Pubbl. Mer, 10 Nov 2021
Tutela dei marchi, dei segni distintivi e del made in Italy: la disciplina dei marchi e dei segni distintivi secondo il diritto europeo e internazionale
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Andrea Giocondi
Sin dall’antichità i segni distintivi e, più nello specifico, i marchi, sono stati il mezzo per poter distinguere la proprietà e la provenienza di un prodotto o di un servizio immessi sul mercato. Con il progredire della società, simile basilare utilizzo si è rivelato, con la crescente globalizzazione dei mercati, assai limitato rispetto allo spettro di funzioni che potenzialmente il marchio avrebbe potuto incorporare, ed oggi incorpora, in sé. A tale funzione si sino allora affiancati i compiti di tutela sia del produttore dal rischio di confusione delle proprie merci sia del consumatore rispetto alle qualità del prodotto ricercate (ed anelate) in un determinato bene contrassegnato da uno specifico marchio. Il lavoro si propone di ripercorrere le fasi storiche (e la corrispondente evoluzione normativa) che hanno portato allo sviluppo dei segni distintivi, toccando i punti salienti non solo del diritto italiano, ma anche del diritto europeo, con un breve cenno allo stato dell’arte all’indomani della Brexit, e del diritto internazionale, non difettando, data la magnitudo della rivoluzione informatica/digitale e dell’era di internet, uno sguardo anche ai domain names qualificabili, anch’essi, come marchi.
Sommario: 1. Premesse storiche: l’utilità dei segni distintivi, dall’antichità ad oggi, attraverso le loro diverse funzioni; 2. L’approdo alle tre funzioni giuridicamente protette del marchio; 3. La disciplina dei marchi e dei segni distintivi secondo il diritto europeo; 4. Brexit: criticità sulla continuità di tutela dei marchi in UK; 5. La disciplina dei marchi e dei segni distintivi secondo il diritto internazionale; 6. I domain names.
1. Premesse storiche: l’utilità dei segni distintivi, dall’antichità ad oggi, attraverso le loro diverse funzioni
Uno degli ambiti di maggior interesse del diritto industriale è rappresentato dalla regolamentazione dei segni distintivi, tra i quali, in particolare, i marchi. Prima di sviluppare qualche breve cenno a questa disciplina, è utile però soffermarsi su alcuni rilievi preliminari, al fine di segnalare i passaggi che hanno condotto all’attuale impianto normativo, che ha carattere “multilivello” in ragione dell’intreccio tra normativa nazionale, europea ed internazionale.
Testimonianze di segni distintivi si rinvengono sin dagli albori della civiltà umana[1], allorquando sui manufatti o sui contenitori delle merci venivano apposti simboli per distinguerne la proprietà; riscontri più concreti ed evoluti di marchi risalgono, tuttavia, all’epoca romana durante la quale il signum veniva utilizzato come strumento di distinzione tra i ceti sociali (gentes), tra le gilde (collegia), ma anche come elemento indicativo di paternità e di provenienza delle opere e delle merci (il riferimento è, in particolare, alla marchiatura di animalia e di res).
Con la caduta dell’Impero Romano per mano delle tribù barbare e con il conseguente impoverimento tanto quantitativo quanto qualitativo dei commerci, l’importanza del signum (o sigillum) venne, tuttavia, meno; nell’Alto Medioevo predominò, infatti, un’economia curtense nella quale ogni comunità viveva ed operava come una monade, autosufficiente e chiusa, senza espansioni all’esterno degne di nota. Talché, in simile contesto, la necessità di distinguere le merci rivestiva un ruolo marginale e l’apposizione di un marchio ebbe rilievo solo ai fini dell’individuazione della proprietà, riferita pur sempre ad un numero esiguo di consociati all’interno di una ristretta comunità.
Il declino commerciale della società alto-medioevale si arrestò tra la metà del secolo XI e l’inizio del secolo XII d.C., con il fiorire dei Comuni e delle Signorie, nonché con la contestuale ripresa di più consistenti ed estesi traffici commerciali. Ciò avvenne grazie anche alla nascita delle Corporazioni di arti e mestieri: fu il momento storico in cui, finanche dal punto di vista giuridico, emersero, così, più approfondite riflessioni sul tema[2].
In particolare, le Corporazioni, in chiave autocratica, con spirito monopolista e di coordinamento e controllo dei propri associati, adottarono segni distintivi maggiormente chiari e di immediata comprensione al fine di identificarsi e di distinguersi all’interno di un mercato nuovamente concorrenziale, sia nei rapporti interni allo stesso Comune, sia rispetto ai Comuni rivali. Il tutto ferma la possibilità per i singoli artigiani, bottegai, commercianti, di adottare comunque il proprio esclusivo segno, allo scopo di esprimere la qualità, la bontà e l’eccellenza del prodotto; si tratta di connotazioni fortemente orientate dal mercato il quale, per la prima volta, seppur in un contesto ancora assai primitivo e ristretto rispetto a quello attuale, iniziò ad essere indirizzato dall’apprezzamento dei consumatori[3]: proprio l’utilizzo del marchio individuale e facoltativo, pur sempre accanto a quelli obbligatori, segnò, dunque, un primo timido passaggio ad un mercato più spiccatamente “aperto” e ad un utilizzo del marchio, in una qualche misura, anche a tutela del consumatore finale (non già più solo, cioè, quale prova della proprietà e della provenienza di un prodotto o di un servizio). In altri termini, proprio in quest’epoca, il segno distintivo cominciò ad assumere una piena “polifunzionalità”.
Sul finire del Settecento, con la caduta dell’ancien régime e con la rimozione delle pastoie determinate dai privilegi attribuiti alle istituzioni e alle corporazioni, la diffusione delle nuove linee di pensiero economico e filosofico spinse poi verso un liberismo sempre più spiccato, anche perché ritenuto maggiormente conveniente per la società moderna e per i consociati[4], che trovò peraltro linfa nell’evoluzione delle tecniche della produzione di massa ed in serie[5].
È da tale momento in poi che il mercato iniziò, così, a cambiare definitivamente volto e l’accezione di segno distintivo continuò quel percorso che avrebbe condotto alla concezione moderna e, quindi, ad attribuire al marchio la funzione di strumento di tipo concorrenziale oltre che di proprietà o di mera provenienza, anche nella prospettiva del consumatore finale[6]. Si tratta di un processo evolutivo assai graduale, sull’onda della progressiva diffusione del pensiero liberista[7], sebbene si sia potuto registrare un certo ritardo del diritto nell’allineamento alle evoluzioni del contesto economico.
La prima, rudimentale legge avente ad oggetto i segni distintivi ed i marchi, dalla quale trassero successivamente spunto le legislazioni degli Stati italiani preunitari e dei Paesi occidentali, venne emanata in Francia nel 1803 (Loi du 22 germinal an XI (12 avril 1803) MANUFACTURES, FABRIQUES ET ATELIERS)[8].
