• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Lun, 5 Lug 2021

La responsabilità civile dello Stato nella violazione dei diritti fondamentali

Modifica pagina

Antonio Franchina



Il presente contributo si sofferma sulla natura giuridica della responsabilità civile dello Stato, analizzandone le ipotesi più rilevanti, tra cui spicca quella i cui poteri sovrani impattano sui diritti fondamentali della persona, costituzionalmente e convenzionalmente tutelati.


ENG This contribution focuses on the legal nature of the civil liability of the State, analyzing the most relevant hypotheses, among wich the one in wiche sovereign powers impatc on the fundamental rights of the person, costitutionally and conventionally protected.

Sommario: 1. Premessa; 2. Funzione sovrana e potere sovrano: uno sguardo di insieme; 3. Applicabilità dell’art. 2043 c.c. all’esercizio di funzioni sovrane; 4. La sindacabilità delle funzioni sovrane; 5. La responsabilità dello Stato per violazione del diritto nazionale e, in particolare, sovranazionale. Il caso della responsabilità dei magistrati; 6. La violazione dei diritti fondamentali della persona: premesse gnoseologiche; 7. Ipotesi concrete; 8. Un caso emblematico: la responsabilità dello Stato nei confronti degli stranieri.

1. Premessa

La trama giuridica che avvince l’esercizio delle funzioni sovrane e la responsabilità civile si presenta di estremo interesse nel moderno ordinamento giuridico, anche alla luce dell’intersezione tra profili civilistici ed amministrativistici, nonché della rilevanza in subiecta materia del diritto sovranazionale lato sensu inteso.

In particolare, ci si domanda, più in generale, se le funzioni sovrane siano sindacabili e, più nello specifico, se possa farsi applicazione dello schema di cui all’art. 2043 c.c, con conseguente affermazione della responsabilità dello Stato ove nell’esercizio di tali funzioni esso abbia cagionato danni ingiusti.

In secondo luogo, occorre domandarsi se una responsabilità tal fatta, possa sorgere anche nel caso in cui venga in rilievo una violazione dei diritti fondamentali della persona, i quali hanno acquisito una notevole centralità nel dibattito giuridico contemporaneo, oltre che in virtù dell’allargamento delle maglie della tutela risarcitoria in senso ampio, intesa anche alla luce della notevole influenza che su di essi esercitano le Carte Sovranazionali.

In via preliminare, al fine di meglio organizzare le seguenti riflessioni, occorre prendere le mosse dal concetto di funzioni sovrane, così come collocate nell’ordinamento costituzionale.

2. Funzione sovrana e potere sovrano: uno sguardo di insieme

Segnatamente, l’aggettivo “sovrane”, che qualifica il sostantivo “funzioni”, permette di operare una prima distinzione dalla funzione amministrativa, tradizionalmente intesa come potere nel suo farsi atto[1], non venendo in tal caso in rilievo l’esercizio di un potere amministrativo in senso tecnico, orientato al perseguimento dell’interesse pubblico, a fronte del quale la posizione giuridica del cittadino può configurarsi come diritto soggettivo o interesse legittimo.

Ciò in ragione del fatto che la sovranità della funzione, che trova un primo diretto referente nell’art. 1 comma 2 Cost., ne illumina l’irrinunciabilità ai fini della esistenza stessa dello Stato, talchè, qualora tali funzioni non esistessero, questo verrebbe privato della sua ratio essendi.

Da qui, in via di prima approssimazione, la definizione di funzioni sovrane come tecnica di assegnazione di compiti essenziali per lo Stato, il cui esercizio è assoggettato ai vincoli costituzionali, come è possibile arguire in maniera piuttosto nitida dall’utilizzo legislativo del termine “funzione” in svariate disposizioni costituzionali, come gli artt. 70, 76, 86 e 102 Cost.

Ciò posto, non pare potersi disgiungere, anche alla luce di basilari concetti di teoria generale del diritto, il concetto di funzioni sovrane da quello di potere sovrano - in cui l’esercizio di tali funzioni si traduce - la cui esistenza è ritenuta essenziale in uno Stato democratico[2] e la cui necessità è illuminata anche da ragioni di carattere scientifico.

In un mondo perfetto, invero, non sarebbe necessario demandare i poteri sovrani ad un soggetto in posizione di supremazia, poiché i privati sarebbero in grado di pervenire al perseguimento dell’interesse pubblico e, segnatamente di quello della comunità statale, per effetto della sola cooperazione[3].

Dalla necessità di evitare il protrarsi di quella condizione descritta brillantemente dalla dottrina nell’espressione “bellum omnium contra omnes[4]discende l’attribuzione di tale potere, mediante il contratto sociale, ad un soggetto che si pone in una posizione di supremazia rispetto agli altri, così realizzandosi una sorta di anomalia rispetto al modello cooperativo.

Tale ordine di considerazioni sembrerebbe trovare conferma nell’analisi del secondo comma dell’art. 1 della Costituzione, a mente del quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, che rappresenta un principio generale del nostro ordinamento giuridico, scolpito a livello forte.

Un’affermazione legislativa di tal fatta, oltre ad escludere che possano esservi luoghi dell’organizzazione costituzionale nei quali essa possa insediarsi esaurendosi e a distinguere il concetto di sovranità da quello di assolutezza, sembrerebbe dimostrare l’esistenza di un inscindibile legame tra il potere sovrano ed i singoli, come emerge con nitore dall’utilizzo del verbo “appartiene”.

L’esercizio di un potere siffatto, inoltre, deve avvenire nelle forme e nei limiti della Costituzione, da ciò discendendo che non possa darsene un legittimo esercizio se non nelle forme da essa previste e che con essa si ponga in contrasto, assurgendo i limiti costituzionali a veri e propri vincoli posti a garanzia della corretta esplicazione dei poteri sovrani.

Tale ordine di considerazioni trova conferma nell’architettura del testo Costituzionale, che individua nella funzione legislativa (artt. 70 e ss.), in quella esecutiva (artt. 92 ss.) ed in quella giudiziaria (art. 102 ss.) le forme di manifestazione del potere sovrano.

Inoltre, è possibile operare una prima distinzione tra il potere in commento e il potere amministrativo, governato dal principio di legalità ex art. 1 comma 1 legge 241/1990, poiché in tal caso a venire in rilievo è sì la legge, ma quella costituzionale, la quale si pone ad un livello gerarchicamente superiore a quella ordinaria.

3. Applicabilità dell’art. 2043 c.c. all’esercizio di funzioni sovrane

Fatte queste premesse di carattere generale, occorre domandarsi se l’esercizio delle funzioni in discorso e, più in generale, del potere sovrano possa essere suscettibile di cagionare un danno ingiusto, ciò postulando l’applicabilità dello schema di cui all’art. 2043 c.c., come emerge con nitore dal riferimento all’ingiustizia del danno.

Tale problematica investe molto da vicino la più generale questione della sindacabilità delle funzioni sovrane, tradizionalmente ritenute immuni dal sindacato giurisdizionale[5].

Originariamente, invero, si riteneva che il potere sovrano, inteso come superiorem non recognoscens, fosse assistito da una presunzione di legittimità, talché l’esercizio della funzione non poteva tradursi in un atto colorato da illiceità.

