Le misure premiali di natura penale del nuovo Codice della crisi d´impresa e dell´insolvenza
Modifica paginaIn vista dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il contributo esamina la principale novità penalistica del nuovo ordito normativo, ossia le misure premiali penali dell’art. 25, co. 2 CCII. Si tratta di una causa di non punibilità e di una circostanza attenuante ad effetto speciale, le quali svolgeranno l’arduo compito di coordinare le innovazioni del diritto della crisi d’impresa con le immutate fattispecie di bancarotta. Il presente lavoro scompone gli istituti in singoli elementi e li analizza separatamente, mettendone in luce le criticità.
Sommario: 1. La bancarotta e il diritto della crisi d’impresa; 2. Il raccordo tra le nuove logiche civilistiche e la secolare bancarotta; 3. Cenni sul nuovo Codice della crisi: il sistema dell’allerta; 4. Dai criteri direttivi della Legge delega all’art. 25, co. 2° CCII; 5. La causa di non punibilità: funzione; 6. Natura giuridica; 7. Brevi osservazioni sullo spettro d’azione oggettivo; 8. Brevi osservazioni sullo spetro d’azione soggettivo; 9. I limiti di natura temporale; 10. Rapporto con la non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.); 11. La speciale tenuità del danno; 12. La tempestività dell’iniziativa; 13. La circostanza attenuante; 14. Conclusioni.
1. La bancarotta e il diritto della crisi d’impresa
Tutte le discipline che compongono il diritto penale commerciale sono strettamente legate ad un settore extrapenale di riferimento. Il retroterra civilistico dei delitti di bancarotta è il diritto della crisi d’impresa. I due segmenti di disciplina dialogano tra loro operando in una comune area d’intervento. Nell’assetto originario della Legge fallimentare (r.d. 267/1942) la disciplina concorsuale e il comparto sanzionatorio erano tra loro coerenti, in quanto elaborati nel medesimo contesto storico-culturale. Rispondevano a logiche comuni: il settore civile si basava su un approccio liquidatorio-sanzionatorio dell’impresa insolvente e l’appendice penalistica colpiva ex post qualsiasi condotta in grado di ridurre la capacità soddisfattiva, in esito alla liquidazione, delle pretese del ceto creditorio.
Le riforme della disciplina civilistica della crisi d’impresa, entrate in vigore a partire dal 2005[1], hanno mutato profondamente lo spirito e i valori della materia. Dalla stigmatizzazione dell’insolvenza si è passati ad una focalizzazione sul recupero dei valori dell’impresa in crisi, superando – o quantomeno temperando – alcuni dogmi prima apparentemente inscalfibili: la priorità assoluta della tutela dei creditori; la par condicio creditorum; la marginalità delle procedure volte al risanamento. Ed è proprio su queste ultime che il legislatore ha scommesso, per un verso, introducendo nuovi strumenti di risoluzione nella crisi (accordi di ristrutturazione e c.d. piano attestato) e modificando il concordato preventivo, rendendolo utilizzabile in un’ottica di ristrutturazione dei debiti e continuità aziendale; per altro verso, garantendo uno scudo dalla revocatoria fallimentare in caso di insuccesso dei tentativi di risanamento (le esenzioni ex art. 67, co. 3° l. fall.)[2].
A fronte di questa rivoluzione del sostrato civilistico, le disposizioni del comparto penalistico non sono affatto mutate. Ad eccezione di alcuni limitati interventi, invero, le fattispecie di bancarotta sono rimaste intonse dal 1942 ad oggi. Perciò si è generalmente concordi nel ritenere che l’originario equilibrio di sistema sia venuto meno. È cambiata l’essenza stessa della normativa primaria con la quale le fattispecie incriminatrici dialogano, acuendosi la distonia tra parte civilistica e parte penalistica della Legge fallimentare. Gli effetti possono essere disastrosi, poiché «le vecchie, immutate reazioni punitive possono scattare inappropriatamente (…) o invece restare inermi di fronte a nuove aggressioni divenute possibili nei mutati scenari, aprendo, in entrambi i casi, voragini di insicurezza degli operatori e nell’applicazione giudiziale»[3].
Lo statico sistema penale dell’insolvenza di fronte al nuovo volto del diritto della crisi d’impresa può incappare in contraddizioni difficilmente sanabili. Sul piano degli obiettivi, “la disciplina penal-fallimentare appare oggi caratterizzata da una sorta di strabismo prospettico”. La parte civilistica considera l’impresa in crisi come un bene di cui preservare il valore e istituisce procedure ad hoc di risanamento alternative a quella liquidatoria. Il fronte penalistico continua a fondarsi su fattispecie di bancarotta costruite avendo in mente il vecchio diritto fallimentare, «arroccate a difesa del fortino della intangibilità delle garanzie dei creditori e del loro trattamento paritario»[4].
Non meno preoccupante è la biforcazione fra i “messaggi” provenienti dal legislatore civile e le minacce di pena. Il diritto dovrebbe fungere da guida o quantomeno trasmettere delle indicazioni chiare agli imprenditori, tantopiù ove si tratti di scelte gestionali da assumere in presenza di tensioni economico-finanziarie. La parte civilistica e i reati fallimentari, invece, costituiscono fonti di indirizzi contrastanti. Da un lato si dice all’imprenditore che anche quando entra in crisi il bene impresa è ancora bilanciabile con l’interesse dei creditori alla gestione conservativa del patrimonio aziendale. Dall’altro lato lo si avverte che nell’ipotesi in cui il tentativo di risanamento non dovesse concludersi positivamente e si dovesse giungere all’apertura della procedura concorsuale, la minaccia di pena sarebbe pronta a concretizzarsi nella contestazione di una o più fattispecie di bancarotta.
Altrettanto grave è, infine, il rischio di violare il principio di unità dell’ordinamento giuridico e il correlato principio di sussidiarietà del diritto penale. La tutela penale deve sempre essere coerente con gli altri rami dell’ordinamento. Fintanto che gli strumenti civilistici posti a tutela di un dato interesse non si attivino, non si dovrebbe fare ricorso neanche a quelli penalistici. Con la riforma del diritto fallimentare si è assistito ad un arretramento dei rimedi civilistici rispetto agli atti compiuti dall’impresa in crisi. Ebbene, se all’arretramento del diritto civile non segue un corrispondente passo indietro del diritto penale, c’è il rischio che una condotta civilmente lecita venga penalmente sanzionata. La norma penale, in questo modo, «perde (…) la sua sussidiarietà; non è più extrema ratio ma strumento principale»[5].
2. Il raccordo tra le nuove logiche civilistiche e la secolare bancarotta
All’indomani della riforma del diritto fallimentare del 2005/2007 le imprese (e gli istituti di credito) si trovarono dinanzi ad un contesto normativo a dir poco disorientante. Il mancato coordinamento fra la rinnovata parte civilistica e l’immutata tutela penale condusse ad «un insostenibile tasso di incertezza per gli operatori economici e gli stessi professionisti che li assistevano nell’applicazione dei nuovi strumenti civilistici di risoluzione della crisi di impresa»[6]. Poteva accadere, ad esempio, che pagamenti compiuti in esecuzione di uno degli strumenti di salvataggio diventassero, in caso di insuccesso del piano di risanamento, oggetto di contestazione in sede penale.
Per fronteggiare questa situazione insostenibile il legislatore elaborò l’art. 217 bis l. fall., introdotto dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78 e poi modificato a più riprese. La formulazione oggi in vigore prevede che «le disposizioni di cui all'articolo 216, terzo comma, e articolo 217 non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di […]» una serie di strumenti di gestione della crisi d’impresa alternativi al fallimento. Tralasciando gli imperdonabili difetti tecnici della disposizione, la funzione dell’istituto è all’evidenza quella di raccordare le ormai obsolescenti figure di bancarotta al nuovo diritto concorsuale.
