• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Ven, 17 Dic 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Parità di genere e Istituzioni: un fallimento preannunciato?

Modifica pagina

Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il presente saggio intende porre in luce come ancora oggi la rappresentanza di genere a livello istituzionale costituisca una questione cruciale. Un problema risalente, segnalato e affrontato nel corso dei lavori dell´Assemblea Costituente. Sebbene gli apporti offerti dalla giurisprudenza costituzionale e dal legislatore regionale si siano rivelati preziosi, la risoluzione di tale problema implica necessariamente un intervento da parte dell´Unione Europea.


ENG The present essay intends to highlight how still today the representation of gender at the institutional level constitutes a crucial issue. A problem dating back, reported and addressed during the work of the Constituent Assembly. Although the contributions offered by constitutional jurisprudence and by the regional legislator have proved invaluable, the resolution oh this problem necessarily implies an intervention by the European Union.

Sommario: 1. Un “tuffo” nel passato; 2. L’accesso delle donne alla magistratura: un percorso lungo e travagliato; 3. Le azioni positive: origini e ratio; 3.1. La giurisprudenza della Corte EDU in tema di azioni positive; 4. La riscrittura dell’art. 51 e la doppia preferenza di genere;  4.1. L’intervento del Governo sulla legge elettorale della Regione Puglia; 5. La parità di genere nella legislazione elettorale nazionale; 6. La posizione cruciale delle Giunte regionali e degli enti locali; 7. Conclusioni.

1. Un “tuffo” nel passato

Prima di esaminare il tema della rappresentanza di genere a livello istituzionale, occorre volgere lo sguardo al passato, invocando i tratti determinanti del periodo storico in cui si iniziò a delineare l’uguaglianza tra uomini e donne.

Si intende ovviamente chiamare in causa il prezioso contributo delle Madri Costituenti[1], alle quali si imputa il grande merito di avere formulato i principi cardinali della democrazia italiana, oggi racchiusi nella Carta costituzionale.

Appare opportuno chiarire – a parere di chi scrive – che le Costituenti non focalizzarono il loro operato su tematiche reputate prettamente “femminili”, ma offrirono il loro valido apporto anche a questioni non direttamente connesse alla posizione e alla funzione della donna nella società, dimostrando dunque un grande senso di responsabilità nei confronti del Paese.

Esse, infatti, non agivano da sole, bensì in armonia con la comunità femminile più sviluppata, verso la quale avevano un mandato da portare a termine.

Sul versante costituzionale, l’uguaglianza di genere è dichiarata principalmente nell’art. 3., disposizione che, nel proclamare sia il principio di uguaglianza formale sia il principio di uguaglianza sostanziale, da una parte vieta discriminazioni fondate sul genere, dall’altra ammette l’adozione di azioni positive tese a rimuovere gli ostacoli che impediscono “di fatto” a uomini e donne di partecipare in eguale modo alla vita, politica, economica del Paese.

In particolare, si deve all’on. Angela Merlin l’introduzione dell’espressione “senza distinzioni di sesso” al comma 1° dell’art. 3 Cost., che precisa il divieto di discriminazione di genere[2].

Fu, invece, Teresa Mattei ad insistere circa l’aggiunta dei termini “di fatto” nel medesimo articolo, osservando che la mera parità formale non poteva essere considerata sufficiente[3].

Quest’ultima ritiene che le conquiste giuridiche non possano essere ottenute se non seguite da conquiste di carattere economico e sociale. Come affermato dalla stessa deputata, “molto si potrà realizzare [...] se i grandi gruppi politici che rappresentano le masse lavoratrici collaboreranno alla traduzione fedele nelle leggi, nella vita e nel costume nazionale dei principi che nella Costituzione sono affermati”.

È necessario marcare specialmente il sostanziale contributo delle Costituenti alla stesura dell’art. 51 Cost., inerente alla parità di accesso alle cariche pubbliche.

Il Progetto di Costituzione, predisposto dalla I Sottocommissione, includeva una formula piuttosto dibattuta, nella quale si annunciava che l’accesso alle cariche pubbliche sarebbe stato permesso “tutti i cittadini d’ambo i sessi (...) in condizione d’eguaglianza, conformemente alle loro attitudini, secondo le norme stabilite dalla legge”.

Un altro merito delle Costituenti fu quello di resistere alle opposizioni di talune fazioni conservatrici orientate a “sfaldare” la regola dell’uguaglianza con la previsione di determinate deroghe nocive.

È noto l’emendamento proposto dall’on. Maria Federici, approvato dall’Assemblea a grande maggioranza, volto a sopprimere l’inciso “attitudini”, considerato un ostacolo per l’accesso delle donne alle cariche pubbliche.

Come espresso dall’on. Meuccio Ruini, la predetta previsione avrebbe consentito al Parlamento di supporre che “per determinati posti le donne non hanno attitudine”[4].

Entrando nel vivo del dibattito, l’on. Molè dichiarò, in un primo momento, che in taluni uffici (concernenti le funzioni giudiziarie e militari) la parificazione tra uomini e donne sarebbe stata “inaccettabile”, in quanto era già risaputo in epoca romana che “la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro”[5]; in seguito, il deputato, pur accogliendo (forzatamente) la parità morale tra i due sessi, tenne a marcare l’impossibilità di “disconoscere la diversità del compito e delle loro funzioni nella famiglia. C’è un ostacolo di natura. Quella piccola, piccola differenza che è fra l’uomo e la donna”[6].

L’on. Federici propose di sostituire il termine “attitudini” con quello di “requisiti”, dal momento che “le attitudini non si provano se non col lavoro, escludere le donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli”.

Il legislatore costituente, dunque, sembra avere assunto un atteggiamento cauto in ordine all’affermazione della parità tra donne e uomini nel quadro delle cariche pubbliche[7].

Un’ulteriore conferma è data dal limite introdotto dalla Comitato di redazione: l’accesso delle donne alle cariche pubbliche poteva avvenire solo “nei casi previsti dalla legge”. 

Le motivazioni adottate rivelavano un forte diffidenza verso la figura femminile, ritenuta eccessivamente emotiva per rivestire la carica di giudice.

A tale proposito, l’on. Giovanni Leone affermava che la sede più idonea per l’attività di una donna era il Tribunale dei minorenni, ma non gli alti gradi della magistratura che implicano, a suo avviso, maggiore equilibrio ed elevata competenza tecnica[8].  

Per quanto concerne l’accesso alle cariche elettive, la Costituzione ha riconosciuto piena parità tra uomini e donne, attribuendo così a tutti i cittadini il diritto di elettorato attivo e passivo.

Come noto, la conquista di tale diritto avvenne dopo anni di faticose battaglie.

La storia del voto delle donne in Italia comincia nell’anno stesso della sua unificazione: a differenza di taluni Stati preunitari, il nuovo Regno non pone uomini e donne sullo stesso piano; tale circostanza provoca la reazione di alcune donne, le quali rivolgono la prima petizione alla Camera dei deputati, con la quale chiedono di conservare le posizioni già concesse sotto il predominio asburgico.

Fino al 1945, la questione rimase vincolata a progetti di legge mai giunti ad approvazione[9], leggi elettorali deludenti[10], scontri giudiziari persi[11], accesi dibattiti sociali e culturali[12].

Le donne italiane conseguirono il diritto di voto nel momento in cui l’Italia era ancora in guerra.

Come sottolineato da una parte della dottrina[13], le donne si videro riconosciuto il diritto di voto “non per una gentile concessione da parte degli uomini al potere”, bensì su pressione di una serie di rivendicazioni provenienti dalle associazioni femminile di massa costituite nell’autunno del 1944: il 15 settembre 1945, sorge a Roma l’Unione delle Donne Italiane (UDI), alla quale appartenevano tutte le donne militanti nelle organizzazioni femminili della resistenza, divenuta la più grande e importante organizzazione per l’emancipazione femminile in Italia.

Il mese conseguente fu fondato un altro grande movimento, il Centro Italiano Femminile (CIF), una federazione di ventisei associazioni del laicato femminile cattolico, soggetta dall’Azione cattolica. Infine, nel 1946, nacque a Roma l’Associazione Nazionale Donne Elettrici (ANDE), alla quale presero parte le donne non legate ad alcun partito politico.

Il 24 gennaio 1945, la suddetta questione, su iniziativa degli onn. Togliatti e De Gasperi, giunse al Consiglio dei ministri; qualche giorno dopo, il Governo approvò all’unanimità il decreto legislativo luogotenenziale 1° febbraio 1945, n. 23 (“Estensione alle donne del diritto di voto”).

Esso, all’art. 1, statuiva che “il diritto di voto è esteso alle donne”.

Si trattò di una vittoria parziale, per due motivi. In primo luogo, il decreto fu approvato in maniera inaspettata, in concomitanza alla preparazione di una mobilitazione nazionale straordinaria indetta nei primi giorni di febbraio.

