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Pubbl. Mar, 22 Giu 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Lo scudo per il personale sanitario impegnato nella lotta alla pandemia: brevi osservazioni in ordine alle recenti novità sul fronte del diritto penale dell'ennesima emergenza, tra dejà vu e previsioni inutili

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Andrea De Lia



Il contributo costituisce una “prima lettura” delle disposizioni recentemente introdotte dal legislatore al fine di escludere o limitare la responsabilità del personale sanitario impegnato nell’emergenza pandemica, “immunizzandolo” dal rischio penale, anche in relazione alla campagna vaccinale. La novella, tuttavia, presta il fianco a rilievi, soprattutto in quanto sembra doversi dubitare della sua effettiva portata innovativa rispetto al sistema, ad eccezione della previsione relativa all’impegno dei c.d. “specializzandi”.


ENG The paper constitutes a “first reading” of the provisions recently introduced in order to exclude or limit the liability of health personnel involved in the pandemic emergency, “immunizing” them from criminal risk, also in relation to the vaccination campaign. The novel, however, lends itself to remarks, especially about its real innovative effect, with the exception of the provision relating to the commitment of the so-called “trainees”.

Sommario: 1. Premesse. – 2. L’esimente per il personale sanitario impegnato nell’emergenza pandemica. – 3. La clausola di esclusione della responsabilità per i vaccinatori (e non solo?).  – 4. Conclusioni.

1. Premesse.

Con la l. 28 maggio 2021, n. 76 (in G.U.R.I. del 31 maggio 2021), in vigore dell’1 giugno 2021, è stato convertito, con modificazioni, il d.l. 1 aprile 2021, n. 44. Di particolare interesse per la nostra trattazione è, allora, l’art. 3 della novella che, in relazione alla “responsabilità penale da somministrazione del vaccino”, così recita: «per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457, della l. 30 dicembre 2020, n. 178, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione».

In sede di conversione del decreto, inoltre, è stato inserito un nuovo art. 3-bis, strutturato in due commi, che, sotto la rubrica “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19”, stabilisce: «1. Durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, e successive proroghe, i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale, commessi nell’esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza, sono punibili solo nei casi di colpa grave. 2. Ai fini della valutazione del grado della colpa, il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza».

Sicché il Governo (prima), ed il Parlamento (poi) hanno accolto le accorate istanze provenienti dalla classe medica che, alla luce dell’attivazione, presso diverse Procure sparse sul territorio nazionale, di alcuni procedimenti penali per fatti di morte, lesioni ed epidemia colposa riferiti ad ambiti nosocomiali, aveva invocato a gran voce l’introduzione di norme a tutela dei “camici bianchi”, in ragione delle molteplici e concorrenti difficoltà operative registratesi nel contesto dell’emergenza pandemica, e del rischio della diffusione di forme di medicina difensiva “negativa”[1]. Si è fatto riferimento, in proposito, a “scudi penali”, nel primo caso (quello disciplinato dall’art. 3) per gli operatori sanitari impegnati nella campagna vaccinale, e nel secondo (art. 3-bis) per la generalità di essi.

Le novità hanno fatto registrare un certo apprezzamento negli ambienti sanitari: «un grande passo in avanti, perché la limitazione della responsabilità penale ai soli casi di colpa grave non è più limitata alle vaccinazioni, ma riguarda tutta l’attività prestata durante lo stato di emergenza epidemiologica dovuta al Covid», ha commentato la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri; «accogliamo con favore questo segnale di civiltà della politica, che stavolta è riuscita ad essere dalla parte giusta, dalla parte di lavoratori che, nonostante gravi carenze gestionali e organizzative, sono riusciti a sostenere sulle loro spalle il SSN», è stato il commento da parte di un importante sindacato di categoria[2].

Una sorta di “immunità di classe”, dunque. Perlomeno ad una prima, frettolosa analisi. Difatti, come si rileverà da qui a breve, si deve fortemente dubitare della reale portata innovativa delle due disposizioni sopra citate, e, quindi, della loro utilità. Ma procediamo per gradi.

Volendosi tratteggiare in questa sede un breve affresco generale, si può osservare che le due disposizioni si riferiscono testualmente agli artt. 589 e 590 c.p., in tema, rispettivamente, di omicidio e lesioni colpose, anziché all’art. 590-sexies c.p. A tal ultimo riguardo, allora, occorre rimarcare che la scelta del legislatore verosimilmente è stata dettata dalla circostanza che il “cuore pulsante” della disposizione da ultimo citata è rappresentato dal comma 2, che prevede esclusivamente una causa di non punibilità, mentre il comma 1 opera un mero riferimento alle altre fattispecie incriminatrici sopra indicate.

Se è vero, come sembrerebbe emergere dai lavori preparatori, che le novità fossero destinate alla “copertura” per gli operatori sanitari, più corretto sarebbe stato, allora, il richiamo al predetto comma 1, mentre invece tale lapsus calami potrebbe rivelarsi, come si preciserà, non senza conseguenze in ordine alla responsabilità da vaccinazione. Difatti, occorre, sin d’ora, rilevare che soltanto nell’art. 3-bis vi è una limitazione esplicita dell’applicabilità della norma agli esercenti la professione sanitaria[3], mentre tale vincolo soggettivo non è previsto, almeno esplicitamente, nell’art. 3.

