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Pubbl. Mar, 31 Ago 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

La Corte costituzionale sull´illegittimità sopravvenuta delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali e la revoca del giudicato di condanna

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Federica Crescioli



La sentenza n. 68 del 2021 della Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 30, comma quarto, della l. 11 marzo 1953, n. 87, così ampliando lo statuto di garanzie riconosciuto alle sanzioni amministrative sostanzialmente penali anche al principio di cedevolezza del giudicato. Il presente contributo si è posto nell’ottica di ripercorrere le tappe significative dell’evoluzione giurisprudenziale nazionale e sovranazionale avente ad oggetto questa particolare tipologia di sanzioni per svolgere un esame dettagliato della sentenza in commento.


ENG The Italian Constitutional Court, with the decision n. 68/2021, has declared article 30, paragraph 4, of law no. 87 of March 11, 1953 to be constitutionally invalid, thus extending the statute of guarantees acknowledged to administrative sanctions which are essentially criminal also to the principle of the cedeability of the res iudicata. This paper has set out to review the significant steps in the evolution of national and supranational jurisprudence concerning this particular type of sanctions in order to carry out a detailed examination of the decision in comment.

 

Sommario: 1.Introduzione; 2.Le sanzioni amministrative di natura penale; 3.Le conseguenze della qualificazione come penale della sanzione amministrativa; 4.La sentenza della Corte Costituzionale 68 del 2021; 4.1.Il casus decisis; 4.2.I principi di diritto enunciati; 5.Conclusioni.

1. Introduzione

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 68 del 2021, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 30, comma quarto, della legge 11 marzo 1953, n. 87, se interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida disposta con sentenza irrevocabile ex art. 222, comma secondo, del d.lgs. n. 285 del 1992, c.d. Codice della Strada. L’annosa questione viene, peraltro, risolta in maniera differente rispetto alle coordinate ermeneutiche espresse dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 2017 secondo la quale la norma de qua non era da applicarsi alle sanzioni amministrative convenzionalmente penali sulla base di tre ordini di considerazioni. In primo luogo, sebbene la giurisprudenza costituzionale avesse ampliato il novero di garanzie attribuite alle sanzioni amministrative, il fenomeno era comunque circoscritto al nucleo essenziale del precetto costituzionale e a misure incidenti sulle libertà fondamentali. In secondo luogo, si riteneva che fosse assente una specifica garanzia convenzionale alla revoca del giudicato e della sanzione illegittimi, nonché la facoltà del legislatore nazionale di apprestare garanzie ulteriori, riservate alle sole sanzioni “formalmente penali” per l’ordinamento interno. In terzo luogo, la pronuncia argomentava sostenendo che la revoca del giudicato non fosse precipua delle sanzioni amministrative stante la circostanza che non vi è, nel processo amministrativo, una fase esecutiva che attribuisca al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della misura.

La più recente sentenza della Corte Costituzionale effettua un deciso revirement in materia, equiparando la sanzione amministrativa sostanzialmente penale (nel caso di specie, a venire in rilievo era la sanzione accessoria della revoca della patente ex art. 222 Cod. Strada) alla sanzione penale in senso stretto e ritenendo, quindi, cedevole il giudicato anche nell’ipotesi in cui la prima venga dichiarata costituzionalmente illegittima. Infatti, il principio della intangibilità del giudicato si ritiene operante in tutte le branche del diritto, si pensi al dibattito[1], peraltro recente, sull'eventuale cedevolezza del giudicato amministrativo in presenza di violazioni del diritto eurounitario per il tramite dell’articolo 111 Cost. e 110 Codice Processo Amministrativo: la questione è stata rigettata dalla Corte Costituzionale[2], ma comunque rimessa alla Corte di Giustizia da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[3].

Il quadro d’insieme nel solco del quale la pronuncia in commento si inserisce è costituito dalla tematica delle sanzioni amministrative c.d. sostanzialmente penali e dello statuto di garanzie che, in tali ipotesi, trova applicazione: in estrema sintesi, ci si chiede se esse siano da considerarsi alla stregua di sanzioni penali in senso stretto con riguardo ai principi e alle tutele costituzionali.

La giurisprudenza nazionale e sovranazionale, ispirata al fondamentale principio di eguaglianza ed effettività della tutela e orientata al sempre maggiore riconoscimento delle garanzie penalistiche anche alle sanzioni formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali da individuare secondo gli assiomi dettati dai c.d. criteri Engel[4], ha, con la sentenza in commento, negato l’operatività del principio della intangibilità del giudicato e affermato la cedevolezza dello stesso dinanzi a sanzioni amministrative sostanzialmente penali poi dichiarate costituzionalmente illegittime.

Ai fini della disamina dei principi di diritto enunciati dalla Corte Costituzionale, appare opportuno primariamente delineare i confini fra sanzione amministrativa e sanzione penale per, successivamente, individuare le garanzie costituzionali a ciascuna riservate e, dunque, efficacemente apprezzare il revirement della sentenza in commento. 

2. Le sanzioni amministrative di natura penale

Le sanzioni amministrative, nell’ordinamento italiano, sono quelle sanzioni previste dalla legge ed irrogate qualora il soggetto violi un divieto contenuto in una norma che disciplina un illecito amministrativo e la cui applicazione è regolamentata dal D.P.R n. 689/2001. In tal senso, dunque, la stessa è la «conseguenza dannosa che il legislatore collega al fatto di colui che viola la norma, come corrispettivo della sua azione e come mezzo di restaurazione dell’ordine giuridico da esso turbato»[5].

