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Pubbl. Mar, 11 Mag 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Il bilanciamento tra vita privata e lavoro nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell´uomo

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Chiara Alberta Parisse
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Trento



La conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro è un tema di cui si sono occupati dei giudici della Corte Europea dei diritti dell´uomo solo agli inizi degli anni Ottanta del Ventesimo secolo. L´articolo ha l´obiettivo di ripercorrere lo sviluppo dei concetti di maternità e paternità nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell´uomo. Si auspica inoltre un ripensamento della nozione di conciliazione, che dovrebbe essere intesa come diritto fondamentale e inalienabile, spettante ad ogni individuo, a prescindere dal proprio status familiare o orientamento sessuale, da tutelare innanzi alla Corte, in modo tale da tendere alla realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale.


ENG The judges of the European Court of Human Rights started to deal with the topic of work-life balance in the early eighties of the twentieth century. The article aims to retrace the development of the concepts of maternity and paternity in the jurisprudence of the European Court of Human Rights. Moreover, a rethink of the notion of work-life balance is hoped. It should be considered as a fundamental and inalienable right, which belongs to every individual, regardless of their familiar status or sexual orientation, which should be protected before the Court. Only in this way, we could tend to the realization of the subastantial equality principle.

Sommario: 1. Premessa; 2. L’idea di paternità tradizionale: il caso Petrovic v. Austria; 3. Il caso Weller v. Hungary;  4. Una nuova paternità: il caso Konstantin Markin v. Russia; 5. Il caso Hulea v. Romania; 6. La tutela della maternità; 7. Conclusioni.

1. Premessa

Il tema della conciliazione dei tempi di vita privata e dei tempi di lavoro è relativamente nuovo all’interno della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo, infatti, similarmente alla Corte Costituzionale italiana e alla Corte di Giustizia dell’Unione Europa, hanno tracciato nuovi percorsi per una maggiore valorizzazione sia della dimensione umana che della dimensione genitoriale, all’insegna del principio di eguaglianza tra uomini e donne e di superamento degli stereotipi di divisione sessuata del lavoro.

Per ciò che concerne le coppie eterosessuali con figli, alla Corte Europea sono giunti casi che le hanno fornito la possibilità di ripensare la genitorialità – specificatamente in tema di attribuzioni di congedi – non solo nell’ottica materna ma anche e soprattutto nell’ottica paterna[1].

La Corte pertanto fornisce il proprio contributo nella lotta agli stereotipi attraverso una meticolosa opera ermeneutica di smantellamento e contestualizzazione della visione generale per cui gli uomini dovrebbero essere considerati come “breadwinners” e le madri “homemakers” o “caregivers[2].

A tal proposito, tre sono i precedenti particolarmente significativi in materia: Petrovic v. Austria[3], Weller v. Hungary [4] e Markin v. Russia[5].

Essi traggono origine da ricorsi instaurati da padri, ai quali era stata negata la facoltà di astenersi dal lavoro o di ottenere congedi per prendersi cura dei figli, in ragione del fatto che i compiti di cura erano considerati prevalentemente come dovere della madre. La questione legale sottesa alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo è se l’esclusione dei padri dalle suddette prestazioni previdenziali sia compatibile con l’articolo 14 della CEDU[6], che statuisce il principio di non discriminazione, da leggere in combinato disposto con l’articolo 8 della CEDU[7], riguardante invece il rispetto della vita privata e familiare.

Come si vedrà in seguito, sia attraverso l’analisi delle singole sentenze, sia attraverso un dialogo serrato con la Corte di Giustizia dell’Unione Europea[8], i giudici di Strasburgo sono passati da un’idea di paternità tradizionale in Petrovic v. Austria - basandosi sull’argomentazione che la differenza di trattamento e di godimento del congedo fosse giustificata dal fatto che nella maggior parte degli Stati non fossero previste prestazioni a favore dei padri - ad una fase di apertura verso la rivalutazione della figura paterna in Weller v. Hungary – in cui la Corte estende l’ambito di applicazione dell’articolo 14 della CEDU anche a quei diritti volontariamente negati dagli Stati ai padri – fino ad un’ultima fase in Markin v. Russia, in cui la Corte giudica in contrasto con l’articolo 14 le differenze di trattamento tra uomini e donne in relazione ai congedi ed invoca una maggiore partecipazione dei padri alla cura dei figli[9].

2. L’idea di paternità tradizionale: il caso Petrovic v. Austria

La prima sentenza oggetto di studio è quella resa nel caso Petrovic v. Austria nel 1998.

Il ricorso viene presentato dal signor Petrovic, studente lavoratore a tempo parziale, il quale era sposato ed aveva avuto un bambino con una funzionaria presso un ministero federale la quale, dopo la nascita del figlio, era tornata a lavorare. Il padre, dovendo occuparsi del bambino, aveva richiesto al proprio datore di lavoro la possibilità di ottenere un sussidio per congedo parentale, richiesta che, però, era stata respinta in quanto, secondo la legge austriaca vigente al momento (poi invero modificata[10]) solo la madre poteva beneficiare di tale sussidio.

Il ricorrente affermava di essere stato vittima di una discriminazione in base al sesso, allegando la violazione dell’articolo 14 CEDU in combinato disposto con l’articolo 8 CEDU. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha respinto tuttavia il ricorso, accettando e perpetuando così la visione di una divisione sessuata del lavoro e riducendo la figura del padre al solo ruolo di “male breadwinner”.

Il fallito allontanamento da questa concezione della paternità è il risultato di una serie di fattori correlati. In primo luogo la mancata prevalenza di un consenso europeo sui presupposti per la ravvisabilità di un “sospetto” motivo di discriminazione, che può innescare un cosiddetto "scrutinio giudiziale rigoroso", ovvero un esame giurisdizionale molto intenso e attento di una differenza di trattamento.

Se infatti una diversità di trattamento è basata su alcuni motivi particolarmente gravi, si può sospettare che il trattamento possa essere inaccettabile. Il dubbio dunque, con riferimento alla fattispecie concreta, era se anche il sesso potesse essere ritenuto un “motivo sospetto” sufficientemente forte, tale da determinare uno scrutinio giudiziale più rigoroso. In secondo, luogo si rileva l’assenza da parte della stessa Corte di un approccio non stereotipato[11].

Avendo stabilito l’applicabilità dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della CEDU, la Corte ha iniziato il suo ragionamento argomentando dalla differente ratio del congedo di maternità e parentale. Mentre il primo è stato concepito, nella maggior parte degli Stati, per esigenze connesse alla tutela della salute psico-fisica della madre nella sua speciale relazione con il bambino, ossia per permetterle di riprendersi dalla fatica del parto o dell’allattamento, il secondo è stato concepito per soddisfare i bisogni del periodo successivo al parto e per permettere al beneficiario di accudire personalmente il bambino[12].

Nonostante la Corte abbia riconosciuto la posizione simile – non eguale - del padre e della madre, essa ha sostenuto tuttavia che la scelta di riservare il congedo parentale alla sola madre rientrasse nel margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri.

Riflessioni critiche da parte della dottrina[13] sono state svolte in relazione al suddetto margine di apprezzamento con riferimento al fatto che, nonostante quello esaminato fosse un caso di discriminazione basata sul sesso, il controllo giudiziale applicato non è stato così rigoroso. I giudici di Strasburgo hanno preso in  considerazione due fattori importanti, che conducono a due opposte conclusioni: da un lato la “sospetta” natura del sesso come elemento discriminante, che richiede fondate ragioni per ritenere un trattamento differente compatibile con l’articolo 14 CEDU, dall’altro la mancanza di standard comuni in materia di congedo parentale fa sì che un discreto margine di discrezionalità debba necessariamente essere lasciato agli Stati[14].

La Corte nota come a partire dagli anni Ottanta del Ventesimo secolo non vi fosse un consensus comune in questa materia, in relazione al fatto che i congedi fossero prevalentemente attribuiti alle madri. L’estensione di questi istituti è avvenuta progressivamente, in concomitanza con lo sviluppo di una visione di maggiore condivisione di responsabilità tra uomini e donne nella cura della famiglia e dei figli[15]. In ragione della modifica avvenuta nel 1990 della legislazione austriaca, in una direzione di parità dei ruoli genitoriali, la Corte non condanna la precedente legislazione, perché il congedo parentale era stato gradualmente esteso in molti Stati anche ai padri lavoratori, ma questi potevano accedervi solo in pochi Stati[16].

L’assenza di un approccio comune sembrerebbe dunque aver influito, secondo parte della dottrina[17], sulla sentenza adottata dalla Corte, la quale, nel caso in esame, non assumerebbe un approccio anti stereotipato. I giudici di Strasburgo sembrerebbero non prendere in considerazione questa prospettiva, facendo applicazione del solo margine di apprezzamento riservato agli Stati. Esaminando la fattispecie dalla prospettiva della concezione tradizionalista dei ruoli maschili e femminili, trascurerebbero le potenziali implicazioni positive che le legislazioni riguardanti le prestazioni previdenziali possano avere nei confronti delle donne, fallendo nel combattere modelli discriminatori sottostanti alla pronuncia. Causa di ciò è che  l’eguaglianza sia solo considerata nella sua accezione formale, non sostanziale[18].

Ad avviso della Corte, le realtà giuridiche degli Stati non sarebbero state sufficientemente convergenti per accordare una tutela più estesa agli uomini. Essa pertanto ha contribuito a perpetuare la visione del “male breadwinner/ female homemaker”, veicolando il messaggio che gli uomini non possano stare a casa perché debbano provvedere economicamente al supporto della propria famiglia. Se, da un lato, questa decisione è comprensibile, in relazione al fatto che la Corte non abbia voluto spingersi troppo al di là delle scelte spettanti ai singoli Stati nell’interpretazione della CEDU, d’altro canto è tuttavia problematica, in relazione all’assenza di una comparazione di previsioni legislative nazionali che dimostrino la loro asserita divergenza[19].