Quanto alla struttura delle disposizioni, si deve segnalare che mentre per gli interventi di vaccinazione l’autorizzazione alla messa in commercio del farmaco, a monte, ed il rispetto delle linee guida per la somministrazione, a valle, costituiscono causa di esenzione tout court dalla responsabilità penale, nel caso dell’art. 3-bis il legislatore ha inteso rendere non punibili i fatti di omicidio o lesioni colpose commessi per colpa lieve, riportando alla ribalta, dunque, un concetto che aveva destato più di una perplessità, teorica e applicativa, con il varo del c.d. “decreto Balduzzi” (art. 3 comma 1 d.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. l. 8 novembre 2012, n. 189).

Sotto l’aspetto applicativo-temporale, invece, l’art. 3 opera riferimento al Piano strategico nazionale, che è stato adottato con decreto del Ministero della Salute del 12 marzo 2021 (in G.U.R.I. n. 72 del 24 marzo 2021), tanto da determinare, almeno di primo acchito, il problema dell’estensione della norma alle attività vaccinali realizzate in antecedenza; l’art. 3-bis, di contro, si riferisce esplicitamente allo stato di emergenza epidemiologica del 31 gennaio 2020, con estensione fino al 30 luglio 2021, salve «successive proroghe». Tale ultima locuzione, dunque, nel costituire una clausola “aperta”, rispetto ad ulteriori, futuri provvedimenti amministrativi, genera a sua volta perplessità al cospetto del principio di legalità, essendo in effetti l’estensione della regula iuris potenzialmente determinata da scelte operate in sede governativa.

Quanto all’esimente per i vaccinatori, la stessa è destinata ad operare con la mera connessione con il piano vaccinale, mentre nel caso dell’art. 3-bis la clausola di esclusione della responsabilità è dipendente dalla corrispondenza cronologica con l’emergenza pandemica nonché da situazioni di disorganizzazione clinica correlate, con la conseguenza che, in sede pratica, occorrerà verificare, di volta in volta, l’impatto del fattore-pandemia sulla struttura sanitaria e, di riflesso, sull’operato del personale impegnato nell’attività di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione e di somministrazione dei trattamenti palliativi.

Il tutto ammesso e non concesso, ovviamente, che le disposizioni in disamina rivestano una effettiva utilità; talchè, alla luce delle premesse sopra sviluppate, con il presente contributo si intende velocemente esaminare le proiezioni di suddette novità normative sulla responsabilità sanitaria nel corso dell’emergenza pandemica, con rilievi che metteranno in evidenza alcuni profili di criticità delle scelte compiute dal legislatore.

 

2. L’esimente per il personale sanitario impegnato nell’emergenza pandemica.

Alcuni studiosi della materia, commentando l’art. 3-bis sopra citato, hanno da subito segnalato, in maniera arguta, che si sarebbe al cospetto di una norma inutile, in quanto espressiva di una soluzione già ricavabile dal sistema anteriforma, come interpretato dalla giurisprudenza[4].

Si tratta di rilievi che sembrano cogliere nel segno; occorre prendere le mosse, difatti, dal “diritto vivente”, che è segnato dalla sentenza “Mariotti” delle Sezioni Unite[5], intervenuta tanto sull’interpretazione del “decreto Balduzzi”, quanto sul nuovo art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge “Gelli-Bianco” (l. 8 marzo 2017, n. 24), elaborando il seguente “decalogo”:

  • il “decreto Balduzzi” avrebbe introdotto una clausola di esenzione generalizzata per gli esercenti la professione sanitaria, riferita alla “colpa lieve”, in favore dei soggetti che in qualche modo si fossero attenuti, nella vigenza del decreto stesso, alle norme cautelari indicate dal legislatore, o che, più a monte, avessero compiuto lievi errori nell’individuazione di quest’ultime;
  • l’art. 590-sexies, introdotto dalla legge “Gelli-Bianco” (che, nel contempo, ha abrogato l’art. 3 comma 1 del “decreto Balduzzi”), rappresenterebbe norma meno favorevole rispetto alla precedente, per via dell’eliminazione del riferimento esplicito alla “colpa lieve”;
  • la nuova disposizione regolerebbe in prospettiva esimente (causa di non punibilità) le condotte sostanzialmente conformi alle norme cautelari codificate in linee guida o norme di buona pratica sanitaria, che si rivelino, tuttavia, lievemente disallineate in executivis, rispetto alla necessità di adattamento della regola comportamentale-operativa alle peculiarità del caso specifico, secondo il paradigma offerto dall’art. 2236 c.c.

La sentenza è stata oggetto di plurimi commenti da parte della dottrina, sui quali non è particolarmente utile soffermarsi in questa sede[6]. Fatto è che proprio attraverso la lettura delle Sezioni Unite si deve giungere alla conclusione che assai scarsi risultano i contenuti innovativi della nuova disposizione, qui in disamina, perché, a ben considerare, la stessa si iscrive pienamente nell’area delle ipotesi già esentate da responsabilità, anche in base al citato art. 2236 c.c. che, seppur sotto la veste di un non meglio definito “criterio ermeneutico”, la giurisprudenza più recente sembra voler giustamente valorizzare (poiché sarebbe irragionevole, e contrario all’idea della extrema ratio, che il medesimo fatto, nel contempo, risulti privo di conseguenze risarcitorie sul piano civile e punibile in sede penale).