Lo scopo dei poteri forti era duplice: da un lato, privare le donne – e le associazioni femminili – del merito morale della conquista del diritto di voto; dall’altro, prevenire ulteriori istanze, soprattutto se relative al divorzio.

In secondo luogo, il decreto presentava una “pecca”: esso, infatti, riconosceva il diritto delle donne a eleggere, ma non ad essere elette.

Quella che fu ritenuta una “svista”[14], apparve un errore “cercato”, in quanto l’idea che una donna potesse partecipare alla vita istituzionale destava preoccupazione ed allarme nelle forze politiche del tempo[15].

La lacuna fu colmata solo un anno dopo, su proposta della Consulta Nazionale, la prima assemblea politica composta anche da donne.

Con il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 (“Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente”), si riconobbe, all’art. 7, il diritto di elettorato passivo ai cittadini e alle cittadine che, il giorno delle elezioni, avessero compiuto i venticinque anni di età.

La presenza femminile non deve essere inquadrata come una “concessione”, essendo un diritto delle donne.

La parità di genere è un obiettivo comune ad ambedue i sessi, ai quali si richiede di operare insieme per la realizzazione di una democrazia piena[16].  

2. L’accesso delle donne alla magistratura: un percorso lungo e travagliato

Sebbene l’introduzione del principio di uguaglianza rappresentasse una novità di rilievo, il testo costituzionale fu sminuito nel suo significato essenziale, in ragione della presenza di normative discriminatorie.

La legge 27 dicembre 1956, n. 1441 consentì alle donne di partecipare all’amministrazione della giustizia nelle Corti di Assise e nei Tribunali per i minorenni.

Il disegno di legge fu ampiamente discusso in seno alla Commissione Giustizia. Per il ministro Moro, si trattò di “un primo esperimento di partecipazione della donna all’amministrazione della giustizia” nei settori della giustizia popolare e minorile[17].

In realtà, tale legge racchiudeva talune limitazioni di carattere numerico: almeno tre dei giudici popolari che andavano ad accostarsi ai giudici togati delle Corti d’Assise dovevano essere uomini.

Tale disciplina si poneva in contrasto con gli artt. 3 e 51, comma 1, Cost., dal momento che prevedeva dei vincoli legati al sesso, sia all’accesso ad un pubblico ufficio sia all’interno dell’organizzazione dell’ufficio stesso.

Tuttavia, la Consulta[18] riconobbe la legittimità costituzionale di tale legge, sostenendo che l’art. 51 Cost. lasciava al Parlamento una “qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell’intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone”.

In particolare, le restrizioni numeriche stabilite dalla suddetta legge – ad avviso della Corte costituzionale – non risultavano in contrasto con i principi costituzionali, considerato che “la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei collegi risponde non al concetto di una minore capacità delle donne, ma alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi”.

In aggiunta, all’accusa di illogicità mossa dalla Corte d’Appello di Milano[19], secondo la quale non aveva senso riconoscere nelle donne l’attitudine ad esercitare una determinata funzione per poi escluderle ove in numero eccedente, la Corte costituzionale rispose che “tale contraddizione non esiste”, in quanto le limitazioni numeriche si ispirano ad un ulteriore criterio, nonché il “buon funzionamento del collegio giudicante”.

Infine, la sentenza in esame si contraddistinse per un aspetto segnato dal periodo storico del tempo: la Consulta, pur riconoscendo la necessità di conferire maggiore spessore alla Costituzione rispetto al passato, osservò che l’ordinamento “solo da poco più di un quarto di secolo aveva risentito, nella legislazione, gli effetti di una evoluzione verso principi di eguaglianza”.

A seguito di tale sentenza, l’esclusione delle donne dalla magistratura risultava ancora più irragionevole: esse potevano fare parte delle Corti d’Assise come giudici popolari, tuttavia non potevano partecipare al concorso per la nomina a uditore giudiziario riservato ai soli cittadini di sesso maschile.

Un’inversione di rotta si ebbe grazie al tempestivo intervento della Consulta, chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale rimessa dal Consiglio di Stato[20] e avente ad oggetto l’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176.

Nell’ottica della Consulta, “la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può mai essere ragione di discriminazione legislativa”; in caso contrario, si lederebbe un principio fondamentale della Costituzione, nonché “quello posto dall’art. 3 del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma”.

La Consulta, dunque, superò la sentenza del 1958, nella quale sottolineò le difficoltà sorte in occasione dei lavori dell’Assemblea costituente e il passaggio avvenuto, nel corso della stesura del testo costituzionale, dall’uso dell’espressione “attitudini” a quello dei “requisiti stabiliti dalla legge”, nell’art. 48 del progetto, divenuto poi l’art. 51[21].

Essa, altresì, ritenne che, in virtù dell’art. 51, comma 1, Cost., l’appartenenza all’uno e all’altro sesso dovesse essere intesa come “requisito attitudinario”.

Per tali motivi, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale della norma sopraindicata, a causa dell’esclusione, in essa prevista “in via di regola, non già in via di eccezione”, delle “donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche”.

Sebbene da tale sentenza emerga ancora una qualche resistenza ad ammettere una piena affermazione del principio di parità, la stessa rimane di portata storica per due ragioni[22].

In primo luogo, essa segnò l’espulsione dall’ordinamento di una disciplina che impediva al sesso femminile di accedere a posizioni chiave dell’amministrazione. In secondo luogo, essa rimosse il principio di parità dall’alveo inconsistente delle “norme programmatiche”, così interpretato dalla politica e dalla giurisdizione all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione.

La suddetta pronuncia si rivelò decisiva per l’ammissione delle donne in magistratura.

Con l’imminente proposta di legge n. 2441/1960, si evidenziò il contrasto tra la presenza concreta della donna nella politica e la sua esclusione dagli impieghi implicanti l’esercizio di funzioni giudiziarie.

Come osservato dagli stessi propositori, solo una volta eliminata ogni restrizione, la donna avrebbe potuto “dimostrare ancora una volta il suo equilibrio, la sua preparazione, la sua serenità e consapevolezza di giudizio”[23].

La legge 9 febbraio 1963, n. 66 (“Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni”) abrogò la legge n. 1176/1919, riconoscendo alla donna l’accesso “a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge” (art. 1, comma 1)[24].

Se l’impiego del termine “ammissione” conferma la rimozione degli ostacoli, i due incisi “compresa la Magistratura” e “salvi i requisiti stabiliti dalla legge” potrebbero costituire oggetto di dibattito.

Il ricorso all’espressione “compresa la Magistratura” non sembra – a parere di chi scrive – stabilire alcuna esclusione: in tale eventualità, il legislatore avrebbe tracciato una distinzione tra Magistratura ordinaria e Magistratura speciale.

Desta interesse la decisione del legislatore di impiegare il termine “ammissione” una sola volta, per poi ricorrere ad “accedere”, avente “il sapore di un percorso contrassegnato dalla libertà di poter fare”[25].

Per quanto concerne l’inciso “salvi i requisiti stabiliti dalla legge”, si intende consentire alle donne l’ammissione ad ogni carica, professione od impiego pubblico condizionata unicamente al possesso da parte della stessa dei requisiti determinati dalla legge.

L’ingresso ufficiale delle donne in magistratura avvenne nel 1965, a fronte del concorso indetto nel 1963; tuttavia, risultarono vincitrici solo otto donne.

Nel complesso, la presenza delle donne in magistratura è gradualmente aumentata[26].

Al contempo, si ravvisa ancora oggi una debole rappresentanza ai vertici di taluni uffici, sintomo di un deficit di democrazia che perdura nella vita sociale e politica italiana[27].

3. Le azioni positive: origini e ratio

Nel corso degli anni Novanta, il legislatore italiano avvertì l’esigenza di dare attuazione al principio di eguaglianza sostanziale, in modo tale da consentire alle donne di accedere a condizioni di parità effettiva alle posizioni apicali del settore economico e politico.

Tuttavia, le prime misure furono “smantellate” dalla Consulta: in materia elettorale – ad avviso di essa – trovava applicazione solo il principio di eguaglianza formale; per essa, qualsiasi disposizione tendente a introdurre riferimenti al “sesso” risultava in contrasto con tale principio[28].

La decisione della Corte fu oggetto di dibattito sia a livello processuale, sia in ordine ad una falsa rappresentazione storica.

Sotto tale ultimo profilo, la Consulta sostenne che i Costituenti avrebbero escluso l’eguaglianza sostanziale dal contesto dei diritti politici, intendendo garantire solo quella formale.

In realtà, la parità tra i sessi nelle Assemblee elettive non rappresentò un obiettivo dei Costituenti, dal momento che, in tale periodo storico, le donne non erano state ancora coinvolte nelle dinamiche elettorali.

A distanza di anni, la Consulta, chiamata a pronunciarsi su una vicenda simile, adottò un approccio contrario: la norma impugnata, in virtù della quale le liste elettorali dovevano essere formate da “rappresentanti di ambo i sessi”, introduceva un riferimento neutro, tale da non creare disparità tra uomini e donne, oltre a non incidere sulla parità di chances tra i candidati[29].

