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Pubbl. Dom, 14 Nov 2021

190 anni del Consiglio di Stato e 50 anni dei TAR: Storia di continuità in perenne trasformazione

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Editoriale a cura di Ilaria Taccola



Si pubblica la Relazione del Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, in occasione dei 190 anni del Consiglio di Stato e dei 50 anni dei Tribunali amministrativi regionali. ”Dal Consiglio di Stato all’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali: una lunga storia di tutele contro il potere arbitrario (Torino, 12 novembre 2021)”.


Sommario: Premessa; 1. Storia: dalle origini alla Costituzione, e oltre 2; Il giudice amministrativo oggi: dalla tutela delle libertà e dei diritti alla garanzia dei diritti sociali; 3. Il contesto internazionale; 4. Conclusioni: riflessioni sull’etica pubblica e sull’autogoverno.

“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere” (José Saramago)

Premessa

Memoria del passato e responsabilità per l’oggi e il domani. È nella consapevolezza di questi due concetti che ci accingiamo a riflettere sugli anniversari del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali. La storia della giustizia amministrativa è una storia di tutele. Una storia di lotta contro il potere pubblico arbitrario. E poiché il potere muta e si trasforma, le tutele e quindi la giustizia amministrativa devono adeguarsi a tali cambiamenti. La storia del Consiglio di Stato è emblematica: nasce (almeno) 190 anni fa, come Consiglio al servizio del sovrano, si trasforma progressivamente in organo di consulenza tecnica fino a diventare, con l’istituzione della Quarta Sezione, il garante della “giustizia nell’amministrazione”, vero e proprio giudice che assicura la tutela della persona nei confronti del potere pubblico e la legalità dell’azione amministrativa. Un assetto confermato dalla Costituzione, che delinea il completamento del sistema giurisdizionale con la previsione della istituzione dei Tribunali regionali, e poi dalla lettura che del sistema attuale darà la Corte costituzionale con le note sentenze n. 204 del 2004, n. 190 del 2006, n. 140 del 2007 e con l’ordinanza n. 6 del 2018.  

Il fil rouge che lega questa storia, e che si sviluppa in parallelo con la trasformazione dello Stato di diritto e del potere pubblico, è la progressiva emancipazione del Consiglio di Stato dal sovrano e la sua trasformazione in un giudice indipendente, oggi a pieno titolo inserito nel sistema, nel frattempo divenuto europeo, delle tutele nei confronti dell’illegittimo esercizio del potere pubblico. Lo Stato di diritto nasce storicamente come evoluzione dello Stato autoritario e si caratterizza per la soggezione al diritto dei pubblici poteri, nel senso che il potere pone il diritto ma, nel momento in cui lo pone, ne riconosce la “superiorità” e vi si assoggetta.

Il motto dell’assolutismo, in cui il potere è “superiorem non recognoscens”, risulta capovolto nella transizione dallo Stato assoluto a quello di diritto. La sovranità, di cui è espressione il potere di produzione del diritto, subisce un’attenuazione, che si concretizza nella soggezione del potere al diritto posto da sé medesimo e, quindi, al giudice che del rispetto di quel diritto è il garante. Storicamente, e tradizionalmente, questo percorso è rappresentato in termini di separazione dei poteri, affinché, secondo l’impostazione, politica più che giuridica, di Montesquieu: “il potere freni il potere”. In una versione aggiornata e per certi versi semplificata del principio di separazione dei poteri, si propende oggi per una distinzione tra “istituzioni di governo e istituzioni di garanzia”[1].

È quindi naturale collocare la nascita del giudice dell’amministrazione nel passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di diritto e la sua evoluzione in parallelo con i cambiamenti di ruolo che il potere pubblico assume nella società.

Come vedremo, ripercorrendo insieme questi 190 anni, sono cambiati luoghi e scenari - il Consiglio di Stato ha cambiato più volte sedi, seguendo la capitale d'Italia - ma mai è venuta meno la sua centralità e il suo ruolo istituzionale, così come l’offerta costante di tutela e il ruolo di argine del potere pubblico.