I principi costituzionali di cui gode tale tipologia di sanzione sono di inferiore garanzia rispetto a quelle proprie del diritto penale. Innanzitutto, la Corte Costituzionale, in una recente sentenza[6], ha rammentato che il potere sanzionatorio amministrativo è soggetto alla riserva di legge relativa di cui all’articolo 23 Cost. e non alla riserva di legge assoluta riservata alle sanzioni strictu sensu penali e al diritto penale in genere. 

Infatti, un’esigenza di predeterminazione legislativa dei presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio, con riferimento sia alla configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione, sia alla tipologia e al quantum della sanzione stessa, sia alla struttura di eventuali cause esimenti si pone anche rispetto al diritto sanzionatorio amministrativo, di fonte statale o regionale che sia. Ciò per ragioni analoghe a quelle sottese al principio di legalità che vige per il diritto penale in senso stretto, rinvenendo la ratio nella necessità di assicurare al consociato tutela contro possibili abusi da parte della pubblica autorità[7] . 

Circa la ricostruzione della natura delle sanzioni amministrative in senso lato, le quali vengono, in prima battuta, irrogate dalla Pubblica Amministrazione competente, ma successivamente possono essere impugnate dinanzi al giudice ordinario, si sta affermando[8] la c.d. teoria del prestito[9], secondo cui il potere sanzionatorio amministrativo, per le sue caratteristiche ed essendo volto alla tutela della legalità e non alla cura dell’interesse pubblico particolare, deve qualificarsi come un potere neutrale nel senso che non persegue alcun interesse (in ciò la differenza dalla nozione di imparzialità), sembrando quindi denotare una sostanza para giurisdizionale. In tal senso, infatti, sanzionare colui che ha trasgredito le regole è prerogativa della giurisdizione. Quindi si sostiene che le sanzioni amministrative avrebbero natura sostanzialmente giurisdizionale e il potere sanzionatorio sarebbe un potere “prestato” per ragioni di deflazione processuale alla Pubblica Amministrazione, ma che rimane del giudice ordinario che è il “giudice delle pene”. Da ciò consegue che il privato, qualora impugni il provvedimento di applicazione della sanzione, chiede, in buona sostanza, che il giudice ordinario si riappropri del potere che gli sarebbe attribuito in origine e eserciti la giurisdizione. 

In ragione di tali argomentazioni, sia a livello di principi generali sia a livello di natura del potere amministrativo sanzionatorio, è sempre stato ritenuto[10] che le due categorie (sanzioni penali e sanzioni amministrative) dovessero essere considerate reciprocamente autonome e costituenti il c.d. doppio binario sanzionatorio con ripercussioni, invero, sul divieto di bis in idem, come si vedrà oltre.

Ora, nell’alveo delle sanzioni amministrative alcune che vengono ritenute formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali in ragione della loro spiccata afflittività e, quindi, irragionevolmente sottratte alle garanzie riservate alle sanzioni penali strictu sensu.  Il problema di tale distinzione si pone principalmente per le c.d. sanzioni amministrative pure ovvero le sanzioni amministrative pecuniarie o comunque caratterizzate dall’essenza fortemente afflittiva propria dei provvedimenti espressione del potere sanzionatorio[11]. Il punctum pruriens risiede proprio nella frizione che si realizza fra afflittività e garanzia per tali tipologie di punizioni.

Fin dalla sentenza Engel del 1976[12], la Corte EDU ha affermato la prevalenza della sostanza delle sanzioni, intesa come natura e intensità del provvedimento sanzionatorio concreto, piuttosto che della loro forma, intesa nel senso di qualificazione giuridica della misura nell’ordinamento interno. Nello specifico, i giudici di Strasburgo hanno definito tre criteri guida per la qualificazione di una sanzione come penale, uno formale e due sostanziali, seguiti anche dalla giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di evitare la c.d. “truffa delle etichette”. La dottrina evidenzia in tal senso come la Corte EDU abbia effettuato tale distinzione elaborando una nozione autonoma di “materia penale” che dà rilievo preminente alla natura sostanziale dell’illecito e della relativa sanzione[13]. Il primo criterio elaborato fa perno sulla qualificazione giuridica della misura nell’ordinamento interno, il quale non è in alcun modo dirimente qualora venga affermata la corrispondenza ai due successivi criteri sostanziali. Il secondo criterio, sostanziale, richiede la verifica della natura dell’infrazione: in particolare, sarà da considerare penale la sanzione la cui norma giuridica di riferimento è indirizzata ad un gruppo indefinito di persone, oppure ha uno scopo punitivo o deterrente, o qualora l’imposizione della pena dipenda dalla colpevolezza. Il terzo criterio, sostanziale e alternativo al secondo, richiede di considerare la natura e il grado della sanzione applicabile al soggetto autore dell’infrazione: a tale stregua, va qualificata come penale una sanzione che ha uno scopo deterrente e punitivo, piuttosto che indennitario o risarcitorio; inoltre, la gravità della sanzione va valutata non solo con riferimento alla determinazione della sanzione effettivamente inflitta nel caso concreto ma anche a quella massima stabilita dalla norma[14]

Dall’analisi della giurisprudenza successiva alla sentenza Engel, è possibile svolgere alcune considerazioni: il primo criterio, quello formale, ha valore meramente indicativo e risulta scarsamente utilizzato, il secondo criterio, invece, viene dedotto quasi esclusivamente dalla generalità dei consociati cui si rivolge la norma[15], e, infine, il terzo è fortemente influenzato dalla pertinenzialità [16]della sanzione rispetto al fatto di reato dal momento che lo scopo della sanzione è utilizzato quale criterio utile a decidere sulla natura penale della sanzione[17]. In tale ultimo senso, comunque, non è necessario che la finalità punitiva sia l’unica presente nella sanzione de quo ai fini della qualificazione come sanzione penale, essendo possibile che siano coesistenti anche scopi preventivi o riparatori[18].