Vale la pena richiamare, ad esempio, alcuni passaggi della sentenza Cass., Sez. IV, 6 giugno 2018, n. 29318: «in proposito va ricordato che, da tempo, questa Corte regolatrice ha riconosciuto che il principio civilistico di cui all’art. 2236 c.c., che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto. Ne consegue che non sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per parametrare l’imputazione soggettiva» al canone della colpa lieve «ove si trattasse di casi non difficili e fronteggiabili con interventi conformi agli standard. In tal modo, da un lato, si è recuperata la differenziazione tra la valutazione dell’imperizia (con riguardo a situazioni di peculiare difficoltà tecnico-operativa) e quella relativa ai restanti casi “non difficili”, laddove essi fossero fronteggiabili con criteri conformi agli standard, ossia alle normali prassi sanitarie raccomandate per quello specifico intervento».

Ora, che il giudice debba tener conto, come dispone l’art. 3-bis della novella, della «limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare» rappresenta una palese ovvietà, ça va sans dire. Non potrebbe essere altrimenti. Talchè, attraverso uno sguardo d’insieme, la norma si rivela assolutamente priva di una qualche portata innovativa rispetto al sistema: l’art. 3-bis evoca situazioni di fatto e difficoltà che giammai avrebbero potuto e potrebbero condurre ad un giudizio di disvalore per fatti accaduti a terzi.  

Per altro verso, e ferme le difficoltà di ascrizione dei casi di morte o lesioni occorsi ai pazienti infetti (poiché a tutt’oggi non esiste certezza del risultato salvifico delle cure disponibili), perlomeno al cospetto del criterio della “probabilità confinante con la certezza” espresso dalla sentenza “Franzese”[7], la novella non assume alcuna utilità pratica anche rispetto alla responsabilità dei soggetti con funzioni di vertice, a carattere amministrativo, nell’organigramma delle strutture sanitarie, pubbliche e private, rispetto ad eventi infausti verificatisi (soprattutto rispetto a pazienti in cura per patologie diverse dall’infezione da nuovo Coronavirus) per deficit organizzativi agli stessi imputabili.

 Difatti, la locuzione “esercizio di una professione sanitaria” è chiaramente indicativa di soggetti che operino nel contesto dell’attività medica (anche in veste apicale, come il dirigente sanitario, ex primario); ciò nondimeno, la posizione del personale amministrativo medesimo dovrà essere vagliata (per evitare che il processo penale diventi lo scenario di una vera e propria “caccia alle streghe”[8]) tenendo in particolare considerazione le difficoltà operative registratesi soprattutto durante gli ormai tristemente noti “picchi pandemici”, sfruttandosi dunque, ancora una volta, il paradigma dell’art. 2236 c.c. che, invero, richiama senza distinzioni le attività di natura professionale[9].

A conclusioni diverse, invece, in ordine alla portata innovativa dell’art. 3-bis, sembrerebbe potersi pervenire per l’ultimo inciso della disposizione, ove si stabilisce che nel procedimento penale si debba tener conto «del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza». In questo caso, le tradizionali incertezze recate dal riferimento giurisprudenziale all’agente modello, come prototipo di persona particolarmente capace ed avveduta che esercita una determinata attività umana, sembrano allora dover lasciare il campo, per certi versi, ope legis, all’homo eiusdem, e cioè al soggetto “normo-dotato” e mediamente prudente e diligente che rientra in un determinato cluster[10].

Si tratta, evidentemente, dei giovani operatori sanitari chiamati (in base all’art. 1 comma 1 d.l. 9 marzo 2020, n. 14, non convertito, e all’art. 2-bis d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. l. 24 aprile 2020, n. 27) a fornire un supporto nel corso dell’emergenza pandemica, seppur sprovvisti di esperienza e di laurea specialistica, per i quali è stata sensibilmente ridotta l’ipotesi di ascrizione di colpe, per eventi infausti occorsi ai pazienti, qualificabili come “in assunzione”, attraverso una scelta del tutto condivisibile e che appare immune da rilievi sotto il profilo della legittimità costituzionale e della ragionevolezza, rappresentando, pertanto, essa una opzione di politica criminale discrezionale e incensurabile.

In sostanza, nella valutazione della responsabilità penale di tali soggetti non potrà farsi riferimento, in base alla disposizione in disamina, all’operatore sanitario “ordinario” impegnato nella medesima funzione (tanto meno a quello “modello”) ma, a ben considerare, stante la littera legis, neppure al “giovane-modello”, e cioè al canone del miglior laureato o del miglior specializzando, poiché a tale soluzione osta, evidentemente, non solo la ratio della novella (che è nel senso di creare un qualche minimo salvacondotto, giustificato dall’emergenza e dalla necessità di non mortificare l’altruismo dimostrato sul campo dagli operatori sanitari nel corso della pandemia), ma anche – a tacere di ragioni di equità – la varietà dei profili soggettivi di riferimento (individui in possesso di laurea e dell’abilitazione, specializzandi all’ultimo e al penultimo anno), che impediscono la definizione di un “prototipo”.