Tale opinione, oltre che nella previsione costituzionale di spazi di irresponsabilità nell’esercizio delle funzioni loro spettanti per alcuni organi di particolare rilievo, come il Presidente della Repubblica (art. 90 Cost ), trovava conforto nella teoria dell’atto politico[6], assai nota nel diritto internazionale, che predica l’insindacabilità di atti che siano espressione di un potere politico, in quanto liberi nel fine e nella causa e che ha peraltro trovato attuazione altresì nell’art. 7 c.p.a., norma fondamentale in tema di riparto di giurisdizione, nella parte in cui stabilisce che non sono impugnabili gli atti o i provvedimenti del Governo che costituiscano espressione del potere politico.

A tali ostacoli se ne contrapponevano altri di carattere squisitamente tecnico, come l’impossibilità che il potere potesse integrare un fatto illecito e la difficoltà di ravvisare un contatto tra il potere sovrano ed i singoli, da considerarsi requisito imprescindibile ai fini di un eventuale risarcimento del danno derivante da lesione di una posizione giuridica loro spettante e causata da un atto che di tale potere sia espressione.

Tale ordine di obiezioni appare agevolmente superabile, specie ove si consideri che, da un lato, ove il potere si presenti difforme dalla norma che lo attribuisce, esso si riqualifica in fatto, dall’altro che il contatto con i singoli è coessenziale al concetto stesso di sovranità, come è dimostrato dall’esegesi letterale del già menzionato art. 1 comma 2 Cost.

Che il potere sovrano non possa essere immune da responsabilità ove venga esercitato in maniera difforme dai parametri di liceità (rectius: in maniera arbitraria) appare essere una necessità di carattere logico, discendente dalla stessa imperfezione del mondo, poichè solo in un mondo perfetto potrebbe ipotizzarsi un soggetto in posizione di supremazia che eserciti in maniera neutrale il potere ad esso spettante, senza commettere errore alcuno.

Alla luce di ciò, la previsione di un sindacato sulle funzioni sovrane appare essere razionale, discendendo a fortiori dall’importanza ad esse attribuita ed implicando che esso si manifesti nella forma più intensa, ossia quella risarcitoria.

In una prospettiva siffatta, un risarcimento del danno per un fatto illecito derivante da un distorto esercizio delle funzioni sovrane dovrebbe ritenersi astrattamente ammissibile, anche alla luce della trama costituzionale, che accorda generalmente una tutela rafforzata in favore di alcune peculiari posizioni giuridiche e, in particolare, alla luce dell’art. 3 Cost., che impone, tra l’altro, un trattamento non dissimile di situazioni tra loro simili.

Le prefate considerazioni sembrano oltrepassare anche l’ostacolo più impervio alla configurabilità della responsabilità dello Stato, ossia l’idoneità degli atti posti in essere come esercizio di un potere sovrano a ledere le posizioni giuridiche del singolo.

Ciò in ragione del fatto che una tale idoneità sembra risiedere proprio nella stessa essenza di tale potere, qualora venga esercitato in spregio alle norme che lo attribuiscono, da ciò discendendo la giustiziabilità delle posizioni soggettive sulle quali esso incide in maniera diretta.

Un assunto di tal genere sembra trovare conferma nello stesso diritto all’effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost, che nell’individuare nei diritti soggettivi e negli interessi legittimi le posizioni giuridiche azionabili in giudizio, non esclude che queste possano essere lese anche nell’esercizio di un potere sovrano.

In tal senso, prevedere una forma di irresponsabilità tout court per un potere siffatto parrebbe comportare un vulnus proprio al diritto all’effettività della tutela giurisdizionale sopra richiamato.

Ciò premesso, l’apertura delle maglie della responsabilità civile nei confronti delle funzioni sovrane sembra essere resa possibile dallo stesso tenore letterale dell’art. 2043 c.c., che dispone che qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno[7].

Muovendo da un’esegesi che tenga conto dei principi fondamentali in tema di interpretazione, di cui all’art. 12 Prel, può dirsi che nessun ostacolo appare esservi all’applicabilità di tale disposizione anche alle funzioni sovrane, non solo per l’utilizzo del termine “qualunque fatto”, ma anche, se non soprattutto, in virtù della clausola generale di ingiustizia del danno, la cui vis expansiva è tale da abbracciare svariate forme di illecito.

Né pare potersi trascurare, in una prospettiva così tratteggiata, che il fondamentale requisito dell’ingiustizia pare essere soddisfatto a fortiori nel caso in cui ad essere contra ius sia un potere sovrano, in ciò sembrando illuminarsi un’ingiustizia di carattere massimo.

Inoltre, il silenzio legislativo in merito alla natura della posizione da risarcire, che ha permesso la risarcibilità in materia civilistica finanche delle posizioni imperfette differenti dall’interesse legittimo[8], pare risolvere aprioristicamente il già menzionato problema della presunta inconfigurabilità, al cospetto di un potere sovrano, di posizioni giuridiche intese in senso tecnico.

Alla luce delle prefate considerazioni possono ritenersi soddisfatti i requisiti richiesti per l’applicabilità del 2043 c.c. alle funzioni sovrane, previa prova giudiziale del nesso di causalità materiale tra comportamento ed evento di danno e nesso di causalità giuridica tra questo e le conseguenze risarcibili da esso derivanti, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c[9].

In altre parole, ai fini dell’affermazione della responsabilità dello Stato nei confronti dei cittadini e del sorgere dell’obbligazione risarcitoria secondo il meccanismo di cui all’art. 2043 c.c. occorrerà che l’esercizio del potere sovrano, nelle sue diverse forme inteso, abbia prodotto una lesione in capo ad una posizione soggettiva del singolo, il che risulta maggiormente verosimile ove l’atto abbia portata individuale e concreta, come nel caso del potere giudiziario, ontologicamente idoneo a ledere, se mal esercitato, le posizioni giuridiche dei singoli.

Diversamente, maggiori difficoltà in tal senso possono darsi per quella tipologia di atti che di per sé hanno portata generale ed astratta, come gli atti legislativi, sebbene vi siano particolari congerie di atti, come le leggi provvedimento, che presentano siffatti caratteri in una maniera più sfumata, come si dirà più avanti.

4. La sindacabilità delle funzioni sovrane

Alla luce di quanto fino ad ora esposto, si impongono alcune riflessioni.

In primo luogo, la riconosciuta idoneità delle funzioni sovrane a cagionare danni ingiusti sembra affermare con forza la natura extracontrattuale di siffatta forma di responsabilità, così escludendo, in punto di natura giuridica, tanto la tesi che ravvisava nell’obbligazione nascente dall’inadempimento degli obblighi di natura sovranazionale un’obbligazione ex lege di natura indennitaria, quanto quella che ne predicava la riconducibilità nello spettro contrattuale, in quanto inadempimento di un obbligo preesistente costituito rappresentato dall’adesione ai Trattati sovranazionali[10].

Ad una ricostruzione di tal fatta, seppur riguardante la responsabilità per violazione del diritto sovranazionale, pare utilmente potersi fare riferimento al fine di meglio delineare la natura giuridica dell’istituto e di collocarlo con maggior precisione nel panorama ordinamentale.

Quanto all’atteggiarsi della tutela risarcitoria, può dirsi che essa rappresenta una forma di tutela successiva, quella preesistente essendo rappresentata dalla stessa sindacabilità delle funzioni sovrane, che sembrerebbe impedire di per sé stessa che del potere sovrano possa farsi un esercizio arbitrario.

