimere semplicemente che la vendita ‘non c’è’: si dice nullus contractus proprio in un senso corrispondente a quello del tedesco ‘kein Vertrag’. E la vendita non è venuta a esistenza perché le due volontà non si sono mai incontrate in un accordo. Nel passaggio dall’uno all’altro piano [i.e. da quello dell’azione di dolo a quello della nullità della vendita] si registra uno spostamento dell’attenzione dalla prospettiva che potremmo definire ‘esterna’ al contratto, ossia quella dell’azione di dolo, a quella ‘interna’ al contratto: il dolo viene in considerazione quale elemento ablativo della volontà contrattuale”.
[56] Sul punto si veda, ampiamente e con notevoli indicazioni anche a livello lessicografico, M. TALAMANCA, Inesistenza, nullità ed inefficacia dei negozi giuridici nell’esperienza romana, in BIDR, 101-102, 1998-1999, p. 4 ss.
[57] La letteratura specialistica sul tema è svariata; soltanto a titolo esemplificativo si citano, oltre al contributo del Talamanca alla nota precedente (molto critico su quasi tutti gli studi precedenti), il vecchio manuale di L. MITTEIS, Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Leipzig, 1908, p. 249 ss., all’interno del quale si trova la distinzione tra “nicht-existierende” ed “existierende Geschäfte”, poi ripresa – senza citare il Mitteis – da E. BETTI, Diritto romano, I, Parte generale, Padova, Cedam, 1935, p. 327 ss., e successivamente criticata, anche se sostanzialmente ripresa, da S. DI PAOLA, Contributi ad una teoria della invalidità e della inefficacia in diritto romano, Milano, Giuffrè, 1966, p. 13 ss. [cfr. anche gli studi precedenti dello stesso autore: ID., ‘Leges perfectae’, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, II, Napoli, 1964, p. 1075 ss.; ID., Considerazioni su Gai. 3.176 (novazione mediante ‘stipulatio post mortem’), in Studi in onore di Biondo Biondi, I, Milano, 1965, p. 395 ss.; ID., Ricerche esegetiche in tema di inesistenza e nullità, in Studi in onore di G. Zingali, III, Milano, 1965, p. 639 ss.]. Sul tema, inoltre, A. MASI, Il negozio ‘utile’ o ‘inutile’ in diritto romano, in RISG, 93, 1959-1962, p. 21 ss.; S. TONDO, s.v. Invalidità e inefficacia del negozio giuridico, in NNDI, 8, 1962, p. 994 ss.; M. BRUTTI, s.v. Invalidità (storia), in EdD, 22, 1972, p. 559 ss.
[58] Insiste molto sul punto M. TALAMANCA, Inesistenza, nullità ed inefficacia dei negozi giuridici nell’esperienza romana, cit., p. 15 ss.
Per una rassegna delle varie espressioni (quali, ad esempio, nullius momenti, inneficax, inanis, irritum, e così via), più o meno equivalenti a nullus, usate dai prudentes sull’argomento – che oggi potremmo sussumere all’interno della categoria generale della ‘validità-invalidità del negozio’ – si faccia riferimento a M. KASER, Das römische Privatrecht, I2, Das altrömische, das vorklassische und klassiche Recht, München, C.H. Beck, 1971, p. 246 ss. Si era invece cimentato in un ampio studio delle fonti sull’argomento F. HELLMANN, Zur Terminologie der römischen Rechtsquellen in der Lehre von der Unwirksamkeit der juristischen Tatsachen, in ZSS, 23, 1902, p. 380 ss.; ID., Terminologische Untersuchungen über die rechtliche Unwirksamkeit im römischen Recht, München, Beck, 1914, in particolare p. 11 ss.
[59] T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 653 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 346.
[60] Cfr. ID., Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., pp. 663-664 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., pp. 355-356.
[61] ID., Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., pp. 649 ss. = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., pp. 342 ss., che cita J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., p. 279.
[62] ID., D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., p. 279.