Alla qualificazione di una sanzione come sostanzialmente penale, ancorchè formalmente amministrativa, consegue l’applicazione dello statuto di garanzie proprio di quelle penali in senso stretto, fra cui anche quelle della CEDU (nello specifico, artt. 6 e 7 CEDU e art. 4 Prot. n. 7). 

Invero, l’adozione di tali criteri a livello interno non è stata uniforme, si pensi, ad esempio, alla natura delle sanzioni emanate dalle Autorità Amministrative Indipendenti di regolazione dei mercati, quali Consob, Antitrust, Banca d’Italia. La Corte di Cassazione[19], competente in materia di opposizione alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, ritiene che esse non abbiano natura sostanzialmente penale sulla base dei criteri Engel e parimenti non lo siano quelle della Consob, con l’eccezione delle sanzioni in materia di market abuse, oggetto di una specifica sentenza della Corte EDU[20]. Al contrario, il Consiglio di Stato, in riferimento a quelle proprie di Antitrsut e Ivass, afferma trattarsi di sanzioni sostanzialmente penali[21].  

Appare chiaro, quindi, come la Corte di Cassazione vorrebbe mantenere separate le due distinte categorie alla stregua del doppio binario sanzionatorio, così interpretando restrittivamente la giurisprudenza EDU e considerandola vincolante solo quando riguardi un caso già deciso in una identica fattispecie[22].

Tale approccio è rigettato anche dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 63 del 2019[23], ha affermato che «-come questa Corte ha avuto recentemente occasione di affermare infatti- è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo». 

Ciò, infatti, è coerente anche con i principi statuiti dalla Corte Costituzionale in materia di depenalizzazione che, come si avrà modo di vedere nel proseguio, ha affermato la necessità di un’analisi da parte del giudice a quo del regime sanzionatorio più favorevole al reo a prescindere dalla qualificazione concreta come amministrativa e penale, non potendo sussistere in relazione alla prima una presunzione di minore afflittività. 

3. Le conseguenze della qualificazione come penale della sanzione amministrativa

Lo statuto di garanzie riconosciute alle sanzioni qualificate come sostanzialmente penali, ancorchè formalmente amministrative, mutua le proprie radici dal diritto penale e dalle sanzioni che sono, anche formalmente, penali. 

In primo luogo, ad esse viene applicato l’articolo 6 CEDU sull’equo processo, nella sfaccettatura della c.d. full jurisdiction. Ciò significa che la norma si intende rispettata anche qualora sia stata irrogata tramite un procedimento amministrativo che non rispetta il principio dell’equo processo a condizione che a tale fase segua un giudizio di piena giurisdizione. In tal senso, il giudice chiamato a pronunciarsi in sede di opposizione deve poter valutare pienamente la questione sottoposta alla Pubblica Amministrazione, nonché modificare o riformare la statuizione di quest’ultima. Il concetto quindi di piena giurisdizione deve essere inteso in senso forte[24]

Nel solco di questa giurisprudenza, si inserisce anche una recente sentenza della Corte Costituzionale[25] in materia di diritto al silenzio nei procedimenti sanzionatori della Banca d’Italia e della CONSOB; la sentenza ha riconosciuto anche nelle ipotesi in cui si irroghi una sanzione solo formalmente amministrativa il principio del nemo tenetur se detegere. Infatti, ha affermato che è possibile per il soggetto incolpato non autoaccusarsi e rimanere in silenzio.

In secondo luogo, in tema di legalità sostanziale, devono essere riconosciuti i principi di cui all’articolo 7 della CEDU in materia di prevedibility foreseeability con conseguente divieto di interpretazione analogica o estensiva[26].

Nello stesso senso, si ritengono applicabili sia il principio di irretroattività della legge sfavorevole che quello di retroattività della lex mitior, sebbene quest’ultimo sia frutto di una più recente conquista.

In punto di irretroattività della legge sfavorevole, ciò è previsto dall’articolo 1 della l. 689 del 1981e il punctum pruriens si è posto con riguardo alla depenalizzazione in malam partem[27]L’ipotesi è quella in cui il reato viene poi tipizzato in illecito amministrativo, ma tale illecito, sebbene amministrativo, risulti più afflittivo di quello penale sia a livello di pena che a livello di istituti premiali di cui il reo può godere nel processo penale e non in quello amministrativo. Se il legislatore prevedesse l’incondizionata operatività retroattiva della sanzione amministrativa, violerebbe il principio di irretroattività sfavorevole. La giurisprudenza stabilisce che, in caso di depenalizzazione, dovrebbe essere applicato l’articolo 2 comma II c.p. e dunque si verificherebbe un fenomeno di abolitio criminis rispetto al passato. La legge 689 del 1981 fissa dei principi generali in materia di illecito amministrativo, ma non contempla i rapporti che intercorrono fra illecito amministrativo e illecito penale e non esiste, dunque, una norma che disciplini tale successione.