1. Storia: dalle origini alla Costituzione, e oltre

Il Consiglio di Stato che il re di Sardegna Carlo Alberto istituisce con l’editto di Racconigi del 18 agosto 1831 era una sorta di Consiglio del Re, posto alle dirette dipendenze del sovrano e da questi presieduto. I ministri potevano trasmettere gli affari da discutere e potevano intervenire alle adunanze dell'organo ma sempre su autorizzazione regia. Come è stato detto, era «un mezzo con cui la Corona era posta in grado di esercitare un certo controllo e sindacato sui suoi ministri»[2]. Svolgeva dunque solo una funzione di consulenza alla Corona, e mai deliberativa (art. 20).

Il Consiglio di Stato sabaudo si affianca e ben presto si inserisce nel sistema del contenzioso amministrativo, di derivazione napoleonica: sistema vigente, sia pure con caratteristiche proprie, nei maggiori Stati italiani (Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie, Ducato di Parma e Piacenza)[3].

Una prima significativa tappa dell’emancipazione del Consiglio di Stato, ancora sabaudo, dal potere regio si ha con la legge Rattazzi del 1859, che sanziona definitivamente “la evoluzione del Consiglio di Stato da organo politico ad organo consultivo tecnico in materia amministrativa”[4], con l’abolizione della presenza del re, e con l’attribuzione di funzioni di giudice, in unico grado o di ultima istanza, del contenzioso amministrativo.

Nel 1865, con l’unificazione del regno, il percorso della giustizia amministrativa e della sua specialità si interrompe con l’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo e con la istituzione anche in Italia, sul modello della Costituzione belga del 1831, di un sistema di giurisdizione unica.

Nelle aspettative della classe politica del tempo, l’unicità di giurisdizione doveva assicurare una tutela maggiore nei confronti dell’amministrazione, in quanto di essa era garante il giudice ordinario, ritenuto l’unico depositario della tutela dei “diritti civili e politici”. Quella legge però si disinteressava delle situazioni che non potevano essere definite diritti, la cui tutela veniva affidata non più al giudice del contenzioso ma alla stessa amministrazione nella tradizionale sede dei ricorsi amministrativi. Si trattava pur sempre di situazioni di notevole interesse per i cittadini: attività collegate ad autorizzazioni di polizia, quali apertura di locali o autorizzazioni a svolgere determinate occupazioni, la tutela contro gli atti di un concorso pubblico, alcune materie tributarie. Queste situazioni rimanevano tutelate anche dal Consiglio di Stato, ma non come giudice bensì nella sua funzione di rendere pareri in sede di ricorso straordinario al re.

Ben presto ci si accorse dunque che la legge del 1865, pur mossa dall’intento liberale di affidare la tutela dei diritti a un giudice terzo e imparziale, conteneva il germe di una tutela “esigua e monca”[5]. L’effetto paradossale della legge del 1865 fu che una larga parte di contenzioso, al fine di sottrarlo a un giudice speciale e non abbastanza indipendente, il giudice del contenzioso, finì per essere affidato direttamente all’autorità amministrativa, che restava allo stesso tempo parte e giudice. Sembra essere un destino ricorrente nei sistemi a giurisdizione unica, se, con la Costituzione del 1946, anche il Belgio torna a un sistema di doppia giurisdizione e, soprattutto, se il Paese di diritto comune per antonomasia, il Regno Unito, pur mantenendo formalmente un sistema di giurisdizione unica, riconoscerà nel secondo dopoguerra la “specialità” del judicial review come strumento di tutela volto a scalfire l’area insindacabile riservata all’Amministrazione (i cd. Crown’s privileges).

Dalla consapevolezza che la svolta liberale aveva in realtà comportato un regresso nella tutela, nacque quel “movimento politico e dottrinale per la giustizia nell’amministrazione” (come lo definì Salandra) che condusse alla legge Crispi (31 marzo 1889, n. 5992), preceduta dai noti discorsi di Marco Minghetti a Napoli sulla ingerenza della politica nell’amministrazione e di Silvio Spaventa a Bergamo. E così, poco più di 20 anni dopo la legge del 1865, nel 1889, la giustizia amministrativa riprende il suo cammino: viene istituita la Quarta Sezione e ai componenti del Consiglio di Stato sono contestualmente assicurate garanzie di indipendenza dal sovrano.