Ciò in ragione del fatto che la sindacabilità delle funzioni sovrane precede logicamente ed ontologicamente l’affermazione di una responsabilità da un cattivo esercizio di esse derivante, costituendo la tutela risarcitoria, e quindi per equivalente, la forma più intesa e penetrante di sindacato ammessa nel nostro ordinamento.

In tal senso, ai fini della statuizione sul risarcimento del danno, occorrerà previamente accertare l’illegittimità dell’atto esercizio del potere, in ciò illuminandosi la teoria della pregiudizialità, la quale, sebbene apparentemente tramontata alla luce dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, sembra nondimeno essere riproposta, assumendo quasi natura immanente al sistema, nella previsione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione risarcitoria, di cui all’art. 30 comma 3 Codice del Processo Amministrativo[11].

Posta la natura particolarmente penetrante del sindacato giurisdizionale che, presentato in questi termini, non appare essere caratterizzato da forti dissonanze rispetto al sindacato sul potere amministrativo, può dirsi che, conformemente ai principi generali, sarà necessario operare un bilanciamento, che tenga conto anche dei profili di meritevolezza dell’interesse leso.

In tal senso, per quanto attiene alla giurisdizione ordinaria, la cui operatività nel sistema amministrativo è confermata dalle norme in tema di riparto di giurisdizione, può dirsi che il sindacato ad essa spettante è un sindacato per clausole generali, ciò essendo coerente con la specificità del 2043 c.c. e, conseguentemente, con la sua applicabilità alle funzioni sovrane.

Quanto agli aspetti più squisitamente di tecnica processuale, infine, può dirsi che, conformemente allo schema norma-fatto effetto che governa la responsabilità civile, ai fini del sorgere dell’obbligazione risarcitoria sarà necessario operare una sussunzione del fatto storico concretamente verificatosi nella norma, ciò comportando, come ricordato in precedenza, il previo accertamento dell’illegittimità del potere sovrano e la sua conseguente “demolizione “in fatto.

5. La responsabilità dello Stato per violazione del diritto nazionale e, in particolare, sovranazionale. Il caso della responsabilità dei magistrati

Ciò premesso, occorre valutare l’applicabilità dell’art. 2043 c.c., astrattamente dimostrata, alle funzioni sovrane concretamente intese, id est quella legislativa, esecutiva e giudiziaria, prendendo in considerazione i casi in cui il loro esercizio si interfacci anche con il diritto sovranazionale.

Quanto alla funzione legislativa, come anticipato, particolari problemi possono porsi ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato per il carattere generale ed astratto degli atti legislativi, che di regola non sembrerebbero poter ledere le posizioni giuridica dei singoli.

Tale evenienza, oltre che nel caso di provvedimenti amministrativi esecutivi di atti legislativi, pare non configurarsi nel caso delle leggi provvedimento, innovative o esecutive, le quali sembrerebbero derogare al carattere dell’astrattezza e sulla cui ammissibilità si è espressa positivamente la Corte costituzionale, affermando, tra l’altro, lo spostamento del sindacato giurisdizionale a livello costituzionale nel caso in cui tali leggi  costituiscano attuazione di provvedimenti amministrativi.

Volgendo lo sguardo al diritto europeo, può osservarsi che, alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, il sorgere di una responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario - peraltro immanente al sistema del Trattato, anche alla luce dei principi di effettività e di collaborazione - è subordinato al ricorrere di alcuni requisiti, quali la predisposizione della norma giuridica ad attribuire diritti ai singoli, il carattere grave e manifesto della violazione e il rapporto causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente sullo Stato ed il danno.

Più nel dettaglio, nei casi di mancata trasposizione di direttive non dettagliate o, più in generale, nei rapporti orizzontali, la responsabilità dello Stato nei confronti dei cittadini appare configurabile in quanto il titolare del diritto nascente dalla direttiva non può esercitarlo nei confronti del privato, in ciò illuminandosi un caso di illecito permanete, la cui cessazione coincide con l’adempimento dell’obbligo.

Diversamente, nel caso di direttive self executing non paiono esservi spazi per la configurabilità di una responsabilità dello Stato per mancata o infedele trasposizione della direttiva, in quanto l’inadempimento dell’obbligo di attuazione della direttiva non comporta pregiudizio alcuno per i singoli[12].

Passando alla funzione esecutiva - senza pretesa di esaustività- posta la distinzione tra politica ed amministrazione. che trova dimostrazione nel disegno costituzionale e, in particolare, nel titolo terzo della Costituzione, che dedica la Sezione prima al Consiglio dei Ministri, la Sezione seconda alla p.a., merita un cenno il noto caso Ustica, nel quale è stata affermata la responsabilità dell’Esecutivo per condotte omissive tali da cagionare un evento di danno alla popolazione, ricollegando il sorgere della responsabilità all’esistenza di un obbligo di agire in capo al Governo previsto da una regola cautelare[13].

Più interessante, proprio perché il legislatore ne ha provveduto ad una diretta tipizzazione, è la configurabilità della responsabilità dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che trova disciplina nella legge n.117 del 1988 sulla responsabilità dei magistrati, così come modificata, anche alla luce delle istanze provenienti dalla giurisprudenza comunitaria, dalla legge n. 18 del 2015.

Astrattamente, l’esercizio della funzione giudiziaria sembra essere quello più idoneo a cagionare danni ingiusti ai cittadini, stante la natura individuale e concreta dei provvedimenti giurisdizionali che di esso sono espressione.

La ragione di una previsione legislativa espressa, a differenza di quanto avviene per la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, sembra trovare conforto proprio in tale assunto, atteso che, in virtù della sua natura sommamente garantistica, non sembrano essere tollerabili degli errori da parte di chi esercita il potere giudiziario, specie nell’attività di interpretazione e di applicazione delle norme di legge.

Ciò posto, la formulazione originaria dell’art. 2, nel suo limitare la responsabilità dello Stato ed il conseguente risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali ai soli atti del magistrato commessi con dolo e colpa grave,  prevedeva l’insindacabilità dell’attività di interpretazione di norme di diritto e della valutazione dei fatti e delle prove, precisando che costituissero colpa grave la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, il caso dell’errore revocatorio e l’emissione di un provvedimento concernente la libertà personale fuori dai casi tassativamente previsti o senza motivazione. Integrava la condotta antigiuridica altresì il diniego di giustizia, rappresentato dal rifiuto, dall’omissione o dal ritardo degli atti del suo ufficio da parte del magistrato.

A venire in rilievo, in altre parole, era un’ipotesi di responsabilità civile speciale rispetto a quella di cui all’art. 2043 c.c., la quale strutturalmente si componeva della condotta, consistente nella violazione del diritto comunitario, estrinsecantesi in svariate modalità, nel danno ingiusto, fondato sulla circostanza che la norma comunitaria attribuisse diritti ai singoli, nell’elemento soggettivo inteso in termini di colpa o dolo, come parametri di gravità della violazione e nel rapporto di causalità tra violazione e danno, da ricostruirsi secondo i parametri del diritto nazionale.