Rispetto al caso Griesmar della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[20], la Corte Europea dei diritti dell’uomo raggiunge una conclusione differente, in ragione anche dei parametri normativi differenti: nella CEDU, infatti, maggiormente legata ad una visione liberale, vi è solo un generico “contenitore” di diritti, rappresentato dall’art 14, che stabilisce il divieto di discriminazione; la normativa europea, invece, garantisce in modo più diretto e puntuale il rispetto e l’applicazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne nel campo sociale ed economico[21].

Secondo parte della dottrina, pertanto, la Corte avrebbe potuto e dovuto spingersi oltre. Alle obiezioni sollevate in considerazione del fatto che un approccio anti-stereotipato sarebbe stato incompatibile con il desiderio della Corte di non perdere legittimazione apparendo “attivista”[22], la dottrina ha risposto che i giudici di Strasburgo dovrebbero invece essere continuamente critici e interrogarsi sui modelli sociali sottostanti che hanno condotto il caso dinanzi ad essi, analizzando criticamente gli stereotipi alla base delle questioni legate all’articolo 14 CEDU e mantenendo un dialogo costante con gli Stati membri. Questa “partecipazione attiva” porterebbe, infatti, ad un aumento della legittimazione della Corte che, in tal senso, non perderebbe credibilità, ma al contrario favorirebbe la trasparenza delle proprie decisioni[23].

La pronuncia in esame costituisce una pietra miliare per le sentenze successive, soprattutto per la dissenting opinion dei giudici Berhardt e Spielmann. Essi evidenziano due aspetti importanti, ripresi da parte della dottrina nell’elaborazione delle critiche sull’approccio anti-stereotipato della Corte.

In primo luogo, i giudici esprimono la preoccupazione che le discriminazioni nei confronti dei padri da un lato possano perpetuare la visione della tradizionale divisione sessuata del lavoro, ma dall’altro abbiano effetti negativi anche nei confronti delle madri. In secondo luogo, nonostante la mancanza di un consensus comune a livello europeo nell’attribuzione ai padri di tali diritti, gli Stati, se decidono di garantirli, non dovrebbero farlo in maniera discriminatoria e, in un orizzonte più ampio, non dovrebbero utilizzare la distribuzione tradizionale dei ruoli familiari per giustificare trattamenti differenti tra uomini e donne[24].

Queste considerazioni sono oltremodo importanti in quanto saranno recuperate e sviluppate successivamente dai giudici di Strasburgo, i quali le utilizzeranno non per negare, ma per estendere particolari diritti agli uomini.

3. Il caso Weller v. Hungary

La dissenting opinion nel caso Petrovic v. Austria è ripresa all’interno della sentenza Weller v. Hungary.

Il ricorrente, cittadino ungherese, sposato con una cittadina rumena, da cui aveva avuto due figli, aveva richiesto il congedo di maternità in nome proprio e per conto dei propri figli. Secondo la legge ungherese, esso poteva essere richiesto unicamente dalla madre con cittadinanza ungherese, dai genitori adottivi o dai tutori; i padri potevano invece richiederlo nella sola ipotesi di morte della madre.

La Corte regionale, adita dal signor Weller, aveva respinto il ricorso sostenendo che lo scopo del congedo fosse quello di aiutare la madre nel recupero delle proprie energie psico-fisiche, non i bambini o l’intera famiglia[25]. Il ricorrente era invece di opposta convinzione, ossia che la natura del congedo fosse primariamente finanziaria e diretta più generalmente a supportare il minore e l’intera famiglia.

Egli aveva proposto pertanto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, chiedendo se l’esclusione dei padri dai benefici connessi alla cura dei figli costituisse una discriminazione in relazione al divieto posto dall’art 14 CEDU, in combinato disposto con l’articolo 8[26].

La Corte, considerando la gamma di beneficiari del suddetto congedo, ha stabilito che la differenza di trattamento del padre fosse connessa più al suo status genitoriale che all’appartenenza di genere in quanto tale[27]. Stante il diverso “ground of discrimination”, la Corte si distacca rispetto all’approccio seguito nel caso Petrovic v. Austria: rifiuta infatti di accettare una giustificazione connessa a una percezione stereotipata di un gruppo a cui il ricorrente appartiene, ossia quello dei padri.

La Corte ha ritenuto che, nonostante il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materia previdenziale, l’assenza di un consensus europeo comune non libera gli Stati dalla responsabilità di garantire queste prestazioni senza discriminazioni[28]. Nella fattispecie in esame, non sussistendo nessuna giustificazione oggettiva per l’esclusione dei padri dal suddetto congedo, la Corte ha affermato la violazione dell’articolo 14 CEDU in combinato disposto con l’articolo 8[29].

I giudici hanno ritenuto discriminatoria una legislazione nazionale che escludeva le madri straniere e i padri ungheresi dal godimento dai sopracitati benefici, assicurati a famiglie in cui la nazionalità era inversa[30].

Questa sentenza è oltremodo significativa poiché, contrariamente a quanto stabilito nel caso Petrovic v. Austria, i giudici di Strasburgo rifiutano la concezione per cui i padri non vogliano o non siano capaci di prendersi cura dei propri figli, sfidando implicitamente la visione della distribuzione dei ruoli familiari e della divisione sessuata del lavoro.

Inoltre, rifiutando di adottare un’analisi anti-stereotipata, la Corte arriva ad una decisione che si distacca dalla concezione di paternità tradizionale solo indirettamente e il cui risultato è limitato solo alla contemplazione, piuttosto che all’incoraggiamento, di un maggiore ed eguale condivisione delle responsabilità familiari tra donne e uomini.

Contrariamente a quanto avvenuto nel caso Petrovic v. Austria, i giudici di Strasburgo, utilizzando l’articolo 14 CEDU, adottano uno scrutinio giudiziale più rigido, nonostante non sia ancora ancora diffuso un approccio uniforme tra gli Stati contraenti per ciò che concerne il regime delle prestazioni previdenziali familiari[31].

L’impiego dell’articolo 14 CEDU ha risparmiato la Corte dal dover mantenere una disciplina legislativa nazionale conservatrice nel nome del margine di apprezzamento riservato agli Stati, aprendo la strada ad un una nuova concezione di paternità[32].

4. Una nuova paternità: il caso Konstantin Markin v. Russia

La ratio decidendi sottesa al caso Weller v. Hungary viene ripresa e ampliata nel caso Konstantin Markin v. Russia. In esso, il ricorrente era un militare, padre di tre figli, divorziato dalla moglie. A seguito del divorzio, i due avevano concordato che i figli avrebbero vissuto con il padre, mentre la madre avrebbe pagato per il mantenimento.

Il signor Markin aveva perciò fatto richiesta per usufruire del congedo parentale di tre anni, ma gli era stato opposto un diniego in relazione al fatto che, secondo la legge del servizio militare russo, il congedo di tale durata avrebbe potuto essere attribuito unicamente alle madri in servizio militare[33]. Egli, come unico soggetto in grado di prendersi cura dei propri figli, aveva pertanto beneficiato di un congedo di soli tre mesi, che gli era riservato dalla stessa legislazione.

Il signor Markin aveva proposto ricorso contro il suddetto diniego presso le corti militari russe, sul presupposto, tra gli altri, della violazione di una disposizione della Carta costituzionale russa, avente tra i suoi principi fondanti quello della parità tra uomini e donne. Le corti militari avevano tuttavia respinto il ricorso, pertanto egli aveva adito la Corte Costituzionale russa, affermando ancora che le previsioni legislative del Military Service Act fossero contrarie al principio di eguaglianza espresso nella Costituzione[34].

La Corte Costituzionale russa aveva respinto nuovamente il ricorso nel 2009, avallando la tesi per cui il divieto della legislazione russa di concedere il congedo parentale agli uomini in servizio militare fosse basato in primo luogo sul regime giuridico speciale dei militari, in secondo luogo su altrettanto importanti finalità che giustificano limitazioni ai diritti umani e alle libertà fondamentali, in relazione alla necessità di creare condizioni adeguate per lo svolgimento di un’attività professionale efficiente, da parte dei militari, di difesa della patria[35].

Il ricorrente aveva nel 2006 anche adito la Corte Europea dei diritti dell’uomo, la quale nel 2010, dieci mesi dopo la pronuncia della Corte Costituzionale russa, ha accolto invece il ricorso, accertando la violazione dell’articolo 14 CEDU in combinato disposto con l’articolo 8.

Essa infatti ha ritenuto che la Corte Costituzionale russa si fosse maggiormente concentrata sulle esigenze di sicurezza nazionale e sulla specificità del servizio delle forze armate - perpetuando una certa visione della maternità - piuttosto che sulle esigenze del singolo ricorrente.[36]

Nell’argomentazione in diritto, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sottolineato innanzitutto le differenze che contraddistinguono il congedo di maternità e il congedo parentale: il primo teso a far recuperare alla madre le energie psicofisiche successivamente al parto e all’allattamento, il secondo diretto a consentire al genitore di stare in casa e badare personalmente al figlio[37].

Alle osservazioni fatte dal governo russo, che aveva posto l’attenzione sul legame speciale intercorrente tra la madre ed il bambino nel periodo successivo al parto, la Corte ha risposto sostenendo che, nonostante esistano delle differenze tra la madre ed il padre nella relazione con il minore, per ciò che concerne la cura del figlio nel periodo di congedo parentale la madre e il padre si trovano in una posizione simile[38].

Essa ha inoltre obiettato, in relazione all’affermazione del governo russo secondo cui l’attribuzione del congedo parentale sole alle donne in servizio militare sia intesa come una discriminazione - o meglio azione - positiva a favore delle donne, che il differente trattamento circa il suddetto congedo non abbia l’effetto di correggere una posizione svantaggiata delle donne nella società o una disuguaglianze tra donne e uomini, quanto invece l’effetto opposto, ossia perpetuare gli stereotipi di genere, dannosi sia per le donne che per gli uomini[39].

