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Pubbl. Mar, 20 Lug 2021

Per la Cassazione si configura il concorso formale tra peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione

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Lucrezia Trulli



La sesta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza in commento, n. 14402 del 2021, ha preliminarmente analizzato la portata del divieto di bis in idem e la dimensione esclusivamente processuale in cui lo stesso risulta immerso. In seguito ha posto il noto principio in relazione al concorso formale di reati, il quale si verifica, alla luce della diversità di struttura e offensività, tra il reato di peculato e quello di bancarotta fraudolenta.


ENG Through the sentence in analysis, n. 14402/2021, the Court of Cassation has analyzed the principle of ”ne bis in idem” and the dimension in which it´s immersed. Then, the Court has analyzed the relation between this principle and the formal concurrence of crimes. In particular between the crime of embezzlement and that of fraudulent bankruptcy, due to the differente structure and offensiveness among themselves.

Sommario: 1. Il caso; 2. Analisi della portata del divieto di bis in idem e il suo rapporto con il concorso formale di reati; 3. I delitti di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione in concorso formale; 4. Conclusione.

1. Il caso

Alla base del caso analizzato dalla sesta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 14402, depositata il 16 aprile 2021, vi è la condanna in secondo grado per i reati di peculato, bancarotta fraudolenta per distrazione, autoriciclaggio e bancarotta impropria, in relazione all’art. 2621 c.c., in capo ad un soggetto al quale veniva contestato, nella qualità di incaricato di pubblico servizio ovvero in quanto amministratore unico di una s.r.l., di essersi appropriato di una rilevante quantità di denaro. 

Lo stesso, infatti, avendo per ragioni del suo incarico la disponibilità di ingenti somme di denaro, provenienti dai ricavi gestionali della società, si appropriava di queste attraverso l’emissione, a sé stesso, di numerosi assegni bancari. La suddetta condotta causava un grave dissesto economico per la stessa società, tale da sfociare nella sentenza dichiarativa di fallimento. Per ultimo all’imputato veniva ad essere contestato il reimpiego di parte del denaro indebitamente sottratto, ovvero il delitto di autoriciclaggio, punibile ai sensi dell’art. 648 ter.1 c.p.

Avverso la suddetta condanna, confermata dalla Corte di Appello di Venezia, proponeva ricorso per Cassazione il difensore, il quale lamentava in primis la violazione del bis in idem tra i reati di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione, dal momento che, alla luce dei suoi elementi materiali di condotta - ovvero il nesso causale e l’evento - il fatto storico veniva ad essere ritenuto lo stesso in entrambi i reati. 

In secondo luogo, lamentava la condanna per il reato di autoriciclaggio poiché le somme indicate nell’imputazione sarebbero state destinate al pagamento del corrispettivo delle opere di ristrutturazione dell’abitazione principale dell’imputato e, dunque, per un bene ad uso esclusivamente personale, escluso dall’ambito della punibilità della norma, la quale chiaramente precisa  che “non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale[1]”.
La difesa, pertanto, riteneva tali condotte non idonee ad ostacolare concretamente l’identificazione del denaro, non integrando le stesse quella capacità dissimulatoria e di occultamento richiesta dalla norma.

2. Analisi della portata del divieto di bis in idem e il suo rapporto con il concorso formale di reati

La ragione sottesa all’infondatezza del primo motivo impone l’analisi del principio “ne bis in idem”.
Si tratta di un brocardo latino che nel suo significato letterale “non due volte per la stessa cosa” esprime il divieto di procedere penalmente nei confronti della stessa persona e per il “medesimo fatto” sul quale si è formato il giudicato. Tale principio è espresso dall’art. 649 c.p.p., rubricato “Divieto di un secondo giudizio”, che lascia trasparire la dimensione esclusivamente processuale in cui si sviluppa il suddetto divieto[2].  

Analogamente al ne bis in idem processuale, per effetto del principio del ne bis in idem sostanziale, solo una norma dovrebbe trovare applicazione dinnanzi medesimo fatto, laddove non operino il criterio di specialità, cronologico o gerarchico e in mancanza di clausole di riserva. Si intende, precisamente, la norma da cui derivi il trattamento più severo, quale indice del maggior disvalore penale, ovvero in caso di identica sanzione la norma che meglio si adatti al caso concreto[3].

Partendo da un’accezione del “fatto” di reato in senso storico-naturalistico a rilevare è il mero accadimento materiale, "depurato dal giogo dell’inquadramento giuridico[4]".
Ai fini della preclusione, connessa al principio ne bis in idem, l’identità del fatto ex art 649 c.p.p., dunque, sarebbe configurabile in presenza di una corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi, ovvero condotta, evento e nesso causale, con riguardo poi alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. 