Muovendo poi l’obiettivo al nostro Paese, si può rammentare che la prima organica regolamentazione dei segni distintivi e dei marchi di fabbrica e di commercio (se si tralascia la l. 12 marzo 1855, n. 782 del Regno di Sardegna, poi estesa al Regno d’Italia per mezzo della l. 30 ottobre 1859, n. 3731, avente ad oggetto i brevetti e più in generale la proprietà industriale) si ebbe con la l. 30 agosto 1868, n. 4577 che aveva recepito una assai arretrata concezione del marchio (e dei segni distintivi in generale)[9].
Del resto anche le Convenzioni internazionali, quali la Convenzione d’Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883[10] e l’Accordo di Madrid per la registrazione internazionale dei marchi del 1891, seppur finalizzate ad edificare una disciplina comune e ad adeguarla alle esigenze pratiche dei traffici, confermarono la visione del signum come mezzo distintivo della proprietà dell’operatore economico; così, tali convenzioni ed accordi influenzarono ulteriormente il legislatore italiano, dal momento che anche il r.D. 13 settembre 1934, n. 1602, peraltro mai entrato in vigore, ed il r.D. 21 giugno 1942, n. 929 (c.d. ‘Legge marchi’) si posero in linea con simili visioni.
Lo stesso può dirsi finanche rispetto al Codice Civile del 1942 (artt. 2569-2574)[11] e, persino, al più recente d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (c.d. ‘Codice della Proprietà Industriale’)[12], successivamente oggetto di vari rimaneggiamenti che si sono avvicendati nel corso del tempo, che hanno inciso sensibilmente sull’impianto originario (cfr. da ultimo d.lgs. n. 15/2019 e d.l. 34/2019 conv. in l. n. 59/2019), ciò a causa, in particolare, della inopportuna scelta del legislatore di raccogliere in un unico corpus norme eccessivamente eterogenee[13].
2. L’approdo alle tre funzioni giuridicamente protette del marchio
In dottrina l’identificazione della funzione, giuridicamente protetta, del marchio è stata oggetto di un annoso dibattito, che ha parimenti coinvolto la giurisprudenza; senza dubbio, come già si è accennato, la funzione tradizionalmente rivestita dal marchio è e rimane quella distintiva o differenziatrice (Herkunftsfunktion), e cioè di identificazione della fonte di provenienza del prodotto o del servizio: in altri termini, il segno quale mezzo per l’operatore economico per distinguere il proprio prodotto e/o servizio da quelli dei concorrenti.
Tale visione è stata comunemente accettata almeno fino all’entrata in vigore del d.lgs. 04.12.1992, n. 480, emanato per dare attuazione alla Direttiva 1989/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia, per l’appunto, di marchi d’impresa.
Difatti, la sopra citata novella ha condotto al superamento del precedente approccio, attraverso lo svincolo del marchio dall’entità-azienda (rectius allo stabilimento industriale proprietario del marchio e produttore della merce) e, quindi, dell’accezione solipsistica “indicazione di provenienza”.
Con l’aumento della domanda e dell’offerta, con la sempre crescente facilità e velocizzazione degli scambi commerciali (anche per mezzo dell’utilizzo di internet e della conseguente c.d. “smaterializzazione dell’economia”), con la globalizzazione e la delocalizzazione delle imprese[14], pertanto, oggi, il marchio (e più in genere il segno distintivo) è chiamato ad assolvere la funzione, niente affatto secondaria, di tutela del consumatore finale, in termini di corrispondenza tra res e desiderata. Sicché, oggi, il marchio non è più vocato, in via principale, alla testimonianza della società produttrice, dello stabilimento di produzione o del luogo di provenienza, ma è deputato ad assicurare e certificare che un determinato prodotto/servizio presenti le qualità ricercate dal consumatore e/o da questi sempre riscontrate nei precedenti acquisti del prodotto/servizio.
Depotenziata la funzione di indicazione di proprietà e provenienza risulta, in definitiva, esaltata quella di garanzia qualitativa e di tutela del consumer welfare, intesa quale aspettativa da parte del consumatore di una costanza di qualità in ogni singolo bene/servizio contrassegnato dallo stesso marchio in ragione dell’attività di direzione e controllo esercitata lungo tutta la catena di produzione, ovunque situata (Garantiefunktion), alla quale si affianca il valore della suggestione pubblicitaria, assumendo, dunque, nella modernità, il segno un intrinseco potere di richiamo del consumatore quale “collettore di clientela”.
In questa prospettiva, ci si riferisce al c.d. “selling power”, cioè al potere acquisito sul mercato (Werberfunktion)[15]; a tale ultimo riguardo, allora, si può rimarcare che il marchio/segno distintivo mostra un carattere bivalente: strumento di vendita, per il produttore (lato sensu inteso) e per garantire l’acquisto da parte del consumatore, sulla base della provenienza.
3. La disciplina dei marchi e dei segni distintivi secondo il diritto europeo
Nella materia oggetto di analisi, preminente rilievo riveste il diritto dell’Unione europea (diritto di derivazione comunitaria prima ed europea poi) che, soprattutto negli ultimi decenni, ha fortemente indirizzato lo sviluppo delle legislazioni nazionali ed è stato oggetto di grande interesse da parte dei giuristi.
L’indirizzo europeo è stato fortemente influenzato, a sua volta, dalle novità del pensiero giuridico ed economico affermatisi all’indomani dei due grandi conflitti mondiali, che ha progressivamente imposto il principio della libera iniziativa economica, rintracciabile, in particolar modo, nelle Carte costituzionali degli Stati membri (nonché, più in generale, dei Paesi ‘occidentali’) [16].
Il principio, oggi punto focale per i legislatori nazionali, ha subìto, con le recenti evoluzioni dell’economia e dei mercati, innovative e progressiste interpretazioni: partendo da un contesto che rammostrava una realtà economica in cui risultava assai presente l’intervento dello Stato[17], si è giunti, in particolar modo nel corso degli anni ‘80 e ‘90, alla progressiva privatizzazione di imprese pubbliche ed alla dismissione di partecipazioni statali.
A livello comunitario, diversi sono stati gli interventi che hanno spinto gli Stati membri ad adottare misure volte a costruire un mercato interno improntato ad uno spirito marcatamente liberistico. Sicuro aiuto al perseguimento di tale obiettivo è stato dato dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) [18] che, nella categoria generale dello spazio di libertà, ha fissato la libertà d’impresa (“.. è riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali …”); il principio, non percepito sin dall’inizio quale imprescindibile presupposto per la realizzazione del mercato unico europeo, ha assunto però carattere vincolante per gli Stati membri e per le Istituzioni europee a decorrere dal 1° dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sulla spinta anche delle Corti europee.
In ogni caso, quanto impresso nella CDFUE non costituisce un unicum, impregnando, il principio della “libertà d’impresa”, sotto le diverse accezioni di libera circolazione delle merci e di libera concorrenza nel mercato, tutta la normativa europea[19].