La sentenza della Consulta non tenne conto della revisione dell’art. 51 Cost., in dirittura d’arrivo.

Con la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, il contenuto dell’art. 51 Cost., al fine di sancire il principio di eguaglianza sostanziale anche in relazione all’accesso alle cariche elettive, fu integrato dalla seguente previsione: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

In concreto, il legislatore ha inteso precisare che non è sufficiente affermare l’eguaglianza tra uomini e donne, ma occorre introdurre delle misure affinché quell’eguaglianza possa effettivamente concretizzarsi. Il suddetto principio ha trovato attuazione in ogni settore del vivere sociale, specialmente in quello lavorativo.

La legge 25 febbraio 1992, n. 215, introdusse le c.d. “azioni positive” nell’ambito dell’imprenditorialità femminile, nonché “misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell'ambito della competenza statale, e sono dirette a favorire l'occupazione femminile e realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro”[30].

Prima di soffermare l’attenzione sulla ratio di tali misure, appare opportuno ricostruire l’iter storico delle stesse.

Le azioni positive nascono negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70 in risposta[31] alla discriminazione razziale (“affirmative actions”): si tratta di uno strumento che “non si limita semplicemente a inseguire il fatto, ma prova a cambiarlo, a incidere sulle strutture economiche, sociali e culturali piuttosto che soltanto sulle strutture giuridico-formali”[32].

In particolare, le azioni positive si inseriscono nei progetti delineati da John F. Kennedy: l’assunzione e l’impiego dei dipendenti doveva avvenire in mancanza di discriminazioni in base alla razza, al credo, al colore della pelle o all’origine etnica[33].

Importanti passi in avanti vennero compiuti da Lyndon B. Johnson: da un lato, vide luce il Civil Rights Act del 1964 che vietava ogni forma di discriminazione (compreso in sesso); dall’altro, fu fondata la Employment Opportunity Commission[34].

Nello stesso periodo, altresì, si impose alle imprese vincitrici di appalti con il Governo federale di garantire pari opportunità ai lavoratori in nome delle azioni positive[35].

Con l’Equal Opportunity Act del 1972, fu attribuito alle Corti federali il potere di imporre al datore di lavoro l’adozione delle affirmative actions ove ritenuto opportuno.

Sebbene tali azioni attirarono l’attenzione della dottrina, esse furono oggetto di dibattito soprattutto in sede giudiziaria: le Corti americane, legate ad un’interpretazione formale del principio di eguaglianza, ne dichiarano spesso l’illegittimità.  

Nella sentenza Regents of the University of California v. Bakke, la Corte Suprema si confrontò con un sistema di “quote” destinate agli studenti appartenenti alle minoranze etniche: in un sistema universitario a numero chiuso tale meccanismo limitava l’accesso a studenti con valutazioni più alte, ma di razza bianca.

Nell’ottica del Justice Powell, la possibilità di adottare affermative actions risponderebbe alla libertà, garantita alle Università dal Primo Emendamento, di scegliere il proprio student body, in modo tale da ottenere un produttivo e diversificato contesto accademico.

Si trattò di una sentenza poco incisiva, tant’è che il Quinto Circolo nel 1996 proibì ogni impiego della razza nelle procedure di valutazione di accesso alle Università.

A distanza di venticinque anni, la Corte Suprema tornò a pronunciarsi su questioni simili. In particolare, si trattava di due casi attinenti alle procedure di ammissione al College e alla Law School dell’Università del Michigan.

Il ragionamento seguito dalla Corte fu diverso.

Di recente, quest’ultima sembra avere consacrato la costituzionalità delle affirmative actions nella higher education (Fisher v. University of Texas)[36].

In Europa, l’espressione “azioni positive” comparve solo all’inizio degli anni Ottanta, in Germania e negli Stati Scandinavi.

Negli ordinamenti europei la categoria delle azioni positive comprende le misure dirette a promuovere l’accesso delle donne al mercato del lavoro e alla rappresentanza politica: sia quelle che favoriscono l’equilibrio tra la sfera familiare e la sfera lavorativa, sia quei provvedimenti che impongono la precedenza alle donne nelle assunzioni o la previsione di una determinata percentuale di candidature femminili nelle liste elettorali. 

Nel Trattato della Comunità Europea, accanto al principio di eguaglianza, è contemplata la disposizione secondo cui ogni Stato membro è tenuto ad assicurare l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro[37].

Nel 1997, con il Trattato di Amsterdam, a tale disposizione è stata aggiunta la seguente formula:

“Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”.

Con una formulazione più ampia, la Carta europea dei diritti fondamentali prevede che “la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”[38].

Come già visto, in Italia, il modello delle azioni positive fu introdotto con cautela.

In passato, la Corte costituzionale[39] specificò la funzione di tali misure, nonché quella di “innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate […] al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico”.

Esse, dunque, apparivano come misure di eguaglianza sostanziale più che azioni positive vere e proprie[40]

Sebbene le azioni positive traggano origine dalle affermative actions, occorre segnalare che, a differenza di molteplici Stati Americani (California, Florida ecc.) intenti ad eliminare le politiche di affermative actions tramite l’approvazione di revisioni costituzionali proibenti discriminazioni fondate sul sesso, in Europa le azioni positive sono state definitivamente accolte.

In tale senso, è utile evocare una decisione del Tribunale costituzionale polacco (n. 11/97) nella quale si scorge il modo in cui sono concepite in Europa le azioni positive aventi come destinatarie le donne.

In particolare, ad avviso del Tribunale, in presenza di radicali differenze sociali ed economiche, l’adozione di disposizioni che attribuiscono singolari benefici alle donne si traduce in un dovere per il legislatore.

In definitiva, le azioni positive perseguono un duplice scopo: da un lato, compensano le innumerevoli discriminazioni subite in precedenza dalle donne; dall’altro, agevolano una parità effettiva.

3.1 La giurisprudenza della Corte EDU in tema di azioni positive

Un contributo di rilievo in tema di azioni positive è offerto dalla giurisprudenza europea.

Le decisioni della Corte EDU si contraddistinguono per un aspetto cruciale: quest’ultime partono dal presupposto che l’art. 14 CEDU (“divieto di discriminazione”)[41] non intralci la predisposizione di misure volte a correggere le “discriminazioni di fatto” subite da un soggetto vulnerabile, come la donna, nel lavoro o nella vita quotidiana.

In tali pronunce, si riserva specifica considerazione al margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati contraenti in materia di politiche economiche e sociali.

È opportuno segnalare che, nel momento in cui è stata chiamata a pronunciarsi su casi sfavorevoli agli uomini, la Corte EDU ha optato per un sindacato più rigido. 

Nelle storiche vicende Pearson c. Regno Unito e Walker c. Regno Unito del 2006, i ricorrenti contestavano una discriminazione derivante dalla diversa età pensionabile prevista dalla legge inglese: mentre l’uomo poteva beneficiare della pensione all’età di sessantacinque, la donna acquisiva tale diritto cinque anni prima.

La contestata normativa inglese – ad avviso della Corte EDU – non violava il divieto di discriminazione di genere: la diversa età pensionabile stabilita per i due sessi trovava giustificazione nell’esigenza di alleviare le disuguaglianze derivanti dal mancato riconoscimento del lavoro della figura femminile nella sfera privata.

Al contempo, la Corte di Strasburgo ammise il recente avvicinamento del ruolo della donna a quello dell’uomo, non intravedendo però in essa una circostanza sufficiente per rivedere il sistema pensionistico.   

Lo stesso ragionamento è stato adottato dalla Corte EDU nella causa Andrle c. Repubblica ceca del 2011, avente come ricorrente un uomo.

Egli riteneva contraria all’art. 14 CEDU la normativa statale che stabiliva una riduzione dell’età pensionabile per le donne che si erano prese cura dei figli, negando tale beneficio agli uomini.

Secondo la Corte EDU, la legislazione della Repubblica ceca non violava la Convenzione: essa era stata emanata in una fase storica in cui si richiedeva alla donna di rivestire a tempo pieno la veste di madre e quella di lavoratrice.

La Corte di Strasburgo non trascurò i mutamenti sociali; tuttavia, ne sottolineò la natura graduale.

Analogamente, nella sentenza Runkee e White c. Regno Unito del 2007, relativa alle pensioni di reversibilità in favore delle vedove, la Corte EDU ribadisce che l’equiparazione delle posizioni tra uomo e donna costituisce un processo lento, che non prevede un termine puntuale.

Nel caso di specie, i ricorrenti contestavano anche la concessione di contributi una tantum in occasione della morte del marito: tale beneficio – a giudizio della Corte – era giustificato dalla necessità di sostenere la persona rimasta sola. Tuttavia, valendo tale esigenza per ambedue i sessi, l’esclusione della categoria maschile risaltava priva di una motivazione oggettiva e ragionevole.