A seguito delle spinte provenienti dalla giurisprudenza comunitaria[14], la quale ha rinvenuto nell’attività di interpretazione delle norme e della valutazione dei fatti e delle prove l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, a detta legge è stata apportata una modifica con la già menzionata legge n. 18 del 2015, la quale, oltre ad ampliare i casi di risarcibilità dei danni patrimoniali e non, ha previsto l’espunzione del requisito della negligenza inescusabile, da ritenersi assorbito nella stessa previsione della colpa grave, poiché la negligenza altro non appare essere  se non una delle forme in cui la ricorrenza di tale elemento può manifestarsi.

Il nuovo art. 2 dispone che, fatti salvi i casi di cui all’art. 3 e 3 bis, nei quali si provvede ad una specificazione della colpa grave, che si illumina, tra l’altro, anche nella violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, nonché i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né di quella di valutazione del fatto o delle prove.

Dall’esegesi della disposizione in commento si arguisce che permane l’area di insindacabilità dell’attività giurisdizionale prevista dalla legge previgente, che viene però temperata dalla violazione manifesta della legge e del diritto Ue e dal travisamento dei fatti e delle prove, che, come tali, ben possono costituire un fatto illecito che cagiona ad altri un danno ingiusto, anche di natura non patrimoniale.

A livello interpretativo, appare chiaro che la risarcibilità del danno, sia in punto di esistenza, che, conseguentemente, in punto di quantificazione, dipenderà dalla gravità dell’errore, che sembrerebbe essere illuminata dall’utilizzo legislativo della locuzione “violazione manifesta “e di quella “travisamento del fatto”, la quale ultima integrerebbe un errore di valutazione da parte del giudice.

A ben vedere, un’apertura delle frontiere della responsabilità civile, seppur con dei temperamenti, anche alle attività che costituiscono l’essenza della funzione giurisdizionale, come quella di interpretazione delle norme e di valutazione dei fatti, appare essere razionale, specie ove si consideri il magistrato come un soggetto dotato di capacità particolari all’interno del processo, il che implica che questi debba rispondere degli eventuali errori commessi nell’esercizio delle sue funzioni, proprio perché è suo compito spetta assecondare le aspettative logico-razionali del sistema.

In una prospettiva siffatta, il permanere di un’area di irresponsabilità del magistrato proprio in quelle attività che costituiscono le sue prerogative precipue, come l’interpretazione delle disposizioni secondo i parametri dell’art. 12 Prel. o, volendo esemplificare, l’accertamento del rapporto di causalità ex art. 533 c.p.p. in materia penale, oltre a falsare le regole del gioco, creerebbe aporie di non lieve momento nel sistema, colorandolo di irrazionalità.

6. La violazione dei diritti fondamentali della persona: premesse gnoseologiche

Così delineato il rapporto tra esercizio di funzioni sovrane e danni ingiusti, occorre ora valutare le ricadute di tale portata concettuale nel caso di violazione di diritti fondamentali della persona, anche alla luce del diritto sovranazionale e dell’evoluzione giurisprudenziale

In limine, pare opportuno inquadrare i diritti fondamentali della persona nella teoria generale del diritto, mettendone in luce le peculiarità rispetto alle altre posizioni giuridiche riconosciute e tutelate dal nostro ordinamento.

Segnatamente, l’aggettivo “fondamentali” che qualifica tali diritti ne illumina l’irrinunciabilità e la coessenzialità alla dimensione della persona, talché questa non potrebbe essere definita tale se di tali diritti, come la vita e la dignità umana, venisse privata.

In tal prospettiva, può tracciarsi una prima distinzione tra diritto fondamentale della persona  e diritto costituzionalmente tutelato, che si radica nella circostanza che, mentre il primo è caratterizzato da assoluta intangibilità ed inviolabilità, non potendo essere colpito da nessuna capitis deminutio,  il secondo, a fronte di particolari esigenze o interessi, può essere temperato, come avviene nel caso del diritto all’iniziativa economica privata, che è legislativamente orientata o può essere compresso in virtù di motivi di interesse generale, come avviene nel caso della proprietà- che è funzionalizzata a fini sociali, a mente del terzo comma dell’art. 42 Cost.

Quanto ai profili di natura squisitamente dogmatica, può essere utile operare un cenno alla distinzione tra diritti della persona e diritti della personalità, i primi facendo riferimento alla dimensione statico-conservativa della persona (costituendo una qualificazione normativa di un dato fenomenico) i secondi a quella dinamico- valoriale (rappresentando, invece, una proiezione normativa di un dato fenomenico).

Ad ogni modo, tale distinzione parrebbe assottigliarsi ove si consideri che anche i diritti della personalità potrebbero assumere in via interpretativa il carattere di diritti fondamentali, così rientrando nella più ampia categoria di diritti fondamentali della persona.

Né pare potersi trascurare, in un contesto siffatto, l’importanza rivestita dalla giurisprudenza normativa, la quale, anche per il tramite dell’utilizzo dell’art. 2 Cost., la cui vis expansiva è tale da irraggiare l’intero settore privatistico, ha contribuito in maniera determinate alla creazione di nuovi diritti della personalità, anche alla luce dei fenomeni tra loro intimamente connessi della decodificazione, ossia del venir meno della previsione delle fonti in un unico testo normativo, e della depatrimonializzazione, ossia il superamento di quella concezione in base alla quale il diritto dei privati dovesse occuparsi in maniera precipua dei rapporti di carattere patrimoniale[15].

L’occasum della pregiudiziale patrimonialistica e la conseguente apertura delle frontiere della responsabilità civile anche nei confronti della persona, come testimonia l’evoluzione giurisprudenziale in relazione all’art. 2059 c.c., ha comportato la restituzione a questa della sua dignità dogmatica, anche attraverso l’affermazione della precedenza ontologica dell’essere sull’avere, e la sua collocazione al centro dell’ordinamento giuridico[16].

A comporre il quadro dianzi tratteggiato soccorrono le fonti, le quali, oltre alla stessa giurisprudenza normativa ed alle fonti nazionali, sono da individuarsi nelle fonti sovranazionali, con ciò illuminandosi la tematica dell’influenza delle carte sovranazionali, come la CEDU e la Carta di Nizza sui diritti fondamentali della persona, specie quello alla vita privata e familiare, di cui all’art. 8 CEDU, che prevede l’impossibilità dell’ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto, salvo che essa sia prevista dalla legge e rappresenti, in una società democratica, una misura necessaria alla salvaguardia di interessi rilevanti, come l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale e il benessere economico del paese.

Di particolare importanza, oltre all’art. 6 della stessa CEDU, che disciplina il diritto ad un processo equo, appaiono essere gli artt. 53 e 54 della Carta di Nizza, disciplinanti rispettivamente la clausola magis ut valeat, in base alla quale nessuna disposizione del testo può essere interpretata come lesiva o limitativa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dal diritto sovranazionale complessivamente inteso, ed il divieto di abuso del diritto, che vieta un’interpretazione che possa comportare il diritto di esercitare un’attività o di compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti dalla Carta o ad imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie.

Dall’esegesi del menzionato combinato disposto si arguisce la centralità dei diritti fondamentali nel panorama sovranazionale, come emerge con nitore tanto dall’utilizzo del lessico legislativo, quanto dallo scrutinio della mens legis, da ciò discendendo che, in tal caso, l’interpretazione letterale e quella per ratio legis sembrano coincidere, non dando adito ad alcun ragionevole dubbio sull’irrinunciabilità dei diritti fondamentali della persona e sull’impossibilità che di essi venga perpetrata alcun tipo di violazione contra ius.