Ad ogni modo, il diritto dell’Unione Europea dei marchi si è, in realtà, generato soprattutto attraverso il c.d. “formante giurisprudenziale”, ovvero attraverso le pronunce della Corte di giustizia dell’Unione Europea (già “Corte di giustizia CE”) e della Corte Generale (già “Tribunale di primo grado”); più in particolare, l’intervento della giurisprudenza europea è dipeso dalla necessità di dare corretta interpretazione alle norme del Trattato di Roma del 25 marzo 1957, istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE), in modo tale da evitare (rectius risolvere interpretando) i conflitti tra, da un lato, i diritti di proprietà industriale, aventi una innata e fisiologica portata territoriale ed esclusiva e, dall’altro lato, la tutela della libera circolazione delle merci e della libera concorrenza sul mercato (comunitario prima, eurounitario poi e, come si vedrà oltre, oggi prepotentemente globale)[20], obiettivo nodale, perseguito fortemente dagli Stati membri. È stato, infatti, proprio con il Trattato di Roma del 1957 che si è creata in Europa un’inevitabile ed insanabile antinomia tra l’anima europea fondata sul libero scambio e sul mercato unico e l’antitetica tutela dei diritti della proprietà industriale, messa in crisi, quest’ultima, dall’idea di una compressione in base alla fisiologica “territorialità”.
Il problema che si era posto, quindi, era quello che, applicando il principio di territorialità, sarebbe stato garantito al titolare di un segno distintivo registrato il diritto al suo uso esclusivo solamente nel territorio nazionale dello Stato luogo della registrazione, senza poter dare rilievo ad alcun fatto giuridico verificatosi oltre i confini. Ciò avrebbe comportato la possibilità per il titolare di agire, ovviamente, contro l’importazione e la vendita di merci munite illecitamente del proprio marchio o di marchi identici o similari, ed altresì, al contempo, di agire, bloccandone i traffici, anche nel caso di importazioni c.d. “parallele”, e cioè di importazioni di un prodotto ‘genuino’, già legittimamente e regolarmente immesso in commercio in una determinata area di mercato, ai fini della vendita in altri luoghi. In quest’ultimo caso, sebbene la funzione distintiva, tipica del marchio, non sarebbe stata pregiudicata (dato il regolare utilizzo del marchio), il titolare, ad ogni modo, per il richiamato principio di territorialità, avrebbe potuto imporre limitazioni ai traffici delle merci recanti il proprio segno, con ciò minando quegli stessi principi, fondanti l’Unione Europea (l’allora CEE), volti ad abbattere le barriere interstatali e a creare il Mercato unico europeo.
Sicché, per risolvere il contrasto, apparentemente insanabile, la giurisprudenza europea ha creato il principio del c.d. “esaurimento comunitario”, per mezzo del quale, una volta immesso in commercio un bene all’interno del territorio dell’Unione europea (in qualsiasi Stato membro), il titolare del diritto di proprietà industriale perde, su quel bene specifico, tutte le relative facoltà di privativa, cioè di possibilità di impedirne il traffico nel Mercato unico europeo, evitando così l’insorgenza di una divisione territoriale all’interno della UE a pregiudizio della libera circolazione dei beni e dei servizi[21].
Tuttavia, già a partire dagli anni Sessanta, nonostante le chiare ed unidirezionali pronunce giurisprudenziali, le carenze della lex scripta a livello comunitario avevano indotto le imprese e le lobby che ambivano ad operare sul mercato comune con la sicurezza di una indubbia ed unitaria protezione dei propri segni distintivi all’interno dell’area comune a sollecitare proposte normative volte a creare un sistema europeo che risolvesse i conflitti tra marchi[22]; proposte, queste, che sono sfociate, nel 1964, nella redazione, su iniziativa della Commissione CEE, di uno “schema di convenzione sul diritto europeo dei marchi”, progetto però poi abbandonato, almeno fino agli anni Ottanta.
Superato allora, sul finire degli anni Ottanta, il periodo di stallo, le istituzioni europee sono concretamente intervenute nell’armonizzazione delle normative nazionali in tema di marchi (e di diritto industriale), dando infine seguito alle sempre più pressanti richieste in tal senso avanzate dagli operatori economici.
Ecco, pertanto, che ha visto la luce la Direttiva 89/104/CEE del Consiglio (poi codificata come Direttiva 2008/95/CE e la recente Direttiva UE 2015/2436), sul ravvicinamento delle legislazioni sostanziali e procedurali degli Stati membri in materia di marchi di impresa: tale legislazione, attraverso previsioni, ora obbligatorie, ora facoltative, interessando in particolar modo le regole ritenute fondamentali e già in parte condivise dagli Stati membri, ha portato ad una maggiore armonizzazione delle norme nazionali. Sulla scorta di detta Direttiva e dei suoi rimaneggiamenti, in Italia, è stato quindi emanato il Codice della Proprietà Industriale (C.P.I.) di cui al d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30 (poi negli anni oggetto di modifiche ed integrazioni).
Parallelamente, l’UE ha anche creato, per assicurare una ancora più effettiva tutela dei marchi europei, un sistema specifico di protezione, operante in simultanea con la protezione già accordata dalle singole normative nazionali; a tal fine è stato adottato, quindi, il Regolamento (CE) n. 40/94, codificato come Regolamento (CE) n. 207/2009 (recentemente modificato dal Regolamento (UE) n. 2424/2015 codificato come Regolamento n. 2017/1001).
4. Brexit: criticità sulla continuità di tutela dei marchi in UK
Allorquando si affronta il tema dei marchi dal punto di vista del diritto eurounitario, brevi cenni vanno spesi sugli effetti della recente fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea (c.d. “Brexit”). Essendo terminato, in data 31 dicembre 2020, il periodo di transizione durante il quale nell’ordinamento anglosassone hanno continuato applicarsi anche le norme di derivazione comunitaria ed eurounitaria (conformemente all’accordo di recesso), è pertanto oggi doveroso interrogarsi sul regime futuro delle tutele dei marchi nel Paese anglosassone.
Sul punto, brevemente, si può rilevare che non si dovrebbero porre particolari problematiche atteso che i diritti derivanti dalla operatività dei marchi continueranno ad essere tutelati anche nel Regno Unito in base alla normativa speciale (cfr. ad esempio, ex multis, artt. 54 e 55 dell’Accordo di recesso e transizione sui marchi registrati). Ciò in quanto, nonostante la Brexit, nel Regno Unito, quale membro di Organizzazioni internazionali (WTO World Trade Organisation e WIPO World Intellectual Property Organisation tra tutte) ed in quanto già aderente a Trattati internazionali (FTA Free Trade Agreements quale principale), vige una normativa aderente a quella degli Stati membri, tanto più avendo detto Stato, già in passato, recepito le normative europee aventi ad oggetto l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri.
In aggiunta, con la sottoscrizione dell’Accordo di cooperazione l’Unione Europea ed il Regno Unito si sono finanche impegnati, per il futuro, a regolare la materia dei marchi secondo alcuni principi: innanzitutto, essendo parti dell’Accordo di Nizza sulla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi del 15 giugno 1957, come modificato e riveduto, UK e UE hanno pattuito di mantenere tale sistema di classificazione dei marchi; inoltre, sono stati anche convenuti ulteriori reciproci riconoscimenti ed impegni ad intervenire al fine di assicurare omogeneità nei territori di applicazione delle rispettive legislazioni.