Un metro di giudizio non rigoroso era stato adottato dalla Corte EDU anche nella causa Petrovic c. Austria del 1998.

In particolare, il ricorrente lamentava la violazione del divieto di cui all’art. 14 CEDU, in connessione con l’art. 8 CEDU (il diritto al rispetto della vita privata e familiare).

Tale violazione – stando al ricorrente – discendeva dall’impossibilità di avvalersi, dopo la nascita di un figlio, di un’indennità di congedo parentale, in origine accordata alla figura materna.

In un primo momento, la Corte EDU ammise l’esistenza di una disparità di trattamento fondata sul sesso e la parificazione dei ruoli rispetto a tale beneficio.

In seguito, essa tenne a ricordare che la vicenda era sorta in un periodo storico in cui i genitori cominciavano pian piano a condividere le responsabilità familiari.

Sempre secondo la Corte di Strasburgo, l’introduzione graduale di tali misure è motivata dal margine di apprezzamento attribuito dalla Convenzione agli Stati contraenti.

Il predetto approccio fu ribaltato nel caso Weller c. Ungheria del 2009, avente ad oggetto una discriminazione fondata sullo status di genitore.

La concessione di un contributo di natura finanziaria – ad avviso della Corte EDU – nei confronti della sola madre violava gli artt. 8 e 14 CEDU, considerando analoghe le posizioni del padre e della madre circa la cura della prole.

È opportuno chiedersi se sulle pronunce della Corte EDU abbia inciso la giurisprudenza europea.

Una parte della dottrina osserva che il peso dei precedenti comunitari è stato – a seconda dei casi – differente[42].

Occorre però precisare che l’influenza tra le due Corti opera anche in senso opposto: la stessa Corte di Giustizia ha sostenuto che la CEDU e la giurisprudenza ad essa attinente rivestono particolare importanza per la definizione dei principi generali che tutelano i diritti dell’uomo[43].

4. La riscrittura dell’art. 51 e la doppia preferenza di genere

Come già anticipato in precedente, la prospettiva dell’equilibrio di genere nelle istituzioni trova ingresso nel dettato costituzionale con le leggi costituzionali 18 ottobre 2003, n. 3, e 30 maggio 2003, n. 1.

Quest’ultima ha modificato l’art. 51 Cost. aggiungendo al primo comma la previsione generale per cui, in funzione dell’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive da parte dei cittadini, “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

Con il presente intervento, il legislatore intendeva superare definitivamente l’orientamento restrittivo della giurisprudenza costituzionale, per la quale tutte le misure positive elettorali risultavano incompatibili con l’art. 51 Cost.

L’indicazione della Repubblica come soggetto deputato a promuovere le pari opportunità enfatizza il compito, spettante alla stessa, di realizzare l’eguaglianza sostanziale attraverso la rimozione “ostacoli di ordine economico e sociale”, che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Il richiamo alla Repubblica, che investe nell’impegno per le pari opportunità tutti gli attori dell’ordinamento costituzionale, svuota di significato lo storico interrogativo sul carattere precettivo o solo programmatico della norma in esame, dal momento che essa “dà comunque copertura costituzionale ai necessari e successivi interventi del legislatore in materia, libero di scegliere mezzi e modalità dell’intervento, ma vincolato al fine prescritto dalla Costituzione”[44].

La formula linguistica impiegata dal legislatore costituzionale – diversa da quella utilizzata in precedenza – ad una parte della dottrina è apparsa, nell’ottica della promozione di una concreta eguaglianza, più debole[45].

Tale fragilità emerge dopo pochi anni l’approvazione della riforma: nella legge 21 dicembre 2005, n. 270 (“Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”) non era stata introdotta alcuna disposizione diretta a consentire un ribilanciamento della presenza femminile nelle aule parlamentari.

A tale proposito, si segnala la presentazione di un emendamento accettato dal Governo, il quale prevedeva la comparsa nelle liste di una quota di candidate non inferiore al 30%.

Il nuovo impianto costituzionale incide sulle conseguenti decisioni legislative, anche se in parte. In tale quadro, si colloca l’art. 56, comma 1, d.lgs. n. 198/2006, ai sensi del quale “nell’insieme delle liste circoscrizionali aventi un medesimo contrassegno, nelle prime due elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia […] nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati; ai fini del computo sono escluse le candidature plurime; in caso di quoziente frazionario si procede all’arrotondamento all’unità prossima”.

Il punto centrale di tale disciplina consiste nella previsione del successivo comma 2 che, in caso di violazione della proporzione tra candidati fissata dal comma 1, dispone la riduzione dell’importo del rimborso delle spese elettorali (legge n. 157/1999) “fino ad un massimo della metà, in misura direttamente proporzionale al numero di candidati in più rispetto al massimo consentito”.

In aggiunta, è prevista sanzione generale dell’inammissibilità per le liste circoscrizionali, racchiudenti più di un candidato, “che non prevedono la presenza di candidati di entrambi i sessi”.

Le lacune della riforma del 2003 sono parzialmente colmate dalla Corte costituzionale[46], la quale chiarisce il contenuto del principio costituzionale, escludendo un’interpretazione dell’art. 51 Cost. orientata meramente al principio di eguaglianza formale.

Con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 4, il predetto orientamento trova avallo: per la prima volta, la Corte ricollega il nuovo art. 51 al principio di eguaglianza sostanziale, statuendo che il nuovo sistema costituzionale è

“ispirato al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese”[47].

In tale occasione, la Corte costituzionale consacra il meccanismo della c.d. doppia preferenza di genere, introdotta in origine dalla Regione Campania (legge n. 4/2009).

Tale sistema consente all’elettore di esprimere uno o due voti di preferenza: in tale ultimo caso, “una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza”.

Si tratta di una “norma riequilibratrice”, volta ad “ottenere il risultato di un’azione positiva”, ma in modo indiretto ed eventuale, poiché sono le volontarie e discrezionali decisioni degli elettori a generarlo e non la legge ex se.

Infine, la Consulta evidenzia come la misura oggetto del giudizio, al pari di altre, non sia in grado di garantire un effettivo riequilibrio della rappresentanza politica tra i sessi, dato il suo carattere promozionale.

Un tale riequilibrio potrebbe conseguirsi solo attraverso il superamento di quelle “resistenze culturali e sociali, ancora largamente diffuse”, per volontà delle forze politiche e non del legislatore.

4.1 L’intervento del Governo sulla legge elettorale della Regione Puglia

Le recenti elezioni regionali sono segnate dall’intervento sostitutivo dell’Esecutivo sulla legislazione pugliese, volto a consentire lo svolgimento della tornata elettorale nel rispetto del principio della parità di accesso alle cariche elettive a livello territoriale.

In particolare, con il decreto-legge 31 luglio 2020, n. 86, convertito dalla legge 7 agosto 2020, n. 98, in ragione dell’omesso adeguamento della legislazione regionale in materia elettorale ai principi fondamentali in tema di parità di genere (art. 4, comma 1, lett. c-bis), legge n. 165/2004)[48] il Governo ha esercitato il potere sostitutivo (art. 120, comma 2, Cost.) integrando la normativa elettorale pugliese (L. R. n. 2/2005) con disposizioni che permettono di esprimere la doppia preferenza di genere.

Secondo la disposizione statale “qualora la legge elettorale preveda l’espressione di preferenze, in ciascuna lista i candidati (devono essere) presenti in modo tale che quelli dello stesso sesso non eccedano il 60 per cento del totale e (deve essere) consentita l’espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso, pena l’annullamento delle preferenze successive alla prima”.

La prima parte di essa trova riscontro nella legge elettorale pugliese: l’art. 8, comma 13, L.R. n. 2/2005 prescrive che “in ogni lista nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superi ore al 60 per cento”.

Il problema, invece, si pone in ordine alla seconda parte, relativa al numero e alle modalità di espressione delle preferenze: l’art. 7, comma 3, di tale legge regionale dispone che “ciascun elettore può esprimere (...) un solo voto di preferenza per un candidato della lista da lui votata, scrivendone il cognome sull’apposita riga posta a fianco del contrassegno”.

Il provvedimento sostitutivo del Governo rappresenta uno strumento di ingerenza dello Stato nella sfera di autonomia decisionale della Regione, tale da indurre a riflettere sulla violazione del principio di leale collaborazione (art. 120 Cost.).

Al contempo, l’omesso recepimento nella disciplina elettorale pugliese dei principi fondamentali in tema di parità di genere crea un problema di unità giuridica della Repubblica e di esercizio del diritto di voto, intaccando il “valore costituzionale” della rappresentanza territoriale[49].

Come già espresso, l’esercizio del potere sostitutivo del Governo – ad avviso dello stesso – è giustificato dall’omesso recepimento nella normativa elettorale pugliese dei principi fondamentali in tema di parità di genere, che integra la fattispecie di mancato rispetto di norme ai sensi dell’art. 120 Cost.

Tuttavia, come evidenziato da una parte della dottrina[50], né il preambolo né l’articolato riportano le norme di cui si eccepisce il mancato rispetto. 