Nonostante le argomentazioni relative allo speciale regime delle forze armate e al ruolo sociale delle donne da parte del governo russo, la Corte compie qui un importante passo in avanti, non ritenendo nessuna di esse meritevole di accoglimento. Il differente trattamento non è pertanto giustificabile, non essendo state fornite prove sufficienti, da parte del governo russo, che l’efficienza dell’esercito sarebbe stata minata se anche agli uomini fosse stato concesso il diritto a fruire del congedo parentale.

In tal senso, pertanto, la Corte esplicitamente rifiuta l’immagine del padre come “male breadwinner”, portando a compimento il processo di rivisitazione della figura paterna, avviato precedentemente nel caso Weller v. Hungary.

La decisione di contestare la visione della divisione sessuata del lavoro è la risultante di due distinti ma correlati sviluppi dottrinali. In primo luogo il ragionamento della Corte attesta il peso decisivo attribuito all'esistenza di un terreno comune condiviso per l'estensione del congedo parentale ai padri come fattore che influenza l'ampiezza del margine di apprezzamento degli Stati aderenti alla CEDU e l'intento della revisione. Prendendo le distanze dal caso Petrovic v. Austria, la Corte si serve di un’analisi di comparazione nazionale e internazionale condotta tra i vari Stati per verificare l’esistenza di un consensus comune europeo in materia del suddetto congedo[40].

In secondo luogo, i giudici di Strasburgo adottano in questo caso, per la prima volta, un approccio anti stereotipato. La percezione, acquisita attraverso il consensus europeo, che il modello “male breadwinner/female caregiver” sia diventato particolarmente dannoso sia all’interno del contesto europeo che internazionale, permette alla Corte di affrontare la questione e di esprimersi sulle conseguenze negative che una concezione stereotipata della genitorialità possa comportare[41].

Quando infatti la Corte si trova ad esaminare le obiezioni sollevate dal governo russo, essa considera impossibile non applicare uno scrutinio più rigoroso rispetto a quello adottato nel caso Petrovic v. Austria e non prendere nota dell’evoluzione che si è verificata dall’emanazione di quella sentenza.

I giudici di Strasburgo, operando una comparazione delle previsioni legislative nazionali ed internazionali, osservano che nella maggior parte degli Stati aderenti al Consiglio d’Europa il congedo parentale è attribuito sia alla madre che al padre, sia alle donne che agli uomini in servizio militare. Ciò conferma pertanto l’evoluzione della società europea nella direzione di una maggiore condivisione delle responsabilità familiari e di parità tra donne e uomini[42]. Il ragionamento espresso dalla Corte nel caso Petrovic v. Austria non corrisponde più alla realtà odierna e, come tale, è giudicato obsoleto, in considerazione del fatto che il progresso della parità tra i sessi è un obiettivo importante, al cui raggiungimento mirano tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa[43].

Questa sentenza è oltremodo significativa nel panorama giurisprudenziale della Corte Europea dei diritti dell’uomo poiché mostra per la prima volta il cosiddetto “approccio contestuale sociale”. Questo approccio rende esplicita la ratio legis implicita dietro il motivo di discriminazione sospetta. In altri termini, i motivi di discriminazione tradizionalmente legati a forme persistenti di stereotipi, pregiudizi e/o stigmatizzazioni, che portano all'emarginazione sociale, sono a priori sospettati di non essere legittimi motivi per differenziare le persone[44].

L’approccio contestuale sociale denota pertanto l'idea generale che si dovrebbe essere consapevole di come i modelli strutturali di svantaggio sociale e di esclusione funzionino per mantenere i gruppi emarginati nei margini. Si tratta, quindi, di una peculiare prospettiva sull'interpretazione e l'applicazione dell'articolo 14 CEDU, che tiene conto dell'oggetto e dello scopo di eliminare tali strutture di svantaggio sociale o perlomeno minimizzare il loro effetto sui singoli. É inoltre dimostrato, in casi riguardanti altri motivi di discriminazione, come le violazioni sembrano verificarsi principalmente quando il contesto sociale in cui il ricorrente si trova indica una relativa vulnerabilità o emarginazione[45].

Nel caso di specie, nell’esaminare la richiesta del ricorrente circa la sussistenza di una discriminazione, la Corte  aggiunge un espresso riferimento al contesto sociale, creando in questo modo un legame tra il singolo caso e le più ampie implicazioni che le previsioni legislative nazionali – in specie russe - possano avere sulla carriera delle donne e sulla vita degli uomini[46]. I giudici, infatti,  non cercano di dimostrare l'insostenibilità delle generalizzazioni dei ruoli sessuali attraverso riferimenti alle circostanze specifiche del ricorrente. Essi non si riferiscono al fatto che questi fosse un padre divorziato con figli, ma sviluppano un ragionamento anti stereotipato che può dare l’impressione di supportare la concessione del congedo parentale ai padri sulla base di una visione “aspirazionale” – opposta a quella realistica – della paternità[47].

La Corte mette in luce anzitutto, come sopra detto, che l’esclusione dei padri dalla concessione del congedo contribuisca a perpetuare una distribuzione sbilanciata dei ruoli familiari; in secondo luogo riconosce il doppio pericolo degli stereotipi di genere. Ciò comporta che, piuttosto che soffermarsi su come gli uomini siano discriminati in questo caso, essa focalizzi molto l’attenzione anche sull’altra faccia della medaglia, egualmente importante, ossia come gli stereotipi di genere abbiano l’effetto di porre il compito di cura dei figli esclusivamente sulle donne e, conseguentemente, limitare l’accesso delle donne a carriere professionali[48].

In terzo luogo, la Corte è esplicita nel contestare lo stereotipo “male breadwinner/female caregiver” come giustificazione insufficiente per un trattamento differente. Essa, pertanto, dichiara la violazione dell’articolo 14 CEDU in combinato disposto con l’articolo 8 CEDU.

Secondo parte della dottrina[49], come in parte già segnalato, questa pronuncia sarebbe significativa perché, per la prima volta, contesterebbe gli stereotipi di genere e compirebe un passo in avanti per ciò che concerne l’ideologia gender su cui la società poggia, promuovendo l’idea che gli uomini siano capaci tanto quanto le madri di badare ai figli.

Secondo altra parte della dottrina[50], invece, ciò che raggiunge la Corte sarebbe una maggiore inclusione degli uomini ma nessun miglioramento della situazione delle donne nell’esercito russo, poiché essa trascurerebbe di considerare il fatto che non sono solo gli uomini in servizio militare ad essere colpiti e gravati dallo stereotipo, ma anche le donne. Ciò in quanto, come si evince dalle argomentazioni della Corte Costituzionale russa, emergerebbe l’idea che le donne in servizio militare non siano importanti tanto quanto gli uomini[51]. Secondo alcuni autori, pertanto, la Corte avrebbe dovuto nominare anche questi stereotipi e analizzarli nella loro complessità, in modo tale da avere una visione più ampia, anche in virtù di quell’approccio contestuale sociale precedentemente menzionato[52].

Indubbiamente, tuttavia, la sentenza Markin v. Russia rappresenta una pietra miliare verso una nuova concezione di paternità, raggiungibile proprio attraverso il “work-life balance”. La Corte, distaccandosi dal caso Petrovic v. Austria, in cui aveva applicato uno scrutinio meno rigoroso, si serve invece in questo caso del diffuso consensus europeo, che permette al motivo sospetto di discriminazione di svolgere un ruolo nella determinazione dell’ampiezza del margine di apprezzamento  degli Stati contraenti e, conseguentemente, consente alla Corte di svolgere uno scrutino giudiziale più rigoroso[53].

I giudici di Strasburgo, nel transitare da una visione tradizionale della paternità ad una nuova visione, che tiene conto dell’evoluzione della società, decidono di fondare ciascuno dei loro passi, durante questo percorso, su un uso coerente della dottrina interpretativa, in modo tale da evitare di essere percepiti come eccessivamente progressisti rispetto allo sviluppo della società e di essere propriamente tenuti nella giusta considerazione dai legislatori nazionali[54].

In conclusione, la Corte non solo riconosce la violazione del diritto al rispetto della vita familiare del ricorrente e del divieto di discriminazione, ma, indirettamente, indica anche la necessità di apportare cambiamenti alla normativa interna dello Stato. Questa decisione è stata poi confermata anche successivamente nel 2012 dalla Grande Camera della Corte Europea[55].

Ciò ha creato un contrasto senza precedenti con la Corte Costituzionale russa[56]. Per la prima volta, infatti, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la Corte Costituzionale russa si sono scontrate direttamente e divergono sia sul significato di diritti fondamentali, sia su chi abbia la priorità nell’esprimerli.

A seguito della pronuncia della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo, il ricorrente aveva adito le autorità giurisdizionali nazionali per ottenere una revisione del proprio caso, ma i giudici interni avevano rigettato la sua richiesta, sul presupposto da un lato che lo stesso avesse già ottenuto soddisfazione nella forma di un risarcimento dalla Corte Europea, dall’altro che, nell’applicare una disposizione nazionale riguardante l’esecuzione delle sentenze della Corte, la suddetta sentenza non poteva essere eseguita, potendosi paventare il dubbio di costituzionalità di una previsione legislativa sanzionata dalla Corte Europea, ma ritenuta conforme a Costituzione dalla Corte Costituzionale russa[57].

Essendo stata sollevata una questione di costituzionalità dal giudice di merito, la Corte Costituzionale si dichiara esclusivamente competente nell’esaminare ed eventualmente dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni legislative nazionali in contrasto con la Costituzione russa, in quanto incompatibili con la CEDU, parametro interposto di legittimità costituzionale[58]. In tal senso, pertanto, la Corte adotta un approccio simile a quello che era stato adottato dalla Corte Costituzionale italiana nelle sentenze 348/2007 e 311/2009[59], pur differente in alcuni aspetti[60].