Con il medesimo intento il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 introdusse una nuova fattispecie di reato nell’ambito del Titolo VI della legge fallimentare. Si tratta del delitto di cui all’art. 236 bis l. fall., la cui rubrica recita “falso in attestazioni e relazioni”. Esso si rivolge al c.d. professionista attestatore, il quale è punito con la reclusione da due a cinque anni (e con la multa da 50.000 a 100.000 euro) qualora, nelle attestazioni o relazioni elencate nella norma incriminatrice (ad es., l’attestazione ex art. 67, co. 3°, lett. d l. fall.), «espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti».
Le ragioni dell’incriminazione sono facilmente intuibili. Con la proliferazione degli strumenti di composizione della crisi alternativi al fallimento, che presuppongono la predisposizione di un progetto di rilancio, è nata la possibilità che di essi si faccia un utilizzo distorto. Per evitare ciò è stata introdotta la disposizione in esame. Essa mira a garantire il corretto svolgimento delle procedure di soluzione negoziale della crisi. E lo fa fornendo un presidio alla correttezza delle informazioni, di guisa da favorire la formazione di una consapevole adesione dei creditori al piano presentato dall’imprenditore. Non c’è dubbio, infatti, che «la veridicità dei dati è […] la base indispensabile per l’articolazione di un piano e, poi, per la sua valutazione»[7].
Gli istituti giuridici che ci si appresta ad analizzare nel presente lavoro, ossia le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 14/2019), si inseriscono perfettamente in questo contesto, rispondendo al medesimo imperativo di fondo: adattare il vetusto arnese rappresentato dalla bancarotta all’innovativo assetto civilistico della crisi d’impresa. Prima di analizzarle, però, è necessario fornire alcune essenziali informazioni sull’ordito normativo nel quale sono collocate.
3. Cenni sul nuovo Codice della crisi: il sistema dell’allerta
In esito ad un lungo e travagliato iter è stato approvato il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. La sua entrata in vigore, salvo le disposizioni già vigenti, è posticipata al 1° settembre 2021. La riforma, in merito ad alcuni profili del diritto della crisi d’impresa, ha introdotto novità mai viste prima nel nostro ordinamento. Sotto altri aspetti si pone come la naturale prosecuzione del processo di evoluzione già avviato da qualche tempo. In pochi punti, infine, è riscontrabile una discontinuità.
Di certo l’intervento legislativo testimonia ancora una volta la volontà di lasciare sullo sfondo l’eventualità liquidatoria, privilegiando altri epiloghi. L’obiettivo continua ad essere quello di favorire forme di risanamento delle imprese in crisi, in funzione di salvaguardia del loro valore residuo. D’altra parte, l’eterogeneità rispetto alle precedenti riforme del diritto fallimentare risiede nel freno posto dal legislatore del Codice della crisi alla privatizzazione degli strumenti di regolazione della crisi: il nuovo complesso di norme contempla un ampio controllo pubblicistico sullo svolgimento delle soluzioni alternative al fallimento.
La principale delle innovazioni apportate dalla riforma in oggetto è il c.d. sistema dell’allerta (artt. 12 e ss. CCII). Esso è considerato «una piccola rivoluzione copernicana del diritto concorsuale applicato all’impresa»[8]. Esprime a chiare lettere la volontà di anticipare il momento dell’iniziativa volta al superamento della crisi, rilevandola fin dai primissimi indizi di manifestazione e assumendo nel più breve tempo possibile le scelte necessarie per mitigarne gli effetti. Il sistema dell’allerta, dunque, non si limita a prevedere la crisi dell’impresa quale presupposto oggettivo degli strumenti concorsuali. Esso mira all’emersione anticipata della crisi, basandosi sull’assunto che questa, lungi dal presentarsi da un giorno all’altro, è sempre preceduta da segnali che in qualche modo ne preannunciano l’arrivo.
Al fine di consentire alle imprese di rilevare in anticipo eventuali criticità economico-finanziarie il legislatore ha operato su diversi fronti. L’art. 3 CCII induce l'imprenditore individuale a adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte; e persuade l'imprenditore collettivo a mettere in atto le medesime misure dotandosi di un particolare assetto organizzativo. All’art. 2086 c.c. è stabilito, con maggiore precisione, che l’imprenditore che opera in forma societaria «ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».
Inoltre, con l’obiettivo di favorire la disclosure di situazioni di difficoltà economica, sono stati tipizzati degli indicatori della crisi e previsti degli obblighi di segnalazione. L’allarme di una crisi in procinto di verificarsi potrà giungere da tre tipologie di soggetti: l’imprenditore, gli organi di controllo societari (c.d. allarme interno) e alcuni creditori pubblici qualificati (c.d. allarme esterno). L’imprenditore e gli organi di controllo dovranno attivarsi, secondo modalità differenti, al verificarsi degli indicatori della crisi tipizzati dall’art. 13 CCII. I creditori pubblici, di converso, entreranno in gioco quando l’esposizione debitoria supererà un importo considerato rilevante (v., art. 15, co. 2° CCII). La “notizia di crisi” perverrà agli Organismi di composizione della crisi d’impresa (OCRI), i quali avranno come principale compito quello di assistere l’impresa nella gestione controllata della crisi.
Fin da una prima lettura delle nuove regole risulta chiaro che il legislatore abbia voluto correlare inscindibilmente l’organizzazione diligente con la prevenzione dell’insolvenza[9]. Le misure premiali del Codice della crisi – di cui ora ci si appresta a parlare – costituiscono una parte importante dello strumentario normativo diretto ad incentivare l’istituzione di assetti organizzativi idonei a rilevare la crisi per gestirla efficacemente.
4. Dai criteri direttivi della Legge delega all’art. 25, co. 2° CCII
Una volta completate le lunghe – ma necessarie – premesse, è giunto il momento di entrare nel vivo del tema oggetto del presente lavoro. La Legge delega[10] sulla quale è stato edificato il Codice della crisi ha espressamente chiesto che venissero previste «misure premiali, sia di natura patrimoniale sia in termini di responsabilità personale, in favore dell'imprenditore che ha tempestivamente proposto […]» una delle istanze di accesso agli strumenti concorsuali. Ed ha altresì disposto che venisse inclusa fra le varie misure premiali «la causa di non punibilità per il delitto di bancarotta semplice e per gli altri reati previsti dalla legge fallimentare». Nonché «un'attenuante ad effetto speciale per gli altri reati».
La strada imboccata dal legislatore delegante[11] è stata coerente ed in perfetta continuità con la tutt’altro che rara scelta di avvalersi della premialità nel diritto penale, la quale «affonda le radici in tempi piuttosto remoti e periodicamente vive stagioni particolarmente feconde»[12]. Anzi, pare corretto dire che da qualche anno a questa parte la non-punibilità in funzione premiale sia «diventata uno degli strumenti più usati dal legislatore per perseguire i suoi obiettivi politici»[13]. Egli, in questi casi, sfrutta il tempo intercorrente tra il compimento del fatto tipico e la condanna per manovrare la minaccia di pena in modo da incentivare determinati comportamenti dell’autore del reato[14].
Gli istituti di natura premiale presenti nel nostro ordinamento sono vari ed eterogenei. Essi sono sovente denominati “sanzioni positive” e possono declinarsi in circostanze attenuanti o in vere e proprie cause di non punibilità (sopravvenuta). Il comportamento in grado di escludere la punibilità (totalmente o parzialmente) è selezionato fra quelli che si oppongono all’azione illecita: annullando o attenuando il pericolo o il danno per il bene giuridico protetto; tutelando interessi diversi da quello protetto dalla norma incriminatrice ma con esso bilanciabili; dimostrando una minore pericolosità sociale o l’avvenuta risocializzazione; ecc. In presenza di simili situazioni il diritto penale fa un passo indietro, rinunciando alla pena[15].