In aggiunta, l’unica circostanza straordinaria di necessità ed urgenza di provvedere a titolo sostitutivo con decreto-legge, nonché la vicinanza delle elezioni nella Regione Puglia, non risulta nell’articolato[51].

A parte tali aspetti, il decreto-legge n. 86/2020 presenta ulteriori due profili problematici.   

Il primo attiene all’intervento con decreto-legge in materia elettorale, vietato dall’art. 15, comma 2, lett. b), della legge 23 agosto 1988, n. 400[52].

Avvalendosi dei ricchi spunti della giurisprudenza costituzionale[53], è possibile scorgere, nell’ambito della materia elettorale, un suo nucleo essenziale, sottratto all’intervento del legislatore d’urgenza e corrispondente al sistema elettorale in senso stretto.

Per quanto concerne la legislazione regionale elettorale, la Corte ha dichiarato che, come le consultazioni referendarie, anche la normativa sulla doppia preferenza di genere non rientra nella legislazione elettorale in senso stretto, bensì in quella “di contorno”.

Il decreto-legge n. 68/2020, dunque, risulta conforme alla giurisprudenza costituzionale in materia.

Sempre in ordine a tale profilo, una corrente di pensiero pone l’accento sulla rapidità con cui si è provveduto ad emanare il decreto-legge: in caso contrario, ove la sua conversione fosse stata respinta dalle Camere dopo l’attuazione della competizione e le stesse non avessero adottato una legge di sanatoria ex art. 77, comma 3, secondo periodo  Cost., “il risultato elettorale sarebbe stato posto gravemente in discussione, con riferimento alla cruciale attribuzione dei seggi nell’ambito di ciascuna lista fra i candidati  che la compongono”[54].

Il secondo profilo concerne la finalità sottesa all’impiego del decreto-legge, consistente 

nel monitorare la legittimità della legislazione della sola Regione Puglia circa il rispetto degli artt. 51, comma 1, e 117, comma 7, Cost. e dei principi fondamentali di cui alla legge n. 165/200 in tema di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive.

In realtà, il decreto-legge si prefigge di tutelare l’“unità giuridica della Repubblica” tramite l’esercizio dei poteri sostitutivi ex art. 120, comma 2, Cost., al fine di garantire in tutte le competizioni regionali l’eguaglianza tra i generi nell’accesso alle cariche elettive mediante l’eguale attribuzione, ad ogni elettore tenuto a votare a livello regionale, della possibilità di esprimere la doppia preferenza di genere.

Tale ragionamento però troverebbe riscontro nel caso in cui il decreto-legge n. 86/2020 si applicasse a tutte le Regioni che, pur ammettendo il voto di preferenza, non accolgono l’istituto della doppia preferenza di genere.

Esso non è previsto per le elezioni del Friuli-Venezia Giulia, del Piemonte, della Puglia, della Sicilia, della Valle d’Aosta e del Consiglio provinciale bolzanino. Il decreto-legge in esame, invece, riguarda solo la Regione Puglia.

La necessità di introdurre la doppia preferenza di genere esclusivamente in tale Regione non potrebbe essere giustificata in ragione delle “imminenti scadenze elettorali”. Oltre al Consiglio regionale pugliese, anche quello valdostano, privo di tale istituto, era prossimo al rinnovo.

La ragione che potrebbe aver indotto il Governo ad intervenire solo sulla legislazione elettorale pugliese e non anche su quella valdostana – a giudizio di chi scrive – risiede nella natura di Regione a statuto ordinario della prima e di Regione a statuto speciale della seconda.

Da ciò prende le mosse la riconduzione della normativa elettorale pugliese alla potestà concorrente (art. 122, comma 1, Cost.) e di quella valdostana alla potestà primaria (art. 15, comma 2 St. Vd’A). Occorre però segnalare che la giurisprudenza costituzionale

non ha escluso l’applicabilità anche in caso di autonomia speciale dei principi posti dalla legge n. 165/2004. La Corte[55], infatti, ha sostenuto che la Regione a statuto speciale “non potrà però sottrarsi, se non laddove ricorrano “condizioni peculiari locali”, all’applicazione dei principi enunciati dalla legge n. 165 del 2004 che siano espressivi dell’esigenza indefettibile di uniformità imposta dagli artt. 3 e 51 Cost.”.

L’intervento governativo, mosso dall’intento di dare attuazione ai principi costituzionali ex artt. 51, comma 1, e 117, comma 7, è apprezzabile.

Tuttavia, la lacuna della normativa regionale pugliese risulta colmata solo in parte. In tale senso, una corrente di pensiero[56] evidenzia come l’intervento sostitutivo abbia “lasciato impregiudicata la possibilità di presentare liste composte interamente da persone dello stesso sesso”.

5. La parità di genere nella legislazione elettorale nazionale

Nel corso del tempo, il legislatore nazionale è intervenuto in attuazione delle modifiche costituzionali apportate al testo degli artt. 51 e 117 Cost., anche con qualche difficoltà.

È opportuno partire dalla legge n. 65/2014, inerente all’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo, che racchiude il meccanismo della c.d. tripla preferenza di genere, strutturato in due distinti regimi.

Il primo, applicato alle elezioni del 2014, concedeva la possibilità di esprimere fino ad un massimo di tre preferenze, a condizione che si votasse per i candidati di entrambi i sessi, pena l’annullamento del terzo voto.

Il secondo regime, in vigore dal 2019, prevede, come sanzione, l’annullamento del secondo voto, oltre che del terzo, pretendendo dai partiti il rispetto delle regole sulla parità di genere nella composizione delle liste.

Dai dati giunti emerge come la rappresentanza femminile presso tale istituzione europea sia raddoppiata: le donne sono il 39,7% degli elettori italiani e per la prima volta sono al di sopra della media europea pari al 37%[57].

Il tema della parità di genere non è stato trascurato nell’analisi di un discusso disegno di legge, l’Italicum (legge n. 52/2015)[58].

Sin dalla sua presentazione in sede parlamentare, tale proposta per la Camera dei deputati includeva una norma volta a promuovere la parità tra uomo e donna.

Da un lato, si stabiliva l’obbligo a pena di inammissibilità di garantire una rappresentanza paritaria dei sessi nel complesso delle candidature circoscrizionali di ogni lista; dall’altra, di assicurare che, all’interno di ciascuna singola lista, non figurassero più di due candidati consecutivi del medesimo genere.

Tuttavia, con l’adozione di tali misure si sarebbe rischiato di non ottenere alcun risultato positivo: le nuove norme, infatti, prevedevano “listini bloccati” (da 3 a 6 candidati)[59], tali da impedire agli elettori di esprimere una preferenza.

I candidati sarebbero stati nominati in ordine di lista; pertanto, solo il partito che avesse conseguito più voti sarebbe riuscito a eleggere più di un candidato. In concreto, laddove i partiti avessero scelto solo capolista uomini, il risultato sarebbe stato piuttosto scarso in tema di parità di genere.

Accantonando i dibattiti, il testo, congedato il 15 aprile, stabiliva che nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista nessun sesso poteva essere rappresentato in misura superiore al 50%.

Per quanto concerne la singola lista, i candidati dovevano essere presentati in ordine alternato; i capilista dello stesso sesso non potevano essere più del 60% del totale in ogni circoscrizione; l’elettore poteva esprimere fino a due preferenze, per candidati di sesso diverso (c.d. doppia preferenza di genere), tra chi non era capolista (c.d. capolista “bloccati).

Occorre marcare la “facilità” con cui tale norma poteva essere elusa, se accostata alla previsione che riconosceva al capolista di essere candidato fino ad un massimo di dieci collegi: nel rispetto formale delle previsioni legislative, la medesima donna avrebbe potuto essere ricandidata in più collegi.

Un aspetto emblematico consiste nel fatto che l’Italicum trovi applicazione solo alla Camera dei deputati e non alle elezioni del Senato della Repubblica.

Alla luce di tali “intoppi”, si è ritenuto necessario, con l’entrata in vigore della successiva legge elettorale nazionale (c.d. Rosatellum o Rosatellum bis)[60], introdurre quattro disposizioni dirette ad assicurare l’eguaglianza tra i sessi nell’accesso alle cariche elettive.

Due di esse attengono alla quota riservata all’elezione tramite il metodo proporzionale: mentre per la Camera dei deputati, “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere”; per il Senato della Repubblica “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all’unità più prossima”.

La terza norma stabilisce, altresì, che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all’unità più prossima”.

La quarta previsione concerne il regime dei controlli sulla presentazione delle liste dei candidati, ammettendo dei sistemi sanzionatori in caso di irregolarità e di omesso rispetto di tali norme.

Una parte della dottrina[61] osserva come le previsioni appena delineate destino molteplici perplessità, sotto tre aspetti. Il primo attiene il piano dell’ordinamento costituzionale.