Qui sta la chiave di volta del passaggio dal contenzioso amministrativo preunitario al sistema di doppia giurisdizione del 1889: non tanto la reintroduzione in sé del giudice amministrativo (che avevamo visto abolito nel 1865), quanto piuttosto la trasformazione del giudice del contenzioso, pensato nella logica interna all’apparato amministrativo, in un giudice oramai reso indipendente dal sovrano e dal potere esecutivo in genere, a garanzia dei diritti e degli interessi dei privati nei casi di esercizio illegittimo del potere pubblico.

La storia vera della giustizia amministrativa ri-comincia da qui, si sviluppa grazie all’autorevolezza del Consiglio di Stato e con il favore della Corte di cassazione che ne riconosce la natura giurisdizionale, ma anche grazie al rispetto del ceto politico, e dei governi, che riconoscono l’autorità del giudice amministrativo nel sindacare l’esercizio del potere. La questione politica di fondo del percorso della giustizia amministrativa è il rapporto tra individuo e potere[6]6 e la funzione del giudice amministrativo si evolve nel senso di assicurare in questo rapporto il rispetto della legge e la tutela dei diritti e degli interessi, mentre è la tutela della mera legalità amministrativa ad assumere progressivamente il carattere di strumentalità e “occasionalità”.

Questo connotato lo caratterizzerà anche nel periodo più difficile dell’esercizio del ruolo di argine del potere esecutivo, durante la dittatura fascista, sotto la presidenza di Santi Romano, pur voluta da Mussolini.

Le analisi condotte sul reclutamento dei consiglieri e i contenuti dell’attività istituzionale non consentono di concludere per una fascistizzazione dell’organo. Come rileva Guido Melis, la giurisprudenza del Consiglio di Stato si pone in dichiarata, se non enfatizzata, continuità con quella precedente del periodo liberale[7], perfino nella scellerata vicenda delle leggi razziali. Se il legislatore del 1938 aveva pensato a una legislazione speciale e discriminatoria sottratta a ogni scrutinio giurisdizionale (art. 26 R.D.L. n.1728 del 1938), prima la Corte di appello di Torino (sentenza 5 maggio 1939) e poi il Consiglio di Stato (IV, decisione n. 438 del 1940) arrecano un serio vulnus a questo impianto, negando valore costituzionale alla legge e quindi ritenendo che essa non fosse in grado di derogare al principio generale della tutela giurisdizionale dei diritti, fornendo così protezione ai cittadini di “razza ebraica”, mediante l’uso accorto, al limite dell’ipocrisia giuridica, di clausole e princìpi generali[8].

Il senso di indipendenza dimostrato dal Consiglio di Stato nel corso dell’intero periodo fascista e, più in generale, la qualità dell’attività giurisdizionale svolta nella prima parte del Novecento furono alla base della scelta del Costituente di confermare l’esistenza dell’organo (articoli 100 e 103 Cost.). Furono così superate le proposte volte a reintrodurre in Costituzione il modello della giurisdizione unica; proposte sostenute. da personalità del calibro di Calamandrei, preoccupato invero, oltre che dell’ingerenza dell’esecutivo nel giudiziario, “dell'ingerenza che il potere giudiziario può esercitare nelle funzioni amministrative”[9].

Se dunque la Costituzione mantiene il Consiglio di Stato, nella sua duplice funzione consultiva e giurisdizionale, il sistema della giustizia amministrativa si completa con la previsione, all’articolo 125, dei Tribunali amministrativi regionali, poi effettivamente istituiti solo nel 1971, con la legge n.1034 del 1971. Si vengono così a istituire due giurisdizioni “parallele”, ordinaria e amministrativa, entrambe –è importante sottolinearlo- che ripetono la propria competenza da una clausola generale di attribuzione di potere.

