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Pubbl. Lun, 11 Ott 2021

Danni da lite temeraria per sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale

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autori Annamaria Di Clemente ,



Con la recente sentenza del 21 settembre 2021, n. 25478, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno enunciato due importanti principi di diritto in tema di caducazione del titolo esecutivo giudiziale in corso di opposizione all’esecuzione ai fini della pronuncia di risarcimento danni ex art. 96, secondo comma, c.p.c..


ENG With the recent judgement of 21 September 2021, n. 25478, the United Sections of the Court of Cassation have enunciated two important principles of law regarding the lapse of the judicial enforceable title in the course of opposition to the execution for the purposes of the ruling of damages pursuant to art. 96, second paragraph, of the Italian code of civil procedure.

Sommario: 1. Profili generali; 2. Il secondo comma dell’art. 96 c.p.c.: ambito e problemi applicativi; 3. Il recentissimo intervento della Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 21 settembre 2021, n. 25478; 4. Conclusioni.

1. Profili generali

In linea generale si può affermare che la responsabilità processuale civile, rubricata nel codice di procedura civile come responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., trovi la sua fonte proprio nel processo, precipuamente nell’attività in esso svolta rispettivamente da ciascuna parte.

A tal fine, tuttavia, è necessario che tale attività sfoci in un vero e proprio abuso di cui la parte che l’abbia così perpetrato sarà chiamata a rispondere e, conseguentemente, a risarcire i relativi danni, secondo le diverse modulazioni normativamente contemplate, come si vedrà analiticamente più avanti [1].

Invero, il diritto di difesa di rango costituzionale, previsto, com’è noto, dall’art. 24 Cost., postula la ricorrenza di una fattispecie meritevole di tutela giuridica, sia per la parte che agisca in giudizio, sia per quella che vi resista, seppur senza ampliare il thema decidendum della causa.

Diversamente, esulano da tale previsione normativa tutti i casi in cui l’attività difensiva, quale fonte di responsabilità da lite temeraria, come visto, venga svolta dalla parte dichiarata soccombente in modo palesemente privo di fondamento ovvero in quelli in cui venga accertata l’inesistenza del diritto per l’esecuzione di un provvedimento cautelare, la trascrizione di una domanda giudiziale, l'iscrizione di ipoteca giudiziale oppure l'inizio dell'esecuzione forzata.

Il paradigma compensativo, così sinteticamente delineato, non esaurisce, tuttavia, la disciplina dell’istituto della responsabilità aggravata.

Sotto altro profilo, infatti, alla luce del costante raffronto con il modello degli ordinamenti giuridici del common law ed attese le più recenti e complesse esigenze di tutela in tema, sentite anche negli ordinamenti del civil law, per ciò che riguarda più da vicino l’ordinamento italiano la L. 69/2009 ha inserito il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. .

Ebbene, tale previsione normativa, ponendosi sul piano della deterrenza, è tesa a scoraggiare qualsivoglia forma di abuso processuale anche nell’interesse pubblico, rappresentando strumento di deflazione del contenzioso e di riduzione dei tempi del processo; strumento, questo, che a differenza dei casi rispettivamente previsti dal primo e secondo comma del suddetto articolo, può essere disposto d’ufficio, quindi, anche in mancanza di una espressa istanza di parte.

Non va ignorato, inoltre, come l’introduzione del suddetto terzo comma dell’art. 96 c.p.c., assimilabile all’istituto anglosassone dei “punitive damages”, alla cui funzione reintegratoria del risarcimento si sovrappone, com’è noto, una funzione sanzionatoria-punitiva oltre a quella ontologicamente, ancor prima, preventiva, abbia portato dottrina e giurisprudenza a valutare la compatibilità di siffatto istituto con i principi informatori dell’ordinamento giuridico italiano, facendo così registrare orientamenti contrastanti sul tema [2].

In tale cornice si pongono alcuni interessanti interventi della Cassazione anche Sezioni Unite, in funzione nomofilattica, che hanno fatto luce sulla questione così prospettata, più precisamente sull’evoluzione dell’istituto dei “punitive damages” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento [3].