Inspiegabile, e irragionevole, invece, si rivela la mancata inclusione del personale medico ed infermieristico in quiescenza (pure chiamato “alle armi” in forza delle disposizioni dianzi citate): anche qui vi è il rischio che il riferimento giurisprudenziale a standard particolarmente elevati, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, caratteristici del concetto di “agente modello”, vengano ad essere fruiti per scrutinare la posizione di soggetti che, conclusa l’attività, potrebbero aver perduto la capacità, lo “smalto” e l’aggiornamento caratteristici degli operatori in servizio. Insomma, l’atto altruistico, in questo caso, avrebbe richiesto una presa di posizione da parte del legislatore e, correlativamente, si soggiunge, l’omissione potrebbe esporsi a censura sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., trattandosi, per certi versi, di situazione analoga a quella dei “giovani sanitari”, disciplinata però in maniera difforme.

 

3. La clausola di esclusione della responsabilità per i vaccinatori (e non solo?).

L’art. 3 d.l. n. 44/2001 prevede, come già si è accennato, l’esclusione della responsabilità penale per evento avverso al vaccino COVID-19 quando l’uso del farmaco sia risultato conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari ministeriali correlate alla campagna vaccinale, con lo scopo, dunque, di “immunizzare” il personale sanitario.

Forte il clamore originato dalle morti occorse a più soggetti durante la campagna vaccinale in atto, con conseguente allarme per gli operatori sanitari che, a più voci, avevano invocato l’introduzione di uno “scudo”.

Vi è da rilevare subito, però, che anche in questo caso, guardando al personale sanitario, la responsabilità per fatti di omicidio o lesioni colpose in caso di rispondenza dell’attività alle regole cautelari ricavabili dall’autorizzazione alla commercializzazione e alle circolari del Ministero si rivelerebbe una sorta di culpa sine culpa[11]. In altri termini, si sarebbe potuto effettivamente nutrire dubbio, prima della novella, sul fatto che in simili circostanze alcun addebito avrebbe potuto essere mosso ai “vaccinatori”, ribaltando su questi eventuali “vizi del prodotto” e/o degli studi scientifici condotti ai fini della validazione e dell’individuazione delle controindicazioni, che a tutt’oggi rappresentano una sorta di work in progress?

Nel caso di osservanza delle procedure relative alla conservazione, alla posologia, all’anamnesi finalizzata ad individuare caratteristiche fisio-patologiche indicate “a monte” come fattori di “incompatibilità” o di rischi elevati per la salute e alle modalità di inoculazione, quale colpa potrebbe mai essere ascritta (anche in difetto della novella) agli operatori sanitari?[12]

Per altri versi, come è ben risaputo, mentre l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento lesivo deve essere verificato ex post, fruendo delle leggi scientifiche di copertura disponibili al momento dell’analisi postuma, l’elemento psichico (in questo caso la colpa) deve essere approcciato in prospettiva ex ante, ponendosi l’interprete “nei panni” del soggetto al momento in cui questi ha realizzato la condotta, attiva o omissiva, e quindi eleggendo a parametro le conoscenze scientifiche e le tecniche disponibili illo tempore. Anche di recente, in argomento, la Cassazione ha ribadito: «l’accertamento del nesso eziologico tra la condotta e l’evento deve essere condotto su base oggettiva, attraverso una valutazione ex post, utilizzando il procedimento di eliminazione mentale e il ragionamento per “controfattuale”, laddove invece l’elemento soggettivo deve essere valutato in prospettiva ex ante, in base cioè alle conoscenze e alla situazione contingente in cui si è venuto a trovare il soggetto»[13].

Sicchè, in definitiva, tali paradigmi sono ostativi alla circostanza che possano essere valorizzate le acquisizioni sopravvenute in ordine alle idiosincrasie ai vari, singoli vaccini rispetto alle inoculazioni che avessero determinato danni alla salute dei pazienti, che si appaleserebbero in totale disallineamento rispetto al principio di colpevolezza.

Diverso è, ovviamente, il caso in cui siano state violate le regole cautelari provenienti dalle competenti Autorità, vigenti al momento del fatto, perché in questa ipotesi il personale sanitario verserebbe in colpa specifica, non potendo affatto invocare alcuna esimente, anche perché la procedura di somministrazione del farmaco non presenta neppure quelle difficoltà tecnico-operative che potrebbero in astratto consentire di invocare l’applicabilità del già citato art. 2236 c.c.

Assai complessa è, invece, la valutazione delle ipotesi in cui il vaccino sia stato somministrato senza un’adeguata informazione al paziente.

Non ci si riferisce, in particolare, al caso in cui il difetto di informazione abbia inciso sulla corretta anamnesi, e, quindi, sulla ricostruzione del quadro clinico del paziente medesimo, incidendo sulla raccolta di quei dati che avrebbero dovuto indurre il personale sanitario vaccinatore ad astenersi dall’inoculazione del farmaco stesso, poichè in tali ipotesi la responsabilità sarebbe indiscutibile; il “nodo gordiano” è rappresentato dalle situazioni nelle quali il difetto di informazione da parte del personale sanitario, con effetti a cascata sul consenso espresso dal paziente, si innesti su situazioni patologiche che non siano considerate ostative alla somministrazione, secondo i parametri dettati dal Ministero della Salute o da altri organi competenti in materia, sussistendo soltanto un rischio per la salute superiore agli standard.

