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Pubbl. Mar, 18 Mag 2021

La realtà fiscale delle criptovalute

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Marialuciana Di Santi



Lo scopo del seguente elaborato è quello di delineare lo stato di fatto della normativa relativa al trattamento fiscale da applicare sia ai proventi derivanti dalla cessione di cripto valute sia alla remunerazione corrisposta ai prestatori di servizi virtuali. L´incertezza normativa che connota la qualificazione della cripto valuta ha fatto sì che intorno a tale fenomeno si venisse a creare una confusione concettuale tale da rendere difficilmente qualificabili le operazioni poste in essere dagli operatori professionali fornendo un fertile terreno per profili speculativi e fiscali. Dopo una breve disamina sul meccanismo blockchain, si procederà all’analisi dell’inquadramento normativo delle cripto valute per poi concentrarsi sul trattamento fiscale adottato in UE ed in Italia.


ENG The purpose of the following paper is to outline the current status of the legislation relating to the tax treatment to be applied both to the income deriving from the sale of cryptocurrencies and to the remuneration paid to virtual service providers. The regulatory uncertainty that characterizes the qualification of cryptocurrency has meant that a conceptual confusion arose around this phenomenon such as to make it difficult to qualify the operations carried out by professional operators, providing a fertile ground for speculative and fiscal profiles. After a brief examination of the blockchain mechanism, it will be proceeded with the analysis of the regulatory framework of cryptocurrencies and then focus on the tax treatment adopted in the EU and in Italy.

Sommario: 1. Introduzione: l’avvento della rivoluzione digitale; 2. Il protocollo blockchain; 3. Il (frammentato) quadro normativo in tema di criptovalute; 4. Quale tassazione per le ‘valute’ virtuali?; 4.1. La posizione europea e la sentenza Skatteverket v. Hedqvist; 4.2. L’Amministrazione Finanziaria italiana: la Risoluzione n. 72/E del 2016; 4.3. Gli obblighi antiriciclaggio applicabili ai prestatori di servizi; 5. Conclusioni: l’auspicabilità di una normativa omogenea.

1. Introduzione: l’avvento della rivoluzione digitale

Il mondo del XXI secolo, sempre più interconnesso, ha visto una progressiva e pervasiva crescita del web tanto da renderlo indispensabile per espletare molteplici attività quotidiane. Di fatti, l’avvento, prima, e lo sviluppo, poi, delle tecnologie informatiche[1] da iniziale strumento ed ausilio delle attività umane sono arrivate a determinare una rivoluzione (la c.d. rivoluzione digitale), caratterizzata da veri e propri mutamenti sociali e dall’emersione di nuovi interessi ed esigenze[2].

Tra i vari utilizzi di internet, non si può non annoverare il processo di informatizzazione e decentramento di numerose attività attuato negli ultimi decenni in modo sempre più capillare. Tra queste, una, in particolare, ha catalizzato l’attenzione di investitori e player istituzionali – dagli organismi di controllo e di vigilanza nazionali a quelli internazionali: la virtualizzazione della moneta. Emergono immediatamente le potenzialità di un tale strumento di pagamento: decentralizzazione; bassi costi di transazione; anonimato. Eppure, nonostante di indubbi vantaggi, tale sistema non è esente da critiche, quali ad esempio l’elevata volatilità; così come è da tenere in debita considerazione il possibile utilizzo della moneta virtuale da parte di organizzazioni criminali di tutto il modo in aree non rintracciabili – il c.d. deep web – attraverso strumenti creati ad hoc per celare la propria identità[3].

La necessità di soffermarsi su questa tematica deriva dalle difficoltà che si sono riscontrate – e che tutt’ora continuano a riscontrarsi – nell’inquadramento giuridico delle criptovalute. Si tratta, ormai, di strumenti universalmente diffusi e non è più differibile una loro adeguata normazione non soltanto con riguardo alla tutela degli individui, ma anche per quanto concerne gli adempimenti tributari. Ulteriore ostacolo è rappresentato dal fatto che, ancora, non vi è una univoca linea di indirizzo in tema, a livello nazionale e sovranazionale, e, pertanto, differenze che si ravvisano sul piano formale si riflettono consequenzialmente sotto il profilo tecnico – tributario. È evidente come sia necessario creare una visione univoca e condivisa di modo da poter sfruttare al meglio tali innovativi strumenti che, sempre più, entreranno a far parte dell’uso corrente.

Sembra necessaria, prima di procedere oltre, una breve disamina sul meccanismo blockchain; successivamente, si procederà all’analisi dell’inquadramento normativo delle criptovalute per poi concentrarsi sul trattamento fiscale adottato in materia nell’Unione Europea ed in Italia.

2. Il protocollo blockchain

Necessaria è la conoscenza del funzionamento e della filosofia sottostante le criptovalute prima di formulare una qualsiasi valutazione e/o considerazione di carattere normativo che risulterebbe, in assenza di un tale sforzo conoscitivo, incompleta o carente.

