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Pubbl. Lun, 1 Mar 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Il rapporto tra l’omicidio aggravato commesso dallo stalker nei confronti della stessa persona offesa e il delitto di atti persecutori

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Jacopo Palermo



L’omicida che abbia posto in essere nei confronti della medesima persona offesa condotte integranti anche il delitto di stalking dovrà rispondere sia dell’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. che del meno grave reato di atti persecutori? Attorno a tale quesito nasce e si sviluppa il presente contributo, il quale, all’esito di un’ampia disamina degli istituti giuridici di riferimento, propone un focus sulle due difformi sentenze della Suprema Corte, l’ultima delle quali, depositata il 6 novembre 2020, ha ritenuto lo stalking assorbito nel delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., quale reato complesso in rapporto di consunzione con quello previsto dall’art. 612 bis c.p.; di talché, va data risposta negativa alla domanda di cui all’incipit.


ENG Whether or not the murderer who pursued the course of conduct against the same victim shall be convicted of both aggravated murder pursuant to art. 576, n. 5.1 c.p. and the lesser included stalking offense. The above is the legal issue of this contribution. As a result of a thorough research of the relevant legal institutions, the focus is on two Supreme Court’s conflicting decisions and particularly on the latest of these two, entered on November 6th 2020, where the Court held the crime of stalking merged into the greater offense of the art. 576, n. 5.1 c.p. as a complex crime into which the lesser offense of the art 612 bis c.p. is merged and thus dropped out; therefore, the short legal answer to the initial issue should be negative.

Sommario: 1. Premessa - 2. Excursus. Concorso di reati e concorso di norme - 2.1 Concorso materiale e concorso formale - 2.2 (segue) Il reato continuato - 2.3 Concorso apparente di norme - 2.4 (segue) I criteri identificativi: specialità, sussidiarietà e assorbimento - 2.5 (segue) Il reato complesso - 3. Il precedente del 2019 - 3.1 Il casus decisus - 3.2 L’ipotesi del concorso di reati. Motivazioni a sostegno - 3.3 (segue) Profili di criticità - 4. L’ultimo approdo giurisprudenziale - 4.1 Il casus decisus - 4.2 La tesi del reato complesso. L’iter logico-argomentativo della Suprema Corte - 5. Considerazioni conclusive

1. Premessa

Nel solco di una tra le più complesse e dibattute questioni di diritto penale, ovvero quella della corretta individuazione dei criteri identificativi dei casi di concorso apparente di norme, si colloca il problema al centro della presente trattazione: quello della qualificazione giuridica da attribuire al rapporto che intercorre tra l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p.[1] e il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p., posto che la differenza strutturale tra dette fattispecie risulta essere ostativa all’operatività del criterio di specialità, l’unico tra quelli teorizzati a trovare un puntuale riconoscimento normativo nella disposizione di cui all’art. 15 c.p.

In siffatto contesto, ha suscitato clamore la recentissima sentenza n. 30931 pronunciata dalla Sezione III penale della Corte di Cassazione all’udienza del 13 ottobre 2020 (dep. 6 novembre 2020)[2], con la quale i giudici di legittimità sono tornati sui loro passi e, ribaltando completamente quanto stabilito dall’unico precedente in materia risalente a poco più di un anno prima[3], hanno ritenuto assorbito il delitto di stalking nella fattispecie di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., cui è stata riconosciuta natura di reato complesso ex art. 84 c.p.; di talché, nel caso in cui una serie di condotte integranti la fattispecie di atti persecutori culmini tragicamente in omicidio, il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. non troverà autonoma applicazione.