[63] Indizi in tal senso si possono ricavare dalle espressioni utilizzate in D. 42, 8, 9 (Paul. 62 ad ed.) e D. 44, 4, 11 pr. (Nerat. 4 membr.).
[64] Molto critico nei confronti della versione di Mommsen-Krüger è J.C. VAN OVEN, D. 4. 3. 7. pr. Contribution à l’histoire du dol dans les conventions, cit., che, proprio in apertura del suo contributo, a p. 275, osserva che “… le passage attribuè à Ulpien dans D. 4, 3, 7 pr. a ètè pourvu d’une ponctuation tout-a-fait diffèrente de celle qu’on trouve dans les èditions d’autrefois. Elle donne à ce texte, si important pour l’histoire du dol dans les conventions, une autre signification et puisque les manuscripts dans l’antiquitè n’avaient pas de punctuation du tout, il s’agit de juger la quelle est la plus vraisemblable quand on veut savoir, ce qu’ont voulu dire les compilateurs du Digeste et, à la fois, ce qu’Ulpien a ècrit et ce que Julien, cite ici par Ulpien, a rèpondu à la question qu’on lui avait posèe”.
[65] Anche se in maniera cauta, non sembra escludere una soluzione di questo tipo T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 647 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., pp. 340-341, secondo cui “se… si opina che le parole con le quali si prospetta l’ipotesi della responsabilità contrattuale – proprio quelle che nell’edizione mommseniana sono poste tra parentesi – siano di Ulpiano, allora, una volta interrotta la continuità della frase, qualche dubbio in più potrebbe sorgere circa la possibilità che alla struttra originariamente giulianea del discorso si fosse sovrapposto un più massiccio intervento, almeno con funzione di completamento e raccordo, da parte del più tardo giurista”.
[66] Si ricordi che questo tratto, nella prima versione del testo, ovvero quella mommseniana, è inserito, tra parentesi: ‘… (hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit)…’.
Con riferimento al verbo accipere, è stato oramai dimostrato il largo utilizzo che Ulpiano ne fa nelle sue opere. Sull’argomento si veda, per tutti, T. HONORE', Ulpian: pioneer of human rights, Oxford, Oxford Univ. Press, 20022, p. 64 ss.
[67] Per una veduta d’insieme sull’argomento si rinvia a C. CASCIONE, Consensus. Problemi di origine, tutela processuale, prospettive sistematiche, Napoli, Editoriale Scientifica, 2003, passim (in particolare, p. 399 ss.) Con specifico riferimento al tema del consenso contrattuale, si faccia riferimento ai contributi presenti in A. Burdese (cur.), Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, Padova, Cedam, 2006 (ed in particolare a ID., Il contratto romano tra forma, consenso e causa, p. 87 ss. – saggio in precedenza pubblicato anche in F. Milazzo (cur.), Diritto romano e terzo millennio. Radici e prospettive dell’esperienza giuridica contemporanea. Relazioni del Convegno internazionale di diritto romano (Copanello 3-7 giugno 2000), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, p. 87 ss.), nonché più recentemente a R. FIORI, ‘Contrahere’ in Labeone, in E. Chevreau-D. Kremer-A. Laquerrière-Lacroix (cur.), Carmina iuris. Mèlanges en l’honneur de Michel Humbert, De Boccard, Paris, 2012, p. 311 ss. (con ampia bibliografia).
[68] Vedi, ad esempio, D. 21, 1, 131, 18 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.); D. 19, 2, 13, 11 (Ulp. 32 ad ed.); D. 19, 2, 13, 12 (Ulp. 71 ad ed.); D. 17, 2, 19 (Ulp. 30 ad Sab.).
[69] Per quanto riguarda i libri ad Sabinum di Ulpiano si rinvia a F. SCHULZ, Sabinus-Fragmente in Ulpians Sabinus-Commentar, in Labeo, 10, 1964, p. 50 ss. e p. 234 ss. (edizione corretta e riveduta dell’opera apparsa nel 1906 ad Halle per i tipi dell’editore Max Niemeyer).