Il graduale adattamento del concetto di denaro alle nuove circostanze sociali ed economiche verificatosi nel tempo è stato enormemente accelerato negli ultimi decenni dai risultati tecnologici del dominio ICT. Di fatti, al momento in cui si scrive, risultano negoziate 9426 crypto-assets con una capitalizzazione di mercato totale pari a $2051 miliardi e un volume giornaliero negoziato pari a $197,4 miliardi[4]. Queste risorse digitali possono essere sia legali[5] che non[6]; entrambe, però, a prescindere dalla loro intrinseca natura, hanno in comune che – per la quasi totalità – si avvalgono di piattaforme digitali ove più soggetti, in forma anonima e grazie all’utilizzo di server delocalizzati nel mondo, condividono e scambiano peer to peer[7] informazioni economiche che vengono verificate, convalidate e crittografate attraverso il c.d. sistema della doppia chiave pubblica-privata o, più semplicemente, crittografia asimmetrica che genera blocchi (c.d. block) immodificabili[8] – a meno di un intervento di tutti i soggetti che hanno partecipato all’operazione – che si legano in modo indelebile ai precedenti blocchi annotati sul registro pubblico delle transazioni (c.d. ledger), in modo da formare una catena (c.d. chain).

Quello precedentemente descritto è il protocollo blockchain che viene definito come un «processo in cui un insieme di soggetti condivide risorse informatiche per rendere disponibile alla comunità di utenti un database virtuale generalmente di tipo pubblico in cui ogni partecipanti conserva una copia dei dati»[9].

Alla base del meccanismo che consente l’acquisto e la vendita delle criptovalute, c’è la fiducia. Infatti, attraverso il sistema di prova crittografica gli utenti possono concludere indipendentemente transazioni economiche in sicurezza senza avere necessità della presenza di una terza parte, compito affidato, nel caso della valuta avente corso legale, al monopolio delle emissioni attribuito normativamente alla Banca Centrale. 

Le piattaforme online che consentono tale tipologia di operazione (c.d. exchanger) forniscono gli operatori di un portafoglio elettronico (c.d. wallet) –  a cui è possibile accedere tramite una qualsiasi connessione internet tramite una password personale – collegato ad una carta di debito o di credito o, ancora, ad un conto corrente. Ciò permette agli utilizzatori sia di scambiare le criptovalute con valute aventi corso legale sulla base di un tasso di cambio predeterminato, sia di effettuare pagamenti in criptovaluta, sia di trasferirle in un portafoglio digitale in attesa di usufruirne[10]. La Banca d’Italia, già nel 2015, aveva analizzato le possibili modalità di impiego delle criptovalute non più limitato solo «all’interno di specifiche comunità virtuali (ad es. videogiochi online e social network)» ma anche «in esercizi commerciali»[11]. L’istituto bancario si è occupato del tema soprattutto allo scopo di fornire delle avvertenze agli utilizzatori e, nello specifico, sottolineava di prestare attenzione al costo delle valute virtuali in quanto il tasso a cui possono essere convertite in valute aventi corso legale è estremamente variabile. La volatilità è, infatti, uno dei principali limiti di questi strumenti e rende rischioso detenere somme elevate in valuta virtuale a lungo termine.

Se da una parte il rischio di perdere l’intera somma investita è grande, grande è anche la possibilità di realizzare rilevanti guadagni in tempi brevi; fattore, quest’ultimo, che, insieme all’anonimato o semi-anonimato[12] degli utenti e alla mancanza di un soggetto terzo e garante che eserciti un’attività di controllo, ha contribuito a rendere sempre più appetibili le criptovalute che sono ormai diffuse in tutto il mondo.

3. Il (frammentato) quadro normativo in tema di criptovalute

Nello scenario illustrato sopra, sta diventando sempre più pressante l’esigenza di regolamentare il fenomeno, che altrimenti rischia di sfuggire completamente al controllo delle istituzioni. D’altronde, già nel 2014, l’EBA[13] aveva redatto un documento - “Opinion on virtual currencies[14] -, in cui identificava le aree in cui era necessario intervenire con maggior rapidità al fine di ridurre i rischi legati alla diffusione delle criptovalute, come, ad esempio, il finanziamento al terrorismo, e per far luce su alcune attività emergenti correlate alle criptovalute, come il trading tramite exchange e wallets

Con il termine criptovalute si intende fare riferimento a rappresentazioni digitali di valore, non emesse dalla Banca Centrale o da un’autorità pubblica, utilizzate come mezzo di scambio o come mezzo di pagamento alternativo alle monete aventi valore legale o detenute per finalità di investimento[15].

Ciononostante, non esiste ancora una definizione giuridica e univoca di criptovaluta, applicabile ad ogni settore dell’ordinamento, così come molteplici sono le interpretazioni fornite rispetto alla natura delle criptovalute e delle rispettive forme di reddito generate da operazioni che hanno ad oggetto le stesse.

Nel tentativo di razionalizzare la materia, il D. Lgs. n. 90/2017 – adottato in attuazione della Direttiva UE antiriciclaggio del 15 maggio 2015/849 e modificato dal D. Lgs. n. 125/2019 – all’art. 1, comma 1, lett. qq) definisce la criptovaluta o «valuta virtuale» come «rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente».

Questa definizione, però, al di fuori del contesto del contrasto al riciclaggio, è apparsa insufficiente e, di volta in volta, gli operatori  giuridici nazionali hanno coniato diverse nozioni giuridiche.

La formulazione iniziale – che considerava la criptovaluta come mezzo di pagamento – è stata modificata attribuendo alla stessa la qualifica di mezzo di scambio, escludendo la sua riconducibilità allo status di moneta o valuta[16]. Di fatti, se indubbio è il dato che le criptovalute - e bitcoin in particolare - siano state concepite come strumento di pagamento svincolato dai tradizionali circuiti bancari e finalizzato alla drastica riduzione dei costi di intermediazione, nella prospettiva della qualificazione giuridica delle stesse sembrerebbe che si possa escluderne la qualificazione come “moneta” in senso tecnico. Infatti, sia secondo la teoria statalista[17], sia secondo quella economica[18], le valute virtuali non soddisfano i requisiti per poter essere assimilate tout court alla moneta fiat.