Alla luce di tale punto di frizione, per il quale l’illecito amministrativo successivo potrebbe nella realtà risultare più afflittivo della sanzione penale, la giurisprudenza costituzionale[28] si è pronunciata statuendo che il giudice a quo, nel decidere quale cornice sanzionatoria applicare, deve verificare quale risulti in concreto meno gravosa per il reo. In tal senso, la norma transitoria di depenalizzazione che imponga la sua applicazione anche retroattiva risulta incostituzionale per violazione dell’articolo 3 e 25 della Costituzione, dal momento che creerebbe, peraltro, un discrimine tra coloro che hanno definito la propria posizione in precedenza e chi, ancora, non ha concluso il processo.

In punto di principio di retroattività della lex mitior, la Corte EDU[29] è giunta alla conclusione della sua applicabilità anche alle sanzioni amministrative, ma sostanzialmente penali sulla base della considerazione che tale assunto appare ormai essere principio acquisito fra quelli garantiti dalle Carte internazionali e sovranazionali e dunque non può non ricevere applicazione nel sistema CEDU.

La Corte Costituzionale, invero, in origine[30] aveva escluso tale estensione di applicabilità ritenendo che l’equiparazione della sanzione amministrativa sostanzialmente penale alla pena in senso stretto fosse limitata al nucleo essenziale, non ampliandosi all’insieme delle garanzie costituzionali e che, pertanto, era competenza e discrezionalità del legislatore decidere di differenziare quelle riservate alle pene in senso formale e quelle in senso sostanziale, riservando alle prime garanzie non previste per quelle in senso solo sostanziale. Allo stesso tempo, però, non erano isolate le pronunce della giurisprudenza costituzionale in cui era stato ritenuta applicabile tale garanzia per il tramite dell’art. 3 della Costituzione ovvero tramite il vincolo di uguaglianza e ragionevolezza che deve permeare l’intera materia penale[31] sino alla sentenza del 2019[32] in cui viene affermata l’applicabilità della retroattività della lex mitior ove si legge che la ratio è da rinvenire «nel diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della sua commissione». In tal senso, però, questo diritto non è assoluto, ma aperto a possibili deroghe purchè giustificabili al metro del vaglio di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare gli interessi di rango costituzionale prevalente rispetto all’interesse individuale in gioco.

Infine, in estrema sintesi, le sanzioni sostanzialmente penali, ancorchè formalmente amministrative, pongono questioni in punto di divieto di bis in idem[33]ovvero il divieto di essere perseguiti due volte per il medesimo fatto storico, alla luce della sentenza della Corte EDU Grande Stevens c. Italia.

Il ne bis in idem nasce come garanzia processuale e non come divieto di una doppia sanzione, ma come estrinsecazione dei principi di offensività e di proporzionalità. L’articolo 9 comma I della l. 689/1981 disciplina il concorso tra sanzioni amministrative e sanzioni penali, risolvendolo mediante l’applicazione del criterio di specialità. Il problema, ad onor del vero, si pone qualora le due sanzioni, entrambi quantomeno sostanzialmente penali, non siano alternative, bensì cumulative, determinando ciò l’applicazione di due sanzioni per il medesimo fatto, da intendersi quale idem fattuale-naturale e non quale idem legale,[34] nei confronti del medesimo soggetto[35]

In ambito CEDU, il divieto di bis in idem è espresso dall’articolo 4 del Protocollo n. 7 CEDU a livello processuale e, nell'ambito dell’ordinamento italiano, è sancito dall’articolo 649 c.p.p.

Successivamente, la giurisprudenza sovranazionale ha stabilito che il doppio processo non viola il ne bis in idem qualora tra i due procedimenti vi sia una connessione temporale e sostanziale particolarmente stretta, la c.d. close connection, da intendersi tale quando i due procedimenti sono temporalmente vicini, prevedibili e funzionalmente complementari, ovvero tutelano interessi anche parzialmente differenti[36].

4. La sentenza della Corte Costituzionale 68 del 2021

È proprio nel solco delle garanzie riconosciute alle sanzioni sostanzialmente penali che si inserisce la sentenza in commento, la quale si pronuncia in materia di cedevolezza del giudicato in ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una sanzione amministrativa e, quindi, possibile applicazione dell’articolo 30 comma IV della l. n. 87 del 1953. 

4.1. Il casus decisis

La questione di legittimità costituzionale dell’articolo citato sorge nell’ambito della fase esecutiva di un processo penale conclusosi con sentenza di condanna, divenuta medio tempore irrevocabile, per il reato di cui all’articolo 589 bis c.p., al cui accertamento di responsabilità consegue, oltre alla pena in senso stretto, anche l’applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente di guida ex art. 222, comma secondo, d.lgs. n. 285/1992. Ora, tale sanzione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 88/2019 per la parte in cui non prevede l’alternatività a discrezione del giudice fra la revoca della patente e la mera sospensione della stessa quando non ricorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dai commi secondo e terzo degli articolo 589 bis e 590 bis c.p.[37]. Dunque, individuato il giudice dell’esecuzione nel giudice penale stante la circostanza che, anche se la sanzione amministrativa è irrogata in senso materiale dal Prefetto, il nesso di interdipendenza tra il procedimento penale e quello amministrativo imponga che il compito di vigilare sulla corretta applicazione della stessa spetti al giudice penale, il ricorrente condannato chiedeva la rideterminazione della sanzione amministrativa accessoria. 