Le previsioni si inseriscono nel solco della riforma degli artt. 51 e 117 Cost., che persegue

“l’intento di agevolare la rappresentanza politica nazionale femminile mediante l’allestimento di misure volte ad aggredire la storica e persistente ridotta rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive”.

È innegabile che la mancata applicazione di soglie fondate sul criterio di equivalenza tra i sessi nella determinazione delle candidature entra in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, per il quale la configurazione degli strumenti normativi di equilibrio nella rappresentanza politica di genere deve essere incentrata su un trattamento eguale e paritario nella posizione iniziale dei candidati di sesso diverso nella competizione elettorale.

Il secondo aspetto problematico riguarda la circoscrizione Estero. Quest’ultima, infatti, rimane esclusa dall’applicazione di ogni misure volte al riequilibrio della rappresentanza di genere rimarcando, così, il divario tra i due sistemi di elezione.

Al contempo, essa resta coerente con le disposizioni sull’ordine alternato di genere nella successione interna delle liste e sul limite del 60% nella rappresentanza di un unico genere nella posizione di capolista.

Per quanto concerne l’elezione dei parlamentari afferenti alla circoscrizione Estero, si appura che esso consiste in un sistema elettorale integralmente proporzionale che ammette il voto di preferenza, non presente invece nel nuovo sistema elettorale nazionale.

Il terzo profilo delicato concerne la reale effettività delle misure predisposte a favore del riequilibrio nella rappresentanza politica tra sessi a fronte della legislazione elettorale già analizzata.

In definitiva, le criticità sorte in ordine alla nuova legge n. 165/2017 rivelano le numerose difficoltà applicative di tali disposizioni[62].

6. La posizione cruciale delle Giunte regionali e degli enti locali

Come già enunciato, l’art. 51 Cost. garantisce alle donne e agli uomini di accedere a tutti gli “uffici pubblici” in condizioni di uguaglianza.

Negli ultimi anni, il suddetto principio ha trovato spazio negli Statuti delle Regioni: si pensi, ad esempio, all’art. 11 dello Statuto della Regione Lombardia, nel quale si fa riferimento al concetto di “democrazia paritaria”, invitando la stessa a promuovere l’equilibrio nella nomina degli organi di governo.

Per quanto concerne gli Enti Locali, il principio di parità nella composizione delle Giunte è sancito dall’art. 6 TUEL (d.lgs. n. 267/2007), specificato in vari Statuti comunali, con versioni differenti.

Nella pratica, tali principi sono stati ignorati; le Giunte regionali, provinciali e comunali hanno continuato per lungo tempo ad essere composte prevalentemente da uomini, e nei casi peggiori, da solo uomini. 

Lo scenario delineato giustifica i ricorsi presentati ai giudici amministrativi.

Uno dei primi problemi posti ad essi riguardava la natura dei principi sulla parità: per diversi anni, infatti, si mantenne l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale, la quale qualificava tali principi come norme meramente programmatiche.

La giurisprudenza amministrativa ribalta la predetta impostazione: oltre ad incidere sulla recente legge n. 215/2012[63], essa offre nuovi rilevanti principi.

I giudici amministrativi respingono la tesi avanzata dai Sindaci di Comuni e Province che avevano deciso di disattendere le rispettive norme statutarie, costituendo così giunte c.d. “monogeneri”, in ragione della natura programmatica e non precettiva dei principi sulla parità.

Nel caso della Regione Puglia, il TAR era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del decreto con cui il Sindaco aveva nominato assessori di sesso solo maschile, ignorando l’art. 31 dello Statuto (“il sindaco, nella formazione della Giunta, assicura la presenza del due sessi”).

Con la prima decisione, il TAR[64] sospende gli effetti del decreto, sulla base di un difetto di motivazione da parte del Sindaco.

La seconda decisione (definitiva)[65] è rivoluzionaria: nell’ottica del TAR, il principio di parità, sancito dagli artt. 3 e 51 Cost. e riportato negli Statuti degli enti locali, condiziona la discrezionalità e la libertà della politica al rispetto del vincolo di genere. Tale visione è avallata in varie pronunce coinvolgenti non soltanto giunte comunali, ma anche provinciali.

In una decisione[66], incentrata sull’annullamento della Giunta provinciale di Isernia, il TAR Molise, rimarcando il carattere precettivo della disposizione statutaria, aggiunge che

“le valutazioni di carattere politico addotte per giustificare l’esclusione della rappresentanza femminile nella Giunta provinciale devono ritenersi recessive rispetto al precetto costituzionale di cui all’art. 51 e alle norme di fonte primaria...e sub primaria...poste a garanzia della rappresentanza femminile, cui anche gli accordi di coalizione devono necessariamente conformarsi”.

Il Consiglio di Stato[67], appoggiata l’interpretazione della natura precettiva delle norme in esame, osserva come “l’orientamento prevalente in tema di composizione delle Giunte degli enti locali appare rivolto a rinvenire l’esigenza di rispettare il principio delle pari opportunità fra uomini e donne sulla base della normativa statutaria che ciò preveda in modo precettivo e non meramente programmatico”.

Da tale filone giurisprudenziale si isolano due note decisioni.

Nella prima, il TAR Veneto, pur riconoscendo che le disposizioni statutarie della Provincia non lascerebbero “dubbi a che il Presidente della Provincia si attivi...in termini coerenti con dette prescrizioni”, assolve la Giunta, evocando la natura programmatica di tali norme.

Emblematica è la sentenza del TAR Lombardia: la Giunta regionale lombarda (composta da sedici assessori uomini e una donna) è assolta sulla base di un’interpretazione riduttiva dell’art. 11 dello Statuto regionale lombardo[68].

Esso riprende la precedente impostazione della natura programmatica delle disposizioni statutarie (Corte cost. sent. n. 422/1995), accordando all’art. 11 dello Statuto e in particolare all’espressione “democrazia paritaria” un’interpretazione svalutativa, statuendo “il processo di promozione dell’equilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica è, allo stato, appena avviato”.

Una decisione riformata dal Consiglio di Stato[69], che censura “l’evidente violazione di legge” in cui è incorso il Presidente della Regione nominando, in contrasto con lo Statuto regionale, una sola donna in Giunta.

Del resto, negli ultimi tempi, la giurisprudenza amministrativa si è schierata in difesa della realizzazione effettiva del principio della democrazia paritaria[70].

Alla pronuncia del TAR Lombardia segue quella del TAR Campania[71], la quale annulla la Giunta regionale (formata da undici uomini e una sola donna) per violazione dell’art. 51 Cost. e dell’art. 46 dello Statuto.

In particolare, l’autorità precisa che quest’ultimo “impone alla nomina compiuta dal presidente un vincolo di risultato”.

Tuttavia, tale vincolo non potrebbe essere raggiunto con la nomina di una sola donna, non essendo sufficiente la presenza di ambedue i sessi; il loro rapporto numerico deve essere tale da consentire una partecipazione equilibrata, alla stregua di un giudizio di ragionevolezza e di adeguatezza.

7. Conclusioni

È indiscutibile che il legislatore abbia tentato di riformare l’ordinamento giuridico, al fine di consacrare l’eguaglianza tra uomo e donna.

Il mancato raggiungimento di tale obiettivo – a parere di chi scrive – dipende dalla fragilità delle misure predisposte a supporto della rappresentanza femminile, non accostate dalla consapevolezza del valore della diversità di genere.

Resta dunque delicato e incongruente il rapporto tra condizione della donna e ruolo da attribuire agli strumenti del diritto, “affinché possano incidere efficacemente sul contesto sociale e culturale, trasformando le garanzie giuridiche affermate sulla carta in dinamiche di cambiamento strutturale delle relazioni fra i sessi”[72].

È opportuno precisare come la comparsa dei due sessi a livello istituzionale interessi non solo il genere femminile, ma la società.

La minore presenza delle donne in tale contesto si ripercuote sulla qualità dell’organo rappresentativo: le Assemblee elettive esprimono, tramite un continuo scambio dialettico, la cultura di una data società; pertanto, l’assenza delle donne al loro interno le impoverisce[73].

Al contempo, occorre segnalare i passi in avanti compiuti dal legislatore regionale e dalla giurisprudenza costituzionale.

In particolare, il primo ha introdotto una nozione nuova, la “cittadinanza di genere”, la quale trae origine dalle osservazioni degli studiosi di scienze sociale.

Con tale espressione[74] si indica un complesso di strumenti volti a consentire – o comunque agevolare – la partecipazione di tutti, a prescindere dal genere di appartenenza, alla vita pubblica, nonché nei settori in cui è sentito l’interesse della collettività.

Una parte della dottrina precisa la distanza tra la “cittadinanza di genere” e la cittadinanza: tra le nozioni sopraindicate non vi è un rapporto di genus e species.

L’ambito soggettivo di applicabilità è individuato indipendentemente dall’esistenza di un legame giuridico stabile tra l’individuo e un gruppo di riferimento[75].