Questo risultato rappresenta il frutto della valutazione delle posizioni espresse da diversi operatori.  La Corte di Giustizia[19], chiamata a pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale promosso dalla Svezia sull’interpretazione della Direttiva 2006/112/CE, ha considerato le criptovalute quale mezzo alternativo a quello avente corso legale e, quindi, come mezzo di pagamento.

Per contro, la BCE ha ritenuto, ribadendolo più volte[20], che le valute virtuali siano da considerare come ‘mezzo di scambio’. Tale posizione veniva espressa nonostante, sulla scia delle indicazioni fornite dall’Autorità Bancaria Europea (ABE)[21], il Parlamento Europeo[22] e la Commissione Europea[23] avessero proposto una definizione che identificava le criptovalute quali ‘mezzo di pagamento’.

Al fine di limitare le possibili finalità illecite, i legislatori – europeo e nazionale – hanno preferito l’interpretazione della BCE , recepita anche dalla Banca d’Italia. Il legislatore nazionale con il D.Lgs. n. 125/19, confermando dunque le indicazioni della V Direttiva antiriciclaggio, ha ritenuto che la criptovaluta dovesse essere considerata sia mezzo di scambio, sia strumento di investimento, escludendo in tal mondo la sua riconducibilità alla nozione di moneta. Invero, la Banca d’Italia non si riferisce mai a questi strumenti con il termine ‘valuta’, individuandoli piuttosto con il lemma ‘criptoattività’ o ‘crypto assets[24]. Aggiunge, inoltre, fugando ogni dubbio, che «con il termine criptoattività (crypto assets) si indicano attività di natura digitale il cui trasferimento è basato sull’uso della crittografia e sulla distributed ledger technology. Alcune di esse, quali il Bitcoin, vengono comunemente chiamate ‘valute virtuali’, anche se non svolgono le funzioni economiche della moneta ».

Appurato che la quasi totalità[25] dei legislatori, nazionale e non, ha escluso l’identificazione delle criptovalute con le valute aventi corso legale, si deve notare come esse possano essere qualificate anche come ‘strumenti finanziari’ o, in una prospettiva più ampia, ‘prodotti finanziari’. Tale specifica è emersa da una pronuncia del Tribunale di Verona[26] che, dovendo decidere sulla qualifica giuridica di un contratto di acquisto di criptovaluta con pagamento in euro, ha definito le criptovalute «uno strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online» ex art. 67-ter, comma 1, lett. b) del Codice del Consumo e del Regolamento CONSOB n. 18592 del 26 giugno 2013. 

L’utilizzo della denominazione ‘strumento finanziario’, nonostante trovi riscontro nella realtà applicativa, risulta, però, incompatibile sia con l’art. 1, comma 4, del D.Lgs. n. 58/1998 (TUF) il quale dispone che «i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari»; sia nell’art. 18, comma 5, TUF che non ricomprende, ad oggi, tra gli strumenti finanziari le criptomonete, ferma la possibilità del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), attraverso un regolamento, di individuarne di nuovi qualora ce ne fosse la necessità; sia, ancora, nella disciplina contabile internazionale che esclude che esse siano classificabili come attività finanziarie. In riferimento a quest’ultimo aspetto, va evidenziato come lo stesso IFRS[27] nel suo Interpretation Paper del marzo 2019 specifica che «[…] le criptoattività possono assumere svariate funzioni, tra le quali anche conferire al detentore ‘particolari diritti’», ma viene escluso che si tratti di asset finanziari nell’accezione di cui allo IAS 32 non trattandosi né di disponibilità liquide; né di strumenti rappresentativi di capitale di un’altra entità, né di diritti contrattuali a ricevere disponibilità liquide o scambiare attività e/o passività finanziarie. In ambito contabile internazionale, si preferisce ricondurre le valute virtuali ad attività immateriali che ricadono nella disciplina dello IAS 38 dal momento che possono essere distinte dal loro detentore e trasferite individualmente e non conferiscono al loro detentore il diritto a ricevere un numero di unità fisse o determinabili.

Secondo alcuni[28], una soluzione sarebbe definire le criptovalute quali ‘prodotti finanziari atipici’ che - ex art. 1, lett. u) del TUF – sono «ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o rappresentato, purché rappresentativo di un impiego di capitale». La CONSOB ha specificato che, affinché si configuri la suddetta categoria, è necessaria la compresenza di tre elementi: un impiego di capitale; un’aspettative di rendimento di natura finanziaria; un’assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale. Dunque, qualora l’operazione effettuata in criptovaluta dovesse soddisfare detti requisiti, la causa concreta dell’acquisto potrebbe determinare l’attrazione dei bitcoin nella nozione di ‘prodotto finanziario’ con tutte le conseguenze che ne derivano in relazione alla disciplina applicabile ed, in particolare, per quanto concerne la normativa in materia di sollecitazione al pubblico risparmio ai sensi degli artt. 94 e ss. del TUF e le regole riguardanti la promozione ed il collocamento a distanza di prodotti finanziari ex art. 32 del TUF e relative disposizioni attuative[29]. A questo proposito, da segnalare è la recente sentenza n. 26807/2020 della Suprema Corte di Cassazione, in cui il Giudice di legittimità, nell’ambito di un procedimento penale per i reati di riciclaggio, indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento ed abusivismo finanziario, è stato chiamato, seppur incidentalmente, ad affrontare il problema della natura giuridica delle criptovalute. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha statuito che, qualora un privato venda bitcoin su un sito internet, si viene a configurare reato di intermediazione finanziaria abusiva. Si ritiene, infatti, che non rileva che la Corte di Giustizia europea abbia considerato le criptovalute quali strumenti di pagamento: a rilevare, piuttosto, è il fatto che la vendita di bitcoin in rete sia stata reclamizzata come forma di investimento e pubblicizzata attraverso informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa. Pertanto, in quanto tale, una siffatta attività è soggetta ai controlli da parte della COSOB e l’omissione degli adempimenti di cui agli artt. 91 e ss. TUF integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), TUF.