[70] Cfr. sull’argomento, M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 233; ID., s.v. Vendita (dir. Rom.), cit., p. 303 ss. (con ampia bibliografia e discussione della dottrina precedente), nonché, più recentemente, J.D. HARKE, ‘Si error aliquis intervenerit’. Irrtum im klassischen römischen Vertragsrecht, Berlin, Duncker & Humblot, 2005, p. 23 ss. (con letteratura); W. ERNST, Irrtum. Ein Streifzug durch die Dogmengeschichte, in R. Zimmermann (Hrsg.), Störungen der Willensbildung bei Vertragsschluss, Tübingen, Mohr Siebeck, 2007, p. 1 ss.
[71] Vede una certa connessione tra i due passi anche R. FERCIA, Il contratto annullabile e la sua ‘ombra’: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, cit., p. 559 ss.
[72] Cfr., sul punto, M. TALAMANCA, s.v. Vendita (dir. rom), cit., p. 324.
[73] È molto dibattuto in dottrina se anche una costituzione imperiale della fine del III secolo d.C. si riferisca o meno alla tematica dell’error in negotio. Si tratta di Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Victori C.I. 4, 22, 5: Si falsum instrumentum emptionis conscriptum tibi, velut locationis quam fieri mandaveras, subscribere, te non relecto, sed fidem habente, suasit, neutrum contractum in utroque alterutrius consensu deficiente constitisse procul dubio est (a. 294). In specie, a causa della condotta fraudolenta della controparte, era stata apposta la subscriptio a un documento recante vendita (di un fondo, probabilmente), e non locazione come invece era stato stabilito durante le trattative. Secondo M. TALAMANCA, s.v. Vendita (dir. rom), cit., p. 324, non vi sono dubbi sul fatto che questo sia “un caso esemplare… di errore ostativo sulla dichiarazione nel suo complesso, e di error in negotio”. Per il grande romanista, infatti, il dolo della controparte è qui irrilevante per la qualificazione dogmatica della fattispecie (contra sul punto, ma non a ragione, U. ZILLETTI, La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 88-89). In precedenza, riteneva che il testo descrivesse una ipotesi di errore ostativo e parlava di divergenza tra volontà e dichiarazione, G. PUGLIESE, La simulazione nei negozi giuridici: studio di diritto romano, Padova, Cedam, 1938, p. 173. Affermava, dal canto suo, la natura di error in negotio P. VOCI, L’errore nel diritto romano, Milano, Giuffrè, 1937, p. 105 (riconfermata anche più tardi in ID., s.v. Errore (diritto romano), in EdD, 15, 1966, p. 237, nt. 7). Sono contrari al precedente impianto e non rilevano alcun error in negotio nella fattispecie J.G. WOLF, Error im römsichen Vertragsrecht, Köln-Graz, Böhlau, 1961, p. 87 ss.; W. FLUME, recensione a J.G. Wolf, Error im römischen Vertragsrecht, cit., in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis – Revue d’Histoire du Droit – The Legal History Review (=TR), 30, 1962, p. 363 ss. (in particolare, p. 368); nonché M. KASER, Das römische Privatrecht, I2, cit., p. 238, nt. 19.
[74] Limitatamente al significato di questo aggettivo si rinvia a M. KASER, Das römische Privatrecht, I2, cit., p. 247.
[75] Sulla mancanza di consenso e sul dissenso nel diritto romano si rinvia all’equilibrata voce di F. CANCELLI, s.v. Dissenso (profilo storico), in EdD, 13, 1964, p. 235 ss.
[76] Anche T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 661, nt. 100 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., pp. 353-354, nt. 100, fa menzione, sebbene in nota, di una tale affinità, ma non dà ulteriori indicazioni.