Nella legislazione toscana e in quella marchigiana[76], la “cittadinanza di genere” è rivisitata in termini di principio delle politiche regionali per sopprimere le discriminazioni e porre in luce le differenze tra uomini e donne, grazie al coordinamento tra i livelli istituzionali e alle realtà associative radicate sul territorio.

Il merito della giurisprudenza costituzionale è quello di aver fugato ogni dubbio circa la natura del principio del riequilibrio della rappresentanza nelle cariche elettive.

Essa mira a realizzare l’eguaglianza sostanziale in materia elettorale, mediante meccanismi che, pur non assicurando una parità di risultato per mezzo di strumenti “solidi” (quote elettorali), siano in grado di concedere una parità di chances nella competizione elettorale[77].

Assodata la rilevanza di tali due attori, appare necessario riportare le cause poste alla base dell’esclusione femminile dalle istituzioni.

La prima è rappresentata dalla minore centralità della donna sul piano socioeconomico (“gli uomini godono di condizioni complessive più favorevoli alla partecipazione politica”)[78].

La seconda, avente natura culturale, consiste nella persistenza di un pregiudizio di genere: le stesse donne sono più propense a votare candidati uomini.

Infine, la terza causa, coinvolge la politica: gli organi di vertice dei partiti presentano una connotazione maschile resistente.

A tale proposito, occorre chiedersi se esistano ancora pregiudizi circa la capacità delle donne nell’esercizio del potere.

Una parte della dottrina[79] ritiene che l’accesso alle posizioni di vertice dipenda non solo dagli stereotipi[80], ma anche dalla mancata presenza di pioniere.

Altra parte della dottrina[81] sostiene che la modesta presenza delle donne nelle istituzioni, oltre ad essere il risultato di un’azione discriminatoria, sia legata da talune difficoltà, che inducono all’autoesclusione (impossibilità di conciliare gli impegni istituzionali con quelli privati).

Da un’analisi recente[82] emerge come il principio della parità di genere nell’ambito istituzionale stenti a consolidarsi in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea.

Alla luce di ciò, spetta a quest’ultima intervenire efficacemente, essendo la parità di genere il pilastro di ogni ordinamento democratico contemporaneo.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Sul tema, si veda E. DI CARO, Le madri della Costituzione, Il Sole 24 ore, Milano, 2021; M. COSSALI, G. MIRANDOLA, M. ROSSI, N. VOLANI, M. NANUT, Libere e sovrane. Le donne che hanno fatto la Costituzione, Settenove, Cagli (PU), 2020; G. GOTTI, Ventun donne all'Assemblea, Bompiani, Milano, 2016.

[2] A.C., III Sottocommissione, 13 settembre 1946. L’on. Merlin osserva che “nessuna differenza deve essere fatta tra gli individui dell’uno e dell’altro sesso”.

[3] A.C., sed. pom.,18 marzo 1947. Sul punto, l’on. Mattei dichiara che “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile; e per emancipazione noi non intendiamo già solamente togliere barriere al libero sviluppo di singole personalità femminili, ma intendiamo un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili e non solamente nel campo giuridico, ma non meno ancora nella vita economica, sociale e politica del Paese”.

[4] A.C., sed. pom., 25 gennaio 1947.

[5] A.C., III Sottocommissione, 20 settembre 1946.

[6] A.C., sed. pom., 18 aprile 1947.

[7] Come sottolineato da M. CARTABIA, Attuare la Costituzione: la presenza femminile nelle istituzioni, in M. D’AMICO, S. LEONE (a cura di), La donna dalla fragilità alla pienezza dei poteri? Un percorso non ancora concluso, Giuffrè, Milano, 2017, p. 18.

[8] Tale affermazione provocò la reazione dell’on. Maddalena Rossi. Nella seduta del 26 novembre 1947, la deputata si rivolse duramente ai propri colleghi: “Il diritto di partecipare all’amministrazione della giustizia, noi lo rivendichiamo tanto nel campo del diritto civile quanto in quello del diritto penale. Una donna può possedere un proprio patrimonio, può esercitare un commercio, è fattore essenziale nel processo produttivo. Lo sviluppo economico della società moderna ha posto e pone quotidianamente di fronte alla Magistratura una serie di problemi complessi e delicati, in cui la donna è coinvolta quanto l’uomo. Perché non dovrebbe essa avere il diritto di concorrere ad emettere giudizi dello stesso titolo? [...] onorevoli colleghi, ancora un’ultima osservazione. Si è affermato qui che la giustizia è amministrata in nome del popolo [...] non è esatto: soltanto la metà del popolo italiano ha fin’ora partecipato all’amministrazione della giustizia”.

[9] Si pensi, ai due progetti di legge presentati dall’on. Salvatore Morelli nel 1967 e nel 1977 (“Abolire la schiavitù domestica accordando i diritti civili e politici”).

[10] L. 30 giugno 1912, n. 666 (“Nuovo testo unico della legge elettorale politica”)

[11] Corte Cass., 12 dicembre 1906. Sul punto, si veda I. BRUNELLI, Il suffragio politico femminile ne’ suoi criteri giuridici, Torino, Utet, 1910.

[12] Si ricordi, lo scontro tra Filippo Turati e la sua compagna Anna Kuliscioff. Il primo considerava prematura la concessione del diritto di voto alle donne; la giornalista russa, invece, criticava la cauta posizione del partito socialista in ordine alla questione elettorale femminile.

[13] Così, C. TRIPODINA, 1946-2016 La questione elettorale femminile: dal voto delle donne al voto alle donne, in Rivista AIC, n. 3, 2016, p. 10.

[14] Così, M. FUGAZZA, S. CASSAMAGNAGHI, Italia 1946: le donne al voto, Istituto Lombardo di Storia contemporanea, Milano, 2006.

[15] Sul punto, si veda P. GABRIELLI, Il 1946, le donne, la Repubblica, Donzelli, Roma, 2009, pp. 77 ss.

[16] Così, L. CARLASSARE, La rappresentanza femminile: principi formali ed effettività, in F. Bimbi, A. Del Re (a cura di), Genere e democrazia. La cittadinanza delle donne a cinquant’anni dal voto, Rosenberg & Sellier, Torino, 1997, 87.

[17] Atti Parlamentari, II Legislatura, Senato della Repubblica, Discussioni, sed. 20 novembre 1956, 19091.

[18] Corte cost., 29 settembre 1958 n. 56.

[19] Corte d’Assise di Milano, 1° luglio 1958, in Giur. it., 1958, II, 289 ss.

[20] Cons. di St., Sez. IV, ord. 12 giugno 1959, in Foro it., 1960, III, 48.

[21] Come ricordato da C. LATINI, Quaeta non movere. L’ingresso delle donne in magistratura e l’art. 51 della Costituzione. Un’occasione di riflessione sull’accesso delle donne ai pubblici uffici nell’Italia repubblicana, in Giornale di storia costituzionale, n. 27, 2014, 154.

[22] Così, M. D’AMICO, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni. Strumenti di riequilibrio, in Giudicedonna.it, 2017.

[23] Atti Parlamentari, Legislatura III, Camera dei Deputati, Documenti. Disegni di legge e relazioni, proposta di legge n. 2441.

[24] Tale articolo è stato abrogato dall’art. 57 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”) ed è stato recepito dall’art. 31, comma 1, dello stesso decreto.

[25] Così, I. ALESSO, Il Quinto Stato. Storie di donne, leggi e conquiste. Dalla tutela alla democrazia paritaria, FrancoAngeli, Milano, 2012, 19.

[26] A tale proposito, si veda T. ADDABBO, A. GIUNTINI, F. PILLO, A. RINALDI, Le donne nella Magistratura italiana: 1960 – 1990. Working paper, DEMB WORKING PAPER SERIES, Dipartimento di Economia Marco Biagi - Università di Modena e Reggio Emilia, 2019, pp. 15-22.

[27] Così, F. TACCHI, Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall'Unità a oggi, UTET, Torino, 2009, 2014.

[28] Corte cost., 12 settembre 1995, n. 422.

[29] Corte cost., 13 febbraio 2003, n. 49.

[30] Art. 42 del D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”).

[31] Si ricordi che, dopo molti secoli di schiavitù, la discriminazione razziale, giuridicamente vietata, assunse le sembianze di una discriminazione di fatto, che condusse alla segregazione razziale.

[32] A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Cedam, Padova, 2002, p. 74.

[33] Executive Order 10925, 1961.

[34] La US Equal Employment Opportunity Commission (EEOC), istituita tramite il Civil Rights Act del 1964 per amministrare e far rispettare le leggi sui diritti civili contro la discriminazione sul posto di lavoro, indaga su denunce di discriminazione basate su razza, colore della pelle, origine nazionale, religione, sesso, età, disabilità, orientamento sessuale, identità di genere, informazioni genetiche e ritorsioni per segnalazione, partecipazione e/o o opporsi a una pratica discriminatoria.

[35] Executive Order 11246, 1965.