Le tappe finali sono rappresentate dalla lettura aggiornata che della giustizia amministrativa dà la Corte costituzionale e dal codice del processo amministrativo, che danno il segno, e il senso, di un percorso che non potrà mai interrompersi -perché il giudice amministrativo segue il potere pubblico (e, se necessario, lo insegue)- ma che è giunto a una fase di assestamento di rilevanza decisiva nel sistema complessivo delle tutele. Se già nella Costituzione il giudice amministrativo acquista una posizione di centralità “ordinaria” nel sistema delle tutele verso i pubblici poteri -per dirla con Mario Nigro, come “giudice ordinario degli interessi legittimi” in un “sistema generale di giustizia, con riferimento all’esercizio del potere pubblico”- le sopra richiamate pronunce della Corte costituzionale riconoscono la parità delle situazioni tutelate (diritto e interesse), cui deve corrispondere la parità dei giudici e delle tutele da loro offerte. Il giudice amministrativo è dunque il “giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica”, ovverosia il giudice dell’amministrazione che agisca in veste di autorità.

E il codice del processo amministrativo, nel 2010, darà a questo giudice, anche sul piano normativo, quegli strumenti di “tutela piena ed effettiva”, che spesso non sono 9 8 altro che la “positivizzazione” di tecniche di tutela di matrice eminentemente giurisprudenziale.

2. Il giudice amministrativo oggi: dalla tutela delle libertà e dei diritti alla garanzia dei diritti sociali

Quali sono i caratteri assunti oggi dalla giustizia amministrativa, allo scadere dei 190 anni del Consiglio di Stato e a 50 dall’istituzione dei Tar?

Richiamerò schematicamente due aspetti: la funzione consultiva del Consiglio di Stato e il ruolo del giudice amministrativo oggi nel sistema delle tutele.

- La funzione consultiva del Consiglio di Stato, da supporto tecnico all’amministrazione nelle scelte anche di gestione, si è andata sempre più caratterizzando come funzione neutrale: sul piano soggettivo, perché svolta non più solo in favore del Governo ma dello Stato-comunità (Camere, Regioni, Autorità indipendenti); sul piano oggettivo, perché svolta non con riferimento a specifiche problematiche di gestione bensì sull’attività normativa, sui ricorsi amministrativi al Presidente della Repubblica e su quesiti riguardanti temi di grande rilevanza politica e sociale; soprattutto, sul piano della natura e delle finalità, perché si tratta di una funzione neutrale svolta nell’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa e, quindi, in definitiva nella medesima posizione di terzietà richiesta al giudice. Il Consiglio di Stato resta dunque un “organo bicefalo”: giudice e consulente, ma una consulenza caratterizzata dall’essere affidata a un giudice; e la natura dell’organo si riflette sulla natura della funzione.

- Sul ruolo del giudice amministrativo oggi, va detto che la sua posizione varia a seconda degli spazi consentiti ai poteri pubblici: se nello Stato liberale il giudice è il garante del diritto “senza limiti”, cioè della libertà, nei confronti dell’autorità, secondo lo schema di Giannini, la dilatazione, diretta o indiretta, dei poteri pubblici, connessa allo Stato sociale di diritto, all’intervento pubblico nell’economia e allo Stato 9 promotore di benessere, fa sì che il giudice amministrativo divenga il garante delle pretese dei cittadini a ricevere dalle amministrazioni prestazioni in proprio favore; quindi un giudice che deve potere e sapere garantire i diritti a prestazioni amministrative, i diritti sociali, spesso di natura fondamentale, che le leggi attribuiscono alle persone[10].

E così il giudice amministrativo è spesso crocevia di rilevanti questioni nel campo dell’economia e dei diritti sociali. Quanto al primo, si pensi al contenzioso in materia di appalti, in materia di autorità di regolazione economica e di garanzia del mercato, di governo del territorio. Sui diritti sociali, si considerino i settori della salute (per esempio, in materia di vaccinazioni), dell'istruzione (ad esempio, l’insegnamento di sostegno), dei servizi sociali, dei migranti.