Sulla base del diktat della Legge delega, dunque, il legislatore del Codice della crisi ha inserito, in conclusione al Titolo II (Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi), la disciplina delle c.d. misure premiali. È l’art. 25 CCII a contenere le norme di favore: al 1° comma quelle di natura non penale (ad es., fiscale) e al 2° comma quelle penalistiche. Delineando, in particolare, un’ipotesi di non punibilità (primo periodo) e una circostanza attenuante ad effetto speciale (secondo periodo).
5. La causa di non punibilità: funzione
La causa di non punibilità dell’art. 25, co. 2° CCII[16] opera, per espressa previsione, in relazione a tutte le fattispecie di bancarotta e di ricorso abusivo al credito. Essa si sostanzia nel fatto che, se si giunge all’apertura di una procedura di liquidazione giudiziale (o di altra procedura equiparata ai fini penali), non è punibile chi abbia previamente e tempestivamente presentato l’istanza all’OCRI ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, a condizione che il danno cagionato sia di speciale tenuità. Fermo restando, inoltre, che la punibilità è esclusa solo con riguardo alle condotte realizzate prima dell’apertura di una delle suddette procedure.
È questo il meccanismo: l’imprenditore (o l’amministratore) potrebbe aver realizzato fatti tipici di bancarotta nel corso della vita dell’impresa, ma la precoce attivazione degli strumenti di risoluzione della crisi, d’un tempo con l’impegno profuso nel cercare di riacquistare un equilibrio economico-finanziario in vista del miglior soddisfacimento dei creditori, ripara o comunque riduce le potenzialità lesive delle precedenti condotte, escludendone la punibilità qualora sia soddisfatta l’ulteriore condizione della speciale tenuità del danno. Non sempre la gestione controllata della crisi è (e sarà) sufficiente per salvare le imprese in difficoltà. Ciononostante, il legislatore scommette sulle virtuose reazioni alle crisi d’impresa arrivando finanche a limitare in maniera considerevole l’intervento penale.
Si ritiene, dunque, che le misure premiali mirino ad incentivare condotte diligenti degli imprenditori, premiandoli quando si avvalgano, per il superamento di condizioni economiche difficili, delle procedure di allerta e, in generale, degli strumenti concorsuali disciplinati dal Codice. Pare che anche la Relazione illustrativa aderisca a tale concezione, in particolare ove afferma che «si è ritenuto […] di operare nel senso più ampio prevedendo norme premiali con riguardo alle condotte anche più gravi tutte le volte che l'imprenditore abbia azionato quei meccanismi di allerta di nuova introduzione volti proprio a controllare e mitigare il fenomeno dell'insolvenza»[17].
Se il principale obiettivo sul piano civilistico è quello di anticipare il momento di emersione della crisi per gestirla al meglio, le misure premiali di nuovo conio possono essere considerate gli strumenti che il diritto penale offre per indurre i destinatari del precetto penale a dare seguito in concreto a tale scopo. In primo luogo, invitandoli ad attivarsi per rilevare tempestivamente eventuali segnali di crisi dell’impresa e, in seconda istanza, obbligandoli a adoperarsi per evitare che la stessa sfoci in insolvenza. Si potrebbe dire, in definitiva, che l’art. 25, co. 2° CCII, «sanzionando in negativo […] la mancata attivazione precoce dell'imprenditore in difficoltà, riflette lo sforzo del legislatore di raccordare i nuovi valori del diritto extrapenale dell'insolvenza alle tradizionali figure di bancarotta, tentando di ricomporne il vistoso scollamento»[18].
6. Natura giuridica
L’idea in assoluto prevalente[19] è che l’istituto contemplato nell’art. 25, co. 2° CCII, rompendo la sequenza reato-pena, sia da incasellare nella categoria delle cause di non punibilità in senso stretto, le quali «pur senza escludere l’illiceità obiettiva del fatto e la soggettiva colpevolezza dell’autore, hanno a che fare con ragioni d’opportunità o inopportunità del punire»[20]. La Corte di cassazione, se pur incidentalmente, ha già menzionato tale istituto in una sua pronuncia, chiamandolo causa di non punibilità e non ponendosi alcun problema in ordine alla sua qualificazione[21]. Lo stesso è stato fatto anche nella relazione illustrativa al Codice della crisi. Sarebbe però inutile cercare nell’ordinamento giuridico altre ipotesi di esclusione della punibilità aventi caratteristiche sovrapponibili. L’istituto in discorso è denso di peculiarità che lo rendono molto diverso dai numerosi altri già in vigore.
Tradizionalmente le cause di non punibilità si pongono come incentivi volti alla tutela del medesimo bene giuridico protetto dalla fattispecie di reato rispetto alla quale trovano applicazione; o comunque rispondono a logiche interne al diritto penale. L’art. 25, co. 2° CCII, invece, persegue gli scopi del nuovo Codice della crisi. L’esigenza cui l’art. 25, co. 2° CCII mira a dare una risposta è di natura extrapenale, squisitamente legata al nuovo approccio legislativo al problema della crisi d’impresa. Il legislatore, più precisamente, utilizza il premio come «merce di scambio per conseguire utili risultati fuori dal fascio di interessi protetti dalla fattispecie penale». Questi risultati sono l’emersione tempestiva della crisi e della sua procedimentalizzazione, le quali hanno assunto un peso «in grado di piegare la risposta punitiva penale»[22]. La causa di non punibilità in questione, in definitiva, appartiene a quella categoria di istituti premiali che perseguono interessi esterni rispetto alla tutela penale[23].
In secondo luogo, la non punibilità come manovra premiale normalmente presuppone l’integrale riparazione dell’offesa[24]. L’art. 25, co. 2° CCII, diversamente, richiede solo che il danno oggettivamente prodotto dal fatto di reato sia di speciale tenuità. Da questo punto di vista la peculiarità è duplice: da un lato, non si considera l’offesa prodotta nel suo complesso ma solo il danno patrimonialmente inteso; dall’altro lato, la reintegrazione solo parziale non comporta l’attenuazione della pena (come ci si potrebbe aspettare), ma la esclude tout court. Ciò detto, resta il fatto che rientra a pieno tra i poteri di politica criminale del legislatore la scelta di costruire un’ipotesi di esclusione della punibilità di tale sorta. E la dimostrazione sta nel fatto che l’istituto in parola non è inedito, esistendo altre ipotesi di non punibilità quale effetto di una condotta solo parzialmente ripristinatrice[25].
Un’altra particolarità, infine, attiene alla distinzione fra cause concomitanti e susseguenti di esclusione della punibilità[26]. Com’è intuibile, le prime – piuttosto rare[27] – escludono “a valle” la punibilità; le seconde, diversamente, portano alla stessa conseguenza ma per via di fatti sopravvenuti. Quella dell’art. 25, co. 2° CCII potrebbe essere intesa proprio come una causa di non punibilità sopravvenuta, potendo esprimere la sua efficacia solo quando, in seguito ad operazioni prima facie riconducibili ad una delle fattispecie di bancarotta, sia attivata senza indugio – tempestivamente – una delle procedure di allerta o sia presentata la domanda di accesso ad uno degli strumenti di regolazione della crisi. A patto però di rilevare che, in questo caso, la condotta dell’agente incentivata non segue il perfezionamento del reato ma lo precede, posto che quest’ultimo avviene con l’apertura della procedura concorsuale. L’iniziativa di chi aspira a adoperare in chiave difensiva l’istituto, per essere considerata tempestiva, deve inevitabilmente collocarsi in una fase precedente rispetto al momento consumativo dell’illecito penale.
