Il concetto di sovranità nel Medioevo: un diritto senza Stato e privo di un´idea di Costituzione
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Fabio Tarantini
La concezione giuridico-medievalista di autori come Grossi, indipendentemente dal fatto che la si accetti o la si critichi, solleva diverse questioni su un periodo certamente interessante della storia che resta a tutt’oggi oggetto di continui approfondimenti e di analisi.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il sistema medievale: il binomio tra valori quotidiani e ordine giuridico; 3. Il Medioevo un’epoca senza Stato; 4. L'uniformità del diritto pubblico medievale; 5. L’Età Media: il tragitto verso la modernità; 6. Il Medioevo come anagramma della civiltà giuridica; 7. Un dibattito in fieri; 8. Conclusione
1. Introduzione
Il termine "Stato", che comparve nella trattatistica politica moderna per indicare una realtà nuova «una forma di ordinamento tanto diverso dagli ordinamenti che lo avevano preceduto da non poter essere più chiamato con gli antichi nomi»[1], divenne fondamentale solo quando fu utilizzato per indicare «una Herrschaft, un dominio caratterizzato da presenza struttura, impersonalità e effettivo controllo territoriale, su tutto il territorio sul quale vanta giurisdizione»[2]. Oltre a rispondere a un’esigenza di chiarezza lessicale, l’introduzione e l’utilizzo sempre più massiccio della parola "Stato" permette di ragionare storicamente in termini di un prima, quando non esistevano che istituzioni territoriali sovrane, e un dopo, quando iniziarono a comparire enti territoriali sovrani il cui l’esercizio dei poteri pubblici, accanto alla comparsa di una burocrazia al servizio dei governanti, non trovavano né da un punto di vista qualitativo né quantitativo alcun riscontro con la realtà precedente.
Questo tipo di riflessione, tuttavia, indurrebbe a credere che prima dello Stato moderno nessuna realtà organizzativa che lo avesse preceduto, dalla polis greca alla res publica romana, né tantomeno i regni medievali, potrebbero essere intesi come equipollenti, come se la storia andasse interpretata in termini di dicotomie e cesure[3]. Una prospettiva, questa, di cui si è fatto portavoce soprattutto Paolo Grossi il cui saggio L’ordine giuridico medievale[4] sollevò nella metà degli anni Novanta un acceso dibattito tra gli storici e i giuristi del diritto medievale sulla possibilità o no di considerare l’esperienza giuridica medievale come un "pianeta" a se stante o come un "ponte" senza soluzione di continuità tra l’epoca antica e quella moderna.
Per una parte della storiografia il Trattato di Westfalia (1648)[5], che riconobbe la "qualifica di Stati a quelle società politiche territoriali sovrane contraddistinte da un’assoluta indipendenza sia dall’Impero che dal Papato"[6], o l’affermazione del Machiavelli (1513) secondo cui "Tutti li Stati, tutti e’ domini che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono repubbliche o principati"[7], furono il prodotto di fattori storici che si andarono affermando nel tempo anche grazie all’ordine giuridico medievale[8], periodo nel corso del quale si "diede un largo sviluppo a quelle forme istituzionali in cui […] lo Stato nazionale ormai esisteva"[9]. All’interno della "querelle" si sono polarizzati due schieramenti: quello di chi sostiene l’idea di un Medioevo come di un’epoca caratterizzata da "un diritto senza Stato"[10], e quella di chi, come lo scrivente, ritiene l’Età Media come una civiltà profondamente giuridica, un ponte capace di traghettare la civiltà dalle sponde dagli universi storici, giuridici, culturali e sociali del passato a quelle della futura modernità.
Dal suo ordine giuridico medievale Grossi escluse anche una nozione formale di Costituzione medievale e la possibilità che, attraverso una serie di evoluzioni, arrivasse a confluire nell’epoca moderna. Rispetto al punto uno parte della storiografia ha evidenziato che con il termine Costituzione
non si deve intendere soltanto un testo giuridico […] esprime anche una condizione di sviluppo culturale di un popolo, serve da strumento all’autorappresentazione culturale, da specchio del suo patrimonio culturale e da fondamento delle sue speranze[11].
All’immagine di un’età media del tutto priva di qualsiasi pensiero costituzionale, quindi, è stata opposta la convinzione che anche in quella fase storica esistesse una vera e propria “costituzione medievale” nonostante nella società prevalesse l’idea di un potere che discendeva dall’alto e orientato in senso universalistico[12]. Obiettivo del presente approfondimento, dunque, è quello di far emergere alcuni punti di particolare interesse relativi al dibattito sorto intorno all’idea che il Medioevo sia stato un evo senza Stato e privo della nozione, seppure embrionale, di un pensiero costituzionale. Senza la pretesa di risolvere una questione estremamente annosa, e complessa, il contributo aspira a stimolare un dibattito che non sembra destinato a esaurirsi e che fornisce diversi spunti per ulteriori approfondimenti.
2. Il sistema medievale: il binomio tra valori quotidiani e ordine giuridico
In un lavoro particolarmente originale, che sollevò le reazioni di numerosi studiosi e accademici, lo storico e giurista Paolo Grossi sostenne che durante il Medioevo, in una parte dell’Europa continentale e, soprattutto, dell’Italia centro-settentrionale, esistesse una mentalità genuinamente medievale che presentava una certa uniformità all’interno del campo del diritto privato. Tralasciando, di fatto, il diritto pubblico, Grossi affermò che nel diritto privato si potessero trovare indizi inequivocabili che riflettevano quella che, a suo dire, era una mentalità giuridica “circolante”[13].
Ragionando in questi termini, Grossi scelse di restare nel campo delle idee, mettendo da parte gli aspetti politici e storici dei conflitti che avevano caratterizzato l’Età Media, non tanto, però, per quella prospettiva positivista adottata da alcuni giuristi come Santi Romano, che avevano separato i fenomeni politici da quelli sociali del diritto ritenendo che «per la stessa costituzione di quella società, scissa, anzi frantumata in molte e diverse comunità, spesso indipendenti o debolmente collegate fra loro, il fenomeno della pluralità degli ordinamenti giuridici ebbe a manifestarsi con tale evidenza e imponenza che non sarebbe stato possibile non tenerne conto»[14], quanto, piuttosto, per la convinzione che tale supposta scissione fosse stata in epoca medievale alquanto confusa.
La convinzione che la società medievale contenesse al suo interno una concezione organistica che le aveva garantito unità, in virtù del fatto che il diritto rappresentava una “dimensione ontica”[15], e che la scienza del diritto fosse stata espressione di un "ordo iuris medievalis" interno alla realtà, interpretatio di qualcosa che non poteva essere creato dai giuristi ma che si manifestava partendo da un diritto[16], prima di Grossi era stata avanzata prima di lui anche da altri giuristi. Per Otto Gierke, ad esempio, il pensiero medievale andava fatto derivare dall’idea di un “Tutto” unico e, di conseguenza, una costruzione organica della società umana era familiare alla società medievale tanto quanto una costruzione meccanica e atomistica le era originariamente estranea, e questo in virtù del fatto che era stata influenzata dalle allegorie bibliche e dai modelli imposti dagli scrittori greci e romani, "the comparison of Mankind at large and every smaller group to an animate body was universally adopted and pressed"[17].
La mentalità giuridica medievale, secondo Grossi, poteva essere intesa come la somma di tutti i campi dell’esperienza, la cui fusione aveva permesso la formazione del diritto; partendo dal presupposto che il potere legislativo fosse più vicino ai vari settori sociali e che fossero quelli che vantavano un certo grado di autonomia a legiferare, l’Autore arrivava ad affermare che il diritto fosse il riflesso di tutti gli aspetti della vita e che le condotte venissero normate all’interno di un certo gruppo o estamento nel perimetro di una giurisdizione prestabilita.
Il diritto nell’Età Media, secondo Grossi, poteva essere definito “democratico”, o “naturalista”, per nulla appannaggio delle élite academiche o universitarie, come sarebbe avvenuto in seguito in particolare dopo la caduta del monopolio culturale dei monasteri e della comparsa delle prime università nei secoli XII e XIII. Aspetti dai quali, secondo Grossi, sarebbe derivata la storicità del diritto, intesa come la fedeltà della rappresentanza legale nei confronti delle forze circolanti e operanti nella società attraverso cui il tessuto formale del diritto, lungi dal separarsi dalla società durante la sua evoluzione, si adattò nel tempo, restando sempre strettamente aderente alle esigenze e alle idealità che via via emergevano nella vita associata[18].
Attraverso questa storicità del diritto medievale, la prassi e il dogma si sarebbero mescolati in modo tale che risulterebbe difficile, a detta del Grossi, separare la dottrina dall’esperienza, come sarebbe avvenuto nella Modernità, dato che la passi era la fonte della dottrina e che le due apparivano unite in un tutto inseparabile. Per lo studioso fiorentino il diritto medievale era
la traduzione di certi schemi organizzativi dall’indistinto sociale al più specifico terreno dei valori, e, in quanto percezione dei valori, non può non essere percorso da una tensione a consolidarsi, a mettere radici spesso profonde, a diventare anche schema logico, sistema[19].