Sicché, in definitiva, non sembra che la legislazione inglese necessiti di particolari interventi normativi al fine di continuare ad assicurare piena tutela alle imprese degli Stati facenti parte dell’UE[23]. Per i diritti ed i marchi già acquisiti e registrati in data antecedente all’01.01.2021, la tutela verrà assicurata anche attraverso i citati Accordi tra UK e UE, mentre i diritti ed i marchi di nuova creazione o in scadenza in data successiva a quella della definitiva uscita del Paese britannico dall’Unione Europea si necessiterà di un’apposita nuova registrazione presso le Istituzioni britanniche: così, gli operatori economici, al termine del periodo di transizione, potranno comunque continuare a godere di quei diritti di proprietà intellettuale “britannici” equivalenti a quelli già presenti nelle legislazioni nazionali degli Stati membri[24].
5. La disciplina dei marchi e dei segni distintivi secondo il diritto internazionale
È, tuttavia, in ambito internazionale che, soprattutto con la Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà intellettuale del 20 marzo 1883 (successivamente oggetto di revisioni ed aggiornamenti, ultima quella di Stoccolma nel 1967), è stato timidamente superato, per la prima volta, l’ostacolo della portata territoriale del marchio.
Eccettuata la felice esperienza di armonizzazione delle legislazioni nazionali e di mercato unico europeo avviata dalla UE, marchio è stato per lungo tempo sinonimo, in primis, di territorialità in quanto la relativa tutela veniva ritenuta operante esclusivamente all’interno del territorio dello Stato dove, a seconda della normativa locale, il signum o veniva registrato o ne veniva intrapreso primariamente l’uso.
Ebbene, con la Convezione di Parigi i Paesi aderenti si sono costituiti in una Unione per la protezione della proprietà industriale (sotto ogni suo aspetto, intendendosi: brevetti d’invenzione, modelli d’utilità, disegni o modelli industriali, marchi di fabbrica o di commercio, marchi di servizio, nome commerciale e indicazioni di provenienza o denominazioni d’origine) e per la repressione della concorrenza sleale.
Più in particolare, mitigando la fisiologica e arretrata portata territoriale dei segni distintivi, nel richiamato accordo internazionale sono stati sanciti alcuni fondamentali principi:
I) il principio “di assimilazione” o “di reciprocità” (artt. 2 e 3), per il quale è stato previsto che i cittadini di ogni Stato aderente all’Unione godano negli altri Paesi unionisti degli stessi diritti riconosciuti ai cittadini di questi ultimi nel proprio Paese di origine (per effetto dell’art. 3 vengono assimilati ai cittadini dei Paesi dell’Unione anche quelli dei Paesi non sottoscrittori che siano comunque domiciliati o che abbiano “.. stabilimenti industriali o commerciali effettivi e seri sul territorio di uno dei Paesi dell’Unione …”). L’art. 2 della Convenzione, difatti, prevede anche che “.. i cittadini di ciascuno dei Paesi dell’Unione godranno in tutti gli altri, per quanto riguarda la protezione della proprietà industriale, dei vantaggi che le leggi rispettive accordano presentemente o accorderanno in avvenire ai nazionali, restando però impregiudicati i diritti specialmente previsti dalla (..) Convenzione; essi avranno quindi la stessa protezione dei nazionali e gli stessi mezzi legali di ricorso contro ogni lesione dei loro diritti, sempre che siano adempiute le condizioni e le formalità imposte agli stessi nazionali …”[25], fatte salve, in ogni caso, le disposizioni della legislazione di ciascun Paese appartenente all’Unione relativamente alla procedura giudiziaria e amministrativa, alla competenza e all’elezione del domicilio o alla nomina di un mandatario, qualora fossero richieste dalle leggi nazionali sulla proprietà industriale;
II) il principio della “priorità unionista” (art. 4), attraverso il quale è stato sancito che chi abbia regolarmente depositato in uno dei Paesi dell’Unione una domanda di brevetto di invenzione, di modello di utilità, di disegno o modello industriale, di marchio di fabbrica o di commercio, o il suo avente causa, goda, in occasione del deposito negli altri Paesi unionisti, di un diritto di priorità (gli effetti della registrazione negli altri Stati vengono fatti retroagire alla data della prima domanda);
III) da ultima, la clausola c.d. “telle quelle”, per effetto della quale “.. ogni marchio di fabbrica o di commercio, regolarmente registrato nel Paese di origine, sarà ammesso al deposito e protetto tale e quale negli altri Paesi dell’Unione …”.
Il processo di “a-territorializzazione” è proseguito nel 1891, con la sottoscrizione dell’Arrangement concernant l’enregistrement international des marques de fabrique ou de commerce di Madrid (anch’esso successivamente oggetto di revisioni ed aggiornamenti, ultima quella di Madrid del 1989): in tale occasione, gli Stati firmatari hanno sostituito il procedimento di deposito plurimo previsto dalla antecedente Convenzione del 1883 (nella specie, era in precedenza necessario accedere ad una procedura di registrazione in ogni Paese nel quale si volesse tutelare pienamente il proprio segno distintivo) con un sistema di deposito unico avente piena efficacia in ogni Paese firmatario dell’Accordo[26].
Va tuttavia precisato che l’unitarietà del deposito, in verità, opera solo figurativamente: difatti, diversamente da quanto accade, per esempio, al marchio europeo, per la quale la registrazione in un Paese UE ha effetto immediato in ogni altro Stato membro, il marchio internazionale opera come un “fascio di marchi nazionali”, essendo previsto l’invio della domanda di registrazione ad uno degli uffici di uno Stato aderente all’accordo internazionale il quale poi, automaticamente, la inoltra ad ogni singolo ufficio preposto negli altri Paesi firmatari (o, altresì, agli uffici competenti dei Paesi designati dal registrante laddove si opti per la registrazione solo in alcune aree).
I suesposti standard di tutela della proprietà industriale e dei marchi, infine, sono stati richiamati ed ulteriormente ampliati anche nell’Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, meglio noto con l’acronimo di Accordo TRIPs, del 1994[27] (ratificato in Italia con l. 29 dicembre 1994 n. 747) e nel Trademark Law Treaty del 1994 (ratificato in Italia con l. 29 marzo 1999 n. 102) [28].
Quale novità più rilevante, è in particolare con l’Accordo TRIPs che sono state definitivamente eliminate non tanto le ritrosie ad una più diffusa protezione dei marchi, principio che si era già andato consolidando a seguito dei precedenti interventi in campo internazionale, quanto piuttosto le obsolete prospettive di applicazione delle tutele.