7. Brevi osservazioni sullo spettro d’azione oggettivo
Si è già avuto modo di accennare che la Legge delega richiedeva l’introduzione della causa di non punibilità “per il delitto di bancarotta semplice e per gli altri reati previsti dalla legge fallimentare”. Tale indicazione è stata tradotta estendendo l’operatività dell’esimente a tutte le fattispecie di bancarotta (e di ricorso abusivo al credito), compresa quella fraudolenta. Ci si potrebbe chiedere se tale conseguenza, alla luce del criterio di delega, fosse o meno inevitabile.
Alcuni dubbi possono sorgere sol che si consideri l’impreciso modo di esprimersi del legislatore delegante, il quale esordisce menzionando espressamente la meno grave delle fattispecie di bancarotta e prosegue con un equivoco riferimento agli “altri reati” previsti dalla legge fallimentare. Tali parole, è stato detto, potrebbero portare a pensare che egli «intendesse prevedere una causa di non punibilità soltanto per questo reato» (bancarotta semplice) e per gli altri reati fallimentari, «purché di pari o minore gravità»[28], di guisa che sarebbe rimasta esclusa la bancarotta fraudolenta.
Nella Relazione illustrativa è espressa con convinzione l’idea che la decisione assunta fosse l’unica logicamente corretta. Più precisamente, l’estensione della causa di non punibilità alla bancarotta fraudolenta viene giustificata asserendo che la delega sarebbe stata svuotata della sua portata innovativa se l’applicabilità dell’esimente fosse stata limitata alla sola bancarotta semplice, in quanto quest’ultima rientrerebbe già – per cornice edittale – nel perimetro di operatività dell’istituto codicistico della non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.)[29].
Alcuni autori hanno espresso il loro disaccordo nei confronti di tale spiegazione. È stato osservato, ad esempio, che nonostante la bancarotta semplice, in quanto a limiti edittali, sia conciliabile con i requisiti dell’art. 131 bis c.p., in concreto sono rari i casi in cui è possibile che tale istituto trovi applicazione. Poiché la bancarotta, anche semplice, mal si concilia con il requisito della non abitualità (tendendo a manifestarsi mediante la realizzazione di una pluralità di condotte)[30] e con quello della particolare tenuità dell’offesa[31]. Se ciò è vero, bisogna ammettere che anche nell’ipotesi in cui fosse stata limitata l’operatività della causa di non punibilità alla sola bancarotta semplice, la disposizione delegante avrebbe comunque conservato carattere innovativo.
8. Brevi osservazioni sullo spetro d’azione soggettivo
Confrontando l’art. 25, co. 2° CCII con la disposizione della Legge delega sulla base della quale esso è stato formulato (art. 4, co. 1°, lett. h) è possibile notare una differenza. Questa attiene all’individuazione in concreto dei potenziali beneficiari della causa di non punibilità. Mentre la delega richiedeva l’introduzione di misure premiali in favore “dell’imprenditore che […]”, il nuovo istituto esclude la punibilità di “chi ha […]”. Pare che tale cambiamento non sia meramente stilistico ma che risponda ad una reale esigenza[32].
L’impegno profuso per modificare l’art. 25, co. 2° CCII come pocanzi descritto è giustificato dall’esigenza di scongiurare il rischio di un’applicazione “allargata” della causa di non punibilità, capace di manlevare dalle loro responsabilità penali, ad esempio, quei componenti dell’organo amministrativo negligenti rispetto alla gestione controllata della crisi o che, ancor peggio, abbiano tentato di opporsi all’attivazione di una delle procedure. Il legislatore, in altri termini, “ha ritenuto opportuno sottolineare la non estensibilità dell’esclusione della punibilità a soggetti estranei alle condotte di limitazione dell’aggravamento della crisi”, circoscrivendo lo spettro d’azione soggettivo dell’art. 25, co. 2° CCII ai soli individui che si siano in concreto attivati per gestire la situazione di difficoltà economica dell’impresa con gli strumenti offerti dal Codice.
Giunti a questo punto, però, non ci si può esimere dal fare una precisazione: in tanto è possibile raggiungere l’obiettivo pocanzi ricordato, in quanto la causa di non punibilità sia qualificata come soggettiva. In caso contrario, la sua natura oggettiva comporterebbe l’estensione dei suoi effetti nei confronti di “tutti coloro che sono concorsi nel reato” (art. 119, co. 2° c.p.). Non sembra, comunque, che ci sia qualche possibilità in questo senso. Come si vedrà in conclusione al presente lavoro, infatti, l’istituto giuridico in discorso ha carattere eminentemente personale: si riferisce alla (in)opportunità di punire la singola persona che ha realizzato il fatto antigiuridico e colpevole e poi si sia diligentemente attivata per rimediarvi. E, in questi casi, non c’è dubbio che si debba applicare l’art. 119, co. 1° c.p.
9. I limiti di natura temporale
La questione dell’ambito di operatività temporale dell’esimente merita qualche cenno per la sua importanza sul piano dell’interpretazione sistematica dei delitti di bancarotta. La causa di non punibilità, lo si è già accennato, opera con riguardo ai comportamenti tenuti dall’imprenditore o dagli amministratori nel lasso di tempo della vita dell’impresa precedente alla presentazione dell’istanza di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi.
Se si assume che le procedure di nuovo conio prendono avvio nel momento in cui sopraggiunge la crisi, il fatto che l’art. 25, co. 2° CCII escluda la punibilità delle azioni compiute prima della loro attivazione potrebbe costituire la conferma definitiva del fatto che anche condotte compiute quando l’impresa è ancora in bonis possono integrare, ad esempio, il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Se così fosse, le nuove misure premiali sarebbero un’argomentazione a sostegno del regresso all’infinito. Invero, ci si potrebbe convincere del fatto che «la necessità di offrire misure premiali, per condotte tenute prima dell’emersione della crisi, importi, implicitamente, la possibilità che fatti di bancarotta patrimoniale possano essere realizzati anche in situazioni in cui non vi siano pericoli attuali per la garanzia dei creditori, avallando, per tale via, l’esegesi tradizionale della giurisprudenza e la lettura della fattispecie in parola quale reato di pericolo astratto»[33].
La medesima questione, però, potrebbe essere letta anche da una diversa prospettiva. A tal fine occorre dimenticarsi per un attimo del fatto che si tratta di una causa di non punibilità e considerare solo il “messaggio” che il legislatore ha voluto trasmettere mediante l’elaborazione di questo istituto. In tal modo risulta evidente la volontà legislativa – ancorché espressa in maniera equivoca – di espungere le condotte compiute nell’ambito di imprese in bonis dall’area d’azione del diritto penale fallimentare.
Se si valorizza la logica sottesa al nuovo istituto, dunque, lo si accoglie senz’altro con favore, poiché – come ha tentato di dimostrare un recente studio[34] – la delimitazione di un contesto significativo (la crisi d’impresa) nel quale solo si possono ambientare i fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale costituisce la migliore opzione ermeneutica per assicurare il rispetto del principio di offensività. Ancorando la bancarotta a quel pericolo concreto che, quantomeno a parole, è stato riconosciuto in giurisprudenza ormai da qualche anno.
10. Rapporto con la non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.)
È pacifico che la causa di non punibilità dell’art. 25, co. 2° CCII debba essere considerata un’ipotesi speciale dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p.[35]. Nonostante ciò, non ci si può esimere dal sottolineare le diversità intercorrenti fra i due istituti, in particolare con riguardo agli elementi di cui si sostanziano. La causa di non punibilità di nuova introduzione richiede, principalmente, la speciale tenuità del danno e la tempestività dell’iniziativa.