A blindare l’essenzialità di tali diritti soccorre l’art. 6 comma 3 TUE, che, nel ricondurre i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU al novero delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, ne afferma la natura di principi generali del diritto dell’Unione europea e-si aggiunge- in virtù del principio della primazia del diritto comunitario, anche del diritto nazionale.

7. Ipotesi concrete

Ciò premesso in via generale, può ora passarsi all’analisi dell’ipotesi in cui nei confronti di tali diritti sia stata commessa una violazione, come tale suscettibile di risarcimento, ad opera di un atto che sia espressione del potere sovrano.

A venire in rilievo in tale contesto sono il diritto alla ragionevole durata del processo, di cui alla art. 2 della legge n. 89 del 2001, il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, di cui all’art. 314 c.p.p.

Quanto al primo, che si sostanzia nella previsione di un’equa riparazione in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa della ragionevole durata del processo, trattasi di ipotesi speciale di responsabilità civile per lesione di una posizione giuridica particolare, che trova consacrazione costituzionale nel secondo comma dell’art. 111 Cost., pacifica essendo la riconducibilità al rango di diritto leso dal potere sovrano, potrebbe discutersi la natura di diritto fondamentale della persona, la quale sembrerebbe potersi escludere, atteso che esso non appare essere un diritto irrinunciabile.

Diversamente, nel caso previsto dall’art. 314 c.p.p., che prevede che la riparazione per l’ingiusta custodia cautelare subita per chi sia stato prosciolto perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, potrebbe desumersi in via interpretativa la natura di diritto fondamentale di una posizione siffatta, giusto il riferimento all’art. 13 Cost., che dispone l’inviolabilità della libertà personale, che risulta ingiustamente compressa ad opera dell’autorità giudiziaria.

Una particolare ipotesi nella quale potrebbe discutersi di lesione di un diritto fondamentale della persona ad opera di un atto espressione di una funzione sovrana è quella di una legge provvedimento in materia espropriativa che incida, alla luce di interessi generali particolarmente rilevanti tali da comportarne l’adozione in luogo del tradizionale provvedimento amministrativo ablatorio, sul diritto di proprietà del privato, causandone l’espropriazione e, conseguentemente, l’emergere di una posizione di interesse legittimo, in virtù della teoria della degradazione.

Ciò in ragione del fatto che, alla luce del rinnovato dibattito sulla tematica del danno non patrimoniale derivante da lesione di diritti patrimoniali e del disposto di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 4 alla CEDU, la proprietà assurgerebbe a diritto fondamentale, di talchè una sua compromissione potrebbe integrare un danno ingiusto nell'esercizio di una funzione sovrana, di cui è espressione la legge provvedimento.

A ben vedere, la natura fondamentale di tale diritto pare poter essere esclusa, poiché, diversamente argomentando, ci si porrebbe in aperto contrasto con la Carta Costituzionale, dalla quale si evince che la proprietà non è né diritto inviolabile, né fondamentale.

Né appare possibile aderire ad un’ottica interpretativa che dia luogo ad un’esegesi della riserva di legge di cui al 2059 c.c. tale da ricomprendere anche la CEDU, in quanto ciò appare rappresentare una forzatura della lettera della disposizione.

Alla luce di ciò, pare potersi escludere la natura di diritto fondamentale della proprietà e che dalla lesione di essa possano derivare danni di natura non patrimoniale, come tali strettamente inerenti alla dimensione della persona.

Di diritto fondamentale ex art. 2 Cost, secondo altra impostazione di pensiero, potrebbe discutersi in relazione alla proprietà di determinati beni particolarmente rilevanti della persona, come la proprietà dell’abitazione, che costituirebbe uno spazio in cui essa si estrinseca, da ciò discendendo che, in caso di lesione di siffatto diritto da parte del potere sovrano, ne conseguirebbe la risarcibilità del danno non patrimoniale[17].

Alla luce delle prefate riflessioni, può dirsi che i poteri sovrani non possono ledere i diritti fondamentali, che assurgono, pertanto, a limite invalicabile nel loro esercizio.

Una circostanza siffatta potrebbe legittimamente verificarsi solo in casi eccezionali, nei quali si illumina l’operatività del diritto dell’emergenza, il cui intervento è giustificato dalla salvaguardia di un diritto fondamentale, che, nell’ottica di un bilanciamento di valori, venga ritenuto preminente[18].

Ciò premesso, quanto agli aspetti più squisitamente processuali, ci si domanda cosa accada nell’ipotesi in cui vi sia una violazione delle Carte fondamentali, ossia i testi giuridici nei quali siffatti diritti trovano consacrazione. A tale specifico riguardo, può dirsi che ove si verifichi una violazione dei precetti contenuti nella CEDU, è ritenuta esperibile l’azione risarcitoria tanto nella giurisdizione nazionale, tanto nella stessa Corte Europea, giusto quanto disposto dagli artt. 34 e 35, in forza dei quali i singoli che si assumano vittime di una violazione da parte di uno Stato contraente dei diritti riconosciuti nella Convenzione possono agire al cospetto della Corte EDU, a patto che siano state esaurite le vie di ricorso interne ed entro sei mesi dalla decisione definitiva.

Nel caso in cui la Corte ritenga essersi verificata una violazione della CEDU - e la tutela garantita dal diritto interno appare incompleta - essa può assicurare un’equa soddisfazione alla parte lesa.

Nel novero delle posizioni riconosciute dalle Carte fondamentali, quelle oggetto di maggior attenzione di recente sono il già menzionato diritto al rispetto della vita privata (le cui principali applicazioni sono rappresentate dal diritto all’oblio[19] –  riconosciuto dal Regolamento UE 2016/679 – e dal diritto alla riservatezza) e il diritto all’equo processo.

La violazione di siffatti diritti da parte dello Stato dà luogo a responsabilità civile, che può essere fatta valere dinanzi al giudice ordinario, venendo in rilievo diritti fondamentali, in ciò illuminandosi una peculiare ipotesi di responsabilità dello Stato nell’esercizio delle funzioni sovrane.

Quanto all’atteggiarsi delle tecniche di tutela, peraltro, può dirsi che esse variano in base all’esistenza o meno di una fonte nazionale di contenuto analogo a quella sovranazionale ed al potere statale che vi impatta.

Il diritto al rispetto della vita privata trova riconoscimento nelle fonti nazionali sotto molteplici profili e viene di regola inciso da atti del potere amministrativo, di talché l’azione di risarcimento è assimilabile a quella in materia della responsabilità della pubblica amministrazione.

Il diritto all’equo processo, che non trova omologhi identici nelle norme nazionali, viene di regola inciso da atti del potere giudiziario, sicché l’azione di risarcimento è ipotizzabile solo dopo l’esaurimento dei mezzi di tutela in forma specifica, compreso il ricorso alla Corte EDU.

8. Un caso emblematico: la responsabilità dello Stato nei confronti degli stranieri

Avviandosi alle conclusioni, occorre ora soffermarsi adeguatamente sul problema della responsabilità dello Stato nei confronti degli stranieri, tematica involgente profili di diritto internazionale, alla luce della sua particolare rilevanza nell’ambito della teoria dei limiti e dei controlimiti[20].