Il giudice adito, nella specie il GIP del Tribunale di Milano, non rinvenendo un fondamento normativo alla pretesa del soggetto ricorrente, avrebbe individuato quale possibile base ermeneutica l’articolo 30, comma quarto, della l. 87 del 1953. In tal senso le questioni problematiche che si ponevano sono di due ordini: in primis, chiarire se la revoca della patente possa essere considerata un effetto penale della condanna, in secundis, anche qualora la stessa non costituisca un effetto penale della condanna, valutare la legittimità costituzionale di tale norma quando non impone la cedevolezza del giudicato per quelle sanzioni amministrative che comunque comportino una limitazione delle libertà e dei diritti del soggetto nell’ipotesi in cui le stesse siano dichiarate non costituzionalmente conformi, altrimenti venendosi a configurare una violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.[38]. Inoltre, il giudice a quo rileva come, anche se mai esplicitamente affermato dalla Corte di Strasburgo, l’applicazione di una sanzione poi dichiarata costituzionalmente illegittima costituisca un vulnus al principio di legalità, dal momento che quest’ultima deve trovare il proprio fondamento normativo e legittimante proprio nella legge, ex art. 7 CEDU, nonché art. 25 Cost.

In tal senso, lo stesso si dichiara consapevole degli assunti ermeneutici contrari all’estensione della cedevolezza del giudicato anche alle sanzioni amministrative come statuito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 2017, ma evidenzia come il diritto vivente abbia in realtà mutato le proprie prospettive in specie con la pronuncia n. 63 del 2019 della corte Costituzionale che ha equiparato le sanzioni amministrative di tipo afflittivo a quelle formalmente penali ai fini dell’applicazione del principio di retroattività della lex mitior, addirittura principio di minor forza rispetto a quello di legalità. Si legge, precisamente, nell’ordinanza di rimessione: «Ma, se non vi è ragione per continuare ad applicare ad un soggetto una sanzione amministrativa che il legislatore considera ormai recessiva, non si comprenderebbe come possa continuare ad applicarsi una sanzione amministrativa travolta in radice da una pronuncia di legittimità costituzionale»

4.2. I principi di diritto enunciati

La sentenza della Corte Costituzionale si qualifica come interpretativa di accoglimento nel senso che i giudici della Carta Fondamentale accolgono le censure del rimettente peraltro evidenziando come la revoca della patente possa essere considerata una sanzione sostanzialmente penale, ancorchè formalmente amministrativa. 

Effettuando una ricognizione del panorama normativo, la Corte evidenzia come l’articolo 30 cit. enunci due regole di diritto intertemporale delle sentenze di accoglimento: in primo luogo, le norme dichiarate incostituzionali non hanno effetto dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, in secondo luogo, l’eventuale pronuncia di condanna cessa di avere efficacia e dunque ne cessano sia l’esecuzione che tutti gli effetti penali. 

In tal senso, per effetto di pronunce della Corte nomofilattica[39], la norma in questione è stata oggetto di un’interpretazione estensiva secondo la quale l’attitudine ad infrangere il giudicato viene riconosciuta non solo alla pronuncia che rimuova in tutto o in parte la norma incriminatrice, producendo un’abolitio criminis, ma anche a quella che si limiti ad incidere sul trattamento sanzionatorio in senso più mite. 

Ora, si legge «viene però in rilievo un ulteriore e distinto problema: l’estensione, cioè, del campo applicativo della norma censurata – in nome dello stesso principio – con riguardo al tipo di sanzione attinta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale (non solo la sanzione penale, ma anche la sanzione amministrativa qualificabile come penale dalla CEDU)»[40].

La Corte dà conto nella pronuncia del suo precedente arresto con la sentenza n. 43 del 2017[41] per poi affermare che «la situazione appare, però, mutata, per effetti della giurisprudenza formatasi proprio sullo specifico problema oggetto del giudizio a quo: quello, cioè della legittimazione del giudice dell’esecuzione a modificare la statuizione della sentenza irrevocabile di condanna relativa alla revoca della patente, per adeguarla alla sentenza n. 88 del 2019». 

Ora, in tal senso e primariamente, circa la natura della sanzione, occorre rilevare che la Corte di Cassazione[42] ha costantemente ritenuto che la revoca della patente non potesse essere annoverata fra le sanzioni amministrative sostanzialmente penali stante la ratio preventiva e non repressiva. Contrariamente, però, la Corte di Strasburgo[43] ha ripetutamente qualificato come avente natura penale non solo la mera sospensione della patente, ma anche la misura della decurtazione dei punti della patente, in quanto idonea a determinare, alla fine, la perdita del titolo abilitativo alla guida, da ciò potendosi dedurre che, ove chiamata a pronunciarsi sulla revoca della patente, riterrebbe tale anche questa sanzione.

In ottica di risoluzione del conflitto, la Corte Costituzionale afferma che il fenomeno ha nella prospettiva interna una carica afflittiva particolarmente elevata e dalla spiccata capacità dissuasiva dal momento che trattasi di un mezzo di prevenzione speciale idoneo ed efficace, più della stessa pena principale, cui aggiunge forza intimidatrice. Da ciò deriva la qualifica della sanzione della revoca della patente come sostanzialmente penale, ancorchè formalmente amministrativa. 

Circa l’applicabilità dell’articolo 30, comma quarto, oggetto di censura di legittimità, la Corte ritiene che il diritto vivente sia ormai tale da non poterne negare l’applicabilità anche alle sanzioni solo in sostanza penali «Alla luce del diritto vivente formatosi in sede di interpretazione dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 tale limite non opera invece nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale che rimoduli il trattamento sanzionatorio della fattispecie: l’esigenza che la pena risulti conforme a Costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio è posto l’istituto del giudicato. L’esito del bilanciamento tra i contrapposti valori non può, peraltro, ribaltarsi per le sanzioni amministrative a connotazione punitiva, particolarmente quando si tratti di sanzione quale la revoca della patente di guida»[44].