Con la più recente sentenza del 13 settembre 2018, n. 22405, invero, le Sezioni Unite hanno statuito, proprio in ordine alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria come prevista dall’articolo 96, terzo comma, c.p.c., l’importante principio di diritto secondo cui, a differenza delle previsioni contenute rispettivamente nel primo e secondo comma di detto articolo, per l'applicazione di tale norma non è richiesta l’istanza di parte e, comunque, la prova del danno, essendo necessaria ed al contempo sufficiente la ricorrenza dei requisiti della mala fede ovvero della colpa grave.

Alla stregua dei principi elaborati dalla stessa giurisprudenza di legittimità in ordine ai suddetti requisiti, giova precisare come la mala fede sia da ravvisarsi nei casi in cui emerga la consapevolezza dell'infondatezza della domanda, mentre la colpa grave nelle ipotesi in cui risulti la carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta consapevolezza. 

Per completezza è appena il caso di osservare che, se pur incidentalmente, sulla natura sanzionatoria ed al tempo stesso indennitaria della norma di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c., si era già espressa la Corte Costituzionale, con sentenza n. 152/2016, la quale aveva avuto modo di porre l’accento sulla modulazione dell’istituto in esame teso nella sua funzione deflattiva ad una maggiore effettività nonché ad una più incisiva efficacia deterrente, rispondendo, al tempo stesso, ad una finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa, in lite temeraria, in tutti i casi, non infrequenti, in cui la stessa incontri obiettive difficoltà a provare l’an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto di risarcimento.

2. Il secondo comma dell’art. 96 c.p.c.: ambito e problemi applicativi

Il comma secondo dell’art. 96 c.p.c., alla cui lettura si rinvia, contiene un’elencazione tassativa di casi, per quanto eterogenei, accomunati dall’idoneità ad incidere direttamente sui rapporti giuridici sostanziali delle parti interessate anche in riferimento a quelli eventualmente intrattenuti con i terzi.

Tale precisazione lascia chiaramente intendere l’importanza dell’esatta individuazione dell’ambito applicativo della norma in esame nonché delle soluzioni offerte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, di merito e di legittimità,  ai problemi applicativi ad esso connessi.

Innanzitutto, dal punto di vista oggettivo, la norma in esame postula l’accertamento dell’inesistenza del diritto in base al quale la parte si sia avvalsa dei previsti strumenti processuali per l’esecuzione di un provvedimento cautelare, la trascrizione di una domanda giudiziale, l'iscrizione di ipoteca giudiziale oppure l'inizio dell'esecuzione forzata, come espressamente e tassativamente elencati.

Sotto il profilo soggettivo, invece, la norma richiede il difetto della normale prudenza della parte, evidentemente attore o creditore procedente, che abbia posto in essere i suddetti atti di impulso procedurali.

Ebbene, riguardo al requisito oggettivo di “inesistenza del diritto” non vi è, sotto il profilo nozionistico, unanimità di vedute in dottrina e giurisprudenza.

Invero, secondo l’orientamento che muove da una interpretazione letterale della previsione normativa, la responsabilità processuale aggravata ex art. 96, secondo comma, c.p.c. è configurabile solo nell’ipotesi di inesistenza del diritto sostanziale sotteso non ravvisabile, quindi, nei casi di mancata ricorrenza di requisiti di natura prettamente processuale che non rientrano, in quanto tali, in detta previsione normativa.

A conclusioni di portata ben più ampia perviene il diverso orientamento che riconduce alla previsione normativa in esame non solo i casi di inesistenza del diritto sostanziale sotteso, ma anche quelli di mancata ricorrenza delle condizioni proprie dei procedimenti cautelari e degli altri espressamente previsti [4].

Riguardo, invece, all’elemento psicologico, secondo consolidato orientamento della dottrina e della giurisprudenza, sono riconducibili alla fattispecie in esame, a differenza della previsione normativa di cui al primo comma e ponendosi, quindi, in tal modo su di un piano più rigoroso rispetto ad essa, anche i casi di colpa lieve [5].

Invero, come già affermato dalla Suprema Corte [6], il maggior rigore del secondo comma dell’art. 96 c.p.c. si giustifica alla luce della gravità degli effetti ricollegabili ad iniziative che incidono direttamente sul patrimonio del debitore.

E’ appena il caso di precisare, inoltre, che secondo autorevole dottrina il difetto della normale prudenza è da parametrarsi con il principio della diligenza del buon padre di famiglia [7].