Concludendo questa breve disamina normativa, va segnalato che nel gennaio 2019, l’EBA ha rilasciato un documento intitolato “Report with advice for the European Commission on crypto-assets”. Innanzitutto, l’EBA rileva che le criptovalute non sono riconosciute dalla Banca Centrale Europea come valute fiat, depositi o altri fondi rimborsabili. L’analisi dell’EBA prosegue con lo studio delle criptoattività allo scopo di accertare se queste possano essere classificate come ‘electronic money’ e rientrare tra le attività disciplinate dall’EMD2[30] o come ‘fondi’ ed essere disciplinati dalla PSD2[31].

4. Quale tassazione per le ‘valute’ virtuali?

Oltre a quanto esposto, la circolazione delle criptovalute ha dato luogo ad un dibattito anche per ciò che riguarda l’inquadramento tributario ai fini sia dell’imposizione diretta che indiretta. Il range delle problematiche aperte è ampio: dalla tassazione dei proventi (e delle eventuali perdite) per una persona fisica agli obblighi di monitoraggio RW; dall’assoggettabilità o meno ad IVAFE[32] all’assoggettabilità ad imposta sulle successioni e sulle donazioni al superamento delle franchigie; dal trattamento in bilancio per possessori imprese all’assoggettabilità ad IRAP.

Le indicazioni esposte supra sono state completamente disattese in ambito fiscale, settore nel quale non si rinviene alcuna traccia normativa in merito al trattamento fiscale applicabile. Fino ad ora, il compito di delineare un quadro di riferimento in cui operare è stato demandato ad organi giurisdizionali, operatori giuridici e all’Amministrazione Finanziaria che, chiamati a disciplinare fattispecie concrete, hanno formulato una loro interpretazione di criptovalute.

4.1. La posizione europea e la sentenza Skatteverket v. Hedqvist

La prima a considerare la prospettiva fiscale delle valute virtuali in ambito europeo è stata la Commissione in relazione alle regole comuni concernenti l’imposta sul valore aggiunto. Di fatti, nell’ambito del Comitato IVA è stato concluso che il bitcoin dovesse essere considerato come un «altro effetto commerciale», esente dall’imposta ai sensi dell’art. 135, par. 1, lett. d) della Direttiva 2006/112/CE.

Successivamente, la Corte di Giustizia UE – con la sentenza 22 ottobre 2015, Skatteverket v. Hedqvist, nella causa C-264/14 – è stata chiamata a pronunciarsi su una controversia tra l’Amministrazione Finanziaria svedese e un cittadino privato, che intendeva «effettuare, con la mediazione di una società, servizi consistenti nel cambio di valute tradizionali nella valuta virtuale bitcoin e viceversa».

Tale sentenza – che, a ragione, può definirsi storica - ha riconosciuto la natura di prestazioni di servizi a titolo oneroso alle prestazioni che consistono nel cambio valuta tradizionale con unità di bitcoin e viceversa, effettuate a fronte di un corrispettivo pari al margine generatosi dalla differenza tra prezzo di acquisto della moneta virtuale reperita sul mercato e prezzo di vendita praticato. 

In particolare, la Corte, che era stata chiamata a pronunciarsi sulla disciplina IVA da applicare alle operazioni di cambio di criptomonete contro valuta tradizionale e viceversa, ha affermato che «la valuta virtuale a flusso bidirezionale ‘Bitcoin’ che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non può essere qualificata come ‘bene materiale’ ai sensi dell’articolo 14 della Direttiva IVA, dato che […] questa valuta [come avviene per le valute tradizionaliche sono monete che costituiscono mezzi di pagamento legale] non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento».

La decisione – che rappresenta il primo documento ufficiale giuridico vincolante dell’Unione Europea – interpreta autenticamente l’art. 135 della Direttiva 2006/112/CE, in particolare le lettere d) e) e f) dello stesso articolo, stabilendo come i bitcoin e le criptovalute in genere siano esenti IVA quali valute.

La Corte di Giustizia è intervenuta in una situazione confusa in cui le diverse Autorità tributarie avevano preso direzioni contrastanti. 

In Italia, non era presente alcun documento di prassi né alcuna posizione ufficiale di organi dello Stato, ad eccezione della Banca d’Italia, che aveva indicato come «in Italia, l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbono allo stato ritenersi attività lecite; le parti sono libere di obbligarsi a corrispondere somme anche non espresse in valute aventi corso legale».