Se il giudice segue le trasformazioni e l’incremento dei poteri pubblici, la pandemia ha rappresentato un banco di prova impegnativo in particolare sotto un duplice profilo: perché i poteri “invasivi” richiesti dalle misure di emergenza hanno imposto al giudice tempi immediati nelle decisioni e un accorto uso della tecnica del bilanciamento; perché i conflitti tra i diversi livelli di governo hanno richiesto, ancor prima che la Corte costituzionale intervenisse con la recente sentenza n. 37 del 2021, un richiamo ai princìpi della sussidiarietà e della leale collaborazione nella soluzione delle controversie tra autorità centrale e autorità locali. E posso dire che la giustizia amministrativa ha retto la responsabilità con tempestività ed equilibrio: questo vuol dire saper stare al passo con le trasformazioni del potere, seguendole ma mai consentendo l’arbitrio o anche il semplice esercizio non corretto del potere.

3. Il contesto internazionale: Corti amministrative e Europa

Se si è sin qui delineato il contesto italiano, non può omettersi un riferimento ai rapporti tra i poteri nel contesto europeo, e, segnatamente, al ruolo delle Corti in Europa.

Le Corti, specie quelle amministrative, sono andate assumendo una rilevanza cruciale nella costruzione dell’ordinamento europeo.

Grazie al meccanismo triangolare, la Corte di giustizia trasforma le tradizioni costituzionali comuni in princìpi di diritto europeo, che, insieme con i diritti fondamentali come configurati dalla Corte EDU, diventano strumenti omogenei di sindacato sui pubblici poteri da parte delle Corti amministrative nazionali, dando vita a una protezione convergente dei diritti i quali, in ultima analisi, delineano uno statuto comune di cittadinanza europea.

Il dialogo orizzontale tra Corti amministrative dei Paesi membri, poi, dà corpo a questa cittadinanza europea in ogni singolo Stato ad opera dei propri giudici, che perciò devono restare indipendenti; è questo il motivo per cui la nostra presidenza dell’Associazione tra i Consigli di Stato e le Corti Amministrative Supreme dell’Unione europea ha voluto concentrare il confronto tra Corti proprio sul dialogo orizzontale e sull’applicazione concreta delle tutele nei confronti dei pubblici poteri nei Paesi membri.

4. Conclusioni: riflessioni sull’etica pubblica e sull’autogoverno

Il giudice, pur indipendente e imparziale, non è né può essere lo spettatore al sicuro che osserva una nave nel mare in tempesta, che ritroviamo nel proemio del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio. C’è un tema di fondo cui nessuna “parte” della comunità può sottrarsi: è il discorso dell’etica pubblica. Max Weber, nel celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), evidenzia come l’etica pubblica della società capitalistica si basi sul dovere 11 professionale, e cioè sul legame che l’individuo, nella sua professione, sente nei confronti della comunità. Nasce dunque dall’incontro tra l’etica e la sfera pubblica, denota, in qualche modo, “la moralità delle istituzioni” (per parafrasare Sebastiano Maffettone)[11]e presuppone un atteggiamento pro-attivo, un impegno nella comunità ciascuno per il proprio ruolo.

Per far ciò è necessario che noi giudici amministrativi per primi assumiamo la responsabilità del ruolo che svolgiamo. Un ruolo che entra nella vita quotidiana degli individui e delle imprese, che richiede una costante cura della nostra competenza professionale. Per il giudice l’etica pubblica è e deve essere cultura della giurisdizione, fondata su terzietà e imparzialità, che non significano separatezza e autoreferenzialità. L’etica perciò richiede apertura al confronto, nel processo e al di fuori di esso: il confronto ci migliora, mentre le chiusure, specie quelle corporative, ci impoveriscono, ci isolano e ci distaccano progressivamente dalla realtà.