Interessante, infine, precisare che ai fini della ricorrenza della violazione  del canone di normale prudenza, secondo i criteri di cui innanzi, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, la consapevolezza dell’attore o creditore procedente in ordine alla presumibile infondatezza della propria pretesa, alla luce non solo degli orientamenti giurisprudenziali esistenti al momento della proposizione della domanda, ma anche in riferimento alle fasi di merito con eventuali esiti alterni nonché all’esito di istanze cautelari, se proposte, ovvero di quelle volte alla sospensione dell’esecutività della sentenza [8].

3. Il recentissimo intervento della Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 21 settembre 2021, n. 25478

Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite hanno offerto, in funzione nomofilattica, sui ravvisati contrasti in giurisprudenza di cui all’ordinanza interlocutoria di rimessione, puntuali soluzioni alle due rispettive questioni giuridiche.

La prima questione, invero, riguarda gli effetti della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale nel corso del procedimento di opposizione all’esecuzione ai fini della decisione da adottare e delle conseguenti ricadute in ordine alla liquidazione delle spese di lite.

La seconda questione, invece, riguarda l'esatta individuazione del giudice competente a decidere sulla domanda di risarcimento dei danni ex art. 96, secondo comma, c.p.c., nonchè della sede naturale per proporla.

Ebbene, i principi di diritto enunciati nell’interesse della legge dalle Sezioni Unite, in risposta alle due rispettive questioni di cui innanzi, possono essere sintetizzati nel modo che segue.

In riferimento alla prima questione, le Sezioni Unite, osservano, quale premessa dell'iter logico-giuridico seguito, come il processo esecutivo esiga l'esistenza di un titolo valido ed efficace che permanga, come tale, per l’intera durata del processo stesso e, quindi, non solo ab initio; seppur modulata tale esistenza nel senso di ritenere sufficiente la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo, benché dell’interventore e non del creditore procedente, che legittimi la permanenza dell'originario pignoramento [9].

Corollario di tale principio è quello secondo cui il giudice dell'opposizione all'esecuzione è tenuto a compiere d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità, la verifica sull'esistenza del titolo esecutivo stesso, rilevandone l'eventuale sopravvenuta carenza [10].

Su tali rilievi preliminari, le Sezioni Unite evidenziano come la giurisprudenza, pur da sempre attenta al tema, non offra su di esso un orientamento uniforme.

Invero, i due più recenti orientamenti della giurisprudenza delineatisi sulla questione, pur muovendo dalla medesima impostazione secondo cui la successiva caducazione del titolo esecutivo disposta in sede di cognizione determina la chiusura del giudizio di opposizione all’esecuzione, giungono a contrapposte conclusioni in ordine al regime della liquidazione delle spese processuali.

Secondo un primo orientamento, infatti, la caducazione del titolo e la consequenziale rimozione dello stesso con efficacia ex tunc dalla realtà giuridica, attribuisce di per sé fondatezza all’opposizione [11] con conseguente necessità che le spese vengano poste a carico del creditore opposto.

Secondo il diverso e contrapposto orientamento, tale caducazione non determinando tout court la fondatezza e, quindi, l’accoglimento dell'opposizione all’esecuzione, la liquidazione delle spese del giudizio in favore dell'opponente non rappresenta, sulla ricorrenza dei motivi di legge, il frutto di automatismi, potendola, a tutto voler concedere, ritenere compensata e non semplicisticamente accolta.

Su tale premessa, le Sezioni Unite concludono affermando come detta liquidazione debba correttamente avvenire, per converso, con il ricorso al criterio della soccombenza virtuale quale declinazione del principio di causalità, considerando, in tale prospettiva, l'intera vicenda processuale [12].

Pertanto, al fine di comporre l’evidenziato contrasto, le Sezioni Unite, sul rilievo che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale non definitivo intervenuta a causa di un provvedimento pronunciato nel relativo giudizio di cognizione, determina la cessazione della materia del contendere del giudizio di opposizione all’esecuzione e non di per sé l’accoglimento dello stesso, hanno statuito il principio di diritto secondo cui nella fattispecie astratta così modulata e fuori, quindi, da qualsivoglia automatismo, il giudice dell’opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo “il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione”.

In riferimento alla seconda questione attinente all’individuazione del giudice competente ad emettere la pronuncia di cui all'art. 96, secondo comma, c.p.c., che, come innanzi anticipato, postula anch’essa la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale non definitivo, le Sezioni Unite hanno statuito il principio di diritto secondo cui, sulla ricorrenza dei requisiti richiesti dalla norma in esame, e, quindi, l’aver intrapreso o compiuto l'esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, la domanda di risarcimento danni per lite temeraria di cui al citato comma, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, sempre che quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale.