A questo punto occorre analizzare l’operatività del principio in presenza di un concorso formale di reati, il quale si verifica quando un soggetto con una sola azione violi “diverse disposizioni di legge” ai sensi dell’art. 81, co.1, c.p.
In tal senso, il rinnovato esercizio dell’azione penale è consentito in presenza di un concorso formale, ovvero di un medesimo fatto sul piano empirico che coincida, tuttavia, con la violazione di distinte norme incriminatrici, in modo tale da genere una pluralità di illeciti. 
Nel caso di specie non si tratta di un nuovo esercizio dell’azione penale in ordine allo stesso fatto già giudicato, bensì, di un processo oggettivamente cumulativo in cui all’imputato vengono ad essere contestati più reati in concorso formale tra loro. Ciò non viola la garanzia individuale espressa dal divieto di bis in idem che, sviluppandosi in una dimensione esclusivamente processuale, non preclude il simultaneus processus per distinti reati commessi con un’unica azione. 

Nel caso in esame, esclusa la violazione del bis in idem, ciò che resta da verificare è la presenza di un concorso formale tra il reato di peculato e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, oppure la presenza di un mero concorso apparente di norme[5], risolvibile alla luce del criterio di specialità ex art. 15 c.p.[6]
Occorre in tal senso analizzare le norme incriminatrici di riferimento così da cogliere eventuali profili di specialità tra le stesse. 

3. I delitti di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione in concorso formale

Il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare è disciplinato all’art. 216 della Legge Fallimentare, il quale prevede il perfezionamento della condotta penalmente rilevante nel momento in cui l’agente procuri il depauperamento dell’impresa, destinando le risorse della stessa ad impieghi estranei alla sua attività. 

La dottrina prevalente attribuisce alla dichiarazione di fallimento natura di condizione obiettiva di punibilità, estranea al dolo del soggetto agente e non riconducibile eziologicamente alla condotta di questo[7]
La suddetta dichiarazione non contribuisce, dunque, a delineare il disvalore degli atti di bancarotta. Si tratta di una circostanza esterna - cui è subordinata la punibilità - fondata sulla considerazione circa l’opportunità di irrogare una sanzione soltanto a fronte della “cristallizzazione di uno stato di insolvenza irreversibile[8]”.
Anche la giurisprudenza più recente sembra aver recepito il suesposto indirizzo dottrinale, giungendo a ritenere che, la dichiarazione di fallimento si pone come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali alle condotte del debitore segua la dichiarazione di fallimento[9]

Il coefficiente soggettivo, richiesto dalla norma incriminatrice in analisi, non richiede la volontà dell’agente in ordine al dissesto o al fallimento della società, ciò che rileva è solamente che lo stesso si sia prefigurato la probabile idoneità della sua condotta ad incidere negativamente sulla consistenza della garanzia patrimoniale a disposizione dei creditori. Si deve considerare, quindi, come condotta distrattiva, qualsiasi atto commesso dall’agente, attraverso il quale si verifichi una fuoriuscita di beni dal patrimonio della società, con l’intento di aggravare lo stato di insolvenza e minare, attraverso l’estromissione del bene, la funzione di garanzia degli interessi dei creditori[10].

Si tratta di un reato di pura condotta e di pericolo che si consuma se ed in quanto si verifichi la condizione obiettiva di punibilità (dichiarazione di fallimento). Il bene giuridico che con la suddetta incriminazione si tende a tutelare è ravvisabile nell’interesse dei creditori sociali a soddisfarsi sui beni del fallito. 
Il reato di peculato trova la propria disciplina nel Titolo II “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” in particolare nell’art. 314 c.p. La tutela cui mira si spinge ben oltre il solo patrimonio della pubblica amministrazione e giunge a proteggere principi costituzionali come la legalità, l’efficienza, il buon andamento, l’imparzialità della pubblica amministrazione (art 97 Cost.) ed infine la fedeltà del pubblico ufficiale.

Dalla lettura della norma incriminatrice emerge come nel peculato ad assumere rilievo siano gli abusi correlati alla disponibilità di denaro o cose mobili per ragioni d’ufficio[11]. A connotare il presente delitto in termini pubblicistici è, in particolare, il presupposto della condotta costituito dalla disponibilità in capo all’agente, per ragioni d’ufficio, della cosa oggetto di appropriazione.
In tal senso, si tende ad esaltare una peculiare modalità di aggressione del bene incentrata sullo sfruttamento del rapporto tra agente pubblico e cosa. 

Si tratta di reati che sono “espressione di un uso privatistico della funzione pubblica” dal momento che il pubblico agente utilizza i poteri connessi alla sua funzione per finalità estranee a quelle per le quali gli sono stati attribuiti[12]

Il peculato, tuttavia, si differenzia rispetto alla bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione per struttura e offensività. 
La differenza risiede, in primis, nel soggetto attivo; vi è poi l’interesse tutelato ad essere diverso, ravvisabile nella garanzia patrimoniale dei creditori nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e nei principi costituzionali su cui si basa la pubblica amministrazione, oltre che nel patrimonio, nel delitto di peculato.
In tal senso la bancarotta non assorbe ed esaurisce affatto l’offensività del peculato. 