Quid iuris, allora, nel caso in cui il paziente, scarsamente informato, abbia assunto inconsapevolmente un rischio per la propria salute prestando il consenso per un vaccino poi rivelatosi letale o, comunque, dannoso, tenendo conto che in questo contesto non è neppure invocabile da parte del personale sanitario lo stato di necessità, ex art. 54 c.p.? La questione evoca, evidentemente, il tema del trattamento sanitario c.d. “arbitrario” che, nel tempo, ha generato una giurisprudenza particolarmente ondivaga, provocando la necessità dell’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza “Giulini” (Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2008, n. 2437), hanno tentato di “dipanare la matassa”.

Se, allora, la suprema Corte, in quel precedente, ha ben chiarito che la finalità terapeutica escluda ex se la configurabilità del dolo dei delitti si lesioni o omicidio, attraverso considerazioni certamente estensibili alla finalità preventiva caratteristica della vaccinazione, nel contempo ha affermato che l’esecuzione di un intervento sanitario sprovvisto di consenso informato non possa costituire – al di fuori di casi limite – violenza privata ex art. 610 c.p. poiché, ad avviso della Cassazione, nel trattamento arbitrario vi sarebbe “coincidenza” tra la violenza (impropria) esercitata ed effetto costrittivo (tolleranza), contrariamente a quanto sarebbe desumibile dal tipo legale, che dovrebbe regolare condotte ove i due “elementi” siano distinguibili, l’uno (la violenza) come causa dell’altro (la costrizione, per l’appunto).

Saldando tale principio con l’ulteriore statuizione resa dalle Sezioni Unite, secondo la quale, in caso di risultato infausto del trattamento sanitario, il personale medico risponderebbe a titolo di colpa per i fatti di lesioni o omicidio, si dovrebbe pertanto giungere, seguendo questa linea, a ritenere configurabile, per tali ipotesi di vaccinazione “disinformata”, il delitto di omicidio o lesioni, ma ad escludere l’ipotesi del delitto di cui all’art. 586 c.p.

La soluzione offerta dalla Corte, quanto al primo aspetto, e cioè in ordine alla configurabilità del delitto di cui all’art. 610 c.p., allora, appare condivisibile nel risultato ma non nel percorso logico: la causa ostativa all’addebito per violenza privata è rappresentata dalla circostanza che il concetto di “violenza” evoca l’esercizio di forza fisica per rimuovere una resistenza personale, che nel caso di trattamento sanitario arbitrario, eseguito meramente senza consenso, non sussiste affatto.

Quanto al secondo punto, e cioè alla configurabilità dei delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p., invece, si deve osservare che l’errore in cui è incorsa la Corte in quel precedente è nell’elezione delle norme che impongono al personale sanitario l’acquisizione preventiva di un consenso valido a regole cautelari nella proiezione della tutela della salute del paziente. Con ciò si vuole, allora, rilevare che tale conclusione è ammissibile soltanto nel caso in cui il difetto di informazione abbia provocato un effetto “rebound”, nel senso che abbia inficiato una corretta anamnesi che, se ben condotta, avrebbe rivelato cause ostative al trattamento poi effettivamente realizzato.

Assolutamente diversa è la situazione nella quale, invece, l’intervento sanitario sia stato comunque eseguito in conformità con le leges artis (non sussistendo una causa impeditiva, ma soltanto una situazione di rischio per la salute del singolo paziente disinformato): in caso di esito infausto, la condotta arbitraria non potrebbe essere punita a titolo di omicidio o lesioni colpose, perché le norme regolanti il consenso non si rivelano, in questa prospettiva, strumentali ad evitare il danno alla salute, bensì alla libera determinazione del paziente medesimo, alla scelta di cura. Ecco, allora, che si appalesa nuovamente il vuoto normativo, già stigmatizzato dalle Sezioni Unite proprio con la sentenza “Giulini”[14], e che ha alimentato in letteratura ampie riflessioni in ordine al concetto di “scriminante incompleta” e di consenso “presunto”[15].

In argomento, si può rilevare che la giurisprudenza, in sede civile, ha stabilito, a più riprese, che il diritto di ottenere un risarcimento dei danni, patrimoniali o non patrimoniali, nel caso di esito infausto del trattamento arbitrario non scaturisce, ipso facto, dal difetto del consenso, dovendo il giudice impiegare una sorta di ragionamento controfattuale, stabilendo cioè, sulla base di prove che incombono sull’attore, se il paziente, laddove avesse ricevuto un’adeguata informazione, avrebbe rifiutato o meno di sottoporsi all’intervento sanitario medesimo, poiché solo in tale ultimo caso questi potrebbe legittimamente avanzare pretese[16].

Si tratta, a ben considerare, di elementi che militano nella direzione dell’irrilevanza penale di trattamenti sanitari sine consensu, e del fatto che gli stessi possano, al più, risultare rilevanti nelle competenti sedi civilistiche.