[77] Non rilevante evidentemente ai fini della qualificazione dogmatica della fattispecie. Alla stessa maniera R. FERCIA, Il contratto annullabile e la sua ‘ombra’: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, cit., p. 559. Si ricordino, in questo senso, anche le parole di M. TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani: ‘Leerformeln’ e valori dell’ordinamento, in L. Garofalo (cur.), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, IV, Padova, Cedam, 2003, p. 34, nt. 115, secondo cui nelle fonti romane “dolus… è vizio del consenso e può altresì portare (ma in questo caso non rileva mai come tale [sc. come vizio del consenso], in quanto non v’è un margine di differenza per l’operatività dell’errore sulla dichiarazione dovuto e di quello non dovuto all’inganno della controparte od anche di un terzo) ad un errore sulla dichiarazione…”.
[78] Così anche R. FERCIA, Il contratto annullabile e la sua ‘ombra’: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, cit., p. 559, che però, nella scelta tra questa interpretazione e quella fornita dalla Cursi, propende per quest’ultima.
Sulla nostra stessa direzione si pone l’interpretazione proposta da K.A. VON VANGEROW, Lehrbuch der Pandekten, III, cit., p. 277 ss., il quale vede nella frase di cui si sta discutendo sopra nel testo, ovvero ‘… aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est’, un’altra causa di esclusione dell’actio venditi, e non una nuova decisione (anch’egli infatti cita il passo al netto della parentesi). Come per noi, l’azione contrattuale, secondo il Vangerow, non può trovare applicazione per due motivi: a) è assente il dolo del compratore; b) la vendita è nulla per errore essenziale cagionato dal dolo del servo. Limitatamente a quest’ultima ipotesi, si nota come anche il Vangerow propenda per la presenza di un errore a causa del quale la vendita è impedita. L’esegesi del pandettista tedesco è ritenuta pregevole e degna di nota da S. SOLAZZI, Studi sull’‘actio de peculio’, II, cit., p. 242, nt. 1.
Ad ogni modo, sulla dottrina dell’errore a partire dalla Glossa sino ad arrivare all’introduzione del BGB, fondamentale il lavoro di M.J. SCHERMAIER, Die Bestimmung des wesentlichen Irrtum von den Glossatoren bis zum BGB, Wien-Köln-Weimar, Böhlau, 2000.
[79] Cfr., sul punto, E. STOLFI, I segni di una tecnica. Alcune considerazioni attorno a rigore terminologico e lessico delle citazioni nella scrittura dei giuristi romani, cit., p. 122, nt. 37, il quale parla di «reificazione imperfetta» del soggetto schiavo.
[80] Cfr. R. FERCIA, Il contratto annullabile e la sua ‘ombra’: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, cit., p. 561, il quale vede il servo quale “terzo qualificato”.
Si noti bene che un ragionamento di questo tipo è sviluppato su categorie concettuali costruite dalla scienza giuridica moderna, quindi deve essere preso per quello che è. I prudentes romani non hanno mai teorizzato un concetto di terzo e neppure avrebbero avuto interesse a farlo. Lavorando perlopiù a livello casistico, ogni qual volta si fosse proposto un problema, lo avrebbero risolto con un angolo di visuale diverso da quello utilizzato oggigiorno. Ad ogni buon conto, per quanto concerne nello specifico il concetto di terzo, risulta difficile pensare a quale potrebbe essere la diversità tra la prospettiva romana e quella odierna, nella qual ultima il concetto di terzo è costruito in negativo rispetto a quello di parte del negozio.
[81] Cfr., per tutti, G.I. LUZZATTO, s.v. Dolo (diritto romano) – a) Civile, in EdD, 13, 1964, p. 715.
[82] Ma probabilmente ciò non era molto rilevante per i giuristi romani. Come si può facilmente notare, infatti, qui non è presente alcuna tutela dell’affidamento dell’emptor sul negozio.
[83] Così T. DALLA MASSARA, Tra regole di validità e regole di correttezza: la sanzione processuale del dolo incidente, cit., p. 658 = L’impiego dell’azione di dolo quale rimedio risarcitorio a fronte di una condotta maliziosa: la figura del dolo incidente, cit., p. 351.