Grossi arrivò a concepire l’ordinamento giuridico medievale come il riflesso di un sistema di valori tra i quali spiccavano un potere politico incompleto, una sua relativa indifferenzanei confronti del diritto, con la relativa autonomia e pluralismo, e, come conseguenza, la fattualità o storicità del diritto e la concezione dell’imperfezione dell’individuo e della perfezione della comunità. Tutte queste considerazioni convinsero il giurista fiorentino che il Medioevo fosse un’epoca senza Stato.
3. Il Medioevo un’epoca senza Stato?
Grossi ha sostenuto che il Medioevo sia stata un’epoca frammentata a livello politico ma che, per quanto riguardava il tessuto giuridico del diritto privato, aveva mostrato una sostanziale "capacità unitaria"; caratteristiche, quelle, dovute, a suo dire, a una debolezza, se non addirittura inesistenza, dello Stato. In epoca medievale la debolezza del potere politico si era manifestata attraverso una mancanza di vocazione totalizzante, dovuta alle macerie dell’apparato statale romano dal quale non era emersa alcuna struttura simile per intensità o qualità. La fine dell’Impero romano, unitario, che poteva considerarsi come il prototipo dello Stato moderno, infatti, si era tradotta in una redistribuzione del potere politico e nell’Età Media, secondo lo studioso fiorentino, si era assistito a una sorta di democrazia delle corporazioni (economiche, militari o ecclesiastiche) che si erano divise il potere con il monarca che esercitava un ruolo secondario.
Rispetto al punto, Gierke aveva anticipato che
"It was admitted on all sides that the main object of Public Laws must be to decide upon the Apportionment of Power, and, this being so, every power of a political kind appeared always more clearly to bear the character of the constitutional competence of some part of the Body Politic to ‘represent’ the Whole […] At all these points the Doctrine of the State coincided with the Doctrine of the Corporation, and therefore in this quarter the Publicist had often no more to do than simply to borrow the notions which had been elaborated by the Jurists in their theory of Corporations"[20].
Diversamente da Grossi, tuttavia, una parte degli studiosi di diritto medievale ha sostenuto che la poliarchia tipica dell’Età Media non si sia affatto tradotta in una carenza di Stato e che il Medioevo non solo abbia avuto uno Stato ma che, inoltre, rappresentò un periodo fondamentale per comprendere il diritto costituzionale contemporaneo[21]. Tali presupposti troverebbero conferma in quelle fonti che, soprattutto con riferimento ai Regni germanici, rintracciano le prime orme di una struttura federale (seppure intesa in termini embrionali) che avrebbe gettato le fondamenta per quel connubio inestricabile tra la futura Germania e il federalismo "un elemento intrinseco dell’essenza costituzionale tedesca, un fattore culturale prima che giuridico"[22]. Altri studiosi hanno altresì evidenziato che nella distribuzione “federalista” dei poteri del diritto pubblico avesse giocato un ruolo fondamentale il diritto canonico[23], avendo posto come modello da seguire un’organizzazione amministrativa interna estremamente decentralizzata, con le parrocchie come cellule di tale sistema, e sul cui esempio si sarebbero formati, in epoca basso medievale, i Comuni[24].
Ragionando in questi termini, pertanto, il potere politico dello Stato medievale, rispetto al periodo che lo aveva preceduto, non appariva così profondamente mutato né tantomeno scomparso, anche se la sua distribuzione appariva certamente diversa da quell’idea di Stato unitario di machiavelliana memoria che avrebbe indicato in Cesare Borgia l’uomo forte in grado di esercitare individualmente il diritto alla sovranità[25] o in Luigi XV colui che sarebbe arrivato ad affermare “L’État, c’est moi”[26]. Non necessariamente, a nostro giudizio, l’idea di uno Stato come soggetto politico forte deve implicare la sua identificazione con un solo uomo, una corporazione o un unico ordine di governo, riducendolo a un’entità che, al pari di un deus ex machina, discenda dall’alto e ne nuova tutti i fili chiamato a risolvere qualsiasi problema.
Ciò, soprattutto, se si considerano le parole dello stesso Grossi, quando afferma che l’attività legislativa dello Stato medievale si focalizzava nel diritto pubblico, ritenendo che per il legislatore dell’Età Media avesse poca importanza la regolazione del diritto privato, ritenendolo di secondaria importanza[27]. È anche vero, però, che di fronte a un’organizzazione costituzionale e amministrativa, risulterebbe difficile affermare l’assenza dello Stato così come la sosteneva lo storico fiorentino. Sul punto, tuttavia, lo studioso non sembra lasciare alcun margine di contradditorio; a suo dire, infatti, al legislatore comunale il diritto interessava solo e unicamente da un punto di vista strumentale e questo perché il suo unico interesse era quello di stabilire norme che, oggi, definiremmo di diritto “costituzionale” e “ammnistrativo”[28], in quanto riguardanti l’apparato organizzativo del potere, e di diritto penale, lasciando al diritto pubblico un’attenzione del tutto marginale.
Allo stesso modo non sembra potersi condividere l’assunto grossiano secondo il quale nel Medioevo non esistesse il concetto di sovranità per il semplice fatto di considerarla come quella concentrazione di maiestas est summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas[29], poiché la sovranità non deve necessariamente essere fatta ricadere, ancora una volta, su un singolo soggetto o corporazione. In epoca medievale, inoltre, l’indifferenza del monarca nei confronti del diritto trovava giustificazione nel fatto che in cui i poteri legislative erano distribuiti tra vari fattori reali del potere.
Così come era nel potere del monarca emettere leggi o decreti che stabilivano diritti e prerogative a favore di certi gruppi di persone - come nel caso di una delle legislazioni più note dell’Età Media, ossia la Magna Charta (1215) - non sarebbe affatto assurdo ritenere che, intendendo la frammentazione del potere nel Medioevo come una distribuzione del potere politico nei termini di una confederazione, le campagne, le città o i borghi potessero promulgare leggi sull’amministrazione interna e sulle regole di condotta sociali nell’ambito di quelle comunità. Neppure sarebbe priva di fondamenta la considerazione che una gilda, come quella dei commercianti, potesse emettere statuti tramite cui regolare le attività commerciali, le forme e i metodi d’impugnazione in casi d’inadempimenti fino ad arrivare a riconoscere, soprattutto nel caso di società germaniche, prive di un diritto scritto, la consuetudine e il diritto divino o naturale come fonte del diritto[30].
Quanto detto potrebbe essere valido se si condividesse l’idea di Grossi di un ordine medievale all’interno del quale corporazioni diverse presentavano diritti differenti; partendo da quel presupposto, infatti, potrebbe sembrare logico che ogni corporazione si organizzasse al suo interno in modo che la legge e la giustizia fossero responsabilità degli associati. In tal senso, però, la pluralità di legislazioni non necessariamente dovrebbe essere interpretata come una mancanzatotale d’interesse da parte dello Stato nei confronti del diritto. Si potrebbe anche ipotizzare, infatti, che ciò che accadeva nell’Età Media, in una certa misura, fosse una distribuzione sui generis dell’importanza delle fonti del diritto, così come delle prerogative legislative, ritenendo che sia stata proprio quel tipo distribuzione ad assegnare una caratteristica essenziale al Medioevo, piuttosto che pensare che ci si trovasse di fronte a un’epoca in cui lo Stato (inteso come potere centrale) non avesse alcun interesse nei confronti del diritto[31].
Non bisogna dimenticare, inoltre, che la concezione del monarca e delle sue prerogative nel Medioevo era profondamente diversa da quella dello Stato moderno sorto dalle teorie di Machiavelli e Bodino. In termini generali, infatti, il re era l’arbitro della vita sociale, colui che esercitava la iurisdictio, senza arrivare a equiparare tale attività con nessuna concezione del potere neutro o moderatore come, in seguito, avrebbe fatto Benjamin Constant[32], lasciando l’attività legislativa alle competenze dei diversi ordini del Regno. In tal modo sorsero i parlamenti in tutta l’Europa medievale e un sistema limitato e misto di distribuzione del potere che avrebbe, in seguito, ceduto il passo alla moderna teoria della divisione dei poteri.