La Svezia, stato promotore della domanda pregiudiziale, riteneva i bitcoin esenti quali valute ex art. 135, comma 1, lett. e. Allo stesso modo, il Regno Unito riteneva i bitcoin esenti da IVA quali «altri effetti commerciali»; il Belgio considerava il bitcoin come un ‘sistema di pagamento virtuale’ esente, così come Francia, Spagna e Finlandia.

Contrariamente, l’Estonia riteneva i bitcoin soggetti ad IVA. La Polonia indicava l’imponibilità IVA  quale servizio. La Germania, invece, indicava i bitcoin quale ‘denaro privato’ negando l’esenzione. 

4.2. L’Amministrazione Finanziaria italiana: la Risoluzione n. 72/E del 2016

L’Agenzia delle Entrate[33], a seguito di interpello, chiamata ad esprimersi su quale fosse il trattamento fiscale da applicare alle operazioni di acquisto e vendita di criptovaluta, ha recepito le indicazioni formulate dalla Corte di Giustizia.

Nello specifico, la società chiedeva all’Agenzia delle Entrate di conoscere «il corretto trattamento applicabile alle predette operazioni di acquisto e di cessione di moneta virtuale, ai fini dell’IVA e delle imposte dirette (IRES ed IRAP) [e] se, in relazione alla predetta attività, sia soggetta agli adempimenti in qualità di sostituto d’imposta».  

Innanzitutto, l’Agenzia ha stabilito, uniformandosi al pensiero del Giudice europeo, che i bitcoin (e le valute virtuali in generale) non sono beni materiali, ma svolgono unicamente la funzione di strumenti di pagamento. Il bitcoin, dunque, viene interpretato come ‘moneta virtuale’ utilizzata come ‘moneta’ alternativa a quella avente corso legale. La circolazione, quale mezzo di pagamento, si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato.

Le transazioni che hanno ad oggetto il cambio di valute legali contro valute virtuali (e viceversa) rappresentano prestazioni di servizi a titolo oneroso, che rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva sull’IVA.

Un tale risultato è motivato dall’Amministrazione Finanziaria equiparando siffatta attività a quelle ex art. 10, comma 1, n. 3) del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 ovvero alle «operazioni relative a valute estere aventi corso legale e a crediti in valute estere eccettuati i biglietti e le monete da collezione e comprese le operazioni di copertura dei rischi di cambio».

Dunque, l’Agenzia sostanzialmente assimila le monete virtuali alle valute estere al contrario di quanto fatto dalla Corte di Giustizia. Di fatti, quest’ultima si era limitata a chiarire che le criptovalute, prive di corso legale, assolvono funzione di pagamento purchè siano convenzionalmente accettate e  «in nessuna parte della sentenza è presente una esplicita equiparazione tra bitcoin e valuta estera»[34]. Tale interpretazione è, peraltro, confermata dal fatto che la risposta all’interpello indica alla società quale sistema di valutazione al termine dell’anno il valore normale e nell’equiparazione a cambiavalute.

Tale orientamento è stato poi confermato successivamente dalla stessa Agenzia delle Entrate nella risposta della Direzione Regionale della Lombardia all’interpello n. 956-39/2018 ribadendo che «le criptovalute sono riconosciute come strumento di pagamento alternativo a quelli tradizionalmente utilizzati nello scambio di beni e servizi».

Ancora, quest’indirizzo è stato recepito dal Consiglio Nazionale del Notariato che dovendo pronunciarsi sulla legittimità o meno del pagamento del prezzo della vendita di un bene immobile in bitcoin – o altra criptovaluta – ha ritenuto applicabili a quest’ultimi i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto le monete tradizionali e, così facendo, ha riconosciuto implicitamente le criptovalute quali valute estere.

Ciò detto, perplessità sono generate dal fatto che l’Amministrazione Finanziaria ha attribuito alla locuzione ‘mezzo di scambio’ – indicata dal legislatore nella definizione di valuta virtuale – il significato di ‘strumento di pagamento’. I dubbi sussistono in quanto, come visto precedentemente, nell’ultima formulazione della definizione di criptovaluta  contenuta nella V Direttiva antiriciclaggio 30 maggio 2018/843/UE, recepita dal D.Lgs. n. 125/2019 l’espressione ‘mezzo di pagamento’ è stata appositamente sostituita con quella ‘mezzo di scambio’ al fine di differenziare la moneta dalla criptovaluta. Inoltre, l’identificazione della criptovaluta come mezzo di pagamento non trova rispondenza nel D.Lgs. n. 11/2010 e nella Direttiva 2007/64/CE ove per strumento di pagamento si intende «qualsiasi dispositivo personalizzato e/o insieme di procedure concordate tra l’utilizzatore e il prestatore di servizi di pagamento e di cui l’utilizzatore di servizi di pagamento si avvale per impartire un ordine di pagamento»[35].

Inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha definito anche l’orientamento in ambito delle imposizioni dirette (IRES e IRAP). Prima di procedere con la presentazione di quanto stabilito dall’Agenzia, ci si vuole soffermare su un aspetto: la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate si riferisce al caso relativo allo scambio di valute legali contro value virtuali e viceversa. Non sono ricomprese nelle indicazioni della risoluzione, dunque, le attività che prevedono l’acquisto di beni e/o servizi tramite criptovalute e l’attività di estrazione.