Volgendo, però, nuovamente, l’obiettivo dell’indagine all’art. 3, sembra rappresentare un arduo ed inutile sforzo intellettivo l’individuazione della natura della previsione, in termini di scusante o di causa di non punibilità, poiché (indipendentemente dagli apprezzamenti espressi da una parte della dottrina rispetto alla scelta di politica criminale attuata)[17] – occorre ribadirlo – la disposizione individua situazioni di fatto in cui sarebbe inipotizzabile una responsabilità colposa, difettandone i principali elementi “costitutivi”, sotto il profilo della c.d. “misura oggettiva” (violazione della regola cautelare) e “soggettiva” (prevedibilità ed evitabilità).

Fatto è, tuttavia, che sebbene dai lavori preparatori emerga che la novella sia stata “pensata” per gli operatori sanitari-vaccinatori, il prodotto dell’intervento normativo non è esplicitamente riferito, in questo caso, a questi soggetti, con la conseguenza che ci si dovrebbe interrogare sull’estensibilità della norma a soggetti responsabili delle case farmaceutiche e agli organi amministrativi che abbiano validato i vaccini autorizzandone la somministrazione al pubblico, nel caso di violazione di regole cautelari generiche o specifiche, nella sperimentazione, nella comunicazione dei dati della ricerca, nei controlli, e così via.

In tale ottica, allora, occorre considerare che generalmente lo sviluppo, la sperimentazione e l’autorizzazione di un vaccino rappresenta un processo assai lungo, che si compie anche in molti anni, mentre invece, nel caso di specie, gli studi sui vaccini anti-Covid sono principiati nella primavera del 2020, fin quando si è giunti all’approvazione da parte dell’EMA e alle successive autorizzazioni dell’AIFA per i vaccini oggi in uso (21 dicembre – 22 dicembre 2020, per il farmaco Pfizer; 6 gennaio – 7 gennaio 2021, per Moderna; per Vaxzevria, prodotto da AstraZeneca in collaborazione con l’Università di Oxford, 29 gennaio – 30 gennaio 2021; 11 marzo – 12 marzo, infine, per il vaccino Janssen, del gruppo Johnson & Johnson).

È ben vero che al pronto impiego dei vaccini hanno contribuito le scoperte scientifiche pregresse su farmaci antivirali, l’enorme impiego di risorse, umane ed economiche, pubbliche e soprattutto private, che hanno garantito l’accelerazione dei tempi, ma è altrettanto evidente che gli studi e gli approfondimenti scientifici siano proseguiti a seguito della distribuzione del vaccino, secondo la logica del rolling view, tanto che la popolazione, per certi versi, si è prestata a svolgere il ruolo di “cavia”.

Tuttavia, anche in questa prospettiva, è lecito dubitare si tratti, tanto per i produttori dei farmaci, quanto per gli amministratori pubblici deputati a controlli ed autorizzazioni, di una disposizione di qualche utilità pratica: partendo dalle finalità e dall’effetto salvifico del vaccino, che ha certamente consentito di limitare la diffusione del virus e di ridurre gli effetti della pandemia rispetto alla salute collettiva (ma non solo, se si guarda alla graduale ripresa delle attività economiche e sociali), non sembrano sussistere particolari problemi nel rintracciare nel sistema degli “antidoti” rispetto a soluzioni ingiuste e colpevoliste da parte della magistratura.

Ci si riferisce, ancora una volta, alla struttura dell’illecito colposo, e alla regola promanante dall’art. 2236 c.c.

Orbene, è chiaro che l’urgenza sanitaria di individuare una cura idonea a fronteggiare la pandemia, con tutti gli effetti da essa promananti, possa rappresentare un fattore generatore di eventuali errori nella fase di studio, di sperimentazione e di autorizzazione dei farmaci, perlomeno per alcune categorie di pazienti; ciò non di meno, a mancare è l’evitabilità dell’evento lesivo. In altri termini, è chiaro che laddove produttori e organi amministrativi avessero avuto a disposizione un tempo più ampio per realizzare le attività di competenza, il rischio per la salute umana, in termini di effetti collaterali dei vaccini, sarebbe stato, verosimilmente, più adeguatamente ponderato e minimizzato. Ciò, tuttavia, al prezzo della salute, o della vita di un numero assai considerevole di individui, che sarebbero stati esposti, o maggiormente esposti, al virus ed ai suoi effetti nelle more di un lungo processo di validazione.

Insomma, in siffatto contesto, l’interprete non si dovrebbe eccessivamente focalizzare sulla sussistenza di violazioni di regole cautelari scritte (soprattutto in ordine alle procedure da seguire nello studio e nella sperimentazione dei vaccini), o generiche in termini di perizia, diligenza o prudenza, e neppure sulla prevedibilità (atteso che è ben possibile che gli attori del sistema abbiano potuto prevedere il pericolo derivante da procedure “accelerate”), quanto piuttosto sull’evitabilità, e quindi sull’esigibilità di un comportamento diverso[18].