5. Il caso Hulea v. Romania

La ratio della sentenza Markin v. Russia è ripresa nel 2012 nel caso Hulea v. Romania[61]. A differenza del caso Markin, tuttavia, esso non riguarda l'esclusione degli uomini nell'esercito dal beneficio del congedo parentale in sé, ma, per così dire, il rifiuto di porre rimedio a tale discriminazione.

Il signor Hulea, operaio elettromeccanico dell'esercito rumeno, si era visto negare la richiesta di fruizione del congedo parentale sulla base del fatto che, al tempo della richiesta, ossia nel 2002, la legge militare applicabile concedeva solo alle donne il suddetto congedo. Egli aveva contestato questa decisione in tribunale, sostenendo che il beneficio gli sarebbe dovuto spettare in quanto, in base a una legge più recente, gli uomini e le donne civili potevano beneficiare del congedo parentale senza nessuna discriminazione. Il ricorrente aveva inoltre affermato di aver subito ritorsioni da parte dei suoi superiori per aver fatto richiesta di fruizione del suddetto congedo, conseguentemente aveva richiesto anche il risarcimento dei danni non pecuniari al tribunale.

Quest’ultimo aveva respinto tuttavia il ricorso, sulla base del fatto che la legge sullo status del personale militare era da considerarsi lex specialis. Adito il tribunale di secondo grado, il ricorrente aveva convinto la Corte a sollevare questione di legittimità costituzionale sulle dette disposizioni legislative che negavano la fruizione del congedo anche agli uomini in servizio militare ma, nonostante la risposta positiva della Corte Costituzionale, la Corte d’Appello aveva nuovamente respinto il ricorso[62].

Il signor Hulea aveva deciso pertanto di adire la Corte Europea dei diritti dell’uomo, allegando la violazione degli articolo 14 e 8 CEDU. La Corte ha accolto il ricorso, criticando il modo in cui la Corte nazionale avesse giudicato il caso per due motivi. In primo luogo, per aver evitato di valutare l’allegata rivendicazione di discriminazione basata sul sesso, concentrandosi invece sulle risposte alle domande di diritto positivo[63]; in secondo luogo, poiché riteneva che la Corte d'appello fosse stata "troppo formalistica" nel concludere che il ricorrente non avesse debitamente dimostrato il suo danno non pecuniario[64].

Il merito più importante della sentenza in esame è quello di aver evidenziato il formalismo dei tribunali rumeni nell’applicazione del principio di non discriminazione, elemento spesso identificato come un ostacolo per l'effettiva attuazione della legge di non discriminazione anche in altri Paesi europei[65].

6. La tutela della maternità

La madre biologica e lo speciale discusso legame con il bambino sono, come dimostrato nelle sentenze precedenti, il punto di riferimento o l’elemento di comparazione in molti casi di discriminazione concernenti i diritti dei padri. La ragione di ciò è collegata alle strutture di genere che esistono nella legislazione riguardante i diritti previdenziali e al modo in cui il lavoro di cura è organizzato all’interno della società[66].

Esaminando più da vicino i casi riguardanti la discriminazione di madri lavoratrici, ci si accorge che essi siano in numero minore e spesso collegati a molteplici fattori, che fanno sì che la Corte adotti un approccio intersezionale. Le stesse sono infatti spesso considerate come soggetti vulnerabili, ossia rientranti tra quelle persone la cui autonomia e dignità possano essere minacciate[67], con il rischio di mettere a repentaglio l’accesso ad alcuni benefici importanti per il loro benessere psico-fisico.

Un’intersezione di più fattori nell’analisi della discriminazione, in relazione alla maternità, si è verificata nel 2013 nel caso Topčić-Rosenberg v. Croatia[68], che illustra l’importanza politica di assicurare che un sistema statale di prestazioni previdenziali non discrimini i genitori adottivi[69].

La ricorrente, lavoratrice autonoma, a seguito dell’adozione di un bambino di tre anni, aveva fatto richiesta di congedo di maternità e della relativa indennità. Al tempo dei fatti di causa, la legge croata consentiva alle madri lavoratrici subordinate di fruire del congedo di maternità da 45 giorni prima della data presunta del parto fino al primo compleanno del bambino; alle lavoratrici autonome, anche adottive,  fino al primo compleanno del bambino, ma era raro che le madri adottive adottassero un bambino al di sotto di un anno. La ricorrente  basava la sua richiesta sul Labour Act, che garantiva alle madri adottive con un bambino al di sopra di un anno ma al di sotto di dodici, la fruizione di un congedo fino a 270 giorni dalla data dell’adozione. La detta richiesta  era stata tuttavia rigettata, in relazione al fatto che le corti nazionali interpretavano la legge che si riferiva alle lavoratrici autonome come lex specialis, nel senso che il congedo di maternità per i genitori, biologici e adottivi, potesse essere richiesto solo fino al primo compleanno del minore e, dato che il bambino in questione aveva già compiuto tre anni, alla madre non sarebbe potuto spettare nessun congedo[70].

La madre adottiva, pertanto, dopo aver esaurito i rimedi nazionali, aveva adito la Corte Europea dei diritti dell’uomo, lamentando la violazione dell’articolo 14 CEDU in combinato disposto con l’articolo 8 CEDU.

La Corte ha rilevato anzitutto che il principio di non discriminazione contenuto nell’articolo 14 non sia limitato solo ai casi in cui vi sia stata una violazione di una delle disposizioni della CEDU, ma si estenda anche a quei diritti che rientrino nell’ambito generale di qualsiasi articolo della Convenzione, che uno Stato ha volontariamente deciso di garantire. In secondo luogo ha rilevato che una differenza di trattamento possa essere ritenuta discriminatoria solo se non abbia una giustificazione obiettiva e ragionevole[71].

Avendo ritenuto la fattispecie rientrante nell’articolo 8 CEDU, che assicura il diritto alla vita familiare e personale, la Corte ha evidenziato due punti importanti. In primo luogo, nel caso della madre adottiva, la ratio del congedo di maternità o parentale è quella di consentirle di prendersi cura del bambino, pertanto essa si trova in una posizione simile a quella del genitore biologico; in secondo luogo lo Stato dovrebbe astenersi dal compiere qualsiasi azione che possa prevenire lo sviluppo del legame tra genitori adottivi e il loro bambino da un lato e l’integrazione del minore nella famiglia dall’altro[72]. Le corti nazionali infatti, ad avviso della Corte, erano state eccessivamente formalistiche nell’applicazione della legge riguardante le lavoratrici autonome, trascurando di considerare che la posizione della madre biologica al tempo della nascita corrisponde a quella della madre nel momento immediatamente successivo all’adozione.

I giudici di Strasburgo pertanto, non avendo riscontrato nessuna giustificazione obiettiva per il diverso trattamento, nel rispetto del margine di apprezzamento riservato agli Stati, hanno dichiarato la violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 CEDU[73].

Il caso dell’adozione da parte di madri adottive single è trattato nel 2010 anche nel caso Santos Hansen v. Denmark[74], dichiarato inammissibile dalla Corte, che consente tuttavia di cogliere alcuni profili rilevanti.

Il ricorrente era stato adottato da una donna della Danimarca single che, in quanto tale, doveva soddisfare determinati requisiti economici prima dell’adozione. Ella aveva fatto richiesta, oltre che per un sussidio per il minore (“child subsidy”), anche per un sussidio extra (“extra child subsidy”) - quest’ultimo concesso ai bambini la cui paternità non fosse stata stabilita o il cui padre fosse morto – che tuttavia le era stato negato[75].

Il ricorrente aveva dunque allegato dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo la violazione dell’articolo 14 CEDU,  lamentando che la differenza di trattamento fosse ingiustificata poiché la madre si trovava in una situazione assimilabile a quella richiesta per la concessione del sussidio extra, dovendo anch’essa avere accesso al beneficio in base al principio di eguaglianza. Dopo aver esaminato attentamente il caso, i giudici di Strasburgo hanno optato per l’inammissibilità, accogliendo le osservazioni del governo danese[76].

Essi hanno ricordato come il sussidio fosse concesso ai bambini che avessero soltanto un genitore legale, essendo l’altro scomparso a seguito di circostanze imprevedibili o se la madre non avesse avuto i mezzi sufficienti a provvedere a sé e al bambino. Nel caso dell’adozione, invece, la situazione era differente, in quanto il genitore era scelto dopo verifiche adeguate, che concernevano anche la situazione economica dell’adottante. Pertanto, l’esclusione dal godimento del suddetto beneficio rientrava pienamente nel margine di apprezzamento riservato agli Stati[77].

La sentenza in esame mostra la complessità dell’applicazione del principio di non discriminazione in situazioni come quella della fattispecie concreta. Essa è infatti stata oggetto di critiche da parte della dottrina[78] , secondo cui la Corte avrebbe preferito non entrare in questioni di politica sociale operate a livello nazionale, restandone sì al di fuori - invocando l’argomento del margine di apprezzamento riservato agli Stati – ma allo stesso tempo osservando succintamente che differenti interpretazioni della disposizione legislativa non avrebbero potuto essere escluse[79].

Ulteriore profilo problematico è quello legato al fatto che, se i bambini fossero stati orfani di madre o con madre ignota, al padre single non sarebbe stato corrisposto nulla[80]. Pertanto, dal punto di vista dell’applicazione del principio di eguaglianza sostanziale nell’ottica conciliativa, vi sarebbe stata un’irragionevole disparità di trattamento e un’ennesima svalutazione della figura paterna.