Svolte queste premesse, quindi, i giudici della Costituzione hanno expressis verbis ritenuto che non appare costituzionalmente legittima la circostanza che un soggetto sia sottoposto ad una sanzione sulla base di una norma non più legittima, a prescindere dall’eventuale passaggio in giudicato della pronuncia che la applica. 

5. Conclusioni

Con questa pronuncia, può ben dirsi che lo statuto di garanzie assicurato alle sanzioni penali in senso lato è di forza pari a quello previsto per quelle penali in senso stretto così armonizzandosi anche a quanto richiesto e previsto dalla CEDU e dalla Corte di Strasburgo[45]

La cautela adottata comunque dalla Corte Costituzionale si coglie nel non voler estendere indiscriminatamente a tutte le sanzioni di carattere punitivo le garanzie di cui all’articolo 30, comma IV, ma solamente a quelle caratterizzate da un grado di severità particolarmente elevato e rispetto alle quali decide di riservarsi un vaglio preventivo. Una parte della dottrina[46]ritiene che questo obiettivo non sia stato in realtà raggiunto dal momento che la Corte Costituzionale muove le proprie considerazioni dalla circostanza che il diritto vivente già consente l’utilizzo della norma rispetto ad un sanzione di carattere punitivo qualsiasi, la cui qualificazione come tale, però, è riservata al giudice ordinario. 

Orbene, la problematica che rimane aperta riguarda quelle sanzioni amministrative che siano oggetto di un giudicato amministrativo irrogate sulla base di una sanzione poi dichiarata incostituzionale. V’è da dire che, stanti le censure ex art. 3 Cost. avallate dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza in commento, non si vedrebbero ostacoli al riconoscimento della cedevolezza del giudicato anche in tali ipotesi venendosi ad applicare comunque una sanzione illegittima. Ciò che occorre capire è se i principi rinvenuti e derivanti dalla Costituzione si rivolgano solamente alla c.d. pena illegale o anche alla c.d. sanzione illegale, che, ad onor del vero, non parrebbe ugualmente dover trovare cittadinanza all’interno dell’ordinamento italiano. 

In conclusione, l’unica certezza che pare potersi rinvenire in materia è quella dei rapporti giuridici esauriti i quali non possono essere travolti, benchè socialmente percepiti come fonte di ingiustizia. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per la ricostruzione del dibattito si v. G. COSTANTINO, A. CARRATTA, G. RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/limiti-esterni-e-giurisdizione-il-contrasto-fra-sezioni-unite-e-corte-costituzionale-arriva-alla-corte-ue-note-a-prima-lettura-di-cass-ss-uu-18-settembre-2020-n-19598, oppure V.VISONE, La violazione del diritto europeo come ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale  in Riv. Cammino Diritto, Fasc. 03/2021, https://rivista.camminodiritto.it/articolo.asp?id=6624.

[2] Corte Cost., sent. n. 6 del 2018.

[3] Cass. SS. UU., sent. n. 19598 del 2020. 

[4] Corte EDU, sent. 8 giugno 1976, Engel e al. v. Paesi Bassi.

[5] G. ZANOBINI, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, p. 1; in tal senso a p. 7 si legge che non rientra nella nozione di sanzione la reintegrazione della situazione di fatto precedente alla commissione della violazione, in quanto tale “misura” non è dotata di carattere afflittivo, bensì riparatorio – risarcitorio.

[6] Corte Cost., sent. n. 5 del 2021.

[7] Corte Cost., sent. n. 32 del 2020 e Corte Cost., sent. n. 5 del 2021 ove si legge: «Questa esigenza è stata, del resto, già posta in evidenza da una risalente pronuncia di questa Corte, che ha altresì ricollegato espressamente la ratio della necessaria «prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione)» delle sanzioni amministrative al principio di imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., oltre che alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. (sentenza n. 447 del 1988).Tutto ciò impone che a predeterminare i presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio sia l’organo legislativo (statale o regionale), il quale rappresenta l’intero corpo sociale, consentendo anche alle minoranze, nell’ambito di un procedimento pubblico e trasparente, la più ampia partecipazione al processo di formazione della legge (sentenza n. 230 del 2012); mentre tale esigenza non può ritenersi soddisfatta laddove questi presupposti siano nella loro sostanza fissati da un atto amministrativo, sia pure ancora di carattere generale. È bensì vero che la riserva di legge espressa dall’art. 23 Cost. è intesa quale riserva relativa, che tollera come tale maggiori margini di integrazione da parte di fonti secondarie (così anche la già citata sentenza n. 134 del 2019); ma questa Corte ha già avuto modo di precisare che tale carattere della riserva in questione «non relega […] la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad una prescrizione normativa “in bianco” […], senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini»; dovendosi anzi riconoscere rango di «principio supremo dello Stato di diritto» all’idea secondo cui i consociati sono tenuti «a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge» (sentenza n. 115 del 2011, e numerosi precedenti ivi richiamati). Tale principio implica dunque che – laddove la legge rinvii a un successivo provvedimento amministrativo generale o ad un regolamento – sia comunque la legge stessa a definire i criteri direttivi destinati a orientare la discrezionalità dell’amministrazione (sentenza n. 174 del 2017; in senso analogo, sentenze n. 83 del 2015 e n. 435 del 2001). Ciò che non può non valere anche quando la prestazione imposta abbia natura sanzionatoria di una condotta illecita».