Difatti, sino alla entrata in vigore dell’Accordo TRIPs, le norme e gli interventi di cui agli accordi internazionali si fondavano su di una più tradizionale filosofia liberalizzatrice diretta all’apertura dei mercati nazionali verso l’esterno ed all’integrazione “negativa” imposta dal divieto di discriminazioni tra merci provenienti da diversi Stati. Viceversa, con detto Accordo, presosi atto della crescente globalizzazione (non solo dei mercati, ma, più in generale, della società e dei pensieri giuridici ed economici), è stata invertita la modalità di attuazione delle tutele: queste vengono oggi riconosciute non più mediante una algida e “negativa” imposizione di divieti calati dall’alto negli ordinamenti nazionali, ma, al contrario, vengono riconosciute sulla spinta di un’armonizzazione c.d. “positiva” delle legislazioni locali che avviene mediante una costante integrazione dei mercati tale da trasmutarli nelle mere parti di quel più vasto puzzle che è il mercato unico globale[29].
6. I domain names
Da ultimo, deve farsi cenno, almeno sinteticamente, anche a quella tipologia di segni distintivi e, più propriamente, di marchi, che sono i “nomi a dominio” (domain names).
Il nome a dominio (e cioè, ad esempio, “www.example.com”), dal punto di vista tecnico-informatico, è lo strumento di indirizzo del World Wide Web ed il mezzo per il cui tramite identificare univocamente gruppi di oggetti quali servizi, macchine e caselle postali, presenti sulla rete internet; in altre parole, rappresenta l’indirizzo elettronico che consente all’utente di accedere al sito sul web contrassegnato da un determinato nome. È anche opportuno sottolineare che ciascuna macchina informatica ha la necessità, per essere connessa sulla rete, di un proprio unico ed esclusivo indirizzo IP (ovvero l’Internet Protocol address, che è un’etichetta numerica identificante univocamente un dispositivo informatico, detto host, collegato ad una rete informatica) al quale si può associare un unico nome a dominio.
Nel corso degli anni Novanta, momento in cui l’utilizzo della Rete è stato consentito anche alle imprese ed ai privati cittadini, si è assistito ad una vera e propria corsa all’accaparramento dei nomi a dominio, spesso persino in maniera abusiva, trattandosi in alcuni casi di marchi noti sul mercato e di nomi di persone celebri[30]. La problematica è dipesa, in particolar modo, dall’utilizzo in maniera restrittiva da parte delle Registration Authorities (id est gli Enti nazionali che, su delega della ICANN Internet Corporation for Assigned Names and Numbers[31], gestiscono a livello locale, nel territorio di competenza, l’assegnazione degli IP e dei domain names ai richiedenti) del principio c.d. “first come-first served” ai fini della registrazione dei domain names: l’applicazione di tale principio, al quale tutt’ora si ricorre, porta ad attribuire un determinato indirizzo internet all’utente che per primo ne abbia presentato la richiesta, senza che venga preventivamente esperita alcuna verifica della legittimazione alla registrazione o della potenziale lesione dei diritti di terzi (anche eventualmente titolari del corrispondente marchio commerciale).
Talché, l’utilizzo eccessivamente rigoroso di un simile protocollo e la contemporanea mancata presa di coscienza, soprattutto da parte dei giuristi e degli informatici, che un sito internet ed il relativo nome a dominio potessero incarnare la funzione di vero e proprio segno distintivo di un’impresa, ha consentito agli utenti della Rete di porre in essere condotte illecite.
È oggigiorno indubbio che, in un momento storico volto alla c.d. “economia di internet”, le imprese, per organizzare e promuovere la propria attività imprenditoriale o persino per vendere i propri beni e servizi, ricorrano sempre maggiormente alle nuove tecnologie, tanto che il numero di imprese online è in perenne crescita. L’uso e la registrazione dei domain names rammostrano, allora, l’ineludibile esigenza di conciliare la vocazione naturale di internet all’anomia ed allo “spontaneismo” (oltre che alla “a-territorialità” ed alla “a-materialità”) con la salvaguardia dei principi fondamentali quali la certezza del diritto, la tutela del legittimo affidamento degli utenti/clienti nonché la tutela della libera e leale concorrenza sul mercato dei diversi players economici[32].
Difatti, dopo un periodo di ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale, il domain name è oggi accettato quale segno distintivo il cui compito è quello di permettere all’utente/consumatore di pervenire ai beni, ai servizi ed ai contenuti offerti e presentati da un operatore economico per il tramite del sito web. Pertanto, il nome a dominio, in quanto marchio, rappresenta tutto quello che è l’impresa e tutto quanto questa offre sul mercato, digitale e non, ovvero quello che l’impresa necessita e vuole far figurare ed offrire agli utenti online.
La riprova dell’importanza economica rivestita da una simile forma di marchio (e dalle tecniche di marketing che vi si possono associare) è data dal fatto che gran parte dei contenziosi tra imprese aventi ad oggetto i siti web aziendali si imperniano giustappunto sulla tutela dei nomi a dominio quali segni distintivi; precorritrici di tali conflitti sono state, in particolar modo, le società di diritto statunitense[33], essendo gli Stati Uniti la Nazione che ha inaugurato l’utilizzo in campo civile della rete internet (la Rete, si ricorda, era stata creata durante il periodo della Guerra Fredda per scopi esclusivamente militari).
La tutela del domain name quale vero e proprio segno distintivo, oggi pacifica, è stata traslata nella normativa italiana (nel C.P.I.) solamente con il proficuo contributo della giurisprudenza[34], non essendo accordata, almeno sino all’entrata in vigore del predetto Codice, siffatta tutela in alcuna norma.
Ebbene, originariamente, tampoco la giurisprudenza, soprattutto di merito, aveva ritenuto che il nome a dominio, identificativo di un sito internet, potesse rivestire le funzioni tipiche di un signum: difatti, in ragione di una ristretta e poco oculata applicazione del significato tecnico-informatico di nome a dominio, ritenendosi che costituisse un mero indirizzo elettronico avente la funzione di individuare quelle macchine connesse alla rete, i giudici pervennero a rigettare le richieste inibitorie che, sulla scia di quelle che già garantivano tutela avverso l’utilizzo di segni distintivi da parte dei non titolati, erano state avanzate da diversi operatori del mercato[35].
Tuttavia, tale orientamento ha avuto limitato e breve seguito tant’è che la stessa giurisprudenza italiana, seguendo gli spunti della giurisprudenza statunitense[36], ha abbandonato la posizione originariamente “tecnocratica”, sancendo al contempo l’applicabilità della normativa sui marchi anche ai nomi a dominio, così come oggi ritenuta[37] e finanche tutelata dal C.P.I. (in particolare dagli artt. 12, 22, 118 e 133).
L’attuale versione del Codice, infatti, nell’individuare nel domain name un autonomo tipo di segno distintivo, all’art. 22 sancisce, a chiare lettere, che “.. è vietato adottare, come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell’attività economica o altro segno distintivo un segno uguale o simile all’altrui marchio …”, parificando quindi la ditta, l’insegna ed il nome a dominio nel loro rapporto con la figura del “marchio”. Talché, non si può negare ad un’impresa la protezione del proprio marchio semplicemente perché il domain name risulta già utilizzato, antecedentemente e da un diverso soggetto, nel “cyberspazio”, ciò in quanto la ratio della legge sui marchi è quella di garantire che solo un determinato produttore (e non un concorrente o un approfittatore) possa raccogliere i benefici finanziari legati alla reputazione del proprio prodotto e del proprio nome sul mercato.