Per usare la formula sintetica di Ferrajoli[12]12, le massime deontologiche che dovrebbero guidare il giudice nel processo sono: “la consapevolezza del carattere sempre relativo ed incerto della verità processuale, la prudenza nel giudizio, la disponibilità all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni”. In una, direi, l’arte del dubbio nella consapevolezza del dover decidere. L’imparzialità del giudice richiede un processo di neutralizzazione delle proprie convinzioni, di distacco dalle proprie esperienze; impone un uso sobrio e moderato dei social media, come di recente stabilito dal Consiglio di presidenza. Richiede, insomma, terzietà e indipendenza sostanziale. Una indipendenza esterna, certo. E l’autonomia dei giudici è un dovere che il legislatore deve preservare, nella cornice costituzionale.

Ma anche indipendenza interna, che costituisce un valore non disponibile e che sta all’organo di autogoverno assicurare.

Una menzione specifica va fatta, a questo punto, dell’associazionismo in magistratura. È un fenomeno storicamente positivo, perché favorisce il dibattito, pone a confronto visioni anche diverse della professione, dell’etica, della giurisdizione, consente di aprire la categoria alla società. Ma l’associazionismo non può condurre alla sindacalizzazione di ogni aspetto della vita del magistrato, dalle carriere agli incarichi, esterni e interni alla giurisdizione, ai profili disciplinari. Va insomma evitato un associazionismo autoreferenziale verso l’esterno, declinato nella rivendicazione del proprio valore per il solo fatto che si “è”, e, all’interno, fondato su logiche meramente distributive che prescindono dal merito delle persone e delle questioni.

Dall’associazionismo all’autogoverno il passo è breve, fin troppo per la verità. Il nostro Consiglio di presidenza ha, anche rispetto ad altre magistrature, una composizione fortemente rappresentativa su base elettiva. Può essere una peculiarità positiva, ma vanno evitate le possibili degenerazioni, quali l’assunzione di decisioni fondate sulla logica dell’appartenenza e su rapporti meramente personali. Il governo autonomo della magistratura è una prerogativa di noi magistrati che deve assicurare il fine istituzionale per cui la Costituzione lo contempla: garantire l’indipendenza interna ed esterna, della magistratura nel suo complesso e del singolo magistrato. Guai a servirsene per finalità meramente sindacali sganciate da ogni logica istituzionale: il governo autonomo della magistratura non può trasformarsi in governo corporativo della magistratura, dando concretezza ai timori già espressi da Mortati e Nigro.

La rappresentatività non può essere messa in discussione, ma nemmeno può operare come un grimaldello per scardinare il profondo senso istituzionale, e non sindacale, della funzione di governo autonomo della magistratura. La magistratura e i singoli magistrati meritano di essere governati dall’organo di governo autonomo, non dalle associazioni di categoria. Personalmente credo, sotto tale profilo, che sia giunto il momento di rimeditare la realtà dell’autogoverno, non certo per questionarne la valenza costituzionale, ma semmai per porre rimedio a evidenti degenerazioni del suo funzionamento e per ricondurlo a una logica istituzionale che lo sottragga a quella sindacale e corporativa. Di ciò il legislatore penso che dovrebbe farsi carico, anche per la nostra magistratura.

Concludo.

 Il Consiglio di Stato, tradizionalmente, e la magistratura amministrativa in generale, sono stati sempre considerati serbatoi di eccellenza, un’eccellenza basata sul merito. I canali di accesso confermano una selezione meritocratica fondata su più concorsi pubblici o sul servizio reso allo Stato nelle carriere più prestigiose, un’età media anche nella giurisdizione di vertice significativamente più bassa rispetto alle omologhe Corti, una provenienza geografica e sociale diversificata. Siamo consapevoli di dover mantenere alto quel prestigio che la giustizia amministrativa ha progressivamente acquisito nella storia delle tutele nel nostro Paese: non possiamo però considerarci titolari di una una rendita di posizione, oggi meno che mai, e ci si richiede piuttosto un impegno serio e costante.