A venire in rilievo nella presente indagine, in particolare, è l’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera, che deriva dal riconoscimento della loro soggettività internazionale ed è epifenomeno del principio di uguaglianza sovrana, espresso dall’antico adagio par in parem non habet iurisdictionem.

La teoria in discorso, meglio nota come teoria dell’immunità ristretta, postula una bipartizione tra atti iure imperi, ossia atti espressione della sovranità statale e atti iure gestionis, posti in essere in esplicazione della capacità giuridica di diritto privato propria di ogni Stato, talché solo nel primo caso si ritiene, anche alla luce della già citata teoria dell’atto politico - che ha trovato frequente applicazione nel caso degli atti bellici, come i bombardamenti ad opera della NATO - che i comportamenti dello Stato siano insindacabili, ciò comportando la sottrazione di essi al sindacato giurisdizionale[21].

Consegue all’anzidetto che la locuzione immunità ristretta sta a contrassegnare la restrizione dello spettro di operatività di tale norma consuetudinaria proprio a tale congerie di atti, restando pertanto esclusi gli atti iure gestionis.

Ciò posto, ai sensi dell’art. 10 Cost., l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, ciò comportando l’ingresso della norma consuetudinaria che prevede l’immunità ristretta nel nostro ordinamento, nella quale essa acquisisce valore costituzionale.

La tematica in discorso è stata oggetto di una ripetuta attenzione da parte delle Corti superiori le quali, a fronte del ripetersi di azioni civili di risarcimento del danno, hanno riconosciuto l’operatività della teoria di che trattasi, negandola nei casi in cui siano stati commessi crimini contro l’umanità-noti anche come crimina iuris gentium,-, che rappresentano degli atti gravi perpetrati nei confronti dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente riconosciuti, come la vita e la dignità umana[22].

In una prospettiva siffatta, la non applicabilità della norma in discorso rinverrebbe la propria ratio essendi nella circostanza che anche nel diritto internazionale viene riproposta la distinzione tra norme imperative-meglio note come norme di ius cogens- e norme comuni, da ciò discendendo la derogabilità delle seconde allorché si trovino in conflitto con norme di rango più elevato, come quelle che vietano i crimini contro l’umanità, nei confronti dei quali, giusta la loro estrema gravità, è ammessa la cd. giurisdizione universale[23].

Un’affermazione di tal fatta appare razionale, specie ove si consideri che far sì che i comportamenti di uno Stato siano immuni rispetto alla giurisdizione solo perché commessi nel territorio straniero creerebbe dei vuoti di tutela di non lieve momento, oltre che comportare un vulnus non indifferente ad irrinunciabili esigenze di giustizia sostanziale.

Né pare potersi trascurare che, in un’ottica siffatta, la tutela risarcitoria appare essere quella più idonea alla riparazione dei diritti del singolo, non potendo darsi ontologicamente una tutela in forma specifica.

Ciò nondimeno, la giurisprudenza comunitaria ha ritenuto che, nel caso della deportazione di cittadini italiani ad opera dei militari nazisti, lo Stato tedesco dovesse essere immune dalla giurisdizione italiana, la quale, condannando la Germania al risarcimento del danno, avrebbe violato proprio la regola dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera[24].

Tale pronuncia ha prodotto effetti di non lieve momento nel nostro ordinamento, che si è adeguato alle istanze provenienti dalla giurisprudenza comunitaria, previa adesione alla Convenzione dell’ONU sulle immunità giurisdizionali, con la legge n. 5 del 2013, che prevede il dovere del giudice di rilevare il difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo, allorchè una sentenza della Corte internazionale di giustizia abbia escluso l’assoggettamento di altro Stato alla giurisdizione civile.

A comporre tale scontro di civiltà tra ordinamento interno e ordinamento sovranazionale, è intervenuta la Corte costituzionale, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale, tra le altre, della prefata disposizione ha espresso principi di particolare rilievo nella teoria generale del diritto, affermando che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana rappresentano sia un limite all’ingresso dei norme internazionali generalmente riconosciute ex art. 10 Cost. che un controlimite all’ingresso di norme provenienti dall’Unione europea[25].

In altre parole, si afferma con forza la non applicabilità della norma sull’immunità ristretta nel caso di commissione da parte dello Stato di crimini contro l’umanità, per la quale, pertanto, non opera il rinvio di cui all’art. 10 Cost. limitatamente a tale aspetto.

Alla luce delle prefate considerazioni, può ribadirsi, oltre alla razionalità dell’ordinamento giuridico nel selezionare le posizioni meritevoli di tutela la centralità nel nostro ordinamento dei diritti fondamentali della persona umana, come tali insuscettibili di violazione o compressione alcuna, le quali, se poste in essere, rappresenterebbero un comportamento massimamente contra ius, come tale meritevole di essere foriero di danni risarcibili.


Note e riferimenti bibliografici

[1] È questa la tradizionale definizione che si deve al Benvenuti, accolta in maniera unanime dalla dottrina amministrativistica.

[2] Per un approfondimento dei poteri sovrani in una prospettiva costituzionalistica v. R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, ventesima edizione, Torino, 2019, pp. 11 ss.

[3] Il riferimento è alla teoria dei giochi, elaborata da J. F. NASH, spesso utilizzata anche in ambito politico. Per un approfondimento del suo utilizzo in ambito giuridico cfr. F. BELLOMO, Nuovo sistema del diritto penale, I, Bari, 2015, pp. 368 ss.

[4] Tale espressione, frequentemente utilizzata negli studi di carattere socio-giuridico, è da attribuirsi a T. HOBBES, secondo il quale essa contrassegnerebbe lo stato di natura e, conseguentemente, la necessità dello Stato.

[5] Per un inquadramento dogmatico delle funzioni sovrane, nonché per una ricostruzione del dibattito sorto attorno alla loro sindacabilità cfr. F. BELLOMO, Nuovo sistema del diritto amministrativo, III, seconda edizione, Bari, 2019, pp. 141 ss., nonché V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2018, pp. 993 ss.

[6] Per un approfondimento della teoria in discorso e della sua rilevanza in ambito internazionalistico cfr. T. SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale, I, ultima edizione, Torino, 2018, pp. 195 ss.

[7] Per un inquadramento dogmatico del problema della responsabilità civile v. per tutti A. DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1966, pp. 7 ss. Una significativa ricostruzione è contenuta altresì in C. M. BIANCA, Diritto civile, vol. 5, la responsabilità, seconda edizione, Milano, 2019.

[8] Il riferimento è a tutte quelle posizioni che, nella dinamica delle situazioni giuridiche soggettive, si pongono in un rapporto di strumentalità con il diritto soggettivo, siccome non presentano il carattere della pienezza. In particolare, a venire in rilievo in un contesto siffatto sono la chance, il possesso, l’aspettativa ed i diritti spuri.

[9] Cfr. A. DE CUPIS, op.cit., pp. 192 ss., secondo il quale nello spettro della disposizione siffatta rientrerebbe altresì la risarcibilità dei danni mediati e indiretti. Nello stesso senso v. A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, ventiquattresima edizione, Milano, 2019, pp. 887 ss. Per la chiarificazione della distinzione tra causalità di fatto e causa giuridica v. per tutti Cass. civ. Sez. U. n. 581 del 2008.