[36] In tale senso, si veda M. MONTI, Affirmative actions nella higher education, Fisher v. University of Texas, 579 U.S. (2016): una sentenza con qualche ambiguità di fondo, in Diritti Fondamentali, n. 2, 2016, pp. 5-13.

[37] Art. 141 Trattato CE.

[38] Art. 23 Carta europea dei diritti fondamentali.

[39] Corte cost., 23 marzo 1993, n. 109.

[40] Così, E. PALICI DI SUNI, Le ragioni delle donne e le donne nelle regioni, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 2001, n. 2, p. 605.

[41] Ai sensi dell’art. 14 CEDU: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

[42] F. SPITALERI, L. M. RAVO, Trattamenti preferenziali e azioni positive a favore delle donne: punti fermi e linee di sviluppo della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in F. SPITALERI, L’eguaglianza alla prova delle azioni positive, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 213-217.

[43] Si veda, Corte giust., 18 giugno 1991, causa C-260/89.

[44] Così, L. LORELLO, Quote rosa e parità tra i sessi: la storia di un lungo cammino, n. 2, 2017, p. 13.

[45] In tale senso, si veda M. MIDIRI, Sub art. 51 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, UTET, 2006, 1017-1029. In senso opposto, si veda I. SALZA, Le regole sulla partecipazione delle donne in politica: dalle cosiddette “quote rosa” al rinnovato quadro costituzionale, in Rassegna parlamentare, n. 1/2008, pp. 81-108.

[46] Corte cost., ord. 27 gennaio 2005, n. 39.

[47] Per un primo commento, si veda L. CALIFANO, L’assenso “coerente” della Consulta alla preferenza di genere, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2010; G. FERRI, Le pari opportunità fra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive e la “preferenza di genere” in Campania, in Le Regioni, n. 4, 2010.

[48] Esso è stato introdotto dapprima dall’art. 3 della legge n. 215/2012 e poi dall’art. 1, comma 1, della legge n. 20/2016.         

[49] Sulla rappresentanza coma “problema costituzionale”, si veda C.  LAVAGNA, Per una impostazione dommatica del problema della rappresentanza politica, in Stato e diritto, 1942, p. 192.

[50] Così, R. DICKMANN, L’esercizio del potere sostitutivo con decreto-legge per garantire l’espressione della doppia preferenza di genere in occasione delle elezioni regionali in Puglia del 2020, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 4, 2020, p. 9.

[51] Tale indicazione è riportata solo nella rubrica dell’art. 1 e alla fine del preambolo. In quest’ultimo, si confessa di “dover intervenire con urgenza, in considerazione delle imminenti scadenze elettorali a tutela dell’unità giuridica della Repubblica”.

[52] Ai sensi dell’art. 15, comma 2, lett. b), legge n. 400/1988: “Il Governo non può, mediante decreto-legge: […] b) provvedere nelle materie indicate nell'articolo 72, quarto comma, della Costituzione”.

[53] Corte cost., sent. 10 maggio 1995, n. 161.

[54] Così, M. COSULICH, Ex malo bonum? Ovvero del decreto-legge n. 86 del 2020 che introduce la doppia preferenza di genere nelle elezioni regionali pugliesi, in Federalismi, 2020, p. 4.

[55] Corte cost., 23 aprile 2010, n. 143.

[56] Così, L. TRUCCO, Dal mar Ligure allo Ionio: norme elettorali “last minute” e rappresentanza di genere di “mezza estate”, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo. Consulta Online, 2020, p. 15.

[57] Come riportato da M. D’AMICO, L’eguaglianza tra i sessi e la rappresentanza, in F. RESCIGNO (a cura di), Percorsi di eguaglianza, Giappichelli, Torino, 2016, p. 85.

[58] Legge 6 maggio 2015, n. 52 (“Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati”).

[59] Così, M. D’AMICO, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni. Strumenti di riequilibrio, cit.

[60] Legge 3 novembre 2017, n. 165 (“Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali”).

[61] Così, PAOLO SCARLATTI, La declinazione del principio della parità di genere nel sistema elettorale politico nazionale alla luce della legge 3 novembre 2017, n. 165, in Nomos-Le attualità del diritto, n. 2, 2018, pp. 15-20.

[62] Come avallato da L. TAGLIERI, Parità di genere e prima applicazione della legge n.165/2017. Le “quote rosa” e il percorso verso la parità di genere nel sistema elettorale, in Diritti Fondamentali, n. 1, 2018; A. PITINO, La rappresentanza di genere nella legge n. 165 del 2017: profili di dubbia legittimità̀ costituzionale, a prima lettura, in Quaderni Costituzionali, n. 2, 2018; V. FOGLIAME, La parità di genere nella legge elettorale e il ruolo dei partiti politici, in Osservatorio AIC, n. 3, 2018.

[63] Legge 23 novembre 2012, n. 215 (“Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni”).

[64] Tar Puglia, sez. III, ord. 12 settembre 2008, n. 474.

[65] Tar Puglia, sez. III, sent. 18 dicembre 2008, n. 2913. In tale senso, il TAR afferma che “lo statuto comunale limita la discrezionalità di cui il Sindaco gode nella scelta dei suoi assessori, scelta che, per tale ragione, non deve necessariamente previlegiare il dato politico” e che, nel caso di specie, il Sindaco avrebbe dovuto porre in essere ulteriori attività “allo scopo di verificare la disponibilità, tra le persone a lui legate da rapporto di fiducia, di donne disponibili ad assumere la carica di assessore”.

[66]  Tar Molise, sez. I, ord. 24 febbraio 2010, n. 51.

[67] Cons. Stato, sez. V, decr. 4 marzo 2010.

[68] Tar Lombardia, sez. I, 4 febbraio 2011, n. 354. Per un commento su tale decisione, si veda C. M. SARACINO, Il principio di opportunità tra ordine vigente e possibilità evolutive: il ruolo del giudice, in Foro amm., 2011, VI, p. 1829 ss; M. D’AMICO, La parità davanti ai giudici amministrativi. Il caso della Giunta regionale lombarda, in L. VIOLINI (a cura di), Verso il decentramento delle politiche di welfare, Giuffrè, Milano, 2011.

[69] Cons. Stato, sez. V, sent. 21 giugno 2012, n. 3670.

[70] Così, M. D’AMICO, Dall’uguaglianza nella Costituzione alla democrazia paritaria, in M. D’AMICO, A. PUCCIO (a cura di), Le quote di genere nei consigli di amministrazione delle imprese, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 25.

[71] Tar Campania, sez. I, sent. 7 aprile 2011, n. 1985. Un approccio condiviso anche dal Consiglio di Stato (sent. 27 luglio 2011, n. 4502). Su tale caso, si veda A. DEFFENU, Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche, Giappichelli, Torino, 2012, p. 113 ss.

[72] Così, L. CALIFANO, Parità dei diritti e discriminazioni di genere, in Federalismi, n. 7, 2021, p. 37.

[73] M. D’AMICO, L’eguaglianza tra i sessi e la rappresentanza, cit., pp. 75-76.

[74] Sul punto, si veda A. SIMONATI, Cittadinanza di genere: riferimento (solo) simbolico o concetto (anche) giuridico?, in E. BELLÈ, B. POGGIO, E. SELMI (curr.), Attraverso i confini del genere. Atti del convegno, Trento, 2012, p. 121.

[75] In particolare, A. SIMONATI, La ‘cittadinanza di  genere’:  una  possibile  chiave  di  lettura dell’evoluzione normativa, in S. SCARPONI (a cura di), Diritto e genere. Temi e questioni, Trento, 2020, p. 43, afferma che “la nozione giuridica di ‘cittadinanza’ rappresenta solo un “antecedente logico” rispetto a quella di ‘cittadinanza di genere’.

[76] Legge reg. Toscana 2 aprile 2009, n. 16; Legge reg. Emilia-Romagna 27 giugno 2014, n. 6.

[77] F. CORVINO, La natura prescrittiva del principio del riequilibrio dei sessi nella rappresentanza politica, in Osservatorio AIC, n. 3, 2012, pp. 7-8.

[78] G. PASQUINO, Nuovo corso di scienza politica, Il Mulino, Bologna, 2009, cit., p. 75.

[79] Così, M. MORINI, La leadership femminile: una comparazione, in A. PITINO (a cura di), Interventi di contrasto alla discriminazione e alla violenza sulle donne nella vita pubblica e privata. Un'analisi multidisciplinare, Giappichelli, Torino, 2017, p. 220.

[80] D. CAMPUS (a cura di), L’immagine della donna leader, Bonomia, Bologna, 2010, pp. 18-23.

[81] Così, B. POJAGHI, Donne e partecipazione politica, in Etiche e politiche di genere. Atti dei seminari di studio in occasione del ventennale di istituzione del Comitato Pari opportunità, Bari, 2010, p. 164.

[82] A. CIANCIO, Parità di genere e partecipazione politica nell’Unione Europea. Profili generali, in Rivista AIC, n. 1, 2016, pp. 12-27.