 Solo così quella della giustizia amministrativa potrà continuare a essere una “storia di continuità in perenne trasformazione”, in cui il Consiglio di Stato nel suo lungo cammino -e da cinquanta anni la giustizia amministrativa tutta- è sopravvissuto a mutamenti storici radicali, non solo in Italia, proprio per questa sua capacità di adattarsi alle esigenze di tutela, mutevoli sul piano ideologico e sul versante storico. L’elemento di continuità, in questo itinerario, è costituito dalla costante attenzione a coniugare la tutela dei diritti e la garanzia del bene collettivo nell’esercizio del potere pubblico, certamente contro l’arroganza del potere pubblico, ma anche contro l’invasività degli interessi di parte.


Note e riferimenti bibliografici

[1] 1 L.Ferrajoli, Sul futuro dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, in Jura gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2005.

[2] S. Romano, La funzione e i caratteri del Consiglio di Stato, in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, vol. I, Roma, 1932, 1 ss., in part. 6-7

[3] Mentre un sistema assolutistico vigeva nel Lombardo-Veneto e nello Stato pontificio (secondo gli annotatori, in quest’ultimo, pur dopo la formale istituzione nel 1835 del contenzioso amministrativo); e un sistema di giurisdizione unica era presente nel solo Granducato di Toscana.

[4] G. Astuti, L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, Napoli 1966, 66.

[5] .U.Borsi, La giustizia amministrativa, Padova 1932,157. Lo stesso legislatore sembra essere consapevole del fatto che un simile riparto tra giudice e amministrazione lascia in balìa della seconda la tutela degli interessi che non possono essere qualificati come diritti. Pasquale Stanislao Mancini, nel ribattere ai fautori del sistema del contenzioso, che gli opponevano tale mancanza di tutela, ebbe a dire testualmente “questo cittadino è stato ferito, e forse gravemente nei suoi interessi? Che cosa ha sofferto…Semplicemente una lesione degli interessi? Ebbene ch’ei si rassegni”.

[6] Sul tema, in una prospettiva storica, restano affascinanti le pagine conclusive (spec.123ss.) del percorso “narrato” da W. Ullmann, Individuo e società nel Medioevo, Bari 1983, percorso dal quale emerge il passaggio dal suddito al cittadino lungo la storia che va dal Medioevo all’età moderna, alla soglia del mondo contemporaneo.

[7] F. Patroni Griffi, I pareri sull’attività normativa, in La giustizia amministrativa ai tempi di Santi Romano presidente del Consiglio di Stato, Torino 2004, 125 ss..

[8] Su tale premessa, con una serie di pronunce il Consiglio di Stato ammette il ricorso dinanzi a sé di cittadini ebrei “che continuano a essere soggetti di diritto”, sottolineando che il giudizio del Consiglio di Stato su questioni collegate all’appartenenza alla razza ebraica “non implica valutazioni di ordine politico, ma l’applicazione, solo, di rigorose norme di diritto”; ritiene che il licenziamento per motivi di razza debba essere assoggettato alle ordinarie garanzie procedimentali e processuali, estendendo la legittimazione a ricorrere anche agli ebrei non italiani che risiedano nel regno; annulla la revoca dell’iscrizione universitaria di un ebreo tedesco; equipara ai fini del trattamento economico i professori universitari ebrei dispensati dal servizio a quelli di “razza ariana”.

[9] Sul punto si veda la discussione del 9 gennaio 1947 sulla proposta dell’articolo 100 della Costituzione disponibile all’indirizzo https://www.nascitacostituzione.it/03p2/03t3/s3/100/index.htm.

[10] La tutela in sede giurisdizionale amministrativa è stata adeguata alla varietà dei rapporti tra cittadino e amministrazione e alla moltiplicazione dei centri di potere, attraverso la codificazione di un sistema aperto di rimedi che fanno di quella amministrativa una giurisdizione “piena”.

[11] La definizione si deve a S. Maffettone -che parla di etica pubblica come “forma di autocomprensione critica e collettiva” di una società o meglio di una comunità- ed è presente in Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzo millennio,Il Saggiatore, Milano, 2001 come riportata in D. Sisto, Etica pubblica, in Lessico di etica pubblica disponibile su http://www.eticapubblica.it/wp-content/uploads/2014/10/ETICAPUBBLICA-Sisto.pdf.

[12] L.Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, Bologna 2013, 15.