Diversamente dall’art. 131 bis c.p., dunque: non è richiesta la non abitualità della condotta (requisito essenziale dell’istituto codicistico); non è presente alcuna soglia massima di pena detentiva dei reati con riferimento ai quali essa può trovare applicazione (l’art. 131 bis c.p. è applicabile ai soli reati puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni e a quelli puniti con la pena pecuniaria); nessun rilievo è dato all’entità dell’offesa al bene giuridico tutelato (al contrario, nell’ipotesi di non punibilità codicistica essa deve essere di particolare tenuità) né alcun peso hanno le modalità di realizzazione della condotta (che, invece, l’art. 131 bis c.p. prescrive che siano valutate ai sensi dell’art. 133 c.p.).
I rilievi pocanzi svolti consentono di affermare che la causa di esclusione della punibilità dell’art. 25, co. 2° CCII ha «carattere manifestamente oggettivo». Essa si risolve «all’interno della dimensione quantitativa […] del danno cagionato dalle condotte», prescindendo da qualsivoglia valutazione sulla offensività come requisito del fatto tipico, guardando, in definitiva, alle sole «conseguenze materiali»[36] dei fatti posti in essere.
Le caratteristiche ora descritte allontanano di gran lunga la causa di non punibilità del Codice della crisi da quella codicistica. Il riferimento al mero danno è difficilmente coordinabile con il giudizio di minima offensività in concreto sotteso all’art. 131 bis c.p.[37]
Eseguendo un confronto fra gli ambiti di applicazione dei due istituti, poi, possono sorgere dei dubbi sul piano del rispetto del principio di proporzione-ragionevolezza[38]. Come anticipato, l’art. 25, co. 2° CCII esclude la punibilità per tutti i reati di bancarotta, compresa la bancarotta fraudolenta, che è punita con la reclusione fino a dieci anni. La particolare tenuità del fatto contenuta nel Codice penale, invece, scatta esclusivamente in presenza di reati la cui comminatoria edittale sia fissata nel massimo non oltre i cinque anni di detenzione. I dubbi di legittimità costituzionale, dunque, non sono completamente infondati. È però plausibile che la Corte costituzionale si asterrà dall’intervenire, poiché la presenza delle condizioni operative della causa di non punibilità – nella specie, la particolare tenuità del danno – bilanciano l’estensione oltremisura del campo operativo dell’esimente, riequilibrando l’economia complessiva dell’istituto.
Un ulteriore problematica meritevole di menzione è quella concernente la non abitualità del comportamento. Essa è richiesta ai fini dell’operatività dell’esimente codicistica ma è stata dimenticata dal legislatore del Codice della crisi. La conseguenza è che, potenzialmente e in astratto, potrebbero essere esentati numerosi fatti di bancarotta compiuti prima della presentazione dell’istanza per l’accesso ad una delle procedure di nuovo conio. È stato affermato che in questi casi si sarebbe difronte a fatti rappresentativi «del carattere non occasionale né eccezionale del comportamento e, sul versante soggettivo, di una maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo: elementi dai quali dovrebbe discendere un giudizio di non tenuità»[39].
11. La speciale tenuità del danno
Sulla possibilità che l’istituto in analisi possa trovare concreta applicazione nella prassi la dottrina non ripone molte speranze. Il principale responsabile della prognosi negativa sul futuro della causa di non punibilità dell’art. 25, co. 2° CCII è il requisito della speciale tenuità del danno. Ponendosi accanto alla tempestività dell’iniziativa, infatti, costituisce un pesante fardello rispetto alle sue potenzialità applicative.
Un primo aspetto problematico discende dai caratteri dell’altra misura premiale dell’art. 25, co. 2° CCII (la circostanza attenuante), la quale prevede che, per chi ha presentato l'istanza o la domanda, “la pena è ridotta fino alla metà quando, alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza, il valore dell'attivo inventariato o offerto ai creditori assicura il soddisfacimento di almeno un quinto dell'ammontare dei debiti chirografari e, comunque, il danno complessivo cagionato non supera l'importo di 2.000.000 euro”.
Se per trovare applicazione una circostanza che attenua la pena è richiesto che l’attivo assicuri il soddisfacimento di almeno un quinto dei debiti chirografari e che il danno per il ceto creditorio non superi i 2 milioni di euro, si potrebbe essere indotti a pensare che – a fortiori – per potersi concedere una causa che la pena la esclude, il danno debba essere nettamente inferiore, tantopiù se lo stesso deve poter essere a tal fine considerato di speciale tenuità[40].
Contribuisce ad avvalorare tale ricostruzione il fatto che la circostanza attenuante e la causa di non punibilità siano legate da un fil rouge, ossia la clausola di sussidiarietà «fuori dai casi in cui risulta un danno di speciale tenuità», posta in apertura del secondo periodo. Da ciò deriva, infatti, che sarà difficile costruire interpretazioni sul requisito della particolare tenuità del danno che prescindano totalmente dagli indici quantitativi della circostanza attenuante. Posto che nel primo periodo non vi sono criteri oggettivi cui ancorare la valutazione della speciale tenuità, infatti, viene spontaneo dare adito ad un’interpretazione sistematica, che abbia un occhio di riguardo nei confronti del contenuto del secondo periodo. Al di là di ciò, la valutazione della speciale tenuità del danno resta del tutto discrezionale.
Prima ancora di arrivare alla valutazione del danno, però, v’è una incombenza preliminare: l’identificazione del danno da sottoporre a valutazione. La scelta, in merito, gravita intorno a due opzioni, alternative fra loro: danno come passivo tout court o come diretta conseguenza dei fatti di bancarotta? In altri termini, bisogna isolare la diminuzione patrimoniale determinata dall’agire illecito dell’imprenditore e valutarla separatamente, oppure si può evitare tale sforzo facendo riferimento al passivo fallimentare?
Si deve constatare, purtroppo, che la giurisprudenza maggioritaria[41] tende a sovrapporre – ai fini dell’applicabilità dell’attenuante dell’art. 219, co. 3° l. fall. – il danno da reato con il deficit fallimentare, con ciò riducendo al minimo le aspettative di chi auspica che con riferimento all’art. 25, co. 2° CCII l’approccio potrà essere diverso. Ci sono, però, delle spie di cambiamento. Alcune recenti pronunce della Corte di cassazione[42] potrebbero segnare il punto di partenza di un nuovo orientamento.
In una di queste, ad esempio, la Suprema corte ha ritenuto applicabile la circostanza attenuante dell’art. 219, co. 3° l. fall. al caso sottoposto alla sua attenzione, nonostante il passivo fallimentare accertato fosse di quasi 1.5 milioni di euro, censurando la decisione impugnata nella parte in cui sosteneva «che il parametro per la valutazione della speciale tenuità vada individuato nell'entità del passivo, non già nell'importo della distrazione»[43].
Nella medesima sentenza, peraltro, i giudici chiariscono con maggiore precisione che «la valutazione deve […] essere fatta con riferimento alla diminuzione patrimoniale determinata dall'azione del reo in danno dei creditori al momento della consumazione del reato, e non all'entità del passivo»[44]. Le possibilità che la prassi applicativa dell’art. 25, co. 2° CCII si riveli più clemente rispetto alle previsioni negative provenienti da più parti, quindi, non sono inesistenti. La più recente giurisprudenza sul danno (patrimoniale) di speciale tenuità lascia presagire che una diversa lettura potrà essere accolta.
Così come già avvenuto con riguardo all’art. 219, co. 3° l. fall. (art. 326, co. 3° CCII), anche per le misure premiali di cui si sta discorrendo è parsa contraddittoria a molti autori la rilevanza data dal legislatore al danno, posto che queste ultime operano principalmente con riferimento a reati comunemente considerati di pericolo, seppur concreto.