Queste riflessioni, di fatto, contrastano con l’assunto grossiano di uno Stato medievale debole o inesistente e portano a concludere che detta assenza appare in contraddizione con parte dei suoi stessi postulati, nel senso che cerca di evitare, e critica severamente, il peso inconscio che la visione contemporanea del diritto impone al giurista che analizza un’epoca storica diversa, con le conseguenze e le ingannevoli analogie tra un’epoca e l’altra. In questo senso, quindi, affermando la debolezza del potere pubblico, Grossi pare cadere in quella stessa trappola che sosteneva di voler evitare, ossia quella di identificare il diritto pubblico come «un insieme di comandi e il produttore del diritto soprattutto nell’autorità munita di efficaci poteri di coazione»[33], finendo, così, in quel rigido monismo nel piano delle fonti[34] del diritto pubblico che lo stesso studioso criticava e metteva da parte con l’obiettivo di dimostrare la validità della sua teoria. Di conseguenza, è nostra convinzione che più che parlare di assenza del potere politico, il Medioevo si caratterizzò per una distribuzione sui generis dello stesso, una distribuzione certamente complessa che, però, presentava caratteristiche simili in quasi tutta l’Europa.
4. L’uniformità del diritto pubblico medievale
Esistono diversi elementi che dimostrano l’uniformità del diritto pubblico medievale: la sovranità e la sottomissione del monarca al popolo, da una parte, e il riconoscimento della supremazia di un ordine giuridico (leggi fondamentali del Regno) di fronte al re e l’esistenza di un incipiente controllo di costituzionalità degli atti di autorità nel sistema giuridico dell’Età Media, dall’altro. In questo senso non bisogna dimenticare l’influenza esercitata dalla rivoluzione filosofico-teologica del secolo XIV che portò il concetto di universalismo a nuovi livelli e, in particolare, a considerare il popolo come unità e, di conseguenza, come il soggetto al quale assegnare il potere normativo per eccellenza[35].
La legge si convertì in constitutio populi, legata al consesuns della comunità, lasciando agli individui il mero compito di obbedirla e farla rispettare; in questo modo, colui che poteva stabilire una legge, poteva anche abrogarla[36] e, ugualmente, perfino l’autorità era soggetta al controllo del popolo, originando il concetto di sovranità popolare e di contratto sociale[37]. Ragionando in questi termini, la legge e la iurisdiction del principe appartenevano a un ordine giuridico superiore il quale generava un’idea di sovranità originaria, sia di Dio con la Chiesa (trattandosi del potere spirituale e temporale della Chiesa) sia degli uomini nel caso del potere politico dei re.
Proseguendo in questa direzione si può sostenere che in epoca medievale il concetto di Costituzione iniziò a essere inteso come un documento che doveva limitare il potere del sovrano. Alcuni studiosi hanno affermato che sia esistito, al principio della concezione del pactum subjectionis (patto di sottomissione), l’idea di stabilire le basi e i limiti del gubernaculum (arbitrio del governante) e i diritti dei sudditi, le vecchie leggi e i costumi del regno; per certi aspetti, dunque, il popolo attraverso la lex regia consegnava il potere al principe conservando, tuttavia, certi privilegi e libertà che venivano riconosciuti dal reggente[38]. A quel punto non si aveva più una sottomissione incondizionata, ma un patto; in altre parole una Costituzione dalla quale nascevano, per ognuna delle parti, diritti e doveri. Le prime Carte o Statuti, dunque, imposero dei limiti al governo e alla volontà del monarca; la Costituzione, allora, divenne espressione del limite all’esercizio del potere del princeps[39].
Nella misura in cui si ritiene che le leggi fondamentali dei regni, intese in epoca medievale come patti di sottomissione al monarca, con una base contrattualista, fossero il riflesso d’istituzioni volte a limitarne il potere, è possibile, a nostro avviso, parlare di uniformità del diritto pubblico medievale e questo in virtù del fatto che tali leggi “costituzionali”, o accordi di sottomissione all’autorità del governo, presentavano quelle caratteristiche e quei fini che avrebbero caratterizzato le Costituzioni moderne, ossia distribuire e limitare il potere dei reggenti[40]. Quindi, nella misura in cui dagli esempi della sovranità popolare e della superiorità di dette leggi fondamentali, insieme all’incipiente controllo di costituzionalità delle norme e degli atti dell’autorità medievale, si può fare derivare un strumento utilizzato in epoca medievale per “domare il Leviatano”[41], ugualmente si può parlare, a nostro avviso, in modo esteso, di un diritto pubblico nell’Età Media che presentava caratteristiche di uniformità[42].
Esistono, di fatto, numerosi esempi che dimostrano la validità della teoria delle sovranità popolare nel Medioevo. Si pensi, ad esempio, al Regno di Francia dove il potere del principe nell’emettere qualsiasi legge passava attraverso l’approvazione dell’Assemblea rappresentativa e dei distinti ordini del Regno, i quali ne dovevano approvare l’agire[43]. Gli Stati Generali erano percepiti come il detentore originario della sovranità che risiedeva in quel popolo di cui si facevano rappresentanti e la legittimità dell’autorità reale era subordinata al rispetto degli atti dell’Assemblea[44].
Esemplificativo, in questo senso, quanto accaduto nel 1460 quando, a causa di una violazione dei diritti fondamentali, gli Stati Generali armarono un esercito per opporsi al re Luigi XI e lo obbligarono a rivedere alcune decisioni di livello nazionale nelle quali si violavano, o modificavano, alcuni diritti o privilegi, senza aver preventivamente consultato l’Assemblea rappresentativa dei vari ordini del Regno, L’evento, riportato in modo approfondito da François Hotman (in quale, in verità, non lo collocava più in epoca medievale) testimonia, insieme ad altri precedenti[45], la forza e la tradizione parlamentare dell’Età Media.
Un episodio del tutto simile, riguardante l’Impero tedesco, viene riportato dal giurista Johannes Althusius il quale riportava di come i ministri e i curatori eletti avessero il compito di occuparsi dell’amministrazione in base a una serie di accordi presi a nome di tutto il popolo «or by the body of the universal association»[46]. I ministri si assumevano il compito di agire per il bene e di servire l’utilità e il benessere del corpo politico dedicando a esso tutta la loro intelligenza, zelo, fatica, lavoro, cura e diligenza ma anche la loro ricchezza, i beni, la forza e le risorse, senza tenere nulla per il proprio vantaggio privato; poichè, come proseguiva Althusius
the commonwealth or realm does not exist for the king, but the king and every other magistrate exist for the realm and polity. By nature and circumstance the people is prior to, more important than, and superior to its governors, just as every constitutingbody is priori and superior to what is constituted by it[…][47].
Per dette ragioni, secondo Althusius, i decreti dell’Imperatore germanico erano emessi nella formula Uns und dem heiligen Reich io (“Noi e il Sacro Romano Impero”) o In unser und des heilegn Reichs statt (“Nel nostro nome e del Sacro Romano Impero”) che esprimevano il principio di sovranità popolare che anche i Romani avevano riconosciuto nell’uso della massima SPQR, Senatus PopulusQue Rheginu[48]. Anche nell’Impero Germanico, dunque, essendo il popolo colui che deteneva la sovranità, i governanti erano soggetti a limiti che venivano stabiliti nei patti e nelle leggi, oltre che nella legge naturale contenuta nel decalogo, e qualsiasi violazione dei limiti da parte dei monarchi poteva essere trasgredita dal popolo in quanto espressione non più del mandato conferito al monarca, ma di una sua decisione privata. Qualsiasi potere, dunque, era limitato all’interno di un perimetro ben definito e da specifiche leggi e nessuno era assoluto, illimitato o arbitrario ma era soggetto alle leggi, al diritto e alla giustizia. In epoca medievale, quindi, anche nell’Impero Germanico il re non era altro che un usufruttuario del potere sovrano che gli derivava dal popolo[49].
Un altro elemento, a nostro avviso, che permette di difendere la tesi dell’uniformità del diritto pubblico in epoca medievale, oltre a quello della sovranità popolare, è la superiorità dell’ordine giuridico di fronte al potere politico e l’esistenza di un primo principio di controllo di costituzionalità delle leggi. Il Medioevo, infatti, si caratterizzò anche per la comparsa della garanzia e del garante dei diritti fondamentali del Regno, esemplificativo, in questo senso, il caso inglese dove l’origine del controllo della costituzionalità delle leggi può farsi risalire all’interpretazione e all’applicazione dei diritti fondamentali contenuti nella Magna Charta[50].
Lo storico americano Edward Corwin, parlando della costituzionalità delle leggi e del fatto che nel tempo sia stata considerata il prodotto delle Costituzioni scritte, ha ricordato che storicamente sia le leggi sia la Costituzione vantavano un’origine comune che affondava le proprie radici in alcuni principi fondamentali che limitavano e controllavano il governo, convinzione, quella che, nella storia anglo-americana, doveva ricondursi ai concetti feudali e trovava la sua massima espressione nella Magna Charta,
The notion was well suited to a period when the great institutions of making were thought to be sacred, permanent, immutable, and did in fact alter but slowly[51].