Questo caso incarna inoltre l'approccio della Corte in questo settore, dove l'attenzione non è tanto rivolta alla privazione dei diritti, quanto a questioni procedurali che diminuiscono la rilevanza del principio della parità di trattamento. Sebbene queste ultime siano, ovviamente, importanti, verrebbero, secondo parte della dottrina[81], ignorate le violazioni sottostanti dei diritti umani fondamentali. Ciò restringe la portata della protezione della Corte a un livello quasi trascurabile in questo settore, lasciando l'assistenza sociale in gran parte al capriccio dello Stato.

Il principio di non discriminazione è pertanto foriero di notevoli problemi in materia di conciliazione, anche in relazione alla discriminazione in base al sesso a causa della gravidanza sul luogo di lavoro, tema affrontato più specificatamente nel caso Napotnik v. Romania[82] nel 2020.

La ricorrente lavorava come terza segretaria presso l’ambasciata di Liubjana e, avendo avuto un bambino e avendo fruito del congedo di maternità e del congedo parentale, alla seconda gravidanza era stata richiamata a Bucharest, con conseguente sospensione del contratto in ragione delle numerose assenze dal lavoro. Successivamente, tuttavia, era stata riassunta dal datore di lavoro presso Bucharest e promossa come prima segretaria[83].

La ricorrente aveva però nel frattempo adito i tribunali nazionali, lamentando che la ragione della cessazione del rapporto di lavoro fosse riconducibile alla gravidanza e, come tale, la cessazione del rapporto dovesse essere considerata discriminatoria. Essendo stati rigettati i ricorsi a livello nazionale, poiché la decisione di terminare il contratto era stata ritenuta legittima, ella si era rivolta alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, allegando la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 12 alla Convenzione[84], dell’articolo 6 CEDU[85] e dell’articolo 8 della CEDU.

La Corte ha rilevato anzitutto che la protezione fornita dall’articolo 1 del protocollo addizionale, concernente il divieto di discriminazione, fosse identica a quella contenuta nell’articolo 14 CEDU e, pertanto, nell’esaminare la ragionevolezza della differenza di trattamento, dovessero essere applicati gli stessi standard di valutazione. Essa ha evidenziato in primo luogo che l’assenza della ricorrente avesse influenzato l’attività di consolato nell’ambasciata; in secondo luogo che la legge nazionale prevedeva la possibilità per il datore di lavoro di riorganizzare l’attività del dipendente, con il solo divieto di licenziamento; in terzo luogo che la ricorrente non avesse sofferto conseguenze significative nella sua carriera, in quanto era stata successivamente promossa a segretaria[86]. Pertanto, non era stata accertata nessuna violazione degli articoli summenzionati

La sentenza in esame ha suscitato reazioni diverse in quanto la Corte aveva già riconosciuto la necessità di protezione della gravidanza e della maternità nella sua giurisprudenza precedente, ma, mentre il riconoscimento era stato indiretto – in quanto i ricorrenti erano uomini cui erano stati negati alcuni benefici – questo è stato il primo caso in cui la ricorrente era una donna soggetta a differente trattamento in ragione della propria gravidanza[87].

Oggetto di critiche dottrinali è stata soprattutto la considerazione della Corte Europea riguardante il fatto che la madre non avesse subito alcuna battuta d’arresto nella sua carriera. Da alcuni autori è stato infatti messo in luce che il fatto che la ricorrente fosse stata assunta per un incarico di quattro anni a Ljubjana e successivamente richiamata a Bucharest in meno di due anni avrebbe determinato conseguenze in ordine alla riorganizzazione della sua vita lavorativa e familiare. Pertanto, la mancanza di ripercussioni in ordine alla conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare potrebbe essere discussa[88].

In secondo luogo, ulteriore profilo problematico è stato quello legato al giudizio riguardante la relazione di proporzionalità tra i mezzi impiegati e l’obiettivo perseguito. I giudici di Strasburgo, infatti, asserendo che l’assenza della lavoratrice avesse comportato conseguenze dannose per l’attività consolare, non avrebbero preso in considerazione il fatto che, a seguito della maternità della ricorrente, quest’ultima avrebbe potuto essere sostituita. La richiesta di sostituzione era infatti stata indirizzata, durante il periodo di congedo, dalla ricorrente al datore di lavoro, ma da questi ignorata[89]. Pertanto, se fosse stata esaudita, si sarebbe potuta riorganizzare diversamente l’attività lavorativa.

In terzo luogo, nonostante il divieto ribadito dalla Corte di licenziamento in ragione della gravidanza o maternità, bisogna tener conto del fatto che il licenziamento non costituisce l’unica forma di discriminazione che le donne possano soffrire al lavoro, pertanto sia il legislatore che la Corte dovrebbero garantire che nessun detrimento in termini e condizioni di lavoro possa essere subito dalle donne come conseguenza della fruizione del congedo di maternità.

Con la sentenza in esame, pertanto, sembra che la Corte Europea dei diritti dell’uomo abbia perso un’importante occasione di ribadire questi concetti, proprio in virtù dell’idea di raggiungimento del principio di eguaglianza sostanziale presente in numerosi documenti, nazionali e internazionali[90].

7. Conclusioni

Concludendo, deve constatarsi che i giudici della Corte Europea dei diritti dell’uomo non abbiano ancora avuto modo di confrontarsi con il tema della conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro con riguardo alle persone omosessuali. La suddetta questione – insieme a quella degli stereotipi di genere in questo campo – è emersa infatti di rado dinanzi a questa Corte. Ciò è dovuto non necessariamente ad una carenza di attenzione da parte dei giudici, quanto probabilmente al fatto che i cittadini europei ad oggi non percepiscano ancora la conciliazione come un diritto spettante ad ogni individuo[91] e tutelabile dinanzi alla Corte europea.

La conciliazione, infatti, non deve essere percepita come monolitica, riguardante solo le persone sposate o con un legame biologico con i propri figli, ma può e deve riguardare necessariamente tutte le persone, anche  omosessuali, le cui esigenze non sono diverse rispetto agli individui eterosessuali.

In materia di omogenitorialità sono stati compiuti passi in avanti per ciò che concerne ii diritti genitoriali[92] – soprattutto in tema di adozioni[93] - in direzione di una maggiore eguaglianza rispetto alle coppie eterosessuali.

Nel corso del tempo si è verificata in seno alla Corte un’evoluzione del diritto al rispetto della vita privata e familiare – ex articolo 8 CEDU – esteso anche alle coppie omosessuali, avente come presupposto la sola esistenza di un nucleo sociale che possa essere definito come “famiglia”[94]. Ciò è derivato da un graduale riconoscimento anche nei singoli Stati membri della tutela della coppie omosessuali e dei loro diritti, che ha comportato un diverso orientamento da parte dei giudici  di Strasburgo. Questi ultimi hanno cessato di affrontare le problematiche relative agli omosessuali esclusivamente dal punto di vista della vita privata dei singoli e hanno invece acclarato l’esistenza di un legame familiare anche tra persone dello stesso sesso[95].

Una parte della dottrina[96] ha obiettato come non sia compito della Corte imporre cambiamenti nella società o scelte sociali. La Corte stessa ha riconosciuto più volte la legittimità di queste osservazioni ma, soprattutto nel contesto omogenitoriale, ha obiettato di aver adottato un approccio sì contrastante, ma legato alle esigenze dei tempi – il cosiddetto "diritto vivente" - e al tante volte menzionato “consensus europeo”. Essa possiede infatti un “potere espressivo” [97], capace di influenzare anche i dettami normativi e le aspettative della società.

In tal senso, quindi, è diventata parte integrante di un sistema di attori sociali, che riconoscono la necessità di una trasformazione sia della genitorialità, ma anche e soprattutto della nozione e percezione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro[98]. Solo andando in questa direzione si potrà raggiungere l’eguaglianza sostanziale, da intendere come produzione di regole non arbitrarie, applicazione corretta delle dette regole e come riconoscimento e attribuzione a tutti degli stessi diritti, nel rispetto dell’identità di ognuno[99].

Sarebbe infatti necessario un ripensamento della conciliazione, come più volte precedentemente espresso, quale valore rientrante in un alveo di diritti indisponibili, non collegato allo status familiare in quanto tale. Spingendosi ancora oltre, si potrebbe arrivare a considerare la rielaborazione della conciliazione nei termini di “sicurezza sociale”[100]. Questa nozione, infatti, racchiude in sé non solo i concetti di eguaglianza e pari opportunità, ma anche quello della promozione della capacità delle persone in quanto tali di svolgere molteplici compiti. In quest’accezione, pertanto, si potrebbe giungere a concepire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro come mezzo per una reale inclusione di tutti gli individui, portatori come singoli di numerose responsabilità condivise, allo stesso tempo, con la comunità[101].

Quando, dunque, la conciliazione sarà riconosciuta e, soprattutto, sentita e accolta dai cittadini come diritto inalienabile, spettante al singolo, ma idealmente condiviso dalla collettività, si potrà avere un maggiore e più efficace attenzione sia a livello legislativo, ma anche e soprattutto giurisprudenziale. Il suddetto diritto potrà quindi approdare ed essere fatto valere anche dinanzi ai giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, che potrebbero avallare la concezione, fatta propria da una parte della giurisprudenza di merito[102], di una lesione di un “diritto primario della personalità”[103] o, in ipotesi estrema, come lesione di un diritto all’autodeterminazione.


Note e riferimenti bibliografici

[1] A. MARGARIA, The construction of fatherhood: the jurisprudence od the European Court of Human rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, 221-255.

[2] A. MARGARIA, op. cit., 221; R. Ashmore, F. Del Boca, Conceptual approaches to stereotypes and stereotyping, in D. HAMILTON, Cognitive processes in stereotyping and intergroup behaviour, London, Psychology Press, 1995, 21 ss.

[3] Corte Eur. dir. uomo, 27 marzo 1998, Ricorso no. 20458/92, Petrovic v. Austria, in Reports, 1998-II.