Le critiche sono sfociate nella formulazione di proposte alternative[45]. Facendo leva sull’art. 2621 ter c.c. (causa di non punibilità delle false comunicazioni sociali)[46] e sull’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), ad esempio, è stato detto che soluzione più consona sarebbe stata quella di porre al centro il concetto generale di tenuità dell’offesa, come comprensiva sia del danno che della messa in pericolo, piuttosto che affidarsi alla sola dannosità. Ma ci si è spinti anche oltre, giungendo a ritenere che tale «ambiguo riferimento al “danno” […], in un contesto in cui sono presenti reati di pericolo, potrebbe trovare tuttavia una sua spiegazione nell'idea che, a ben vedere, appare sottesa alla Relazione illustrativa, secondo cui anche la bancarotta fraudolenta propria dovrebbe essere ricostruita quale delitto di lesione effettiva, anziché di pericolo concreto»[47].
La lettura che in queste righe si vuole dare del crescente ruolo del danno nel diritto penale della crisi d’impresa si discosta dalla suddetta ricostruzione. Una cosa, infatti, è dire che i reati di bancarotta, in una prospettiva de iure condendo, dovrebbero essere costruiti secondo lo schema dei reati d’evento. Altra cosa, invece, è sostenere che il legislatore, introducendo una causa di non punibilità incentrata sull’esiguità del danno, abbia manifestato la sua intenzione di riformare le fattispecie di pericolo oggi esistenti nel senso di renderle delitti di lesione effettiva.
Quest’ultima opinione non sembra condivisibile poiché, da un lato, il fatto che ipotesi di esclusione della punibilità (e circostanze attenuanti) siano incentrate sulla dannosità del fatto tipico non implica che quest’ultima entri a far parte, sottoforma di evento naturalistico, della struttura dello stesso[48]; e, dall’altro lato, perché quando la Relazione illustrativa calibra i propri ragionamenti sul nesso eziologico fra le condotte dell’imprenditore (o di altro soggetto attivo) e il danno economico arrecato alla massa creditoria, non fa altro che constatare l’esistenza di un «rapporto causale esistente nei fatti»[49].
L’attenzione rivolta alla figura del danno nell’ambito di norme di favore destinate ad operare quando questo è particolarmente esigue può trovare una giustificazione nel fatto che, in relazione alle fattispecie di bancarotta disegnate come reati di pericolo concreto, i fatti tipici devono poter essere considerati sì offensivi (in termini di messa in pericolo) nel momento in cui vengono realizzati, ma devono altresì risultare tali all’atto dell’apertura di una delle procedure concorsuali. Semplificando, la loro lesività deve passare «dallo stadio di pericolo concreto a quello di pregiudizio effettivo», il quale – e qui sta il punto – «non può essere descritto se non in termini di danno»[50].
12. La tempestività dell’iniziativa
Nel delineare i tratti fondamentali dell’esimente in discorso si è segnalata la presenza di un ulteriore requisito (oltre alla speciale tenuità del danno) da soddisfare per la sua concessione. Deve essere accertato che l’imprenditore (o altro soggetto attivo) abbia presentato tempestivamente l’istanza all’Organismo di composizione della crisi d’impresa (OCRI) o la domanda di accesso ad una delle procedure disciplinate dal nuovo Codice.
Prima di avventurarsi nella ricerca del significato dell’avverbio tempestivamente, giova ricordare che è soprattutto tale requisito che riflette la logica sottesa al Codice della crisi e, in particolare, al sistema dell’allerta. Quest’ultimo, infatti, si basa proprio sull’idea che la puntuale emersione della crisi sia un obiettivo da raggiungere (quasi) ad ogni costo. Non a caso dalla lettura congiunta dell’art. 3 CCII con il novellato art. 2086, co. 2° c.c. si percepisce un evidente favor per un’organizzazione d’impresa (individuale e collettiva) che sia funzionale alla pronta rilevazione delle difficoltà economico-finanziarie nelle quali essa può incorrere. La tempestività dell’iniziativa è, in altri termini, una variabile dipendente della diligente organizzazione dell’impresa[51].
In tale contesto, dunque, la tempestiva attivazione dell’imprenditore in crisi è vista come un comportamento da premiare che, per quanto di competenza del diritto penale, significa non punire (o punire meno duramente). Proprio il fatto che la celere iniziativa del debitore in crisi sia concepita dal nuovo Codice come un valore, ha portato diversi autori ad affermare che ci si sarebbe potuti accontentare della stessa come unica condizione operativa della causa di non punibilità dell’art. 25, co. 2° CCII (senza affiancarle anche la speciale tenuità del danno). Così però non è stato.
Al fine di chiarire che cosa si debba intendere con iniziativa tempestiva viene in soccorso l’art. 24 CCII (tempestività dell’iniziativa), il quale è stato scritto in negativo: esso ci dice quando l’attivazione del debitore non è tempestiva. Nonostante ciò, è possibile desumere da tale disposizione, con un’agevole lettura a contrario, che l’agire dell’imprenditore può essere considerato tempestivo solo quando lo stesso abbia presentato l’istanza all’OCRI o la domanda di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi entro, rispettivamente, tre o sei mesi.
Fin qui, quindi, non sembrano esserci particolari complicazioni. È previsto un termine (tre mesi) cui fare riferimento quando l’imprenditore decida di rivolgersi all’OCRI e un diverso termine (sei mesi) per quando lo stesso opti per la presentazione della domanda di accesso ad una delle procedure regolate dal nuovo Codice. I problemi sorgono, però, all’atto dell’individuazione del dies a quo di decorrenza dei suddetti termini.
L’art. 24 CCII[52], in merito, dispone che essi devono intendersi decorrenti «da quando si verifica, alternativamente: a) l'esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell'ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; b) l'esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; c) il superamento, nell'ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati ai sensi dell'articolo 13, commi 2 e 3»[53].
Senza addentrarsi eccessivamente nell’analisi della disciplina civilistica, basti qui ricordare che le situazioni tipizzate dall’art. 24 CCII altro non sono che specificazioni di indicatori della crisi già contenuti nell’art. 13 CCII, che sono, a loro volta, diretti a meglio precisare la nozione di crisi intesa come «inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate» (art. 2, lett. a CCII)[54].
Posto che la tempestività dell’agire del debitore costituisce requisito necessario ai fini dell’operatività della causa di non punibilità, ciò che sul fronte penalistico è doveroso notare è la mancanza di regole tese a garantire che il momento dal quale possono decorrere i termini sia quello in cui la persona accusata sia realmente venuta a conoscenza della situazione di crisi. Né, tantomeno, si è pensato di prevedere che «l'imprenditore possa sottrarsi al rigore di queste tempistiche invocando, e persino dimostrando, di non essere stato a conoscenza dell'avverarsi di uno di questi indici»[55].
Anche in questo caso, dunque, così come con riferimento al danno, l’approccio del legislatore è stato schiettamente “oggettivo”: i termini dell’art. 24 CCII non decorrono dal momento in cui l’imprenditore (o altro soggetto attivo) apprende effettivamente la presenza di segnali di crisi, ma dal loro oggettivo avverarsi, indipendentemente dal fatto che lo stesso ne sia o meno edotto.
13. La circostanza attenuante
Il secondo periodo dell’art. 25, co. 2° CCII dispone, in alternativa all’esclusione della punibilità, che “per chi ha presentato l’istanza o la domanda la pena è ridotta fino alla metà quando, alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza, il valore dell’attivo inventariato o offerto ai creditori assicura il soddisfacimento di almeno un quinto dell’ammontare dei debiti chirografari e, comunque, il danno complessivo cagionato non supera l’importo di 2.000.000 euro”.