Anche il sito web aziendale è quindi, oggi, oggetto di specifica tutela, alla stregua di un qualsiasi marchio, dovendosi intendere la realizzazione di un sito internet quale manifestazione dell’esercizio della libera iniziativa economica privata[38].
[1] Per un approfondimento storico si vedano J. BELSON, Certification Marks, Special report, London, 2002; R. FRANCESCHELLI, Sui marchi di impresa, Milano, 1988; S. DI PALMA, La Storia dei marchi dall'Antichità fino al Medioevo, Booksprint, Salerno, 2016.
[2] Sporadici cenni sui segni distintivi possono essere rintracciati nella Magna Glossa ed in altre opere dei Glossatori. Il Tractatus de insigniis et armis di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) viene considerato la prima unitaria trattazione dottrinaria dedicata ai marchi, sebbene essa abbia in realtà ad oggetto in particolar modo gli elementi araldici.
[3] Tre sono i modelli storici di marchio utilizzati in epoca basso-medioevale e rinascimentale: I) il marchio collettivo e obbligatorio, uguale per tutti gli appartenenti ad un’arte, apposto solo se veniva riscontrata dai funzionari della corporazione la rispondenza delle merci/opere agli standard qualitativi di cui alle regulae artis; II) il marchio individuale e obbligatorio, diverso per ogni singolo commerciante/artigiano, ma apposto sempre sotto la vigilanza dei funzionari della corporazione al fine di verificare la provenienza delle merci; III) il marchio individuale e facoltativo, liberamente apponibile da ogni singolo commerciante/artigiano, sempre con fine distintivo delle merci.
[4] Tra tutti, occorre rammentare la teoria della ‘mano invisibile’ di Adam Smith - con tale metafora viene rappresentato il ruolo della Provvidenza (immanente), per virtù della quale all’interno del libero mercato la ricerca egoistica del proprio interesse si rivelerebbe favorevole non soltanto per il soggetto che la conduce, ma anche per l’intera società, poiché foriera del c.d. “equilibrio economico generale”. Si rinvia anche al movimento del manchesterismo di Richard Cobden e di altri illustri pensatori inglesi (freedom of trade e freedom of contract), nonché il principio del laissez faire degli economisti francesi dell’epoca.
[5] Basate sui principi elaborati da noti industriali ed economisti quali Frederick Taylor ed Henry Ford.
[6] “.. Branding has long been understood by marketers as a cognitive and affective domain that extends far beyond the trade mark around which the brand is built. A brand comprises a unique synthesis of mental associations, identities, information and corporate and product personality images. The effective creation and delivery of brand imagery that resonates with consumers’ preferences are critical for success in the marketplace. Although branding is open to allegations of being a concept that defies a workable legal definition, it is firmly ingrained within the fabric of modern commerce …” (J. BELSON, Reflections on branding and trade marks: then and now, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, Volume 14, Issue 8, August 2019, pp. 601–606).
[7] Si vedano anche le posizioni di illustri pensatori del ‘900 quali, per citarne alcuni, Milton Friedman, Friedrich Von Hayek e Luigi Einaudi.
[8] Cfr. in particolare il Titolo IV sui ‘Marchi privati’, laddove, in soli tre articoli, erano disciplinate le modalità di tutela del marchio.
[9] La formulazione dell’art. 1, c. 1, della l. n. 4577/1868 (“.. Chiunque adotta un marchio, o altro segno, per distinguere i prodotti della sua industria, le mercanzie del suo commercio …”), ed in particolare l’utilizzo del termine ‘sua/suo’, sembra infatti porre rilievo solamente alla funzione differenziatrice del marchio, cioè quella della distinzione della proprietà e della provenienza del prodotto o del servizio da un individuato operatore economico.
[10] La firma di una simile Convenzione venne sentita come improcrastinabile in seguito al rifiuto da parte di alcuni inventori di partecipare alla Mostra Internazionale delle Invenzioni di Vienna del 1873, per timore che le proprie idee potessero essere copiate e commercializzate in altri paesi a causa dell’assenza di tutele sovranazionali.
[11] Nella Relazione al Codice Civile si legge che, sebbene il legislatore avesse ben chiaro che “.. la disciplina legislativa del marchio è materia ancora fluida …” e che, seppure si intravedessero timide tracce di “.. funzione ed utilità [del marchio collettivo che] non può essere disconosciuta soprattutto in certi rami della produzione nei quali costituisce anche ottima garanzia del consumatore …”, “.. anche per il marchio, come per la ditta, viene fissato il principio, dogmaticamente corretto e praticamente opportuno, della sua trasferibilità esclusivamente con l’azienda o con un ramo particolare di questa …”, così continuandosi a riconoscere al marchio, di fatto, la sola funzione distintiva.
[12] In particolare ci si riferisce alla formulazione dell’art. 7 che, tra le condizioni di registrabilità, riporta il presupposto che il marchio sia idoneo, testualmente, a “.. distinguere i prodotti o servizi di un’impresa da quelli di altre imprese …”.
[13] Al riguardo, osserva appropriatamente in tal senso L. MANSANI, Le disposizioni in materia di marchi nella bozza di codice dei diritti di proprietà industriale, in L.C. UBERTAZZI (a cura di), Il Codice della proprietà industriale, Milano, 2004, p. 69, laddove l’Autore afferma che l’ambizione di dare vita ad un testo unico ha rappresentato “.. una fatica velleitaria e fondamentalmente inutile, essendo quel testo destinato ad essere affiancato in breve tempo da altre norme eterogenee, che richiederebbero suoi continui aggiornamenti, adattamenti e modifiche …”.
[14] Del resto, secondo la Relazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Politiche europee dell’01.06.2018, è stimato che il 60% dei consumi privati ed il 30% dei consumi pubblici di beni e servizi legati all’economia digitale avvenga attraverso intermediari online, tanto che una delle priorità fondamentali della Commissione Europea è la creazione di un mercato unico digitale (in aggiunta a quello fisico esistente già privo di barriere). Secondo i recenti numeri forniti dall’Osservatorio B2c del Politecnico di Milano, l’eCommerce in Italia nel 2020 ha raggiunto i 22,7 miliardi, 4,7 miliardi di euro (+26%) in più rispetto al 2019 e ben 13,2 miliardi di euro in più rispetto a soli 5 anni prima (nel 2016 il valore si attestò sui 9,5 miliardi di euro). Come intuibile, l’emergenza sanitaria globale da Covid-19 ha spinto ancor di più verso la globalizzazione e la virtualizzazione del mercato, incentivando i consumatori all’utilizzo delle piattaforme online e facendo emergere nuove soluzioni per mantenere la continuità dei servizi e dei commerci, inducendo le imprese con un approccio al mercato ancora “analogico” a digitalizzarsi. Secondo il report annuale della CGIA di Mestre, il fatturato dei “big digitali” nel solo 2020 è aumentato del 17%.