[4] Corte Eur. dir. uomo, 31 marzo 2009, Ricorso no. 44399/05, Weller v. Hungary,  disponibile in www.hudoc.echr.coe.int.

[5] Corte Eur. dir. uomo, 22 marzo 2012, Ricorso n. 30078/06 Markin v. Russia,  in Reports of Judgments and Decisions 2012 (extracts).

[6] Art. 14 CEDU: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

[7]  Art. 8: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

[8] A. MARGARIA, op. cit., 223 ss.; S. FREDMAN, Reversing Roles: Bringing men into the Frame, in International Journal of Law in Context, 2014, 10, 453 ss.; E.CARACCIOLO DI TORELLA, Brave New Fathers for a Brave New World? Fathers as Caregivers in an Evolving European Union, in European Law Journal, 2014, 20, 102-104.

[9] A. MARGARIA, op. cit., 224 ss.

[10] E.PALICI DI SUNI PRAT, Padri e madri in pensione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2002, 187 ss. che ricorda che la legge austriaca venne modificata il primo gennaio 1990 nel senso di permettere anche ai padre di godere di tale sussidio, ma era applicabile solo per i nati dopo il 31 dicembre 1989, il figlio di Petrovic era nato il 27 febbraio 1989 e pertanto egli non poté beneficiarne; v. anche I. RADACIC, Gender Equality Jurisprudence of the European Court of Human Rights, in The European Journal of International Law, 2008, vol. 19, 4, 845 ss.; E. BREMS, Human Rights: Minimum and Maximum Perspectives, in Human Rights Law Review, 2009, vol. 9, 3, 349-372; T. TEKLÉ, The Contribution of the ILO’s International Labour Standards System to the European Court of Human Rights’ Jurisprudence in the Field of Non-Discrimination, in Industrial Law Journal, 2020, vol. 49, 1, 365 ss.

[11] A. MARGARIA, op. cit., 236 ss.; S. HAVERKORT-SPREEJENBRINK, European Non-Discrimination Law – A Comparison of EU Law and the ECHR in the field of Non-Discrimination and Freedom of Religion in Public Employment with an Emphasis on the Islamic Headscarf issue, 2012, Cambridge, Intersentia, 2012, 169 ss.

[12] Vedi paragrafo 36 della sentenza: “Maternity leave and the associated allowances are primarily intended to enable the mother to recover from the fatigue of childbirth and to breastfeed her baby if she so wishes. Parental leave and the parental leave allowance, on the other hand, relate to the period thereafter and are intended to enable the beneficiary to stay at home to look after the infant personally. While aware of the differences which may exist between mother and father in their relationship with the child, the Court starts from the premise that so far as taking care of the child during this period is concerned, both parents are “similarly placed”.

[13] E. BREMS, Human Rights: Minimum and Maximum Perspectives, in Human Rights Law Review, 2009, vol. 9, 3, 349 ss. che afferma come la Corte Europea dei diritti dell’uomo svolga uno stretto scrutinio in relazione soprattutto ai casi di discriminazione basata sul sesso, ma in questo caso, nonostante l’applicazione di uno stretto controllo, sorprende come non abbia ritenuto fondata la violazione dell’articolo 14 e dell’articolo 8 CEDU; O. M. ARNADOTTIR, Equality and Non-Discrimination under the European Convention on Human Rights, Leida, Martinus Nijhoff, 2003, 119 ss.

[14] A. MARGARIA, op. cit., 237 ss.

[15] V. paragrafo 39 della sentenza: “It is clear that at the material time, that is at the end of the 1980s, there was no common standard in this field, as the majority of the Contracting States did not provide for parental leave allowances to be paid to fathers”.

[16] A. MARGARIA, ibidem.

[17]A. TIMMER, Towards an anti-stereotyping approach for the European Court of Human Rights, in Human Rights Law Review, 2011, 4, 736 ss.

[18] A. TIMMER, ibidem.

[19] A. MARGARIA, op. cit., 237 ss.; K. DZEHTSIAROU, European Consensus and the legitimacy of the European Court of Human Rights, Cambdrige, Cambridge University Press, 2015, 40-41.

[20] Corte Giust., 29 novembre 2001, C-366/99, Griesmar, in Foro it., 2002, IV, col. 389.

[21] E.PALICI DI SUNI PRAT, op. cit., 191.

[22] A. TIMMER, op. cit., 737.

[23] A. TIMMER, op. cit., 738.

[24] Dissenting opinion: “We are unable to share the opinion of the majority that there has been no violation of Article 14 of the Convention taken together with Article 8 in the present case. The different treatment of fathers and mothers as regards parental leave allowances in 1989 was in our view not compatible with the basic principle that both sexes must be treated equally by the State. In paragraph 37 the judgment correctly states, following previous decisions of the Court:

“… the advancement of the equality of the sexes is today a major goal in the member States of the Council of Europe and very weighty reasons would be needed for such a difference in treatment to be regarded as compatible with the Convention…”

We do not see any such weighty reasons here. It is in reality the traditional distribution of family responsibilities between mothers and fathers that gave rise to the Austrian legislation under which only mothers were entitled to parental leave allowance. The discrimination against fathers perpetuates this traditional distribution of roles and can also have negative consequences for the mother; if she continues her professional activity and agrees that the father stay at home, the family loses the parental leave allowance to which it would be entitled if she stayed at home.

It is correct that States are under no obligation to pay any parental leave allowance, but if they do so, traditional practices and roles in family life alone do not justify a difference in treatment of men and women. The reference to the situation in other European States and to the lack of uniform practice is not conclusive. The Commission correctly stated in its report that there are different social-security systems in the European States, and a State, when opting for one system, is not permitted to grant benefits in a discriminatory manner.”; v. più approfonditamente A. MARGARIA, op. cit., 240.

[25] A. MARGARIA, op. cit., 240.

[26] A. MARGARIA, op. cit., 240; C. Draghici, The Legitimacy of Family Rights in Strasbourg Case Law “Living Instrument” or Extinguished Sovereignty?, Bloomsbury Publishing PLC, Modern Studies in European Law, 2019, 125-186; R. CONTI, Convergenze (inconsapevoli o … naturali) e contaminazioni tra giudici nazionali e Corte Edu: a proposito del matrimonio di coppie omosessuali, in Corriere Giur., 2011, 4, 579 ss.; M. B. DEMBOUR, Gaygusuz Revisited:

The Limits of the European Court of Human Rights’ Equality Agenda, in Human Rights Law Review, 2012, 4, 708 ss.; K. FROSTELL, Welfare rights of families with children in the case law of the ECtHR, in The International Journal of Human Rights, 2020, 24:4, pp. 439-456.

[27] V. paragrafo 33 della sentenza. “The Court reiterates that, while differences may exist between mother and father in their relationship with the child, both parents are “similarly placed” in taking care of the unborn child (see Petrovic, cited above, § 36). It further draws attention to the fact that not only mothers but also adoptive parents and guardians were entitled to the benefit in dispute, while the first applicant was not. He was therefore differently treated on the grounds of his parental status compared with other persons who are similarly responsible for bringing up newborn children. However, the Court is of the view that this difference in treatment is not connected to the applicant’s sex, since adoptive parents or guardians, irrespective of their sex, were not excluded from the benefit”.

[28]A. MARGARIA, op. cit., 242-243.

[29] A. MARGARIA, ibidem; C. Draghici, op. cit., 176 ss.

[30] C. DRAGHICI, op. cit., 176.

[31] A. MARGARIA, op. cit., 244.

[32] A. MARGARIA, ibidem.

[33] A. MARGARIA, op. cit., 245; C. DRAGHICI, op. cit.,178; A. DI GREGORIO, Russia. Il confronto tra la Corte costituzionale e la Corte europea per i diritti dell’uomo tra chiusure e segnali di distensione, in www.federalismi.it, 2016; A. TIMMER, Towards anti stereotyping approach for the European Court of Human Rights, in Human Rights Law Review, 2011, 11, 707 ss.; A. TIMMER, Gender Justice in Strasbourg, in www.strasbourgobservers.com; G. VAYPAN, Acquiescence affirmed, its limits left undefined: The Markin judgement and the pragmatism of the Russian Constitutional Court vis-à-vis the European Court of Human Rights, in Russian Law Journal, 2014;2(3), pp. 130-140; T. TEKLÉ, op. cit., p. 102 ss.; S. BESSON, Evolutions in Non-Discrimination Law within the ECHR and the ESC Systems: It Takes Two to Tango in the Council of Europe, in The American Journal of Comparative Law , 2012, Vol. 60, 1,  147 ss.; L. MALKSOO, Markin v. Russia, in American Journal of International Law, vol. 106,4,  836 ss.

[34] L. MALKSOO, op. cit., 837.

[35] V. in dottrina L. MALKSOO, op. cit., 837.

[36] A. DI GREGORIO, op. cit., 4.

[37] K. FROSTELL, Welfare rights of families with children in the case law of the ECtHR, in The International Journal of Human Rights, 2020,vol. 24, 4, 439-456.

[38] V. paragrafo 132 della sentenza: “132. The Court has already found that, in so far as parental leave and parental leave allowances are concerned, men are in an analogous situation to women. Indeed, in contrast to maternity leave which is intended to enable the woman to recover from the childbirth and to breastfeed her baby if she so wishes, parental leave and parental leave allowances relate to the subsequent period and are intended to enable a parent concerned to stay at home to look after an infant personally (see Petrovic, cited above, § 36). The Court is therefore not convinced by the Government’s argument concerning the special biological and psychological connection between the mother and the newborn child in the period following the birth, which is said to be confirmed by modern scientific research (see paragraph 116 above). Whilst being aware of the differences which may exist between mother and father in their relationship with the child, the Court concludes that, as far as the role of taking care of the child during the period corresponding to parental leave is concerned, men and women are “similarly placed”.

[39] K. FROSTELL, op. cit., p. 444.