La questione evoca, chiaramente, un bilanciamento tra gli interessi in gioco: quello a immettere nel circuito sanitario dei prodotti antivirali ampiamente testati e a rischio contenuto per i pazienti versus il contenimento immediato dell’epidemia, affrontando il rischio di effetti collaterali per un numero, comunque abbastanza contenuto, di individui. Incolumità individuale al cospetto di incolumità pubblica, per certi versi, con la conseguenza che, a ben considerare, ponendo a paragone i valori, si dovrebbe certamente giungere alla conclusione che, comunque, i risultati favorevoli derivanti dalla procedura accelerata si siano già ad oggi rivelati maggiori di quelli, in ipotesi, sfavorevoli[19].

Sicchè, posto sullo sfondo questo bilanciamento valoriale, a difettare è la possibilità di muovere un rimprovero sotto il profilo soggettivo, in termini di colpa, di evitabilità di eventi infausti eventualmente dipendenti dalle scarse dotazioni scientifiche al momento dell’introduzione dei vaccini, e quindi l’esigibilità, con la conseguenza, ulteriore, che l’applicazione della sanzione criminale giammai potrebbe conseguire in questi casi il suo scopo principale, che è quello rieducativo, nonché quello di prevenzione.

 

4. Conclusioni.

Gli operatori sanitari, negli ultimi anni, hanno fatto appello, in più occasioni, alla politica al fine di ottenere delle previsioni “di favore”, in relazione ad attività “a rischio consentito”. In questa stessa ottica si inserisce una delle criticità sollevate da alcune associazioni di categoria, rappresentata dalla mancata inclusione nell’elenco dei reati per i quali è esclusa la responsabilità penale, a mente dei citati artt. 3 e 3-bis, di fattispecie incriminatrici ulteriori, in primis l’epidemia[20]. Per quanto riguarda tale aspetto, occorre però fortemente dubitare – in radice – che, considerate le difficoltà probatorie relative all’esatta individuazione della fonte delle infezioni nosocomiali (trattandosi di un virus “ubiquitario”, ad ampia diffusività, e tenendo conto della contagiosità dei c.d. “portatori asintomatici”), si possa mai giungere ad ascrivere questo delitto al personale sanitario, o ai responsabili delle strutture[21].

Trattandosi, inoltre, di una fattispecie che presuppone la c.d. “infezione primaria”, e quindi fatti di lesioni che abbiano interessato una “popolazione” (cioè un gruppo ristretto di soggetti), per poi propagarsi, vi è che non sembra azzardato sostenere che al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 3-bis (ammesso e non concesso, per quanto rilevato, che tale disposizione rivesta una portata innovativa) dovrebbe ritenersi non configurabile neppure il delitto di epidemia colposa, di cui all’art. 452 c.p. (in combinato disposto con l’art. 438 c.p.).

Per il resto, fermo che il contenuto dell’art. 3 (al netto della questione relativa all’estensione soggettiva) sembra pienamente iscrivibile nell’alveo dell’art. 3-bis (secondo la logica del rapporto tra “il meno ed il più”), non appare condivisibile il riferimento, da parte dei media, al concetto “di scudo penale”, evocativo in qualche modo di un privilegio a tutela di una certa “casta”, finalizzato a “coprire” soggetti responsabili dinnanzi alla “foga” delle iniziative della magistratura, alimentata da onde di malcontento popolare. Si tratta, piuttosto, di norme (con esclusione del caso dei “giovani professionisti”) dal contenuto simbolico-espressivo, senza alcuna reale portata pratica, atteso che il sistema già prevedeva le “contromisure” rispetto a soluzioni inique.

Ciò è in qualche modo dimostrato, peraltro, dalla lettura delle notizie riportate dai quotidiani, che evidenziano a più riprese come i vari procedimenti penali attivati da molte Procure, specie in relazione alle morti nelle RSA, che avevano soprattutto all’inizio della pandemia occupato intere pagine di giornali, nazionali e locali, stiano generalmente giungendo all’epilogo dell’archiviazione, attesa la difficoltà di dimostrare, innanzitutto, il nesso tra eventuali violazioni di regole anti-contagio ed i decessi.

In conclusione, sinora il sistema sembra aver “retto” alle pulsioni derivanti dalla paura e dall’incertezza rispetto ad un morbo che ha sconvolto l’esistenza dell’intera popolazione mondiale e ha posto l’uomo dinnanzi all’ignoto evolvere della pandemia, alimentando facili proclami colpevolisti. C’è ora da chiedersi, per il futuro: “andrà tutto bene”?

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Su questo concetto vd. Manna, Medicina difensiva e il diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014, passim.

[2] Le dichiarazioni sono riportate da un articolo pubblicato su www.panoramasanita.it.

[3] Rientrano in tale definizione una vasta gamma di figure: medici chirurghi, odontoiatri, farmacisti, psicologi, biologi, chimici, fisici, infermieri professionali, ostetrici, varie categorie di tecnici, assistenti sanitari, tecnici della prevenzione nell’ambiente dei luoghi di lavoro, etc. (vd. il catalogo con le fonti normative disponibile sul sito web del Ministero della Salute).