In assenza di uno specifico appiglio normativo e giurisprudenziale, basandosi solamente sulla sentenza della CGUE, l’AdE perviene alla conclusione che i proventi derivanti dall’esercizio di attività di intermediazione nell’acquisto e nella vendita di criptovalute devono essere assoggettati ad IRES – o IRPEF nel caso in cui l’attività di cambio valute sia esercitata da persona fisica – quale componente positiva del reddito d’impresa al netto dei relativi costi inerenti a tale attività, ferma l’applicazione dell’IRAP sul valore della produzione netta.

Le attività che hanno ad oggetto lo scambio di valuta possono sostanziarsi in tre fattispecie: l’intermediario effettua operazioni di acquisto e vendita per conto di un cliente; l’intermediario, o altre società, gestiscono un wallet di criptovalute; gli individui detengono un wallet al di fuori dell’attività di impresa.

Al fine di identificare il corretto regime fiscale al quale sottoporre le singole casistiche, occorre innanzitutto accertare la natura del ricavo.

Nel primo caso gli intermediari svolgono le operazioni per conto dei clienti: il ricavo dell’intermediario deriva dalla gestione caratteristica della sua attività, per cui è soggetta alla tassazione ordinaria tramite imposizione di IRES e IRAP.

Nel secondo caso, l’Agenzia ritiene che le unità di valuta - nella disponibilità dell’intermediario a fine esercizio - vengano valutate secondo il tasso di cambio vigente tra la criptovaluta in esame e la valuta legale. La normativa applicabile è quella del TUIR ed, in particolare, l’art. 9 che stabilisce che «per la determinazione dei redditi e delle perdite i corrispettivi, i proventi, le spese e gli oneri in valuta estera sono valutati secondo il cambio del giorno in cui sono stati percepiti o sostenuti». È evidente come in questo caso l’Agenzia delle Entrate abbia scelto di equiparare le valute virtuali alle valute estere.

Nell’ultimo caso, viene chiarito che le eventuali plusvalenze derivanti dalle operazioni di acquisto e vendita di criptovalute non sono soggette ad alcuna tassazione. La motivazione di tale orientamento deriva dalla presunta mancanza di finalità speculative nella detenzione di questi strumenti; l’intermediario, pertanto, «non è tenuto ad alcun adempimento come sostituto d’imposta».

Con l’interpello 956-39/2018, viene sancito l’obbligo di indicazione delle valute virtuali nel quadro RW nella dichiarazione tra le attività di natura finanziaria, in cui devono essere annotate le attività finanziarie anche detenute in Italia al di fuori del circuito degli intermediari[36]. Le criptovalute sono esenti però dal pagamento dell’IVAFE dal momento che l’imposta si applica, a detta dell’Agenzia, solo ai conti e ai depositi bancari[37].

Qualora si sposasse la tesi dell’assimilabilità delle criptovalute alle valute e dei wallet ai conti correnti le eventuali plusvalenze derivanti dalle operazioni di trading avrebbero rilevanza fiscale al superamento della soglia di €51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui. Al di sopra di tale limite, invece, la finalità speculativa si presume.

Si ricorda che ex art. 67, co.1, lettera c-ter) del TUIR vengono qualificati come redditi diversi «le plusvalenze, diverse da quelle di cui alle lettere c) e c-bis), realizzate mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di titoli non rappresentativi di merci, di certificati di massa, di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti, di metalli preziosi, sempreché siano allo stato grezzo o monetato, e di quote di partecipazione ad organismi d’investimento collettivo. Agli effetti dell’applicazione della presente lettera si considera cessione a titolo oneroso anche il prelievo delle valute estere dal deposito o conto corrente».

Questa disposizione deriva dalla necessità di assoggettare a tassazione soltanto le plusvalenze significative derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute di cui si sia acquisita o mantenuta la disponibilità ai fini di investimento.

Ancora, l’Amministrazione Finanziaria precisa che ai fini della tassazione è necessario verificare se il reddito che deriva dalla conversione della criptovaluta in valuta legale o viceversa derivi da una cessione a termine oppure se la giacenza media del wallet abbia superato il contro valore in euro di €51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta. Questi redditi sono soggetti all’imposta sostitutiva del 26% ex art. 5, D. Lgs. n. 461/97 in sede di dichiarazione.

4.3. Gli obblighi antiriciclaggio applicabili ai prestatori di servizi 

L’equiparazione tra criptovalute e valute estere ha determinato l’applicabilità della disciplina sul monitoraggio fiscale ex D.L. n. 167/1990 ai detentori di criptovalute. Di fatti, è stato previsto che «dovevano essere estesi gli obblighi di monitoraggio fiscale, ordinariamente previsti per gli intermediari bancari e finanziari, altresì ai soggetti (c.d. ‘operatori non finanziari’) che intervengono, anche attraverso movimentazioni di ‘conti’ nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento effettuati anche in valuta virtuale, di importo pari o superiore a 15.000»[38].

Al fine di scongiurare attività criminali, il legislatore ha recepito tale indicazione estendendo – con il D. Lgs. n. 125/19 – l’ambito di applicazione del D. Lgs. n. 231/2007 inserendo, in relazione alle operazioni con criptovalute, tra i soggetti destinatari degli obblighi antiriciclaggio, oltre ai «prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali» anche «i prestatori di servizi di portafoglio digitale»[39]. Così facendo, tali soggetti sono, quindi, tenuti al rispetto degli obblighi di adeguata verifica della clientela[40] e all’obbligo di iscrizione nella sezione speciale del registro dei cambia valute gestito dall’Organismo degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi (OAM).