[40] A. MARGARIA, op. cit., p. 247; C. DRAGHICI, op. cit., p. 179.

[41]A. MARGARIA, op. cit., p. 248.

[42] A. MARGARIA, op. cit., p. 248.

[43] K. FROSTELL, , op. cit., p. 444.

[44] O. ARNADOTTIR, The Differences that Make a Difference: Recent Developments on the Discrimination Grounds and the Margin of Appreciation under Article 14 of the European Convention on Human Rights, in Human Rights Law Review, 2014, vol. 14, Issue 4, 647-670.

[45] O. ARNADOTTIR, op. cit., 665.

[46] O. ARNADOTTIR, op. cit., p. 663 ss.; A. MARGARIA, op. cit., 250.

[47] J. WALLBANK, (En)Gendering the fusion of rights and responsabilities in the law of contact, in J.WALLBANK, S. CHOUDRY, J. HERRINGS, Rights, Gender and Family law, 2009, Londra, Routledge, 116-117.

[48] J. WILLIAMS, N. SEGAL, Beyond the maternity wall: relief for family caregivers who are discriminated against on the job, in Harvard Women’s Law Journal, 2003, 26, p. 79 ss.; A. TIMMER, Towards an Anti-stereotyping approach…, cit., p.  728; A. MARGARIA, op. cit., 132.

[49] A. MARGARIA, op. cit., p. 250; C. DRAGHICI, op. cit., p. 178; K. FROSTELL, op. cit., 445.

[50] A. TIMMER, Towards an Anti-stereotyping approach…, cit., 728.

[51] A. TIMMER, op. cit., 729.

[52] A. TIMMER, op. cit., 729 secondo cui la Corte, in conclusione, invitando solo il governo russo a modificare la legislazione, avrebbe trascurato di affrontare un caso sintomatico della problematicità della situazione nell’esercito russo, che richiederebbe non solo una legislazione più forte ma anche misure più adeguate dirette a migliorare la situazione delle donne nell’esercito russo.

[53] A. MARGARIA, op. cit., 253.

[54]A. MARGARIA, op. cit., 254.

[55] Corte eur. dir. uomo, 22 Marzo 2012, Ricorso n. 30078/06, disponibile in www.hudoc.echr.coe.int.

[56] V. in dottrina A.DI GREGORIO, op. cit., 5; G. VAYPAN, op. cit., 131 ss.; L. MALKSOO, op. cit., 838; J. KAHN, The Relationship between the European Court of Human Rights and the Constitutional Court of the Russian Federation: Conflicting Conceptions of Sovereignty in Strasbourg and St Petersburg, in The European Journal of International Law, 2019, Vol. 30,  3, 934 ss.; A. BLANKENAGEL, The Relationship between the European Court of Human Rights and the Constitutional Court of the Russian Federation: A Reply to Jeffrey Kahn, in The European Journal of International Law, 2019, Vol. 30, 3, 962 ss.

[57] A. DI GREGORIO, op. cit., 5.

[58] Le considerazioni svolte sono pertanto sintomatiche delle tensioni che sottostanno alle affermazioni di universalità e progressi nel campo dei diritti umani in Europa, a testimonianza del fatto che il dialogo tra Corti nazionali e Corti sovranazionali non sia sempre sereno. In riferimento al caso in esame si veda L. MALKSOO, op. cit.,  838 che ricorda come il presidente della Corte Costituzionale russa affermò che la priorità nella definizione dell’interesse pubblico dovrebbe essere decisa all’interno dello Stato, non da giudici internazionali, in virtù del margine di apprezzamento riservato agli Stati.

[59] V. Corte Cost. 24 ottobre 2007 n. 348, in Foro it., 2008, parte I, col. 40; v. in dottrina M. ALLENA, La rilevanza dell'art. 6, par. 1, CEDU per il procedimento e il processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2012, 2, 569 ss.; R. CALVANO, La Corte costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: Orgoglio e pregiudizio?in Giurisprudenza italiana, 2008, 3, 573 ss.; E. CANNIZZARO, Diritti "diretti" e diritti "indiretti": i diritti fondamentali tra Unione, CEDU e Costituzione italiana, in Il diritto dell'Unione Europea, 2012, 1, 23 ss.; v. Corte Cost. 26 novembre 2009, n. 311, in Foro it., 2010, parte I, col. 1073, si rinvia in dottrina a E. CANNIZZARO, Il bilanciamento fra diritti fondamentali e l'art 117, 1° comma, Cost., in Rivista di diritto internazionale, 2010, 1, 128 ss.; S. CASSESE, Ordine giuridico europeo e ordine nazionale, in Giornale di diritto amministrativo, 2010, 4, 419 ss.; R. CONTI, Corte costituzionale e CEDU: qualcosa di nuovo all'orizzonte?, in Il Corriere giuridico, 2010, 5, 624 ss.

[60] G. VAYPAN, op. cit., 134 secondo cui la Corte Costituzionale russa non vorrebbe totalmente isolarsi dalle decisioni prese in ambito internazionale, come si deduce sia dal fatto che essa ha sottolineato che un rifiuto generalizzato di attuare una decisione non è comunque un'opzione per una Corte che esamina il caso, sia perché prende in considerazione la possibilità di distaccarsi dalle sue precedenti decisioni per accogliere la decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo.

[61] Corte Eur. dir. uomo, 2 ottobre 2010, Ricorso no.  33411/05, Hulea v. Romania, in www.hudoc.echr.coe.int; in senso opp. al caso Markin v. Corte Eur. dir. uomo, 1 aprile 2014, Ricorso no. 16986/12, Enache v. Romania, disponibile in www.hudoc.echr.coe.int. in cui al ricorrente, padre di un neonato, era stata negata la possibilità sospendere l’esecuzione della sua pena detentiva per prendersi cura del figlio, attribuita dalla legge, in questa particolare circostanza, solo alla madre sino al compimento del primo anno di età del bambino. La Corte ha argomentato in primo luogo che il ricorrente fosse in una posizione simile a quella di una detenuta; in secondo luogo che ci fosse stata una differenza di trattamento tra persone in posizioni relativamente simili, per cui avrebbero dovuto essere addotte ragioni molto gravi per ritenere compatibile con la Convenzione tale disparità. La stessa ha tuttavia affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento quando sono chiamati a pronunciarsi su questioni delicate, quali la politica penale. Il governo rumeno aveva sostenuto che le disposizioni giuridiche in questione avessero come obiettivo la tutela dell'interesse superiore del bambino. La Corte ha ritenuto legittima  la finalità perseguita, non sussistendo nessuna violazione dell’articolo 14 CEDU.  La sentenza in esame ha  suscitato reazioni differenti in dottrina. Una parte di essa sostiene che le argomentazioni del governo rumeno non fossero completamente infondate in relazione al fatto che in primo luogo le disposizioni in questione fossero speciali misure prese nell’ambito della politica criminale all’interno dello Stato; in secondo luogo che neanche alle donne venisse automaticamente concessa la sospensione dell’esecuzione della sentenza per badare ai propri figli; in terzo luogo che la legge rumena permettesse comunque sia agli uomini che alle donne di richiedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza in specifiche circostanze. Secondo altra parte della dottrina, invece, la sentenza rischierebbe di perpetuare e rafforzare implicitamente lo stereotipo di genere che la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ampiamente superato nel caso Markin v. Russia. La Corte stessa sembrerebbe legittimare l’uso dell’idea delle differenze naturali tra donne e uomini come un modo per sostenere le disposizioni discriminatorie, usando il pretesto di proteggere le donne. Viene inoltre contestato che la stessa sembrerebbe essersi accontentata di trovare questo argomento non "manifestamente irragionevole" o "irragionevole", lasciando un ampio margine di apprezzamento alle autorità nazionali; v. più approfonditamente in dottrina K. FROSTELL, op. cit., 445 ss.; E. BRODEALĂ,  Gender Discrimination in Romania through the Case Law of the ECtHR, in B. Havelkova, M. Moschel, Anti-Discrimination Law in Civil Law Jurisdictions, 2019, Oxford, Oxford University Press, 2019, 214 ss.

[62] E. BRODEALĂ,  ibidem.

[63] La Corte europea dei diritti dell'uomo ha dimostrato che la Corte d'appello avrebbe potuto valutare se il signor Hulea avesse voluto ottenere un congedo parentale non retribuito o avrebbe potuto chiedergli di fornire la documentazione come prova di aver versato i suoi contributi alla previdenza sociale per il personale militare.

[64] La Corte europea dei diritti dell'uomo ha spiegato che il tribunale non avrebbe dovuto richiedere al signor Hulea di portare le prove riguardanti la manifestazione esterna della sua psicologia e sofferenza fisica, essendo queste prove molto difficili, se non impossibili da dimostrare in giudizio.

[65] V. S. VASILJEVIĆ, New Law and Values: Anti- Discrimination Law in Post- Communist Countries, in N. BODIROGA-VUKOBRAT, S. RODIN, G. SANDER, New Europe - Old Values?, Berlino, Springer, 2016, 67 ss.

[66] K. FOROSTELL, op. cit., 445.

[67] Per un approfondimento sulla nozione di vulnerabilità v. B. PASTORE, Soggetti vulnerabili, orientamento sessuale, eguaglianza: note sulla logica di sviluppo del diritto, in GenIus, 2018, 2, 105 ss.

[68] Corte Eur. dir. uomo, 14 novembre 2013, Ricorso no. 19391/11, Topčić-Rosenberg v. Croatia, in www.hudoc.echr.coe.int.

[69] K. O’ HALLORAN, The Politics of Adoption: International Perspectives on Law, Policy and Practice, Berlino, Springer, 2015,127 ss.

[70] M. DO ROSARIO PALMA RAMALHO, P. FOUBERT, S. BURRI, The Implementation of Parental Leave Directive 2010/18 in 33 European Countries, 2015, Bruxelles, Publications Office of the European Union, 58 ss.