[15] Per la verità la dottrina tedesca identifica addirittura ben 6 funzioni diverse del marchio: differenziazione, d’origine, di garanzia, pubblicitaria, di monopolio e di protezione difensiva: cfr. amplius BAUMBACH-HEFERMEHL, Warenzeichenrecht, Munchen, 1985, passim. Per la dottrina francese e belga, invece, sarebbe da escludersi la funzione qualitativa perché già parte della funzione distintiva: cfr. amplius P. MATHELY, Le droit des signes distinctifs, Paris, 1984, passim, e A. BRAUN, Précis des marques de produits et de services, Bruxelles, 1987, passim. Parimenti in tal senso cfr. le conclusioni dell’Avvocato Generale F.G. Jacobs in Corte Giust. CE, 12.11.2002, C-206/01 (Arsenal Football Club plc C/ Matthew Reed) e in Corte Giust. CE, 04.11.1997, C-337/95 (Parfums Christian Dior SA e Parfums Christian Dior BV C/ Evora BV).
[16] Nell’ordinamento italiano il principio è espresso dall’art. 41 della Costituzione. Cfr. anche: “.. Se reconoce la libertad de empresa en el marco de la economía de mercado. Los poderes públicos garantizan y protegen su ejercicio y la defensa de la productividad, de acuerdo con las exigencias de la economía general y, en su caso, de la planificación …” (art. 38 Constitutión Española); “.. The state shall endeavour to secure that private enterprise shall be so conducted as to ensure reasonable efficiency in the production and distribution of goods …” (art. 45.3.2 Constitution of Ireland).
[17] Nella Relazione al Progetto della Costituzione a firma di Meuccio Ruini, così, infatti, si legge: “.. La costituzione riconosce e garantisce nell'economia italiana - ed a ciò non si oppongono le correnti estreme - l’iniziativa e la libertà privata, e la proprietà privata dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Il progetto pone in luce la coesistenza di attività pubbliche e private che debbono ciascuna proporsi di provvedere insieme ai bisogni individuali ed ai collettivi. Limitazioni della proprietà sono ormai comuni a tutte le costituzioni; e la coscienza moderna richiede che la proprietà adempia la sua funzione sociale e sia accessibile a tutti mediante il lavoro e il risparmio …”.
[18] La CDFUE ha avuto una prima stesura proclamata il 07 dicembre 2000 a Nizza ed una seconda adattata stesura proclamata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.
[19] Tra le varie, si può fare riferimento alle norme compendiate negli articoli 26 e ss. del TFUE, 101 e ss. TFUE, 107 e ss. TFUE, ex TCE.
[20] Il primissimo momento in cui in Europa si prese coscienza di simile problematica fu il caso Mariani (02 maggio 1902, 51 RGZ 263) tenutosi dinanzi alla Corte suprema tedesca (Reichsgericht). Più recentemente vedasi anche il caso Maya (sentenza tradotta in italiano in Riv. dir. ind. 1964, II, p. 123 ss.) tenutosi dinanzi al Tribunale federale tedesco (Bundesgerichtshof) il 22 gennaio 1964.
[21] Il principio di esaurimento del diritto (oggi sub art. 5 C.P.I.), quale “.. one of the most fundamental limitations on intellectual property rights …” (cfr. D.E. DONNELLY, Parallel Trade and International Harmonization of the Exhaustion of Rights Doctrine, Santa Clara High Tech. LJ, 1997) e quale inevitabile antinomia rispetto al libero mercato e libero scambio (“.. Competition law demands competition while intellectual property prevents it. The two are bound together in conflict, whether in the courtroom or on the supermarket shelf …” - cfr. J. PHILLIPS, Analysis: Pariah, Piranha or Panther? The New View of Intellectual Property in Europe, I.P.Q., 1998), già conosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza tedesca di inizio Novecento (cfr. precedente nota19), ha assunto una dimensione comunitaria a partire dagli anni Settanta allorquando la Corte di giustizia CE venne più volte chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità tra l’esercizio del diritto di marchio (l’art. 345 TFUE, ex art. 295 TCE, prevede che venga “.. lasciato del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri …”) e l’applicazione delle disposizioni del Mercato interno europeo in materia di concorrenza e libera circolazione delle merci e prestazione di servizi di cui ai Trattati Europei.
[22] RÖTTGER-SAINT-GAL, Le problème de la création d’un marque européenne, in Riv. Dir. Ind., 1961, I, pp. 275 ss..
[23] “.. 101. The changes needed to UK law to give effect to the Draft Agreement will be very modest and have largely been made already. This is because the Draft Agreement reflects obligations the UK has either from its membership of the World Trade Organisation, various World Intellectual Property Organisation conventions, and the FTAs it has already agreed. Furthermore, as the Draft Agreement reflects current EU law the UK domestic law is already compliant. There are only a few minor exceptions to compliance relating to geographical indications and border control. 102. This means that for most businesses the changes will go unnoticed save renewal fees will have to be paid for converted EU registrations in both the UK and the EU. However, there may be some implications arising from existing contractual arrangements where they refer to unitary rights or rely on EU exhaustion rules …” (P. JOHNSON, Statement redatto su incarico della House of Lords - EU Services Sub-Committee, 22 giugno 2020).
[24] “.. Despite the areas of administrative and procedural difference, proprietors of EU IP rights should draw comfort from the fundamental agreement between the UK and the EU (albeit subject to achieving an overall Brexit deal) that they should be entitled to enjoy equivalent UK IP rights to replace existing EU IP rights after the transition period ends …” (N. ALLAN, M. BROWNE, A. CARBONI, Journal of Intellectual Property Law & Practice, Volume 13, Issue 8, August 2018, pp. 608–610).
[25] Peraltro, ad ulteriormente rafforzare ed ampliare la deroga alla territorialità del marchio per i Paesi aderenti, l’art. 1 della Convenzione di Parigi sancisce che “.. nessun obbligo di domicilio o di stabilimento nel Paese dove è domandata la protezione potrà essere richiesto ai cittadini dei Paesi dell’Unione per il godimento d’uno qualunque dei diritti di proprietà industriale …”.
[26] Le formalità da osservare per ottenere una registrazione internazionale sono stabilite dal Bureau International dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale.
[27] L’accordo definisce quali tipi di segni o simboli sono idonei ad essere protetti come marchi di fabbrica registrati, e quali sono i minimi diritti che devono essere conferiti ai proprietari. Esso stabilisce che i marchi che identificano servizi devono essere protetti allo stesso modo in cui si proteggono i marchi che identificano beni merceologici. I marchi che diventano molto conosciuti in una particolare nazione godono di una protezione supplementare.
[28] L’Accordo sui diritti dei marchi ha semplificato le procedure di domanda e di registrazione dei marchi nei diversi Paesi firmatari nonché le procedure di rinnovo o di modifica, armonizzando i protocolli degli uffici nazionali dei marchi e stabilendo i relativi requisiti massimi che gli ordinamenti locali possono imporre. Questo ha risposto alle richieste del mercato, oggi sempre più desiderosi di globalizzazione e velocità.
[29] Per un approfondimento del tema cfr. G. MORGESE, L’accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPs), Bari, 2009, passim.