La circostanza attenuante non può essere letta a prescindere dalla causa di non punibilità. Anzi, fra i due istituti vi è una stretta connessione, rafforzata dal fatto che la pena può essere attenuata solo “fuori dai casi in cui risulta un danno di speciale tenuità”. Il legislatore, così, ha instaurato un rapporto di sussidiarietà: qualora non sia possibile escludere la pena (poiché il danno non è tenue) si potrà valutare se ci sono i margini per concedere l’attenuante.
Stante la suddetta relazione, è utile individuare analogie e differenze intercorrenti tra le norme in questione. In merito alle prime, si deve innanzitutto segnalare la continuità di area applicativa: anche la circostanza attenuante può operare con riguardo a tutti i delitti di bancarotta. Inoltre, la tempestività dell’iniziativa costituisce un elemento necessario in entrambi gli istituti premiali, essendo richiesta – se pur implicitamente – anche nella disposizione ora in analisi.
Tra le differenze più significative si pone sicuramente la sostituzione del generico e indeterminato requisito della speciale tenuità del danno (che lascia ampi spazi discrezionali al giudice in sede applicativa) con criteri-soglia rigidi, aventi natura numerica. Grazie a questi ultimi il giudice perde tutta la sua discrezionalità, divenendo un «recettore passivo di indicazioni provenienti da esperti, quale il curatore della liquidazione giudiziale ed il certificatore della tempestività dell’iniziativa procedurale»[56].
Ciò vuol dire che il giudice, nel singolo caso concreto, una volta ricevuta l’informazione dalla quale desumere che i requisiti numerici sono sussistenti e rilevato che l’iniziativa volta a reagire alla crisi è stata considerata tempestiva, non potrà fare altro che ridurre la pena fino alla metà. Si tratta, dunque, di una attenuante obbligatoria, che non lascia margini di ponderazione al soggetto incaricato di decidere.
14. Conclusioni
Quanto detto finora, si badi bene, prescinde dalla concreta rilevanza pratica che avranno le misure premiali. In merito, è doveroso prendere atto delle previsioni di autorevoli autori che prospettano, soprattutto per la causa di non punibilità, un futuro assai incerto, presumibilmente molto limitato[57]. Si deve segnalare, però, che sono state espresse anche opinioni opposte, da parte di chi ritiene che le misure premiali potranno costituire un commodus discessus dalle responsabilità penali in favore di amministratori e imprenditori, che potranno presentare strumentalmente le istanze di accesso alle procedure al solo fine di sfuggire dal rischio penale[58].
La partita si giocherà, secondo chi scrive, sul piano del successo o dell’insuccesso degli strumenti di risoluzione della crisi presenti nel nuovo Codice. Come si è ampiamente visto, l’elemento che gli interpreti prevedono sarà maggiormente ostativo all’applicazione pratica della causa di non punibilità è la speciale tenuità del danno. Ma l’entità del danno che i creditori subiscono dalla sottoposizione del loro debitore ad una procedura concorsuale è, nella logica del Codice della crisi, inversamente proporzionale alla tempestività dell’emersione della crisi e della sua gestione controllata. Tantopiù avrà successo il sistema dell’allerta, tantomeno saranno danneggiati i creditori. Se ciò si dimostrerà vero, la frequenza applicativa delle misure premiali potrà raggiungere livelli anche molto elevati.
[1] V., d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito con L. 14 maggio 2005, n. 80), seguito dai d.lgs.9 gennaio 2006, n. 5 e 12 settembre 2007, n. 169 (e da altri sporadici interventi negli anni successivi)
[2] A. Ingrassia, Rischio di impresa e “rischio” penale. Il sindacato giudiziale sulle scelte di gestione della crisi, Giappichelli Editore, Torino, 2020, 139
[3] A. Alessandri, Profili penalistici delle innovazioni in tema di soluzioni concordate delle crisi d’impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 115
[4] S. Fiore, Nuove funzioni e vecchie questioni per il diritto penale nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, in Fall., 9/2013, 1
[5] R. Bricchetti, La esenzione dei reati di bancarotta preferenziale e semplice nel nuovo art. 217 bis della legge fallimentare: causa di esclusione (delimitazione) del tipo, causa speciale di esclusione dell’antigiuridicità o che altro?, in AA: VV., Il “mercato della legge penale”: nuove prospettive in materia di esclusione della punibilità tra profili sostanziali e processuali, a cura di F. Sgubbi e D. Fondaroli, Padova, 2011, 82
[6] F. Consulich, Il diritto penale fallimentare al tempo del codice della crisi: un bilancio provvisorio, in La legislazione penale, approfondimento del 20.5.2020, 31
[7] A. Alessandri, Diritto penale commerciale, I reati fallimentari, IV, Giappichelli Editore, Torino, 2019, 181
[8] C. Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, Wolters Kluwer, Milano, 2020, 83
[9] F. Consulich, Il diritto penale fallimentare al tempo del codice della crisi: un bilancio provvisorio, cit., 23
[10] V., art. 4, co. 1°, lett. h), L. 19 ottobre 2017, n. 155
[11] Si è parlato di un carrot and stick approach da parte del legislatore. Si veda, per questa affermazione, F. Consulich, Il diritto penale fallimentare al tempo del codice della crisi: un bilancio provvisorio, cit., 39
[12] D. M. Schirò, La premialità nel diritto penale della crisi di impresa e dell’insolvenza: primi nodi interpretativi, in Archivio penale, 2/2019, 2
[13] F. Palazzo, La non-punibilità: una buona carta da giocare oculatamente, in SP, 19 dicembre 2019, § 1. L’Autore afferma che la premialità è «diventata uno degli strumenti più usati dal legislatore per perseguire i suoi obiettivi politici e sul quale ripone un affidamento probabilmente spesso più convinto di quanto non avvenga con l’abusatissimo ricorso all’inasprimento sanzionatorio»
[14] D. Pulitanò, Diritto penale, Giappichelli Editore, Torino, Sesta edizione, 2015, 467
[15] L. Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in SP, 69-70
[16] Per agevolare la lettura si riporta di seguito il testo della disposizione: «Quando, nei reati di cui agli articoli 322, 323, 325, 328, 329, 330, 331, 333 e 341, comma 2, lettere a) e b), limitatamente alle condotte poste in essere prima dell'apertura della procedura, il danno cagionato è di speciale tenuità, non è punibile chi ha tempestivamente presentato l'istanza all'organismo di composizione assistita della crisi d'impresa ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui al presente codice se, a seguito delle stesse, viene aperta una procedura di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo ovvero viene omologato un accordo di ristrutturazione dei debiti […]».
[17] Relazione illustrativa al d.lgs. 14/2019, p. 48
[18] S. Cavallini, Il diritto della crisi e il codice “dimezzato”: nuovi assetti di tutela per il sistema penale dell’insolvenza?, in Dir. Pen. e Processo, 2019, 10, 3
[19] L’orientamento minoritario, invece, propone di considerarla alla stregua di un elemento negativo della tipicità. L’idea è che il disposto dell’art. 25, co. 2° CCII riduca l’ambito di operatività delle fattispecie di bancarotta prefallimentare, facendo venire meno la penale rilevanza di fatti di bancarotta che siano seguiti da un pentimento operoso volto a neutralizzare l’offesa prodotta dal reato (lo schema è quello della c.d. bancarotta riparata). V., ad es., G. L. Perdonò, Brevi spunti di riflessione sull'evoluzione giurisprudenziale e normativa dei rapporti strutturali tra fatti di bancarotta prefallimentare e sentenza di fallimento, Archivio Penale, 1/2019, 20
[20] D. Pulitanò, Diritto penale, cit., 231
[21] Cass. pen., Sez. V, Sent. 4772/2020, ove si legge: “(…) Né, nell'odierna fattispecie, si è fatta questione circa l'applicabilità della, questa sì nuova, causa di non punibilità o, in alternativa (qualora non ricorra il danno di speciale tenuità), circostanza attenuante, previste dall'art. 25, comma 2, del Codice della crisi d'impresa, e peraltro riconducibili ad una iniziativa dell'imprenditore prevista solo dalle nuove norme.”