Da segnalare è che, recependo gli standard GAFI-FATE[41], il legislatore ha stabilito esattamente cosa debba intendersi per ‘utilizzo di valute virtuali’ facendo rientrare in tale attività non solo la «la conversione di valute virtuali in altra e diversa valuta virtuale» ma anche «i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute».

5. Conclusioni: l’auspicabilità di una normativa omogenea 

A seguito dell’intervento normativo del legislatore dell’ottobre 2019, si è in parte mitigata l’incertezza normativa che contraddistingue l’inquadramento normativo delle criptovalute, ma la complessità delle questioni sollevate pone ancora molteplici e critici problemi.

Piccoli passi in avanti sono stati fatti anche fornendo delle coordinate più precise in ambito fiscale. Da menzionare, infatti, è una recente sentenza del TAR Lazio[42] che ha chiarito che oggetto di tassazione è solo l’utilizzo di ‘valute’ virtuali per operazioni contrattuali che incidono sulla ricchezza materiale e non il mero possesso delle stesse. Altro non è che un ulteriore tassello nella ricostruzione del regime giuridico delle criptovalute.

Ancora molto, però, deve essere fatto per poter addivenire ad una definizione di portata generale, applicabile ad ogni settore dell’ordinamento. Restano, infatti, aperte numerose questioni, come, ad esempio, la modalità di accertamento del collegamento tra criptovalute e le ricchezze fisiche da assoggettare.

L’esigenza di chiarezza è, però, molto sentita. Basti pensare che è del gennaio 2020 la notizia che la European Securities and Markets Authority (ESMA) sta valutando sulle possibili modalità di regolamentazione del mercato delle criptovalute[43]. Allo stesso modo, in ambito nazionale, il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) nel giugno 2020 ha avviato una pubblica consultazione avente ad oggetto “Proposte per la Strategia nazionale in materia di tecnologie basate su registri condivisi e Blockchain” al fine di elaborare delle linee guida da seguire per permettere lo sviluppo e la diffusione delle distributed ledger technology (DLT) allo scopo di «dotare il Paese di un quadro regolamentare competitivo nei confronti degli altri Paesi».

Evidente è la difficoltà di realizzare un adeguato bilanciamento tra la dirompente innovazione tecnologica e le esigente di regolamentazione che diventano tanto più urgenti  quanto maggiore è la diffusione delle cryptocurrencies e, conseguentemente, l’impatto sull’economia e la finanza. 

Pare, quindi, possa concludersi che è auspicabile un intervento legislativo più poderoso di modo da poter sistematizzare un fenomeno che nella sostanza è già pienamente operativo.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Il termine è utilizzato in riferimento alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) o, in inglese, di uso più frequente, Information and Communication Technologies (ICT).

[2] F. FAINI, Diritto dell’informatica, in Scienza giuridica e tecnologie informatiche di F. FAINI, S. PIETROPAOLI,Torino, 2017.

[3] Un esempio è Tor, uno strumento realizzato nel 1995 all’interno del progetto “The Onion Router” della Marina militare degli Stati Uniti al fine di garantire l’assoluta riservatezza delle conversazioni governative. Tor ospita dei servizi che permettono agli utenti di pubblicare siti web senza rilevare la posizione attuale del sito proteggendo, in tal modo, gli utenti dall’analisi del traffico attraverso una rete di router che garantiscono l’anonimato. I dati appartenenti ad una qualsiasi comunicazione passano attraverso i router Tor i quali costruiscono un circuito virtuale crittografato al fine di garantire la segretezza della comunicazione.

[4] Dati ricavati dal sito web http://coinmarketcap.com aggiornati al 22 aprile 2021.

[5] Per la maggior parte, l’utilizzo legale si sostanzia nell’impiego delle criptovalute a scopi speculativi.

[6] Le attività illegali includono, tra le altre, l’acquisto e la vendita di beni o servizi illegali online nei mercati darknet; riciclaggio di denaro sporco; evasione dei controlli fiscali su capitali; pagamenti per finanziare attacchi ransomware e furti. In definitiva, in questo contesto, le criptovalute assumono principalmente la funzione di strumento di pagamento.

[7] Peer-to-peer è un tipo di rete nella quale i veri nodi (o client) scambiano informazioni in modo paritario, senza la presenza di un servercentralizzato.

[8]V. DE STASIO, Verso un concetto europeo di moneta legale: valute virtuali, monete complementari e regole di adempimento, in Banca Borsa e Titoli di Credito, n. 6/2018, 747.

[9] F. VERGARI, Noi e le criptovalute: un popolo di sognatori, minatori e investitori, in PC Professionale 333/2018. Reperibile in www.pcprofessionale.it.

[10] Quest’ultima possibilità è esplicitamente prevista dall’ordinamento italiano. Il D.lgs. n. 125/2019, infatti, prevede espressamente che i « i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali forniscono a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali».

[11] Banca d’Italia, Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, 30 gennaio 2015.

[12] È possibile risalire alla c.d. chiave pubblica utilizzata dall’utente e, di conseguenza, a tutte le transazioni compiute, tramite l’incrocio di dati registrati nel blockchain e le tracce lasciate sul web da chi ha eseguito l’operazione.

[13] European Banking Authority.

[14]Consultabile al seguente indirizzo web:  https://eba.europa.eu.