Il giurista inglese Edward Coke, esponendo i contenuti di alcuni capitoli della Magna Charta, ha evidenziato l’esistenza di una legge votata dal Parlamento inglese intorno al XIII secolo con la quale si stabiliva che tutte le leggi contrarie alla Charta, in qualsiasi ramo, dovevano essere rifiutate dai giudici se contrarie alla leggi del Paese[52] e che qualunque sentenza pronunciata contro la legge poteva essere revocata per writ of error[53]. Detto precedente storico dimostrerebbe che prima del XVIII secolo, quando s’impose l’assolutismo parlamentare inglese, nel jura summi imperii (ossia nella sovranità), alla quale ha fatto riferimento anche Sir William Blackstone[54], era esistito un controllo costituzionale delle leggi nel Regno Unito il quale, anteriormente a qualsiasi altra realtà europea, si era posto a difesa dei diritti fondamentali dell’uomo[55].
Georg Jellinek, partendo dal presupposto che la Magna Charta non stabilisse diritti sostanziali, arrivò ad affermare che il documento non contenesse nessuno di quei principi ai quali aveva fatto riferimento Edward Coke agli inizi del XVII secolo[56]; a nostro avviso, tuttavia, la posizione dello studioso tedesco non sembra condivisibile per diverse ragioni ma, soprattutto, per il fatto che nel primo articolo della Magna Charta si stabilivano chiaramente le concessioni da parte del re ai membri del clero, della nobiltà e di tutti gli uomini liberi del Regno e ai i loro eredi da quel momento e per sempre[57].
È opinione delle scrivente, dunque, che la Magna Carta contenesse un catalogo di diritti individuali a favore degli inglesi, certezza, questa, corroborata dall’analisi dei 38 articoli contenuti nel documento dai quali derivano una serie di diritti che precedono quelli che sarebbero andati a comporre i testi di diritto naturale del XVIII secolo delle colonie britanniche in America e in Francia. Sia Coke sia Blackstone, a nostro avviso e contrariamente alla posizione di Jellinek, intendevano affermare che la Magna Charta non stabilisse nuovi diritti ma che riconoscesse quelli preesistenti nel diritto inglese, il che porta a concludere che il controllo di costituzionalità contenuto nella Magna Charta riguardasse diritti e libertà molto simili a quelli che, oggi, si tendono a proteggere con strumenti del tutto analoghi.
Rileva infine ricordare che il controllo di costituzionalità delle leggi nell’Inghilterra medievale si completava con il Writ di Habeas Corpus, volto a garantire la libertà personale contro le azioni arbitrarie della corona inglese[58]. Diversamente da quanto sostenuto da una parte degli studiosi secondo cui il Writ of Habeas Corpus sorse in modo embrionale a partire dal regno di Edoardo I e si consolidò come strumento di controllo solo a partire dal XVI secolo, pare più condivisibile la posizione di Sir Edward Coke il quale ha dimostrato che come strumento di controllo il Writ si possa fare direttamente derivare dall’art. 39 della Magna Charta senza la necessità di ricorrere a un writ di certiorari, la cui finalità era ben diversa da quella in commento[59]. Il che, naturalmente, non esclude il fatto di riconoscere che il pieno ricorso alla regolamentazione si perfezionò solo verso la fine del XVII secolo.
Secondo Edward Coke, solo l’Habeas Corpus rappresentava uno strumento che favoriva la libertà personale dell’individuo, mentre il vero controllo di costituzionalità era garantito dall’esercizio del writ of error, del writ of odio et atia e, infine, del writ de ponendo in ballium, tramite i quali si poteva dichiarare nullo qualsiasi atto, anche legislativo nel caso ritenuto contrario alla Magna Charta o al Common Law (basato sul concetto della Lex Terrae o Law of the Land)[60]. Ragionando in questi termini, a nostro avviso, è possibile concordare con chi sostiene che bisognerebbe ricercare nella Magna Charta inglese l’origine di quel controllo giurisdizionale che si sarebbe in seguito evoluto negli Stati Uniti[61].
5. L’Età Media: un’isola o un ponte verso la modernità?
Nonostante esistano diversi indizi che testimonino i legami e le connessioni tra il periodo medievale, l’antichità e la modernità, Grossi ha comunque sostenuto che l’Età Media sia stata una sorta di pianeta giuridico a sé caratterizzato da una sostanziale rottura o discontinuità con ciò che era stato sia il suo passato sia il suo futuro, arrivando a parlare di “insularità” dell’Età Media e rifiutando categoricamente il fatto che si trattasse di un ponte tra il passato e il futuro. Scriveva
La retorica ideologicamente carica dell’umanesimo rinascimentale, bollando come medio evo - media aetas - l’età ad esso precedente, […] ha preteso additarne, nel maliziosamente sottolineato carattere di età transitoria, la sua non-autonomia, la sua debolezza come momento storico[62].
A nostro avviso, per evitare il rischio paventato da Grossi, ossia di creare modelli culturali tramite i quali «distorcere, opacizzare, misconoscere le tipicità medievali»[63], si potrebbe affermare che l’insularità del diritto medievale fu relativa, visto che fu soprattutto dallo scontro dicotomico tra l’antichità (riscattata dai glossatori e dagli autori posteriori) e il Medioevo che discese lo Stato e la concezione culturale del diritto moderno nel quale troveranno il loro pieno consolidamento e sistemazione i postulati del diritto medievale. In effetti, il diritto del Medioevo non fu, come sostenne anche Grossi, un diritto romano modernizzato[64], in quanto presentò elementi propri, essendo il prodotto della fusione culturale tra diversi popoli e, neppure, si può sostenere che ci fu un cambiamento radicale tra un’epoca e l’altra, in virtù di quella continuità storica che permette di rintracciare nell’Età Media molti elementi del mondo romano.
In questo senso, prendendo in considerazione soprattutto la struttura del diritto pubblico medievale, è possibile rintracciare maggiori differenze tra le organizzazioni corporative della società negli estamenti e tra i distinti settori sociali romani, visto che, a parte l’inclusione del clero (come fattore corporativo di potere unito alla nobiltà), si possono assimilare perfettamente l’aristocrazia agli ordini nobiltà/clero e la plebe, o il settore popolare, al terzo stato o estamento. In tal senso Esmein, riferendosi alla Legge Salica, ha spiegato l’influenza esercitata dal diritto romano, quando scriveva che
Une rédacion aussi développée suppose l’usage de l’écriture quel es Francs ne pratiquaient point; elle suppose plus encore le contact prolongé del la civilisation romaine[65].
Ugualmente non si può parlare di una rottura definitiva tra le concezioni del diritto naturale dell’antichità e quelli dell’Età Media, incluso quelle anteriori alla scoperta dei testi romani attraverso il diritto canonico[66].
A nostro avviso è utile ricordare che la reazione contro la trasformazione rinascimentale dello Stato assolutista si fondò sul salvataggio delle istituzioni dell’Età Media, poiché la posizione della concezione dello Stato come prodotto del diritto naturale, basato sul contratto sociale, fu quella che, riscattando l’esperienza medievale, permise di creare le basi del mondo contemporaneo. Tommaso Moro, nel suo Utopia (1516), risaltò le virtù del sistema giuridico medievale, così come James Harrington in The Commonwealth of Oceana (1656) o Herny Neville nel Plato redivisu (1680), una lunga lista alla quale andrebbero aggiunti sostenitori del metodo storicista come Hotman, Bodino o Althusius e, ancora, Sir Edward Coke, tutti convinti sostenitori dell’eredità medievale[67]. In altre parole, dunque, furono le “tessere” che concorsero a comporre il mosaico medievale a dar forma alle società contemporanee[68], dimostrando, così, l’inesistenza di quelloiato sostenuto da Grossi.
Ugualmente, lo ius commune, costruzione e prodotto del Medioevo (tra il XII e il XIV secolo), basato sul diritto naturale proveniente dal diritto canonico, si consolidò in modo più efficace tramite l’interpretazione che si fece dell’Età Media grazie alle opere di Grozio, Vitoria o Suárez[69]. E questo in ragione del fatto che la concezione stessa di diritto naturale, che avrebbe fornito la base per tutto il diritto pubblico dell’età moderna, con conseguenze molto importanti nei secoli successivi, era sorta nel Medioevo dalla concezione di un Dio legislatore la cui legge data agli uomini era superiore alle norme dettate dagli esseri umani[70]. L’idea dell’esistenza di un diritto naturale in epoca medievale è pressoché unanime presso gli storici e giuristi di diritto medievale, considerando che anche gli oppositori del concetto di Dio legislatore hanno sostenuto che, attraverso la ragione, il Creatore aveva permesso agli uomini di scoprire le leggi naturali che reggevano l’intera umanità[71].