Differenti sono, inoltre, le modalità di aggressione del bene giuridico, oggetto di tutela di ciascuna fattispecie; nel peculato, infatti, non ogni condotta “appropriativa” assume rilievo mentre nella bancarotta fraudolenta solo la dichiarazione di fallimento, quale condizione di obiettiva di punibilità, fa sì che la condotta appropriativa sfoci in bancarotta[13].  

Per ultimo occorre rilevare il differente momento di consumazione: nel peculato, infatti, quale reato istantaneo, si ravvisa nel momento della appropriazione, senza che rilevi, a differenza della bancarotta, la “riparazione[14]”. 

Alla luce di quanto esposto i due reati, differenti per struttura e offensività, possono concorrere tra loro e non vi è alcun concorso apparente di norme. Appare, inoltre, opportuno ribadire che, nel caso di specie, essendo stato il potere di azione esercitato una sola volta nello stesso procedimento attraverso la contestazione di due diversi reati in concorso formale tra loro, non vi sia stata alcuna violazione del bis in idem.

4. Conclusione

Ulteriore esito della vicenda che appare doveroso richiamare è il capo relativo alla condanna per autoriciclaggio[15].

Sul punto la Corte ha stabilito che il fatto non sussiste dal momento che, nella specie, l’imputato non ha posto in essere alcuna condotta dissimulatoria idonea ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa del bene poiché le somme indicate nell’imputazione sarebbero state destinate al pagamento del corrispettivo delle opere di ristrutturazione dell’abitazione principale dell’imputato e, dunque, per un bene ad uso esclusivamente personale, escluso ai sensi dell’art. 648 ter. 1 c.p. dall’ambito della punibilità.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Art. 648-ter.1, co. 4 c.p., inserito dall’art. 3, l. 15 dicembre 2014, n.186. In tema di autoriciclaggio, l’ipotesi di non punibilità di cui al comma 4 è integrata nel caso in cui l’agente utilizza o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Cass., sez. II, 7 marzo 2019, n. 13795.

[2] Art. 649 c.p.p., Divieto di un secondo giudizio, “L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per titolo, il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli art. 69 comma 2 e 345. 
Se, ciò nonostante, viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere enunciandone la causa nel dispositivo”.

[3] R. GAROFOLI, Manuale di Diritto Penale, Milano, 2019, XV edizione, 1106 

[4] Cfr. Cass., Sez. VI, n. 14402 del 2021. 

[5] Il concorso apparente di norme sussiste ogni qualvolta il fatto commesso in concreto possa essere sussunto sotto due distinte disposizioni incriminatrici. Alla luce della teoria monistica l’unico criterio rilevante al fine di regolare i casi di apparenza di concorso di norme è il criterio di specialità ex art. 15 c.p. v.
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, XVI edizione, 2003.

[6] Art 15 c.p. “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale regola alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. 
Il principio di specialità esige una pluralità di norme regolatrici della stessa materia – intendendo per stessa materia non l’identità del bene giuridico tutelato, bensì l’esistenza di una medesima situazione di fatto – e, nel contempo, la presenza in una di esse di elementi peculiari che, per la loro specificità, siano da ritenere prevalenti rispetto a quelli della norma concorrente che resta esclusa o assorbita. Cfr. Cass., Sez. un., 12 maggio 1995, n. 16, GI 96, II, 414.

[7] Anche se la dottrina dominante qualifica la sentenza di fallimento come condizione obiettiva di punibilità, la giurisprudenza tradizionale era invece solita considerarla alla stregua di un elemento essenziale del reato, tenuto distinto da un evento naturalistico in senso proprio. F. BALATO, Sentenze Parmalat vs Corvetta: il dilemma della struttura della bancarotta fraudolenta, in www.penalecontemporaneo.it

[8] F. MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta, in www.penalecontemporaneo.it, 10

[9] Cfr. Cass., Sez. V, n. 13910, 8 febbraio 2017

[10] F. ANTOLISEI, op. cit., 61

[11] Art 314, co.1, c.p. “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi”.

[12] Appare necessaria, dunque, l’individuazione di un legame tra il possesso e la specifica competenza funzionale del pubblico agente volta ad escludere la sussistenza del presupposto (della c.d. ragione di ufficio o di servizio) in caso di mera occasionalità o di caso fortuito. A. PAGLIARO, Studi sul peculato, Palermo, 1967.

[13] La condotta appropriativa che fonda la fattispecie di peculato si realizza attraversa la c.d. interversio possessionis, ovvero il compimento di atti che sono incompatibili con il titolo effettivamente detenuto dall’agente, il quale si comporta oggettivamente rispetto ad essi uti dominus. Così A. PAGLIARO, op.cit.

[14] La bancarotta c.d. riparata si configura nel caso in cui a seguito della sottrazione dei beni intervenga un’attività riparatoria che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, eliminando così l’elemento materiale del reato. Cfr. Cass., Sez. V, n. 15406, 17 febbraio 2020.

[15] Cass, Sez. VI, sent. n. 14402 del 2021, punto 3.2, in diritto.