[30] La corsa all’abusivo accaparramento dei nomi a dominio è stata amplificata, in Italia come negli altri Paesi, dalle liberalizzazioni che hanno consentito a ciascun singolo soggetto/utente di registrare a proprio nome anche più di un solo domain name, come invece originariamente previsto.
[31] L’ICANN è un ente no profit statunitense, con partnership pubblico-privata, soggetto alle leggi della California, che ha la responsabilità di assegnare gli indirizzi IP, di gestire il sistema dei nomi a dominio e di garantire che ciascun nome a dominio corrisponda all’indirizzo IP corretto.
[32] L. MARINI, Il sistema dei nomi per l'identificazione dei domini Internet, in Il Diritto dell’Unione Europea, 3, 2000, pp. 631 ss. - cfr. amplius A. FITTANTE, Internet e la proprietà intellettuale, in Lezioni di dir. ind., Milano, 2020, pp. 316 ss..
[33] “.. The commercialization of the Internet has led to a number of skirmishes between trademark owners and Internet users who have registered domain names that potentially infringe the rights of those trademark owners …” (G. WEISWASSER, Domain Names, the Internet, and Trademarks: Infringement in Cyberspace, in Santa Clara High Technology LJ, Volume 20, Issue 1, 2004, pp. 217 ss.).
[34] Alla soluzione interpretativa adottata dai Giudici italiani (ed europei) hanno contribuito con particolare rilevanza i filoni giurisprudenziali statunitensi (cfr. successiva nota 36) e, in Europa, quelli francesi e tedeschi, primi nell’apportare moderne visioni sul tema. Per la Francia si veda in particolare: Tribunal de Grande Instance, Le Mans, 1re ch., 29 June 1999, RG No. 9802878, Microcaz v Océanet and SFDI, JurisData No. 1999-133025 - in tale controversia il Tribunale ha sancito che un marchio non è valido, se viola, in particolare, un elenco di diritti come una registrazione precedente di marchio, un nome commerciale noto su tutto il territorio nazionale, un copyright, etc.… e che, siccome tale elenco di diritti non è limitato, un nuovo diritto, come un diritto su un nome di dominio può essere considerato un segno distintivo e protetto come tale. Cfr. amplius anche M. E. HAAS, Domains & Domain Names 2014 (per la parte afferente la Francia) in Getting the Deal Through, passim. Per la Germania si vedano: Corte Distrettuale di Frankfurt, January 7, 1997 (2-06 O 711/96) - la Corte ha garantito una tutela preliminare nei confronti di un abusivo utilizzatore del sito di dominio ‘citroen.de’; Corte distrettuale di Munich, January 15, 1997 (1HKO 3146/96), che ha avuto quale oggetto del contendere il dominio ‘juris’de’; Corte Distrettuale di Cologne, April 23, 1997 (315 O 282/97), che ha avuto quale oggetto del contendere il dominio ‘sharp.de’; Corte Distrettuale di Frankfurt, April 2, 1997 (2-06 O 193/97), che ha avuto quale oggetto del contendere il dominio ‘reuters.de’; Corte Distrettuale di Frankfurt, April 4, 1997 (2-06 O 194/97), che ha avuto quale oggetto del contendere il dominio ‘honda.de’. Cfr. amplius anche T. BETTINGER, Trademark Law in Cyberspace - The Battle for Domain Names, IIC - International Review of Industrial Property and Copyright Law - Volume 28 No. 4/1997, p. 508.
[35] Trib. Firenze, 29 giugno 2000, in Riv. Dir. Ind., 2000, p. 331, secondo la quale “.. Gli aspetti operativi, tecnici e logici propri del Domain Name Systems prevalgono sull’utilità che la singola impresa può ricavare dalla corrispondenza marchio-dominio (..) non può porsi per esso un problema di violazione di marchio di impresa, della sua denominazione o dei suoi segni distintivi …” - cfr. amplius Trib. Bari, ordinanza 24 luglio 1996, in Foro It., 1997, I, p. 2316; Trib. Firenze, sez. dist. Empoli, 23 novembre 2000, in Giur. It., 2001, p. 1902.
[36] MTV Networks v. Curry, U.S. District Court for the Southern District of New York, 867 F. Supp. 202 (S.D.N.Y. 1994), giudizio poi conclusosi per mezzo di un accordo bonario, ma che può essere considerato come uno dei primi giudizi aventi ad oggetto la dicotomia tra libero uso di internet e tutela dei domain names quali segni distintivi di una impresa; Stanley Kaplan v. Princeton Review, arbitration, Ottobre 1994, arbitrato ove venne stabilito che Princeton Review avrebbe dovuto rinunciare all’indirizzo ‘kaplan.com’, concederlo a Stanley Kaplan e cambiare il proprio sito utilizzando l’indirizzo ‘review.com’; Qualitex Co. v. Jacobson Products Co, 514 U.S. 159 - Supreme Court 1995: “.. is the source-distinguishing ability of a mark - not its ontological status as color, shape, fragrance, word, or sign - that permits it to serve these basic purposes (..) [ndr A company should not lose protection for that mark simply because it is used in cyberspace. Indeed, trademark law] helps assure a producer that it (and not an imitating competitor) will reap the financial, reputation-related rewards associated with a desirable product …”; Intermatic Inc. v. Toeppen, US District Court for the Northern District of Illinois, 947 F. Supp. 1227 (N.D. Ill. 1996).
[37] Cass., sez. I - 3 dicembre 2010, n. 24620, in Riv. Dir. Ind., 2011, 3, II, p. 215, secondo la quale “.. Nel periodo anteriore all'entrata in vigore del codice della proprietà industriale (d.lg. 10 febbraio 2005 n. 30), anche ai nomi di dominio (di sito Internet) deve applicarsi, sebbene si tratti di segni distintivi atipici, il r.d. 21 giugno 1942 n. 929, essendo essi strumenti attraverso cui accedere, nell'ambito di internet, ad un vasto mercato commerciale di dimensioni globali che consentono di identificare il titolare del sito web ed i prodotti e servizi offerti al pubblico, onde tali nomi rivestono una vera e propria capacità distintiva, in quanto, secondo la attuale concezione sulla natura e sulla funzione del marchio, non si limitino ad indicare la provenienza del prodotto o del servizio, ma svolgano una funzione pubblicitaria e suggestiva che ha la finalità di attrarre il consumatore, inducendolo all'acquisto …”; confermata da Cass., Sez. I, 21 febbraio 2020, n. 4721. In senso conforme, tra le tante: Trib. Milano, ordinanza 10 giugno 1997, in Riv. Dir. Ind., 1998, II, p. 430; Trib. Bergamo, 3 marzo 2003, n. 634, in Corriere giuridico, 2004, 6, p. 786; Trib. Modena, ordinanza 24 gennaio 2001, in C. GALLI, I domain names nella giurisprudenza, Milano, 2001, p. 458; Trib. Parma, 26 febbraio 2001, in Riv. Dir. Ind., 2002, II, p. 350.
[38] Rappresentando un valore economico, il diritto esclusivo a un domain name è protetto come proprietà, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.