Il consolidamento del diritto privato di cui erano state gettate le basi in epoca medievale sarebbe giunto a maturazione nei secoli successivi dimostrando, così, l’inesistenza di quella rottura ipotizzata da Grossi tra Età Media e modernità e, soprattutto, negando la possibilità di ragionare in termini di “insularità” soprattutto con riguardo al diritto pubblico. Sebbene, infatti, non sia possibile dimostrare con assoluta certezza che i valori medievali avrebbero coinciso con quelli elaborati nelle epoche successive, è pur certo che esistono fonti, testimonianze e prove che ne fanno emergere una palese e innegabile somiglianza. In alcuni casi non si riscontra una continuità assoluta ma, nella misura in cui si ritiene che siano state le basi del diritto medievale quelle che hanno permesso di forgiare lo Stato contemporaneo, è del tutto ipotizzabile presuppore l’esistenza di un continuum, anche se non in linea retta, ma senza delle rotture radicali e sostanziali come ha teorizzato Grossi. Si può certamente ragionare, a nostro avviso, nei termini di un’evoluzione che ha previsto delle trasformazioni ma non una discontinuità. In ragione di ciò, appare poco condivisibile l’idea di chi teorizza uno Stato, la costituzionalità delle leggi e il diritto pubblico medievale come isole “felici” senza nesso di continuità con la modernità e questo perché è evidente, e innegabile, un file rouge che lega, attraverso il tempo, concetti come Stato, sovranità, legge, o legalità[72].
6. Il Medioevo come anagramma della civiltà giuridica
Così come non si può, a nostro avviso, negare il legame che unisce la civiltà giuridica medievale a quella moderna, tantomeno si può sconfessare il rapporto di continuità tra quella romana e quella dell’Età Media. La caduta dell’Impero romano aveva prodotto, com’è noto, un enorme vuoto politico che sarebbe stato riempito dal diritto, un processo, quello, che aveva cominciato a manifestarsi a partire dal tardo Impero nel corso del quale avevano fatto la loro comparsa le prime strutture medievali. In quel passaggio, secondo Grossi, si erano rotti i vincoli dell’autorità statale totalizzante tipica del dominio romano e si era manifestata
l’incompiutezza del potere politico, […] intendendo per incompiutezza la carenza di ogni vocazione totalizzante, la sua capacità (ma anche indifferenza) a occuparsi di tutte le manifestazioni sociali e a controllarle, coprendo solo certe zone dei rapporti intersoggettivi e consentendo ad altre – e amplissime – la possibilità di poteri concorrenti[73].
Per tali ragioni Grossi ha inteso il Medioevo come una sorta di anagramma della civiltà giuridica, un universo giuridico provvisto di valori particolarissimi, distinti e separati da quelli dello Stato moderno. Un diritto senza Stato che, seppure vincolato da forti manifestazioni di potere politico, separato da quello moderno da una profonda rottura dovuto al modo in cui era stato concepito e per i fini che si era proposto; il diritto veniva legato alla società, di cui diveniva non costrizione ma dimensione vitale; recuperato interamente al sociale il diritto stesso recuperava un carattere ontico più profondo, ineriva alle fondazioni più riposte del sociale e inevitabilmente i conquistava un primato indubbio; era infatti per quello la garanzia fondamentale di coesione e di unità[74].
Esso, dunque, restava strettamente connesso all’intera società civile in tutta la sua complessità, non appariva frammentato in base alle varie sovranità ma come un’ampia koiné unitaria. Per Grossi, dunque, il diritto medievale non era il diritto spagnolo, italiano o francese sommati insieme ma un diritto autenticamente europeo che portava con sé numerose manifestazioni autonome senza che ciò gli facesse perdere la sua qualità di tessuto essenzialmente sopranazionale[75].
Di fatto le argomentazioni del Grossi rimandano a quelle del Gierke, nonostante le debite differenze, e questo perché, soprattutto rispetto al diritto pubblico, il teorico tedesco, per molti aspetti, ha fornito il tassello mancante per capire l’evoluzione del diritto fino ai giorni nostri, attraverso un processo evolutivo che non ha mai ragionato in termini di “insularità”. Come ha scritto Frederic William Maitland, nell’introduzione all’opera di Gierke,
The idea that are to possess and divide mankind from the sixteenth until the nineteenth century – Sovereignty, the Sovereign Ruler, the Sovereign People, the Representation of the People, the Social Contract, the Natural Rights of Man, the Divine Rights of Kings, the Positive Law that stands below the State, the Natural Law that stands above the State – these are the ideas whose early history is to be detected, and they are set before us as thoughts which, under the influence of Classical Antiquity, necessarily shaped themselves in the course of medieval debate[76].
Nella sua lista, prosegue Maintland, Gierke aveva incluso anche pubblicisti medievali, teologi e accademici, ma anche grandi pontefici, avvocati e riformatori, tutti uomini che avevano attivamente contribuito, nel loro tempo, a modificare la realtà attraverso i fatti e le teorie.
Anche per le ragioni suddette, dunque, è nostra convinzione che l’idea di un’Età Media completamente isolata dall’antichità e dalla modernità non possa essere condivisa, e questo perché non ci fu alcuna frattura tra un prima e un dopo, come pure non sembra sostenibile la richiesta di non utilizzare termini come “Stato” o “Sovranità” con riferimento all’epoca medievale perché causa di fraintendimento o testimonianza di approssimazione storiografica. «L’assenza dello Stato dal grande processo di formazione della civiltà medievale», scriveva, «non è un artificio verbale, tanto meno per chi osservi attento la sfera del sociale e del giuridico; essa appare, anzi, una chiave interpretativa di grande significato per lo storico del diritto, il primo prezioso strumento di comprensione per carpire al diritto medievale il ‘segreto’ della sua fisionomia più riposta, per individuare la pietra angolare di tutto il suo edificio»[77]. Un’affermazione, questa, con la quale non si può che dissentire.
Diversamente dal Grossi, quindi, si ritiene che il Medioevo non vada visto come una tappa estranea al processo storico dell’umanità. L’Età Media, in altre parole, gettò quei semi dello Stato moderno, basato sui principi del Diritto Naturale, che sarebbero germogliati dopo il suo dissolvimento[78]. Si tratta, di fatto, di concetti e posizioni che trovano consenso in un nutrito numero di studiosi che hanno visto nel Medioevo il fondamento ideologico delle teorie successive sullo Stato e sul Diritto Naturale[79]. A nostro avviso, dunque, si possono rintracciare in epoca medievale tutti gli elementi del diritto pubblico futuro, il che permette di parlare dell’Età Media come di un anagramma della civiltà giuridica.
Questo tipo di riflessione trova conferma nel fatto che il diritto canonico stesso, il cui fondamento radicava nel diritto naturale o divino, andò gradatamente a contaminare la riflessione sociale, e della vita quotidiana, al punto che i pubblicisti dell’epoca moderna arrivarono a parlare lo stesso linguaggio, in materia di diritti naturali e di un ordine legislativo superiore a quello umano, di quello della Chiesa medievale. Ma se ciò è vero, ossia se la Chiesa dell’XI secolo vedeva il divino come immutabile e l’umano come mutevole, essendo il primo superiore al secondo[80], non è possibile negare un rapporto tra quella e l’età moderna in cui il diritto divino è visto come superiore all’instabile legge dello Stato. Lo stesso accadrà con la visione teologica della persona nell’Età Media, come ente imperfetto, parte di un Ente mistico, persona fittizia composta dalla totalità dei fedeli, che andò a favorire la teoria delle corporazioni e un’idea moderna dello Stato composto da un popolo astratto e unitario che li rappresenta entrambi[81]. Non sembra, dunque, possibile sostenere la teoria dell’insularità del diritto pubblico tra l’Età media e la modernità, come ha sostenuto Grossi, quanto, semmai, del diritto privato.
7. Un dibattito in fieri
Secondo la teoria di Grossi l’idea del diritto diffusa in epoca medievale era assolutamente antitetica a quella degli Stati legislativi della modernità. Come si è argomentato, infatti, era sua ferma convinzione che il diritto non avesse alcun bisogno del potere dello Stato «essendo quest’ultimo che uno dei mille ordinamenti manifestatisi nel corso della storia umana»[82]. Sul punto lo storico fiorentino non sembra avere dubbi: la società medievale era una società priva di Stato e, in virtù del vuoto che ciò produceva a livello politico, il diritto assurgeva a punto centrale della vita sociale «il diritto», scriveva, "è […] ordine, ordine sociale, moto spontaneo, cioè nascente dal basso"; secondo Grossi, infatti, sarebbe stata la modernità a trasformare in diritto in un’appendice del potere, rendendolo un instrumento regni, e, di conseguenza, a produrre uno iato con il tessuto sociale[83].