[10] Cfr. Cass. civ. Sez. Un. n. 9147 del 2009 secondo la quale la giurisprudenza della Corte riconduce con assoluta prevalenza il c.d. illecito del legislatore per mancata o tardiva attuazione di direttive comunitarie alla fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.

Esiste però un altro orientamento giurisprudenziale che esclude che si tratti di un fatto imputabile come illecito civile allo Stato inadempiente (cfr., in particolare, Cass. 5 ottobre 1996, n. 8739; 11 ottobre 1995, n. 10617; 19 luglio 1995, n. 7832). Ciò in base alla considerazione che, stante il carattere autonomo e distinto tra i due ordinamenti, comunitario e interno, il comportamento del legislatore è suscettibile di essere qualificato come antigiuridico nell’ambito dell’ordinamento comunitario, ma non alla stregua dell’ordinamento interno, secondo principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione. Per risultare adeguato al diritto comunitario, il diritto interno deve assicurare una congrua riparazione del pregiudizio subito dal singolo per il fatto di non aver acquistato la titolarità di un diritto in conseguenza della violazione dell’ordinamento comunitario. I parametri per valutare la conformità del diritto interno ai risultati imposti dall’ordinamento comunitario sono stati enunciati dalla Corte di Giustizia:

a) l’inadempimento riconducibile al legislatore nazionale obbliga lo Stato a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario.

b) Il diritto al risarcimento deve essere riconosciuto allorché la norma comunitaria sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia manifesta e grave e ricorra un nesso causale diretto tra tale violazione ed il danno subito dai singoli.

c) Il risarcimento del danno non può essere subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa.

d) Il risarcimento deve essere adeguato al danno subito, spettando all’ordinamento giuridico interno stabilire i criteri di liquidazione, che non possono essere meno favorevoli di quelli applicabili ad analoghi reclami di natura interna, o tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. In ogni caso, non può essere escluso in via generale il risarcimento di componenti del danno, quale il lucro cessante.

e) Il risarcimento non può essere limitato ai soli danni subiti successivamente alla pronunzia di una sentenza della Corte di Giustizia che accerti l’inadempimento.

Tali parametri sono soddisfatti configurando l’obbligo di pagare il danno come obbligazione ex lege dello Stato inadempiente, di natura indennitaria (dunque, debito di valore) per attività non antigiuridica, che il giudice deve determinare in base ai presupposti oggettivi sopra indicati, in modo che sia idonea a porre riparo effettivo ed adeguato al pregiudizio subito dal singolo. La qualificazione in termini di obbligazione indennitaria, del resto, consente di assoggettare allo stesso regime giuridico sia il caso di attuazione tardiva di una direttiva senza alcuna previsione di riparazione del pregiudizio per l’inadempimento, sia quello dell’intervento legislativo specifico, preordinato alla disciplina dell’obbligazione risarcitoria. E ciò in linea con il principio secondo cui la qualificazione della situazione soggettiva dei privati deve farsi con esclusivo riferimento ai criteri dell’ordinamento giuridico interno (cfr. Cass., sez. un., 27 luglio 1993, n. 8385), imponendo l’ordinamento comunitario soltanto il raggiungimento di un determinato risultato.

Cfr. Cass. civ. Sez. III n. 10813 del 2011, secondo la quale deve anche escludersi che, alla qualificazione dell’obbligazione risarcitoria verso i singoli per inadempimento della direttiva, la giurisprudenza della Corte di Giustizia abbia dato una caratteristica tale da imporre di ricondurla necessariamente nell’ordinamento italiano sotto la disciplina della lex aquilia. Non si può, cioè ritenere che, avendo quella giurisprudenza identificato il diritto del singolo come diritto al risarcimento del danno, il rinvio alla legislazione degli stati membri e, quindi, a quella dello Stato Italiano per l’individuazione della disciplina di tale risarcimento comporti che nel nostro ordinamento tale disciplina si debba identificare con quella di cui agli articoli 2043 c.c. È sufficiente osservare che l’espressione risarcimento del danno nell’ordinamento giuridico italiano non è, com’è noto, coessenziale al sistema della sola responsabilità da illecito ai sensi dell’articolo 2043 c.c., ma è categoria, cioè tecnica di tutela, ben più ampia.

Dunque, l’identificazione nell’ordinamento italiano della disciplina della responsabilità nel caso di specie non poteva dirsi in alcun modo veicolata verso la disciplina degli articoli 2043 c.c., per cui l’operazione di sistemazione fatta alle Sezioni Unite nel senso di collocare la responsabilità nell’ambito della norma generale dell’articolo 1176 c.c., fra gli altri fatti idonei a produrre l’obbligazione e specificamente un’obbligazione risarcitoria, ravvisandone la fonte nel carattere cogente ai fini della nascita di un obbligo risarcitorio, della citata giurisprudenza comunitaria, appare pienamente legittima ed anzi, se si considerano le peculiarità fissate dalla stessa giurisprudenza per l’operare dell’inadempimento quale fonte dell’obbligazione risarcitoria, appare vieppiù giustificata. Ciò, per non essere tale fonte riconducibile ad un fatto o ad atto produttivo dell’obbligazione già previsto da disposizioni del diritto interno, bensì per essere qualificabile soltanto come uno specifico fatto emergente direttamente dall’ordinamento comunitario, nella specie attraverso la legittima manifestazione della sua forza cogente attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Ribadito, dunque, che la responsabilità dello Stato per l’inadempimento di una direttiva comunitaria che riconosca in modo sufficientemente specifico un diritto, ma non sia self executing, dà luogo ad una fattispecie di responsabilità "contrattuale", v’è da rilevare che le Sezioni Unite, con la qualificazione "contrattuale", hanno chiaramente inteso riferirsi al concetto di "responsabilità contrattuale" non già nel senso di una responsabilità da contratto, il che sarebbe nella specie fuor di luogo, ma nel senso in cui di una responsabilità "contrattuale" si è sempre parlato tradizionalmente per significare che l’obbligazione risarcitoria non nasce da un fatto illecito alla stregua dell’articolo 2043 c.c., e segg., ma è dall’ordinamento ricollegata direttamente alla violazione di un obbligo precedente, che ne costituisce direttamente la fonte. Si vuol dire, cioè che il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso - comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale - di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’articolo 1173 c.c.

[11] Sul punto v. F. BELLOMO, op.cit., pp. 325 ss.

[12] Per un approfondimento della tematica della responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nota in dottrina anche come responsabilità Francovich, cfr. R. MASTROIANNI, G. STROZZI, Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, ultima edizione, Torino, 2018, pp. 404 ss.

[13] Cfr. Cass. civ. 23393 del 2013.

[14] Si intende fare riferimento all’evoluzione giurisprudenziale culminata nella nota sentenza di C. Giust. CE, 13.06.2010 causa C. 173/03 resa nel noto caso Traghetti del mediterraneo, nella quale si afferma che la normativa italiana, nella parte in cui esclude la responsabilità dello Stato in relazione all’attività delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove viola i principi comunitari in tema di responsabilità dello Stato per inadempimento del diritto UE.