[4] Piras, Lo scudo penale Covid-19: prevista la punibilità solo per colpa grave per i fatti commessi dai professionisti sanitari durante l’emergenza epidemica, 1 giugno 2021, in www.sistemapenale.it. Sicchè il legislatore ha fondato la previsione sulla colpa lieve, invece di escludere in radice la responsabilità, ricorrendo ad una sorta di “clausola compromissoria”, per evitare di generare un privilegio che si sarebbe rilevato altrimenti odioso e di assai dubbia tenuta costituzionale. Su questo argomento vd. anche Gargani, La gestione dell’emergenza Covid-19: il “rischio penale” in ambito sanitario, in Dir. Pen. Proc., 2020, 887 ss.

[5] Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2017-22 febbraio 2018, n. 8770.

[6] Per una ricostruzione degli orientamenti dottrinali, sia consentito il rinvio a De Lia, Il rapporto di tensione tra intervento penale e medicina, Pisa, 2020, passim.

[7] Cass., Sez. Un., 11 settembre 2002, n. 30328, sulla quale vd., nella sterminata letteratura, Longobardo, Sui rapporti tra causalità ed imputazione obiettiva, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2008, 649 ss.

[8] Vd. su questo argomento le riflessioni di Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, 26 aprile 2020, in www.sistemapenale.it.

[9] Vd. Cass., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, secondo la quale «l’art. 2236 c.c. (rubricato “responsabilità del prestatore d’opera”), sebbene non direttamente esportabile nel diritto penale, è espressione del principio di razionalità: situazioni tecnico scientifiche nuove, complesse o influenzate e rese più difficoltose dall’urgenza implicano un diverso e più favorevole metro di valutazione. Tale principio, che assegna rilevanza solo alla colpa grave, può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà».

[10] Sul tema del parametro dell’agente modello e dell’homo eiusdem vd. la ricostruzione di F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente-modello ai fini dell’accertamento processuale della colpa, 13 marzo 2021, in www.penalecontemporaneo.it. In giurisprudenza, invece, generalmente, “agente modello” ed “homo eiusdem” sono considerate formule sinonimiche ed indicative di standard particolarmente elevati: vd. Cass., Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 12478: «il livello di diligenza esigibile va accertato non con riferimento all’agente concreto, o all’uomo più esperto o all’uomo normale, ma con riferimento al c.d. “agente modello” (homo eiusdem professionis et condicionis) e quindi ad un agente ideale coscienzioso e avveduto, in grado di svolgere al meglio i compiti assunti evitando il verificarsi di danni prevedibili e prevenibili» (il corsivo è nostro).

[11] Su questo ossimoro vd. le puntuali considerazioni di Risicato, La metamorfosi della colpa medica nell’era della pandemia, 25 maggio 2020, in www.discrimen.it.

[12] In tal senso anche Piras, La non punibilità per gli eventi dannosi da vaccino anti Covid-19, 23 aprile 2021, in www.sistemapenale.it; Penco, “Norma-scudo” o “norma-placebo”? Brevi osservazioni in tema di (ir)responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, 13 aprile 2021, loc. ult. cit.

[13] Cass., Sez. IV, 3 febbraio 2021, n. 31433.

[14] Sul tema, in dottrina, vd. anche, in precedenza, le riflessioni di Manna, voce Trattamento medico-chirurgico, in Enc. Dir., vol. XLIV, Milano, 1992, spec. 1291 ss.

[15] Su questi temi vd. Schiaffo, Le situazioni “quasi scriminanti” nella sistematica teleologica del reato. Contributo ad uno studio sulla definizione di struttura e limiti della giustificazione, Napoli, 1998; Diamanti, Scriminanti incomplete e giudizi controfattuali, Torino, 2019. In precedenza vd. le ampie riflessioni di F. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, passim.

[16] Vd. ad esempio Cass. Civ., Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985. Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali vd. De Lia, Il rapporto di tensione tra intervento penale e medicina, op. cit., 365 ss.

[17] Vd. Cupelli, Gestione dell'emergenza pandemica e rischio penale: una ragionevole soluzione di compromesso (d.l. 44/2021), 1 giugno 2021, in www.sistemapenale.it.

[18] Sul concetto di inesigibilità, tra “immanenza” e “trascendenza” vd. Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990; Id., voce Inesigibilità, in Dig. Disc. Pen., X aggiornamento, Torino, 2018, 362 ss; Donini, Prassi e cultura dell’illecito colposo, 13 maggio 2019, in www.penalecontemporaneo.it.

[19] Da informazioni riportate sul sito www.quotidianosanità.it in data 10 maggio 2021 sarebbero al più 3 i casi di decessi correlabili alla somministrazione del vaccino. Vd. anche il quarto Rapporto sulla Sorveglianza dei vaccini COVID-19 al 26 aprile 2021, consultabile sul sito web dell’AIFA, dal quale emergerebbe anche l’esiguo numero dei casi potenzialmente collegati alla vaccinazione con postumi invalidanti.

[20] Vd. sul tema anche Furia, Lo scudo penale alla prova della responsabilità da inoculazione del vaccino anti SARS-CoV-2, 29 aprile 2021, in www.archiviopenale.it.

[21] Sul tema sia consentito il rinvio a De Lia, Attività sanitaria e rischio penale ai tempi dell’emergenza pandemica: molto rumore per nulla?, 27 ottobre 2020, in Cammino Diritto.