[8] Si v. ex multis M. SCOLETTA, Materia penale e retroattività favorevole: il ‘caso’ delle sanzioni amministrative, in Giur. Cost. fasc. 4/2016, pp. 1401 ss.

[9] In tal senso, è opportuno volgere lo sguardo anche ai modelli sanzionatori adottati negli altri Paesi Europei e ai quali l’ordinamento italiano si è ispirato per l’esigenza di deflazione del carico pendente presso gli uffici giudiziari, si veda ad esempio l’ Ordnungswidrifkeit.

[10] Per un excursus storico si v. R. PEPE, Il potere di ripristino tra provvedimento e sanzione amministrativa, Torino, 2020, pp. 12 ss.

[11] M.A. SANDULLI, Le sanzioni amministrative pecuniarie, Napoli, 1983, pp. 11.

[12] Il riferimento è alla sentenza in nota 4.

[13] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L GATTA., Manuale di diritto penale, Milano, 2019, p. 200, in tal senso anche Corte EDU, sent. 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia.

[14] Si v. S. CIMINI, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 2017.

[15] Corte EDU, sent. 4 ottobre 2007, Anghel c. Romania.

[16] Corte EDU, sent. 23 settembre 1998, Malie c. Francia.

[17] Corte EDU, sent. 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito.

[18] Corte EDU, sent. 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics c. Italia, in cui si faceva questione di una sanzione pecuniaria irrogata dall’AGCM.

[19] Fra le ultime, Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 11481/2020, con nota di L. BALDACCI, Sanzioni Banca d’Italia: tra natura sostanzialmente penale, garanzie procedimentali e valore probatorio del verbale di ispezione, in Dir. Banc., 07.09.2020.

[20] Il riferimento è a Corte EDU, sent. 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia.

[21] Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 2042/2019, Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 2043/2019, Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 1956/2015.

[22] In tal senso, Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 3652/2016 secondo cui «le enunciazioni della Corte EDU attengono sempre a casi e problemi specifici con un approccio pragmatico che non si presta a generalizzazioni concettuali oltre i limiti dell’oggetto del singolo giudizio». Ugualmente circa gli effetti delle sentenze EDU, ma con le dovute contestualizzazioni, Cass. Pen., SS. UU., sent. n. 8544/2019.

[23] La sentenza, peraltro, ripercorre le medesime argomentazioni di Corte Cost., sent. n. 68/2017.

[24] Corte Edu, sent. 17 aprile 2012, Steininger c. Austria, Corte EDU, sent. 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics c. Italia.

[25] Corte Cost., sent. n. 84/2021 a seguito della pronuncia della CGUE, Granze Sezione, sent. n. 2 febbraio 2021, Causa C-481/19.

[26] Corte EDU, sent. 26 aprile 1979, Sunday times c. Regno Unito, da ultimo anche Corte EDU, sent. 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia.

[27] R. GIOVAGNOLI, Manuale di penale – parte generale, Torino, 2020, pp. 1223 ss.

[28] Corte Cost., sent. n. 96/2020; Corte Cost., sent. n. 223/2018 con commento di G.L. GATTA, Non sempre “depenalizzazione” equivale a “mitigazione”. La Corte Costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative “punitive” più sfavorevoli di quelle penali (a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario), in Dir. Pen. Cont., 13 dicembre 2018.

[29] Corte EDU, sentenza 5 dicembre 2000, Le Petit c. Regno Unito; Corte EDU, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, sentenza 24 aprile 2012, Mihai Toma c. Romania. 

[30] Corte Cost., sent. n. 193/2016.

[31] Corte Cost., sent. n. 393/2006, 394/2006, 236/2011.

[32] Il riferimento è a Corte Cost., sent. n. 63/2019, con commento di M. SCOLETTA, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2 aprile 2019.

[33] Sia consentito per una trattazione più approfondita, rimandare a contributi specifici: M. T. STURLA, Il ne bis in idem tra Corte EDU e Corte Costituzionale, in Giur. It., 2015, fasc. 8-9, pp. 2006 ss.; F. POLEGRI, Il principio del ne bis in idem tra sanzioni amministrative e sanzioni penali - Il principio del ne bis in idem al vaglio della Corte Costituzionale: un’occasione persa, in Giur. It., 2016, fasc. 7, pp. 1711 ss; P.P. PAULESU, Riflessioni in tema di ne bis in idem europeo, in Riv. Dir. proc., 2016, fasc. 3, pp. 637 ss; L. TYSSERAND, Doppio binario sanzionatorio e principio del ne bis in idem sostanziale: una soluzione in cerca di autore, in Dir. e Prat. Trib., 2017, fasc. 3, pp. 1296 ss;  N. CIANFEROTTI, Il principio del ne bis in idem tra giurisprudenza nazionale ed europea e il «doppio binario» tributario italiano, in Dir. e Prat. Trib., 2019, fasc. 1, pp. 92 e ss; A. PROCACCINO, Ne bis in idem: un principio in evoluzione – assestamenti e osmosi nazionali sul bis in idem, in Giur. It., 2019, fasc. 6, pp. 1457 ss; B. PIATTOLI GIRARD, Ne bis in idem: un principio in evoluzione – livelli di tutela europei per la garanzia del ne bis in idem, in Giur. It., 2019, fasc. 6, pp. 1457 ss. 