[22] L. Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 72
[23] E. Squillaci, Le moderne cause di non punibilità “susseguente” nel sistema penale, Un tentativo di normalizzare l’ipertrofia del diritto penale, Editoriale scientifica, Università mediterranea di Reggio Calabria, 41
[24] D. Pulitanò, Diritto penale, cit., 468
[25] Si veda, ad es., E. Squillaci, Le moderne cause di non punibilità “susseguente” nel sistema penale, cit., 73
[26] F. Palazzo, La non-punibilità: una buona carta da giocare oculatamente, cit., § 2
[27] V., ad es., artt. 131 bis e 649 c.p.
[28] R. Bricchetti, Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare, in www.penalecontemporaneo.it, 7-8/2019, 98
[29] «Alla luce del tenore letterale della delega in riferimento agli “altri reati” previsti dalla l. fall. e diversi dalla bancarotta semplice, si è prescelta l’opzione di includere anche la bancarotta fraudolenta e gli ulteriori reati menzionati dall’articolo 25 in commento nell’ambito della causa di non punibilità di nuova introduzione. In senso contrario, valorizzando cioè il solo riferimento alla bancarotta semplice, si dovrebbe ritenere che il legislatore delegante abbia escluso l’applicabilità della causa di non punibilità per le ipotesi di bancarotta fraudolenta. Se così fosse, tuttavia, non residuerebbe ambito innovativo della norma delegante: la bancarotta semplice consente già l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. e l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in presenza di condotte non abituali». V., Relazione illustrativa al d. lgs. 14/2019, p. 46
[30] G. L. Perdonò, Brevi spunti di riflessione sull'evoluzione giurisprudenziale e normativa dei rapporti strutturali tra fatti di bancarotta prefallimentare e sentenza di fallimento, cit., 18
[31] Nei repertori non risultano essere presenti molte pronunce nelle quali si sia anche solo discusso dell’applicabilità dell’art. 131 bis a fatti di bancarotta semplice. Si veda, con riferimento ad una ipotesi di bancarotta semplice documentale, Cass. pen., Sez. V, Sent. 19352/2018, di cui si riporta la massima (non ufficiale): “Il reato di bancarotta semplice documentale non può qualificarsi particolarmente tenue ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p., in particolare quando la contabilità non venga tenuta nel periodo immediatamente antecedente alla dichiarazione di fallimento, non permettendo perciò la ricostruzione della situazione patrimoniale e del movimento degli affari della società.”
[32] Sono state le osservazioni della II Commissione permanente (Giustizia) della Camera dei deputati ad indurre il legislatore delegato a riformulare il 2° comma dell’art. 25 rispetto allo schema di decreto legislativo licenziato dal Consiglio dei ministri l’8 novembre 2018. Nel parere reso dalla II Commissione il 19 dicembre 2018 si legge che «all’articolo 25, andrebbe modificato il comma 2 in modo da prevedere che, […], non è punibile chi ha […]», in tal modo suggerendo una maggiore precisione nell’individuazione dei potenziali destinatari della causa di non punibilità
[33] A. Ingrassia, Rischio di impresa e “rischio” penale. Il sindacato giudiziale sulle scelte di gestione della crisi, cit., 241
[34] S. Cavallini, La bancarotta patrimoniale tra legge fallimentare e codice dell’insolvenza. Disvalore di contesto e soluzioni negoziali della crisi nel sistema penale concorsuale, Wolters Kluwer, Milano, 2019
[35] V., ad es., A. Alessandri, Novità penalistiche del Codice della crisi d’impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2019, 29
[36] A. Alessandri, Novità penalistiche del Codice della crisi d’impresa, cit., 29
[37] L. Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 76
[38] L. Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 76
[39] L. Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 76
[40] V., in tal senso, C. Santoriello, D.lgs. 14/2019. Come cambiano le disposizioni penali nel nuovo codice della crisi d'impresa, ne il Penalista, Focus del 6 marzo 2019
[45] Si veda, ad es., D. M. Schirò, La premialità nel diritto penale della crisi di impresa e dell’insolvenza: primi nodi interpretativi, cit., 5; G. L. Perdonò, Brevi spunti di riflessione sull'evoluzione giurisprudenziale e normativa dei rapporti strutturali tra fatti di bancarotta prefallimentare e sentenza di fallimento, cit., 19
[46] A dire il vero anche tale disposizione dà preminente rilievo al danno cagionato (alla società, ai soci e ai creditori), prescrivendo che il giudice debba valutarlo «in modo prevalente» ai fini della concessione della causa di non punibilità
[47] M. Gambardella, Il codice della crisi di impresa: nei delitti di bancarotta la liquidazione giudiziale prende il posto del fallimento, in Cassazione Penale, fasc. 2, 2019, 22; l’Autore argomenta come segue: «La Relazione sembra invero ricostruire (o meglio trasformare) i delitti di bancarotta fraudolenta secondo lo schema dei reati di evento: e ciò quando spiega l'introduzione della causa di non punibilità, specificando che essa si applica quando la condotta abbia effetti depauperativi del patrimonio estremamente modesti e con una incidenza minima sul soddisfacimento dei creditori; per evitare altresì in tal modo che condotte poste in essere anche in epoca assai risalente assumano, a seguito dell'apertura della procedura concorsuale, rilevanza come reati di bancarotta fraudolenta. Si evoca, anche dal punto di vista lessicale, un profilo eziologico tra la condotta distrattiva e l'insolvenza dell'impresa assolutamente non contemplato nell'attuale delitto di bancarotta fraudolenta propria (art. 216 l. fall.; art. 322 c.c.i.), né in quello di bancarotta fraudolenta impropria ex art. 223, comma 1, l. fall. (art. 329, comma 1, c.c.i.).»
[48] Si veda, con riferimento alle circostanze, M. Poggi d’angelo, Il dolo di pericolo nella bancarotta fraudolenta, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4/2019, 2129. L’Autrice sottolinea che la presenza del danno nell’ambito di circostanze attenuanti o aggravanti «non deve indurre a ricostruire la figura di reato quale illecito di danno/lesione, in quanto le circostanze sono elementi accidentali o accessori del reato, che incidono esclusivamente sulla entità della pena, senza influire quindi sulla esistenza giuridica della fattispecie». Lo stesso discorso può estendersi anche alle cause di non punibilità.
[49] A. Alessandri, Novità penalistiche del Codice della crisi d’impresa, cit., 31-32
[50] A. Alessandri, Novità penalistiche del Codice della crisi d’impresa, cit., 31-32
[51] F. Consulich, Il diritto penale fallimentare al tempo del codice della crisi, cit., 22
[52] Si è tenuto in considerazione l’indice chiamato debt service coverage ratio, il quale esprime la capacità dell’impresa di generare i flussi di cassa (c.d. cash flow) necessari per l’adempimento dei debiti della stessa
[53] Gli indici cui fa riferimento la lett. c) sono quelli che dovranno essere elaborati, con cadenza almeno triennale, dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili
[54] Per una spiegazione del legame fra tali disposizioni si veda, ad es., C. Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, cit., 84
[55] P. Chiaraviglio, Le innovazioni penalistiche del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: alcuni rilievi critici, in Società, 2019, 5
[56] L. Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 80
[57] Si veda, ad es., A. Alessandri, Novità penalistiche del Codice della crisi d’impresa, cit., 29
[58] G. L. Perdonò, Brevi spunti di riflessione sull'evoluzione giurisprudenziale e normativa dei rapporti strutturali tra fatti di bancarotta prefallimentare e sentenza di fallimento, cit., 21