[15] Cfr. Cass. civ. Sez. III n. 10741 del 2009, nella quale si afferma che il vigente codice civile non rappresenta oggi più l’unica fonte di riferimento per l’interprete in un ordinamento caratterizzato da più fonti, tra cui una posizione preminente spetta alla Costituzione repubblicana del 1948, oltre alla legislazione ordinaria (finalizzata anche all’adeguamento del testo codicistico ai principi costituzionali), alla normativa comunitaria ed internazionale, ed alla stessa giurisprudenza normativa; tale pluralità di fonti ha determinato i due fenomeni, tra loro connessi, della decodificazione e della depatrimonializzazione, intendendosi la prima come il venir meno della tradizionale previsione di disciplina di tutti gli interessi ritenuti meritevoli di tutela in un unico testo normativo, a seguito del subentrare di altre fonti, e la seconda nell’attribuzione alla persona (in una prospettiva non individuale ma nell’ambito delle formazioni sociali in cui estrinseca la propria identità e l’insieme dei valori di cui è espressione) una posizione di centralità, quale portatrice di interessi non solo patrimoniali ma anche personali (per quanto esplicitamente previsto, tra l’altro, nello stesso testo costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 2 e 32).

[16] Cfr. A. DE CUPIS, I diritti della personalità, Milano, 1982, pp. 34. Una moderna ricostruzione dogmatica dei diritti in discorso, che ne mette in luce altresì la loro attitudine a flettere i vari istituti privatistici è contenuta in P. PERLINGIERI, La persona e i suoi diritti-problemi del diritto civile, Napoli, 2005.

[17] La tematica in discorso è particolarmente centrale nel dibattito giuridico contemporaneo. A tale specifico riguardo, cfr. Circolare Ministeriale 1.09. 2018, nella quale si legge che le Sezioni Unite della Cassazione, con la recente sentenza n. 2611/2017 hanno riconosciuto il danno non patrimoniale patito in conseguenza “delle immissioni sonore a turbativa della vita domestica” e del disagio nell’accesso alla propria abitazione, ritenendo che “si è fatto valere il pregiudizio non patrimoniale derivante dall’ordinario sconvolgimento dell’ordinario stile di vita”, e che questo “è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi”. Altro terreno d’analisi oggetto di letture evolutive è quello del neonato diritto d’abitazione. L’interesse al pieno godimento delle utilità anche immateriali degli immobili di privata dimora viene, infatti, riannodato a tale posizione giuridica ritenuta “fondamentale”, anche al fine di trarne la risarcibilità del danno non patrimoniale, nelle ipotesi in cui (a causa, per esempio, di infiltrazioni o altri difetti di costruzione addebitabili a un terzo) sia precluso al proprietario e ai suoi familiari l’utilizzo dell’immobile. Pure per il diritto di abitazione si fa rimando a referenti normativi sovranazionali, quali gli artt. 7 e 17 della Carta di Nizza e l’art. 8 CEDU. È, tuttavia, anche in tal caso, necessario indagare ancora sulla natura “fondamentale” predicata e comprendere se essa possa declinarsi in termini di “inviolabilità” nei rapporti privati. A tal proposito, benché la giurisprudenza della Corte costituzionale collochi tale diritto tra quelli inviolabili riconducibili all’art. 2 Cost., sembra farlo nella dimensione del diritto “sociale”, operante nel rapporto tra cittadino e pubblici poteri, e non già in quella privatistica. A fronte di questa spinte per una lettura “orientata” (possono ricordarsi anche gli articoli 17 e 52 della Carta europea dei diritti fondamentali), non pare però che il diritto di proprietà posso essere inquadrato nell’art. 2 Cost. e sia preferibile giustapporvi un’altra posizione giuridica più personalistica, quale i richiamati diritti al rispetto della vita privata o di abitazione per giustificare il risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali.

[18] È il caso di atti normativi che vengano emanati per far fronte a calamità naturali o a pandemie.

[19] Particolarmente significativa la riflessione giurisprudenziale sul diritto in discorso, culminata nella recentissima pronuncia resa da Cass. civ. Sez. Un. n. 19681 del 2019, secondo la quale Nei rapporti tra il diritto alla riservatezza, nella specie diritto all’oblio, e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende passate, il giudice, fermo restando la libertà di scelte editoriali in ordine alla rievocazione dell’accaduto, deve valutare se sussiste l’interesse pubblico, concreto e attuale, alla menzione degli elementi identificatici delle persone protagoniste dei fatti medesimi. Tale menzione sarà lecita in caso di personaggi che destano nel presente interesse nella collettività, per ragioni di notorietà o ruolo pubblico investito; in caso contrario, prevale il diritto alla riservatezza, se la rievocazione ferisce la dignità e l’onore dei soggetti protagonisti delle vicende rievocate

[20] Per un approfondimento della teoria in discorso cfr. G. STROZZI, Limiti e controlimiti nell’applicazione del diritto comunitario, in Studi sull’integrazione europea, 2009, pp. 29 ss.; quanto alla sua rilevanza nel diritto internazionale cfr. S. RISOLI, Oltre il confine stabilito. Teoria e funzionamento dei “controlimiti “, Milano, 2017.

[21] Sulla tematica dell’insindacabilità dell’atto politico cfr. Cass. civ. Sez. un. n. 8157 del 2002, nella quale si afferma che gli atti che vengono compiuti dallo Stato nella conduzione di ostilità belliche si sottraggono totalmente al sindacato sia della giurisdizione ordinaria che della giurisdizione amministrativa, in quanto costituiscono manifestazione di una funzione politica, attribuita dalla Costituzione al Governo della Repubblica, rispetto alla quale non è configurabile una situazione di interesse protetto a che gli atti, in cui detta funzione si manifesta, assumano o meno un determinato contenuto.

[22] Cfr. ex multis Cass. civ. Sez. Un. n. 14201 del 2008 e Cass. civ. sez. I n. 1072 del 2009.

[23] Per un approfondimento della problematica in discorso cfr. M. ARCARI, La responsabilità internazionale, in T. SCOVAZZI, op. cit., II, pp. 186 ss.

[24] Cfr. CIG. 3.02.2012 Germania / Italia, secondo la quale la Corte internazionale di giustizia è competente a giudicare della controversia tra Germania e Italia sull’immunità dalla giurisdizione in virtù dell’articolo 1 della Convenzione europea sulla soluzione pacifica delle controversie. Gli atti delle forze armate del Reich tedesco commessi in Italia nel periodo 1943-1945 sono atti iure imperii. Per tali atti la Germania gode dell’immunità dalla giurisdizione di fronte ai tribunali di uno Stato estero. I tribunali italiani, nel sottoporre a giurisdizione la Germania, hanno violato la regola sull’immunità giurisdizionale degli Stati. Tale regola ha natura procedurale e non viene meno quantunque i fatti delittuosi siano stati commessi nello Stato del foro e consistano altresì in una grave violazione del diritto internazionale umanitario ascrivibile, secondo l’Italia, alla violazione di una norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens). Né l’immunità viene meno nonostante non esistano rimedi giurisdizionali alternativi per le vittime. Pertanto l’Italia ha violato, mediante la condotta dei propri tribunali, la norma sull’immunità giurisdizionale degli Stati e deve prendere tutte le misure necessarie per far sì che le decisioni dei propri tribunali e quelle di altre autorità giudiziarie, che hanno negato l’immunità giurisdizionale della Germania, siano rese prive di effettività.

[25] Cfr. Corte cost. n. 238 del 2014, secondo la quale dubbio non v’è , infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988).