[34] In primis, Corte EDU, sentenza 23 ottobre 1995, Grandiger c. Austria; Corte EDU, sentenza 30 luglio 1998, Oliveira c. Svizzera; Corte EDU, sentenza 29 maggio 2001, Franz Fischer c. Austria; Corte EDU, Grande Stevens, cit.; Corte EDU, sentenza 14 gennaio 2014, Muslija c. Bosnia Erzegovina; Corte EDU, sentenza 18 ottobre 2011, Tomasovic c. Croazia.

[35] V. NAPOLITANO, Illecito penale e illecito amministrativo: c’è ancora spazio per il doppio binario sanzionatorio?, in Cass. Pen., 2015, pp. 280 ss.

[36] L. BIN, Anatomia del ne bis in idem: da principio unitario a trasformatore neutro di principi in regole, in Dir. Pen. Cont. Fasc. 3/2020, pp. 98 ss; Corte EDU, sentenza 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia; nonché CGUE, 20 marzo 2018, C- 524/15, Menci con commento di A. GALLUCCIO, La grande sezione della Corte di Giustizia si pronuncia sulle attese questioni pregiudiziali in materia di bis in idem, in Dir. Pen. Cont., 21 marzo 2018.

[37] La sentenza così recita: «nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna, ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 c.p.p., per i reati di cui agli artt. 589bis e 590bis c.p., il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’articolo 222 cod. strada allorchè non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589 bis e 590 bis c.p.».

[38] In tal senso, al par. 1.7-1.8 «Né, per altro verso, sarebbe ragionevole distinguere, ai fini considerati, tra sanzioni penali e sanzioni amministrative. Se è vero, infatti, che la sanzione penale può incidere su diritti fondamentali, quale, in primis, la libertà personale, anche sanzioni formalmente qualificate come amministrative possono, però, comprimere diritti di rango costituzionale, quali la libertà d’impresa (art. 41 Cost.) o il diritto al lavoro (art. 35 Cost.). Le sanzioni penali, d’altra parte, possono incidere sulla libertà personale «solo virtualmente» (perché, di fatto, eseguite in forma alternativa alla detenzione), ovvero coinvolgere interessi di rango inferiore (quale, ad esempio, il patrimonio) rispetto a quelli colpiti da talune delle sanzioni amministrative. Di qui, dunque, anche la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), giacché, mentre per la sanzione penale l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 consente di rimuovere, per quanto possibile, qualsiasi discriminazione tra i soggetti condannati prima della sentenza della Corte costituzionale e quelli «il cui comportamento sia ancora sub judice», altrettanto non avviene per la sanzione amministrativa: con la conseguenza che il soggetto condannato in via definitiva a quest’ultima dovrà sottostare – eventualmente, anche in modo permanente, ove si tratti di una sanzione sine die – alla restrizione della propria libertà, benché fondata su una legge dichiarata incostituzionale, diversamente dal soggetto non ancora condannato in via definitiva, per il quale il giudice della cognizione sarà chiamato a rimodulare la sanzione alla luce della decisione della Corte. Né, d’altra parte, il passaggio in giudicato della condanna potrebbe rappresentare «un discrimen accettabile sul piano costituzionale». La progressiva erosione dell’intangibilità del giudicato in ambito penale è stata, infatti, determinata proprio dalla rilevazione che l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici – cui tale principio è servente – non può prevalere sui diritti costituzionali della persona, imponendo il loro sacrificio anche dopo l’accertamento dell’illegittimità costituzionale della loro compressione.

1.8.– L’impossibilità di rimuovere la sanzione amministrativa – pur costituzionalmente illegittima – implicherebbe, altresì, un’indebita limitazione dei diritti costituzionali del ricorrente − impedendogli, in particolare, di svolgere la professione di autista di autocarri, che esercitava all’epoca del fatto e che nel ricorso ha dichiarato di voler riprendere − e, dunque, una violazione della sua libertà di iniziativa economica e del suo diritto al lavoro (artt. 35 e 41 Cost.).»

[39] Cass., SS. UU, sent. 18821/2014; Cass., SS. UU., sent. n. 42858/2014; Cass., SS. UU., sent. n. 37107/2015.

[40] Par. 2.3.

[41] Secondo la lettera della quale la norma de qua non era da applicarsi alle sanzioni amministrative convenzionalmente penali per tre motivi. In primo luogo, sebbene la giurisprudenza costituzionale avesse ampliato il novero di garanzie attribuite alle sanzioni amministrative, il fenomeno era comunque circoscritto al nucleo essenziale del precetto costituzionale e a misure incidenti sulle libertà fondamentali. In secondo luogo, si evidenziava come fosse assente la necessità di una specifica garanzia convenzionale alla revoca del giudicato e della sanzione illegittimi, ma presente la facoltà del legislatore nazionale di apprestare garanzie ulteriori, riservate alle sole sanzioni “formalmente penali” per l’ordinamento interno. In terzo luogo, argomentava sostenendo che la revoca del giudicato non era precipua delle sanzioni amministrative stante la circostanza che non vi è, nel processo amministrativo, una fase esecutiva che attribuisca al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della misura. 

[42] Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 1804/2020 fra le ultime.

[43] Corte EDU, sent. 5 ottobre 2017, Varadinov c. Bulgaria, Corte EDU, sent. n. 23 settembre 1998, Malige c. Francia.

[44] Par. 7.

[45] A. PISANESCHI, La sentenza 68 del 2021. Le sanzioni amministrative sostanzialmente penali e il giudicato, in Oss. Cost., fasc. 4/2021, pp. 1 e ss.

[46] M. SCOLETTA, La revocabilità della sanzione amministrativa illegittima e il principio di legalità costituzionale della pena, in Sistema Penale, 20 aprile 2021.