Tuttavia, precisano le Sezioni Unite, laddove tale giudizio non sia più pendente ovvero ricorrano ragioni preclusive di ordine processuale, la domanda andrà proposta direttamente al giudice dell'opposizione all’esecuzione, per essere, nell’ulteriore caso di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, la terza ed ultima possibilità di proporre la relativa domanda in un giudizio autonomo, extrema ratio, quindi, di scelta per così dire vincolata.

4. Conclusioni

Con la sentenza oggetto del presente contributo le Sezioni Unite hanno trattato e risolto questioni complesse e parzialmente nuove statuendo rispettivi ed importanti principi di diritto che hanno composto contrasti giurisprudenziali dai non trascurabili effetti pratici per le parti interessante nonché per gli operatori del diritto.

Più in generale, invero, il tema nell’attuale contesto storico caratterizzato dalle note difficoltà del sistema giudiziario è più che mai all’attenzione della collettività tutta, svolgendo una funzione selettiva tesa a sanzionare le ipotesi di richieste indiscriminate di tutela in sede giudiziaria, a fortiori se per scopi meramente emulativi ovvero dilatori, ed al contempo volta a sensibilizzare e responsabilizzare le parti al fine, questo è veramente il più grande auspicio, di precludere qualsivoglia sillogismo con l’art. 96 c.p.c., per mancata ricorrenza della relative fattispecie concrete di lite temeraria in tutte le sue esaminate declinazioni.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per approfondimenti, ved., tra gli altri, Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1954, 267; Cordopatri, voce Spese giudiziali, in Enciclopedia dir. XLIII, Milano, 1990; Grasso, Della responsabilità delle parti, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, Torino 1973, 1030; Id., Note sui danni da illecito processuale, in Riv. dir. processuale, 1959, 270; La Rocca, Profili di un sistema di responsabilità processuale, Napoli 1963, 9.

[2] Per gli orientamenti delineatisi in dottrina, cfr., tra gli altri, Finocchiaro, Ancora sul nuovo art. 96, comma 3°, c.p.c., in Riv. dir. processuale, 2011, 1184; Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (un primo commento della legge 18 giugno 2009, n. 69), in Foro it., 2009, V, 222; Scarselli, Il nuovo art. 96, 3° comma, c.p.c.:consigli per l’uso, in Foro it., 2010, I, 2237; per gli orientamenti delineatisi nella giurisprudenza di merito, cfr., ex plurimis, Tribunale Roma, 11 gennaio 2010, in Giur. merito, 2010, 9; Tribunale Piacenza, 22 novembre 2010, in Guida al diritto, 2011, 3; Tribunale Varese, 30 ottobre 2009, in Giur. merito, 2010, 2, 431 e in Resp. civ., 2010, 387 ss.; per gli orientamenti della Cassazione anche a Sezioni Unite, in funzione nomofilattica, ved. infra.

[3] Cfr., ex plurimis, Cassazione, sentenza n. 3376/2016; sentenza n. 27623/2017; Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 16601/2017; sentenza n. 22405/2018.

[4] In tal senso, per tutti, Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli 1979, 420.

[5] In tal senso, ex plurimis, Cassazione, 30 luglio 2010, n. 17902, in in Foro it., 2011, I, 3134, e in Giust. civ., 2011, I, 2106.

[6] Cassazione, sentenza 30 luglio 2010, n. 17902.

[7] In tal senso, per tutti, Carnelutti, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma 1942, 240.

[8] In termini, Cassazione, sentenza n. 26515/2017.

[9] In tal senso si erano già  pronunciate le Sezioni Unite con sentenza 7 gennaio 2014, n. 61, come espressamente richiamata nel testo della sentenza in esame.

[10] Tra le altre, Cassazione,  sentenze 29 novembre 2004, n. 22430, 19 maggio 2011, n. 11021, e 13 luglio 2011, n. 15363, nonché l'ordinanza 5 settembre 2017, n. 20789.

[11] In termini, più di recente, Cassazione, sentenza n. 21240/2019. 

[12]  In tal senso, per tutte, Cassazione, sentenza n. 30857/2011.