[15] M. PIERRO, Le criptovalute: qualificazione giuridica e trattamento fiscale, in La digitalizzazione tributaria: evoluzione e fattori di rischio, Milano, 2020.

[16] Direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018.

[17] La teoria statalista sostiene che il denaro è quel mezzo di pagamento, creato e garantito dallo Stato, che per legge non può essere rifiutato come mezzo di pagamento ed idoneo ad estinguere le obbligazioni.

[18] La teoria economica attribuisce alla moneta tre funzioni principali: mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi; riserva di valore; unità di conto atta alla quantificazione del valore di beni e servizi. Le criptovalute possono essere utilizzate quali beni convenzionalmente accettati  dalle parti in cambio di altri beni, ma non possono essere considerate unità di conto non solo per la (ancora) scarsità del loro utilizzo ma anche per via della grande variabilità del loro potere di acquisto. Infine, non possono essere considerate una riserva di valore in quanto non sono in grado di garantire la conservazione del loro valore nel tempo.

[19] CGUE 22 ottobre 2015, C-264/14, Skatteverket v. David Hedqvist. Vedi par. successivo.

[20] Si vedano BCEVirtual Currency Schemes – a Further Analysis, Frankfurt am Main, 2015 e il Parere della Banca Centrale Europea del 12 ottobre 2016 su una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la Direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione all’uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e la Direttiva 2009/10/CE dove in riferimento alle criptovalute si asserisce che «is not a currency, does not have the status of legal tender» e, ancora, «[…] is not a money or currency from a legal perspective».

[21]EBAOpinion on ‘virtual currencies’. Per l’EBA, «Virtual Currencies are a digital representation of value that is neither issued by a central bank or a public authority, nor necessarily attached to a fiat coin, but is accepted by natural or legal persons as a means by payment and can be transferred, stored or traded electronically».

[22] La Risoluzione del 26 maggio 2016 del Parlamento Europeo, dopo aver rilevato che non è ancora stata stabilita una definizione universalmente valida, afferma che «le valute virtuali sono talvolta definite come denaro digitale e che l’Autorità bancaria europea (ABE) le considera rappresentazioni di valore digitali che non sono emesse né da una banca centrale o da un ente pubblico né sono necessariamente legate ad una valuta a corso legale, ma sono accettate da persone giuridiche e fisiche come mezzo di pagamento e possono essere trasferite, archiviate o scambiate elettronicamente».

[23] Proposta di modifica delle direttive UE 2015/849 di data 5 luglio 2016.

[24] Banca d’Italia, Rapporto sulla stabilità finanziaria, 2018.

[25] Eccezione è data dal Venezuela che nel 2018 ha emanato il Pedro, una criptovaluta di Stato, accettata come forma di pagamento in diverse tipologie di rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione.

[26] Tribunale di Verona, Sentenza n. 195/2017.

[27] International Financial Reporting Standards Foundation.

[28] F. DI VIZIO, Lo statuto giuridico delle valute virtuali: le discipline e i controlli tra oro digitale ed ircocervo indomito, in Convegno annualeBITGENERATION. Criptovalute tra tecnologie, legalità e libertà, Milano, 2018, 16; M. PASSARETTA, Bitcoin: il leading case italianoBanca borsa e titoli di credito, 2017, 476. Contra, N. VARDI, “Criptovalute” e dintorni: alcune considerazioni sulla natura giuridica dei bitcoin, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, Milano, 2015, 443 ss.

[29] N. CUPPINI, P. IEMMA., La qualificazione giuridica delle criptovaluteaffermazioni sicure e caute differenze, in Diritto bancario, 08/03/2018. Consultabile al seguente indirizzo web: http://www.dirittobancario.it.

[30] Direttiva (UE) 2009/110/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009 concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica, che modifica le direttive 2005/60/CE e 2006/48/CE e che abroga la direttiva 2000/46/CE.

[31] Direttiva (UE) 2015/2366 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, che modifica le direttive 2002/65/CE, 2009/110/CE e 2013/36/UE e il Regolamento (UE) n. 1093/2010 e abroga la direttiva 2007/64/CE.

[32] Imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero.

[33] Si fa riferimento alla Risoluzione 2 settembre 2016, n. 72/E.

[34] G. CORASANITI, Il trattamento tributario dei bitcoin tra obblighi antiriciclaggio e monitoraggio fiscale, in Strumenti finanziari e fiscalità,2018, 45 ss.

[35] Art. 1, lett. s), D.Lgs. n. 11/2010.

[36] Circolare 38/E/2013.

[37] Circolare 28/E/2012.

[38] Interpello n. 956-39/2018.

[39] Art. 1, co. 2, lett. ff bis), D. Lgs. n. 125/19: «Ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali»

[40] Identificazione del cliente e de titolare effettivo; la conservazione dei documenti e dei dati raccolti; l’invio di segnalazioni di operazioni sospette alla Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF).

[41] Il Gruppo d’Azione Finanziaria – Financial Action Task Force (GAFI-FATF) è un organismo intergovernativo indipendente che sviluppa e promuove politiche finalizzate a proteggere il sistema finanziario globale contro il riciclaggio, il finanziamento del terrorismo e il finanziamento della proliferazione delle armi di distruzione di massa.

[42] TAR Lazio, n. 1077/2020, Sezione Seconda Ter.

[43]Notizia visionabile al seguente sito webhttps://www.esma.europa.eu/press-news/esma-news/esma-announces-key-priorities-2020-22.

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