La posizione di Grossi, come si è detto, ha sollevato non poche contro-argomentazioni molte delle quali hanno opposto, alla sua tesi negazionista, l’ipotesi che in epoca medievale esistesse un altro tipo ed un’altra forma di Stato[84] e che, proprio in virtù di un file rouge che avrebbe legato la storia del diritto pubblico medievale a quello moderno, non fosse del tutto corretto liquidare il diritto moderno come elemento del potere, dovendolo ritenere anche come strumento di civilizzazione e di garanzia dei diritti. Ghisalberti, rifacendosi a risalente storiografia[85], pur riconoscendo l’originalità del pensiero grossiano, ha sostenuto che, anche gli ordinamenti dell’Alto Medioevo, nati in seguito alla dispersione delle tribù germaniche, andassero ritenuti delle forme di Stato[86], senza che ciò dovesse implicare una loro assimilazione a quelli che avrebbero caratterizzato la modernità.
Lo stesso ragionamento, sempre secondo Ghisalberti, poteva essere applicato al Basso Medioevo e questo in virtù del fatto che l’adesione alla teoria di Grossi, e dunque la negazione dell’esistenza stessa di uno Stato in epoca medievale, impediva di accettare "l’aspetto pubblicistico del diritto medievale non omologabile alla visione comunitaria e socialmente comunitaria dello stesso"[87], come pure rendeva oltremodo difficile comprendere le ragioni che avevano portato, tra il XIII e il XIV secolo, le monarchie a rafforzarsi, arrivando peraltro a ridurre il primato moderno della legge statale a un «assolutismo legislativo e di totalitarismo giuridico»[88], vanificando, in questo modo, i risultati ottenuti dall’eguaglianza dei diritti e delle libertà civili e politiche[89]. Come ha evidenziato Passerin d’Entrèves, le leggi non andrebbero osservate solo, e comunque, in quanto leggi, ma in virtù di un bisogno di giustizia una forza garantita da leggi e meritevole di obbedienza e di rispetto[90].
Rifacendosi a Santi Romano, Grossi ne riprendeva le riflessioni sulla pluralità degli ordinamenti giuridici per applicarle a quello dell’Età Media, anche se il giurista palermitano non respingeva il ruolo fondamentale dello Stato a livello storico e neppure la specificità e la superiorità dell’ordinamento giuridico statale. Romano, infatti, negando soprattutto il normativismo kelseniano[91], rifiutava qualunque teoria della scienza giuridica secondo la quale il diritto andava inteso come un prodotto esclusivo dello Stato, arrivando a sostenere che il fatto di ritenere che l’ordinamento statale godesse di una completa autonomia non implicava affatto accettare "il c.d. principio di esclusività di ogni ordinamento giuridico che sia del tutto autonomo ed indipendente[92] in base al quale detti ordinamenti, e di conseguenza lo Stato, erano intrinsecamente esclusivi e unici e, come tali, impossibilitati a
riconoscere come giuridici altri ordinamenti ugualmente autonomi ed originari che dir si voglia, che perciò sarebbero riconosciuti solo come fatti[93].
Dal che ne derivava, secondo Santi Romano, che lo Stato poteva disconoscere gli altri ordinamenti giuridici ma anche riconoscerli e questo in virtù dell’esistenza di una loro pluralità e non esclusività[94]. Nell’interpretazione del Grossi, invece, Santi Romano avrebbe sostenuto l’esistenza di un diritto in assenza di uno Stato e questo perché, a suo dire, la società che aveva in mente il giurista siciliano era «una grande esperienza giuridica»[95], il che, a suo dire, permetteva di utilizzare la teoria romaniana come «strumento idoneo per individuare la realtà tipica medievale»[96].
L’idea che nell’Alto Medioevo non fosse assente l’idea di un regnum e di un imperium e che, dunque, si potesse individuare un unico potere autorizzato a ricorrere alla forza pur di mantenere la pace e la giustizia, è stata altresì sostenuta da Norberto Bobbio (che la riprese da March Bloch)[97] per il quale fu proprio in epoca medievale che i giuristi elaborarono un’idea di Stato (mutuandola in parte da quella romana) la quale, tuttavia, solo tramite «l’elaborazione dei primi commentatori del Corpus iuris giunge intatta sin quasi a oggi, il rapporto tra lex e rex, la teoria della sovranità come indipendenza (superiorem non recognoscens) e quindi come potere di dettar leggi senza autorizzazione […] e che, attraverso le diverse interpretazioni della lex regia de imperio, pone in discussione il problema del fondamento del potere»[98].
Contro l’idea che il Medioevo sia stata un’epoca senza Stato si è espresso anche Carl Schmitt che, nel definire lo “Stato di diritto”, faceva riferimento a uno Stato capace di osservare senza riserve "il diritto oggettivo vigente e i diritti soggettivi esistenti"[99], rammentando che anche giuristi come Johann Bluntschli e sociologici come Max Weber avevano alluso a uno “Stato feudale di diritto” e a uno “Stato di diritto medievale” nei termini di
uno Stato di diritto dei diritti soggettivi, un insieme di diritti regolarmente acquisiti, mentre lo Stato di diritto moderno sarebbe un ordinamento oggettivo, cioè un sistema di regole astratte[100].
Alle suddette considerazioni, si potrebbero affiancare anche quelle di altri studiosi come Passerin d’Entréves il quale arrivò a parlare dello Stato nei termini di una "creazione del diritto"[101] e, ragionando sulla sua origine contrattualistica all’interno delle dottrine politiche moderne (così lontane da quelle medievali di sovranità e di Stato incentrate sull’idea di una giustizia trascendente rispetto allo Stato e sul fatto che la sovranità derivasse da Dio), sostenne che nell’Evo cristiano la nascita dello Stato potesse essere spiegata attraverso il dogma del peccato[102] dal quale si poteva far derivare il bisogno per gli uomini a ubbidire alle leggi dello Stato.
Rivela, in questo senso, anche il pensiero espresso da San Tommaso circa l’origine e la natura dello Stato e, in particolare, gli sforzi dell’Aquinate nel trovare un equilibrio tra la riflessione aristotelica sulla politica e il Cristianesimo che, secondo Falchi, lo portarono a stabilire che
la sovranità non viene in atto che per opera umana, mentre il potere originariamente esiste soltanto nella collettività, la quale solo può investire determinate persone
e che
il potere politico è di diritto umano. Dio cioè è soltanto autore del potere come specie astratta, come rapporto potenziale, ma l’istituzione concreta del potere è puramente umana. Il rapporto di subordinazione politica preesiste potenzialmente […][103].
L’opera dell’Aquinate, di fatto, ha influenzato in modo significativo la riflessione dei secoli successivi. Si pensi, ad esempio, ai monarcomachi e alla convinzione della priorità del popolo (lo Stato) sul Principe[104] o alla riflessione di Francisco Suárez[105] il quale, nel 1619, aveva sostenuto che il Principe acquistava il potere sovrano grazie al consenso che gli riconosceva la comunità, mentre Ugo Grozio avrebbe affermato che lo Stato restava separato dagli individui che ne possedevano il dominio in quanto collettività[106]. In precedenza, il già citato Johan Althusius si era soffermato sul fatto che la sovranità risiedesse nel popolo che, per tale motivo, fosse superiore al monarca[107], in direzione del tutto opposta a quella che sarebbe stata esposta da Bodin per il quale nessun diritto di sovranità avrebbe potuto essere concesso popolo pena la sua distruzione[108].
Numerosi, in sostanza, sono stati i pensatori medievali che hanno rivendicato l’assoluto potere dello Stato rispetto alla Chiesa. Come avrebbe anticipato Marsilio da Padova solamente in presenza di un Governo retto da leggi, infatti, ci si trovava di fronte a un regnum all’interno del quale l’intera cittadinanza assumeva il ruolo di “legislatore umano” senza il cui assenso nessun decreto o decretale papale poteva «obbligare o costringere nessuno»[109]. E questo perché nessun monarca al quale era stato assegnato il potere di governare poteva goderne in modo pieno e incontrollato, dovendo sempre sottostare al volere del “legislatore umano”. Chiara allusione al fatto che la sovranità derivasse dal basso.
La querelle sul fatto che in epoca medievale si potesse o no parlare di Stato ha indotto alcuni studiosi a elaborare due definizioni, una “larga” e una “stretta” di Stato[110], e, altri, a considerare la parola “Stato” una sorta di termine ombrello all’interno del quale far confluire numerosi significati da polis a civitas, da imperium a regnum[111], senza, tuttavia, volergli assegnare necessariamente un significato troppo vago o generico tale da impedirne una sua specificità[112]. Alcuni studiosi[113] hanno sostenuto che, rifiutare il significato “ristretto” di Stato, permetta di capire tutte quelle argomentazioni che vengono addotte per spiegare la continuità storica da un’epoca all’altra e da un’organizzazione politica all’altra[114]. Sia che si adotti un’idea ristretta sia un’idea larga, alla base di questa visione si trova la convinzione che non si possa ridurre lo Stato, che è un concetto, storico, al perimetro della sola modernità.