[71] K. FROSTELL, op. cit., 446.

[72] V. dal paragrafo 42 al paragrafo 49 della sentenza; si rinvia in dottrina a M. DO ROSARIO PALMA RAMLAHO, P. FOUBERT, S. BURRI, op. cit., 58; A. M. ROȘU, The European Convention on Human Rights: In times of economic crisis and austerity measures, Milano, Key Editore, 2015, 40 ss.; K. O’HALLORAN, The Politics of Adoption: International Perspectives on Law, Policy and Practice, Berlino, Springer, 2015.

[73] K. FROSTELL, op. cit., 446; A. M. ROȘU, op. cit., 40.

[74] Corte Eur. dir. uomo, 9 marzo 2010, Ricorso no. 17949/07, Santos Hansen v. Denmark, in  www.hudoc.echr.coe.int.

[75] K. FROSTELL ,op. cit., 447; C. FENTON GLYNN, Children and the European Court of Human Rights, Oxford, Oxford University Press2020, 218 ss.

[76] C. FENTON GLYNN, ibidem.

[77] K. FROSTELL, op. cit., 447; C. FENTON GLYNN, op. cit., 218.

[78] K. FROSTELL, op. cit., 447; C. FENTON GLYNN, op. cit., 218.

[79] K. FROSTELL, op. cit., 447.

[80] M. DO ROSARIO PALMA RAMLAHO, P. FOUBERT, S. BURRI, The Implementation of Parental Leave Directive 2010/18 in 33 European Countries, 2015, Bruxelles, Publications Office of the European Union, p. 55 ss. che, analizzando l’implementazione della direttiva 2010/18 in 33 Paesi Europei, evidenziano come in Croazia non vi sia ancora un congedo di paternità, ma solo un periodo addizionale di congedo di maternità che possa essere trasferito al padre, oltre al congedo parentale.

[81] C. FENTO GLYNN, op. cit., 218.

[82] Corte Eur. dir. uomo, 20 ottobre 2020, Ricorso no. 33139/13, Napotnik v. Romania, in www.hudoc.echr.coe.int.

[83] A. MOROIANU, Hotărârea Curții Europene a Drepturilor Omului în cauza Napotnik împotriva României (Decision of the European Court of Human Rights in the case of Napotnik vs. Romania), in Human rights Journal, 2020, 84 ss.

[84] Art. 1 protocollo addizionale CEDU n. 12: “Il godimento di ogni diritto disposto da una legge sarà garantito senza alcuna discriminazione per motivi di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica o altra opinione, origine nazionale o sociale, associazione ad una minoranza nazionale, proprietà, nascita o ogni altra condizione”.

[85] Articolo 6 CEDU: “1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia.

2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

(a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;

(b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;

(c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;

(d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

(e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”.

[86] B. ONDER , Addressing gender discrimination at work, still an important challenge for the ECtHR in Napotnik v. Romania, in www.strasbourgobservers.com.

[87] B. ONDER, op. cit.

[88] B. ONDER, ibidem.

[89] B. ONDER, ibidem.

[90] B. ONDER, ibidem.

[91] E. RIVA, Quel che resta della conciliazione. Lavoro, famiglia, vita privata tra resistenze di genere e culture organizzative, Milano, Vita e Pensiero, 2009, che parla di un vero e proprio “diritto della cittadinanza”; L. BORZÌ, L. REBUZZINI, La conciliazione vita/lavoro tra diritto esigibile e strumento strategico per nuove politiche di sviluppo, in M. FAIOLI, L. REBUZZINI, Conciliare vita e lavoro: verso un welfare plurale, Working papers Fondazione G. Brodolini, 2010 che parlano più specificatamente del riconoscimento di esso come “diritto del lavoratore”, che richiede la collaborazione di più parti; L. CALAFÀ, Sull’autonomia del congedo di paternità, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2010, 2, 323 ss. che parla di conciliazione come diritto che nasce dall’esercizio combinato di diritti fondamentali”; M. V. BALLESTRERO, La conciliazione tra lavoro e famiglia. Brevi considerazioni introduttive, in Lavoro e diritto, 2009, 2, 171 ss.

[92] Corte Eur. dir. uomo, 18 gennaio 2018, Ricorso no. 46386/10, Karine Hallier and Others v. France, in www.hudoc.echr.coe.int in cui una madre non di nascita, in una coppia omosessuale, aveva deciso di richiedere il congedo di paternità, che le era stato negato sulla base del fatto che esso non potesse essere concesso ad una donna. Nel dichiarare il ricorso manifestamente infondato, la Corte ha ammesso che il congedo di paternità è destinato a consentire lo svolgimento ai padri di un ruolo importante nella vita dei figli e a promuovere una distribuzione più equa dei compiti domestici tra uomini e donne, affrontando la disuguaglianza tra uomini e donne. Tuttavia, con riferimento al caso di specie, i giudici di Strasburgo hanno constatato che non vi sarebbe stata discriminazione in quanto la partner della madre naturale non era a sua volta un genitore del bambino; un uomo in una posizione simile infatti, eccezion fatta per il padre biologico, non avrebbe avuto egualmente accesso al congedo di paternità. Nel ritenere inammissibile il ricorso, tuttavia, la Corte ha rilevato che, ai sensi di una nuova legge del 17 dicembre 2012, il partner della madre avrebbe comunque potuto avere diritto a un congedo di assistenza alle stesse condizioni del congedo di paternità, anche non essendo il genitore biologico del bambino. La sentenza non è stata esente da critiche da parte della dottrina. In primo luogo, essa ha osservato come il focus della Corte si fosse incentrato sul diritto al congedo parentale e alle relative prestazioni, con scarso riferimento al riconoscimento dei diritti del bambino e del suo interesse[1]. In secondo luogo, l'analisi della Corte avrebbe reso invisibili le particolarità delle relazioni lesbiche, invisibilità che renderebbero vulnerabili soprattutto le donne lesbiche. I bisogni di quest’ultime sono stati spesso sottostimati e non tenuti nella dovuta considerazione dalla Corte. Più specificatamente, v. in dottrina L. HODSON, Sexual orientation and the European Convention on Human Rights: What of the “L” in LGBT?, Journal of Lesbian Studies, 2019, 23:3, 383 ss.; C. FENTON-GLYNN, Children and the European Court of Human Rights, Oxford, Oxford University Press, 2020, 215 ss.; A. MASSELOT, Family leave: enforcement of the protection against dismissal and unfavourable treatment, European Commission, Bruxelles, 2018.

[93] In tema di “individual adoption” v. Corte Eur. dir. uomo, 26 febbraio 2002, Ricorso no. 36515/97, Frettè v. France, in www.hudoc.echr.coe.int; Corte Eur. dir. uomo, 22 gennaio 2008, Ricorso no. 43546/02, EB v. France, in www.hudoc.echr.coe.int. Per un commento in dottrina si veda D. A GONZALEZ SALZBERG, op. cit., 145 ss.; A. MARGARIA, op. cit., 274 ss.; C. DRAGHICI, op. cit., 219 ss. In tema di “second parent adoption” v. Corte Eur. dir. uomo, 15 giugno 2006, Ricorso no. 25951/07, Gas and Dubois v. France, in Reports of Judgments and Decisions, 2012; Corte Eur. dir. uomo, 19 febbraio 2013, Ricorso no. 19010/07, X and Others v. Austria v. in dottrina [1] P. JOHNSON, Adoption, Homosexuality and the European Convention on Human Rights: "Gas and Dubois v France", in The Modern Law Review, 2012, vol. 75,n.6, 1136 ss.; L. PERONI, Adoption of Same-Sex Partner’s Child: Taking One More Step?, in www.strasbourgobservers.com; L. HODSON, Ties that bind: towards a child-centred approach to lesbian, gay, bi-sexual and transgender families under the ECHR, in International Journal of Children’s rights, 2012, 501 ss.; J. EEKELAAR, International conceptions of the family, in  International and Comparative Law Quarterly, 2017, 66(4), 833 ss.; G. PUPPINCK, X. and Others v. Austria (Part I): Had the Woman Been a Man…, in www.strasbourgobservers.com; D. A GONZALEZ SALZBERG, op. cit.,153; G. ALVES DE FARIA, Sexual Orientation and the ECtHR: what relevance is given to the best interests of the child? An analysis of the European Court of Human Rights' approach to the best interests of the child in LGBT parenting cases, in Family & Law April 2015, 1 ss.

[94] P. ZATTI, Trattato di diritto di famiglia, Milano, Giuffrè, 2011, 175 ss.; M. G. PUTATURO DONATI, Il diritto al rispetto della «vita privata e familiare» di cui all’art. 8 della CEDU, nell’interpretazione della Corte Edu: il rilievo del detto principio sul piano del diritto internazionale e su quello del diritto interno, in www.europeanrights.eu.

[95] P. ZATTI, op. cit., 176.

[96] L. WILDHABER, The European Court of Human Rights in action, in Ritsumeikan Law Review, 2004, 21, 86 ss.

[97] A. MARGARIA, op. cit., 166.

[98] A. MARGARIA, op. cit., 167.

[99] L. GIANFORMAGGIO, L’eguaglianza di fronte alla legge: principio logico, morale o giuridico?, in L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza, donne e diritto, Bologna, il Mulino, 2005, 65 ss.

[100] L. REBUZZINI, Famiglia-lavoro: un nuovo diritto?, in Rivista di scienze dell’educazione, 2014, 2, 180 ss.

[101] L. REBUZZINI, op. cit., 189.

[102] Corte App. Firenze, sent 2 luglio 2015, disponibile in www.osservatoriodiscriminazioni.org.

[103] F. DE LUCA, Verso una dimensione antropocentrica del lavoro: la conciliazione come diritto soggettivo, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2020, 2,  519 ss.