L’idea che lo Stato nasca ufficialmente con la pace di Westfalia, dunque, e questo perché da quel momento «lo Stato riuscì in tutti i campi vittorioso»[115], non sembra potersi condividere e questo perché, anche durante il Medioevo, come ampiamente argomentato, per quanto si trattasse di un’epoca frammentata, era possibile individuare una tensione costante verso l’unità politica, e che lo Stato inglese sorse molto prima che nel continente europeo si sperimentasse la prima esperienza costituzionale. Prima ancora del 1648, inoltre, già Machiavelli e Bodin avevano iniziato ad alternare la locuzione res publica a quella di Stato, preceduti, a loro volta, da autori come Tito Livio che aveva scritto che "la polis greca era […] ad un tempo Stato e Chiesa"[116].
Anche un costituzionalista come Crisafulli, pur condividendo l’assunto secondo il quale lo Stato moderno sia sorto con la pace di Westfalia, ha ritenuto che
i regni formatisi a seguito della disgregazione dell’Impero carolingio erano venuti progressivamente affermandosi – in fatto - come poteri superiorem non recognoscentes; mentre, dal punto di vista della struttura interna, sin dalla fine del secolo XII cominciano a riscontrarsi […] i caratteri di veri ordinamenti statali, sia pure in commistione con le perduranti istituzioni feudali[117],
nonostante non abbia negato il fatto che ci siano state delle significative differenze tra quelli e lo Stato moderno soprattutto per un’unità politica mediata.
Quindi, sempre secondo il Crisafulli, sebbene l’Imperatore del Sacro Romano Impero fosse, da una prospettiva formale, un monarca, nella prassi la sovranità si affermò «come concreto attributo di civitates, regni, principati»[118] e, comunque, anche in precedenza, i tre elementi fondanti lo Stato - popolo, territorio e governo – avevano convissuto all’interno della polis greca e nella civitas romana, potendosene trovare traccia anche nglii antichi imperi come quello egiziano, babilonese, persiano e macedone che, di fatto, "presentano caratteri qualificabili statali"[119], a ulteriore dimostrazione del fatto che la tesi di Grossi non possa trovare accoglimento.
8. Conclusioni
La concezione giuridico-medievalista di autori come Grossi, indipendentemente dal fatto che la si accetti o la si critichi, solleva diverse questioni su un periodo certamente interessante della storia che resta a tutt’oggi oggetto di continui approfondimenti e di analisi. L’idea di un Medioevo come epoca isolata, con nessun legame con l’antichità e la modernità, considerata al pari di una sorta di organismo capace di autoalimentarsi per secoli, spezzando qualsiasi legame con il passato e non creandone nessun con il suo futuro, resta una tesi audace che ha inaugurato nuovi percorsi di ricerca e spinto generazioni di ricercatori a esplorare quella fase della storia del diritto che meriterebbe una maggiore attenzione sia da parte dei giuristi sia degli storici del diritto medievale in virtù del fatto che, proprio nel Medioevo, si trovano i fondamenti di tutte le concezioni che sono state ereditate dal diritto pubblico (e da una parte del diritto privato) delle nazioni contemporanee.
Secondo la riflessione grossiana, la rottura tra il Medioevo e la modernità si tradusse, con il cambiamento del sistema delle fonti autonome del diritto, in un monismo legislativo statale che trasformò ogni Stato in un sistema giuridico particolare. Si ruppe quell’unità che esisteva nell’Età Media e si trasformò l’Europa in un mosaico di diritti statali territoriali. Ma se ciò può anche essere vero, entro certi limiti, nell’ambito del diritto privato, lo stesso non sembra valere sul piano del diritto pubblico, visto che dopo l’Età medievale s’impose una tendenza verso l’assolutismo, caratteristico del monismo statale, basato su alcune teorie dottrinali medievali e, all’interno della stessa modernità, si assiste a numerosi tentati per salvare e perfezionare istituzioni di diritto pubblico medievale da parte della dottrina, all’interno di libri e Università.
Per quanto riguarda il diritto pubblico, quindi, non sembra possibile condividere l’idea di Grossi che vuole un Medioevo isolato rispetto all’antichità e alla modernità, e questo in virtù del fatto che esiste una chiara, e documentata, transizione culturale e giuridica tra l’epoca precedente e quella posteriore. Il che non implica sottrarre universalità alle idee elaborate ed espresse a livello giuridico in epoca medievale, ma, semmai, non considerare il Medioevo un’isola rispetto al suo passato e al suo futuro.
[1] N. Bobbio, voce Stato, in “Enc.”, vol. XIII, Einaudi, Torino, 1981, p. 463 (pp. 453-513).
[2] G. Sartori, Democrazia degli antichi e democrazia dei moderni, in Id., Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano, 1994, p. 141.
[3] M. Fioravanti, voce Stato (storia), in “Enc. Dir.”, vol. XLIII, Giuffrè, Milano, 1990, p. 708 e ss.
[4] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale (1995), Laterza, Roma-Bari, 2017.
[5] L. M. Bassani e A. Mingardi, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla Storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino, 2017, p. 42.
[6] P. Piscaretti di Ruffia, voce Stato, in “Enc. Giur.”, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 51 (pp. 31-62).
[7] Machiavelli, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Le Monnier, Firenze, 1857, p. 5.
[8] V. E. Orlando, Sul concetto di Stato, in Diritto pubblico generale, Giuffrè, Milano, 1954, pp. 190-191.
[9] Ibidem.
[10] P. Grossi, Un diritto senza Stato (La nozione di autonomia come fondamento della costituzione giuridica medievale), in “Quaderni fiorentini”, 1996, XXV, pp. 267-284.
[11] P. Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, Carocci, Roma, 2001, p. 33.
[12] C. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo: dalla tradizione antica al «costituzionalismo cristiano», Il Segno dei Gabrielli Editori, Verona, 2006.
[13] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 29.
[14] S. Roma, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1946, p. 89.
[15] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 14.
[16] Ibidem.
[17] O. Gierke, Political Theories of the Middle Age, trad. it. di F. William Maitland, Cambridge University Press, New York, 1987, p. 22.
[18] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 18 e ss.
[19] Ivi, p. 21.
[20] O. Gierke, The Political Theories of the Middle Age, cit., p. 61.
[21] D. Quaglioni, Dal costituzionalismo medievale al costituzionalismo moderno, in “Annali del Dipartimento di Storia del Diritto-Università di Palermo”, 52, 2007-2008, pp. 55-67; E. Cortese, Il Diritto nella Storia Medievale, II, Il Basso Medioevo, Il Cigno, Roma, 1995.
[22] F. Palermo, J. Woelk, Germania, il Mulino, Bologna, 2005, pp. 19-20.
[23] C. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo. Dalla tradizione antica al «costituzionalismo cristiano», San Pietro in Cairano, Roma, 2006.
[24] J. Brissaud, A History of French Public Law, E. Little, Brown and Company, Boston, 1915, p. 210 e ss.
[25] G. Silvano, Dal centro alla periferia. Niccolò Machiavelli tra Stato cittadino e Stato territoriale, in “Archivio Storico Italiano”, vol. 150, n. 4, 554, ottobre-dicembre 1992, pp. 1105-1141.
[26] J. J. Chevalier, Histoire de la pensée politique, vol. 3, Northwestern University, London, 1979, p. 10.
[27] P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007,
[28] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 231.
[29] I. Bodinus, De Republica libri sex, I, 8, Fancoforti ad Moenum, apud Joannes Wechelum et Petrum fischerum consortes, 1591.
[30] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 50.
[31] L. Blanco, Note sulla più recente storiografia in tema di «Stato moderno», in “Storia Amministrazione Costituzionale. Annali I.S.A.P.”, 2, 1994, pp. 259-197.
[32] F. Sofia, Il potere neutro nella riflessione costituzionale di Benjamin Constant, in R. Orrù, F. Bonini, A. Ciammariconi (a cura di), Il potere neutro: risorse e contraddizioni di una nozione costituzionale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013, pp. 33-44.
[33] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 19.
[34] Ivi, p. 20.
[35] G. G. Merlo, Il cristianesimo medievale in Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[36] A. Sidney, Discourses Concerning Government, F. Darby ub Bartholomes Close, Londra, 1704.
[37] F. Hotman, Franco-Gallia: or, an account of the ancient free State of France, and most other parts of Europe, before the loss of their Liberties, Ed. Edward Valentine, Londra, 1721, pp.66-67.
[38] R. Tamayo y Salmorán, Introducción al estudio de la Constitución, Ed. Distribuciones, México, 1998, p. 58.
[39] Ibidem.
[40] K. Löwenstein, Political power and the governmental process, University of Chicago Press, Michigan, 1957, p. 152.
[41] C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano, 1986, p. 113.
[42] Ibidem.
[43] F. Hotman, Franco-Gallia: or, an account of the ancient free State of France, cit., pp. 83-84.
[44] Ivi, pp. 107-108.
[45] Come la deposizione di re Childerico III e la salita al trono di Pipino il Breve nel 752 dove, parallelamente all’unzione papale fu necessaria l’approvazione della deposizione da parte del Congresso Generale della Nazione, rappresentativa del popolo nel suo insieme e l’approvazione del nuovo re (F. Hotman, Franco-Gallia, cit., pp. 90-97); oppure il caso dell’elezione dei re merovingi, carolingi e capetingi dall’VIII al XV secolo dove l’organo legittimante la sovranità delegata al monarca proveniva dall’Assemblea rappresentativa dei distinti ordini o stadi del regno essendo questi esempi chiari dell’applicazione della teoria della sovranità popolare nel Medioevo secondo la quale chi aveva il potere di istituire era anche colui che aveva il potere di abrogare, rimarcando il legame tra popolo e monarca. J. Brissaud, A History of French Public Law, cit., p. 79 e ss.
[46] J. Althusius, The Politics of Johannes Althusius, a cura di F. Smith Carney, Beacon Press, Londra, 1964, p. 88.
[47] Ibidem.
[48] Ivi, p. 110.
[49] Ivi, p. 106.
[50] C. Colapietro, M. Ruotolo, Diritti e libertà, in F. Modugno (a cura di), Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2012, p. 555 e ss. (pp. 553-640); M. Fioravanti, Costituzione, il Mulino, Bologna, 1999, p. 333.
[51] E. Corwin, Corwin on the Constitution. The Judiciary, Cornell University Press, Ithaca and Londra, 2019, pp. 103-104.
[52] E. Coke, The Second Part of the Institutes of the Laws of England: Containing the Exposition of Many Ancient and other Statues, W. Clarke and Sons, Londra, 1817, pp. 42-43 e pp. 50-55.
[53] Ivi, pp. 426-428 e pp. 526-527.
[54] H. L. Lubert, Sovereignty and Liberty in William Blackstone’s. Commentaries on the Laws of England, in “The Review of Politics”, 72, 2010, pp. 271-297.
[55] W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, Lib. I, Oxford University Press, Oxford, 2016, pp. 127-128.
[56] G. Jellinek, Declaration of the Rights of Man and of Citizens, Hyperion Press, Westport, 1979.
[57] A. Arlidge, I. Judge, Magna Charta Uncovered, Hart Publishing. Oxford and Portland, 2014, p. 185.
[58] W. S. Church, A Treatise on the Writ of Habeas Corpus, Lawbook Exchange, New Jersey, 2013.
[59] A. L. Tyler, Habeas Corpus in Wartime: From the Tower of London to Guantanamo Bay, Oxford University Press, Oxford, 2017, p. 15 e ss.
[60] F. Pollock, F. W. Maitland, The History of English Law Before the Time of Edward I, vol. I, The Lawbook Exchange, New Jersey, 1996, p. 587 e ss.
[61] R. Tamayo y Salmorán, Introducción al Estudio de la Constitutción, cit., pp. 178-181.
[62] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 9.
[63] Ivi, p. 10.
[64] Ivi, p. 11.
[65] A. Esmein, Cours élémentaire d’Histoire du Droit Français, L. Larose & Forcel, Paris, 1892, p. 102.
[66] A. Passerin D’Entrèves, Natural Law, Hutchinson and. Co., Londra, 1955, p. 21.
[67] A. Passerin D’Entrèves, The Medieval Contribution to Political Though, Oxford University Press, Oxford, 1939, p. 6.
[68] O. Gierke, Natural Law and the Theory of Society 1500 to 1800, Cambridge University Press, Cambridge, 1950.
[69] M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Jaka Book, Milano, 1986, p. 528 e ss.
[70] P. Costa, voce Diritti fondamentali (storia), in “Enc. Diritto”, Giuffrè, Milano, 2008, p. 371 e ss. (pp. 365-413).
[71] R. P. Johnston, Hugo Grocio, padre accidental del Derecho Internacional, in “ADE. Revista de la Asociación de Diplomáticos Escritores”, 2, n. 4, 2002, pp. 1-6; A. Passerin D’Entrèves, Natural Law, cit., pp. 50-51.
[72] O. Gierke, Political Theories of the Middle Ages, Cambridge University Press, Cambridge, 1900, p. 88 e ss.
[73] P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 12.
[74] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 30.
[75] Ibidem.
[76] F. W. Maitland, Introduction, in O. Gierke, Political Theories, cit., pp. VII-VIII.
[77] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 47.
[78] O. Gierke, Politica Theories of the Middle Ages, cit., p. 87.
[79] Si pensi, ad esempio, a Brissaud che ritenne le teorie medievali come antecedenti alla Rivoluzione del 1789. J. Brissaud, A History of French Public Law, p. 535 e ss; A. Passerin D’Entrèves, Natural Law, cit., pp. 57-58.
[80] P. Grossi, L’ordinamento giuridico medievale, cit., p. 203 e ss.
[81] G. Duso, Sulla genesi del moderno concetto di società: la «consociatio» in Althusius e la «socialitas» in Pufendorf, in “Filosofia politica”, X, 1996, pp. 5-31.
[82] G. Grossi, L’ordinamento giuridico medievale, cit., p. 30.
[83] Ivi, p. 31.
[84] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1991, p. 138.
[85] E. Sestan, Stato e Nazione nell’Alto Medioevo, Esi, Napoli, 1952; F. Calasso, Medioevo del diritto, Giuffrè, Milano, 1954; M. Ascheri, Istruzioni medievali: un’introduzione, il Mulino, Bologna, 1994.
[86] C. Ghisalberti, Recensione a Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, in “Clio”, 1, 1997, p. 181 (pp. 181-183).
[87] Ivi, p. 183.
[88] Ibidem.
[89] Ibidem.
[90] A. Passerin d’Entrèves, La dottrina dello Stato, Giappichelli, Torino, 1947, pp. 58-59.
[91] M. Prospero, Il pensiero giuridico di Kelsen: normativismo e diritto privato, in “Studia Politica: Romanian Political Science Review”, 10, 4, 2010, pp.709-787.
[92] S. Romano, Principi di diritto costituzionale generale, Giuffrè, Milano, 1947, pp. 58-59.
[93] Ibidem,
[94] Ibidem.
[95] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 31.
[96] Ibidem.
[97] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico (1950), a cura di C. Panizza, Einaudi, Torino, 2016.
[98] N. Bobbio, voce Stato, cit., p. 466.
[99] C. Schmitt, Dottrina della Costituzione (1928), trad. it. A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1984, p. 177.
[100] Ibidem.
[101] A. Passerin D’Entrèves, La dottrina dello Stato, cit., p. 234.
[102] Ibidem.
[103] A. Falchi, I fini dello Stato e la funzione del potere (1910), ora in Id., Lo Stato collettività, ETS, Pisa, 1994, p. 35, nota 60; S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 129 e ss.
[104] A. Clerici, La dialettica parte/tutto nelle teorie della sovranità popolare dei monarchomaques, in G. Ruocco e L. Scuccimarra (a cura di), Il governo del popolo. 1. Dall’antico regime alla Rivoluzione, Viella, Roma, 2011, pp. 48-72.
[105] F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo Legislatore, Lugduni, 1619, III, capp. I-IV.
[106] U. Grozio, De jure belli ac pacis, Wratislaviae, 1744, I, cap. I, par. XIV; cap. I, par. VII; cap. XIIV.
[107] J. Chevallier, Storia del pensiero politico, I, il Mulino, Bologna, 1981, p. 494.
[108] G. Bodin, De Repubblica (1576), Francoforte 1609, VI Libri, Lib. I, cap. 10 e Lib. I, cap. 8.
[109] A. Passerin d’Entrèves, Rileggendo il defensor pacis, in G. M. Bravo (a cura di), Saggi di storia del pensiero politico. Dal Medioevo alla società contemporanea, Franco Angeli, Milano, 1992, pp. 135-167; C. Dolcini, Introduzione a Marsilio da Padova, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 25 e 27.
[110] N. Bobbio, voce Stato, cit., p. 464.
[111] U. Cerroni, voce Stato, in G. Crifò (a cura di), Enciclopedia Feltrinelli Fischer Diritto, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 475 (pp. 475-500).
[112] G. Balladore-Pallieri, Dottrina dello Stato, Cedam, Padova, 1964, p. 4.
[113] G. Jellinek, Dottrina generale dello Stato (1914), vol. I, trad. it. M. Petrozziello, Società editrice libraria, Milano, 1921, pp. 291 e ss.
[114] G. Balladore-Pallieri, Dottrina dello Stato, cit., p. 4.
[115] Ivi, p. 6.
[116] Ivi, p. 9.
[117] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, Introduzione al diritto costituzionale italiano, Cedam, Padova, 1970, p. 54.
[118] Ibidem.
[119] Ivi, pp. 56-57.