Invero, al netto di ogni considerazione in ordine all’ormai consolidato criterio di specialità, la Suprema Corte ha ritenuto che sia proprio la natura complessa della peculiare tipologia di omicidio in esame ad escludere l’operatività della disciplina del concorso di reati in favore dell’istituto del concorso apparente di norme, riaccendendo così l’annosa questione del riconoscimento del criterio di assorbimento, a parere di molti contenuto proprio nella previsione di cui all’art. 84 c.p.; tutto ciò sulla base della valutazione secondo cui, in caso di omicidio aggravato dallo stalking ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., condotte le quali astrattamente considerate sarebbero sussumibili nel delitto di cui all’art. 612 bis c.p. costituiscono, in realtà, mero motivo di aggravamento di un reato (l’omicidio) che contiene in sé il disvalore insito anche nel diverso e meno grave reato assorbito (gli atti persecutori).

2. Excursus. Concorso di reati e concorso di norme

A dispetto della regola generale basata sull’equazione unità di azione-unità di reato, secondo la quale l’azione tipica esaurirebbe il contenuto di una sola fattispecie delittuosa, pertanto a più condotte corrisponderebbero altrettanti reati, talvolta il nostro sistema penale prevede che nella medesima condotta possano confluire plurime norme incriminatrici: tale circostanza prende il nome, a seconda dei casi, di concorso di reati ovvero di concorso apparente di norme[4].

Quanto alle distinte ipotesi di concorso materiale e di concorso formale (o ideale) di reati, la prima ricorre quando uno stesso soggetto, con più azioni od omissioni, realizza più reati, mentre la seconda quando uno stesso individuo commette più reati con una sola azione od omissione. Ciò che segna il discrimen tra dette ipotesi è la pluralità ovvero l’unità dell’azione, cui corrisponde, rispettivamente, l’applicazione di tante pene quanti sono i reati oppure, in caso di concorso formale ex art. 81, co. I c.p., l’applicazione della pena prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo. A tal riguardo, è opportuno precisare che il criterio-guida cui perlopiù si ricorre per distinguere l’ipotesi dell’unità da quella della pluralità di azione è quello che rinviene nel duplice requisito della contestualità degli atti e dell’unicità del fine[5] il carattere unitario della condotta; in altri termini, più azioni in senso naturalistico si ricompongono in un’azione giuridicamente unitaria se unico è lo scopo che le sorregge e se si susseguono nel tempo senza apprezzabile interruzione[6].

Venendo, invece, all’ipotesi di concorso (o conflitto) apparente di norme, essa ricorre quando una medesima condotta risulta solo in apparenza sussumibile in più fattispecie delittuose, ma in realtà integra un solo reato.

2.1. Concorso materiale e concorso formale

Come già parzialmente accennato, il concorso materiale di reati si sostanzia nella molteplice violazione, mediante più azioni od omissioni, di una stessa norma (concorso materiale c.d. omogeneo) o di diverse norme incriminatrici (concorso materiale c.d. eterogeneo). Il codice Rocco, nel prevedere la disciplina del cumulo materiale delle pene sulla base del principio “tot crimina, tot poenae”, ha segnato un irrigidimento del trattamento sanzionatorio in caso di concorso materiale di reati rispetto all’antecedente codice Zanardelli del 1889, il quale prevedeva il regime del cumulo giuridico.

Il legislatore del 1930, ad ogni modo, ha posto dei freni alla propria spinta repressiva, introducendo dei limiti invalicabili di pena volti a temperare in certi casi gli effetti sanzionatori del cumulo materiale (artt.72-79 c.p.). L’intervento novellistico del 1974 ha ulteriormente affievolito l’impatto della disciplina del cumulo materiale nel nostro ordinamento, circoscrivendone fortemente l’area di operatività: ciò grazie all’estensione della figura del reato continuato di cui all’art. 81 cpv c.p. anche alle ipotesi di violazione di norme incriminatrici eterogenee, che, se avvinte da un “medesimo disegno criminoso”, comportano l’applicazione del regime del cumulo giuridico delle pene in luogo del più severo cumulo materiale.

Così come il concorso materiale di reati, anche il concorso formale si distingue in omogeneo ed eterogeneo: nel primo caso la pluralità di violazioni ha per oggetto la medesima disposizione incriminatrice[7], mentre nel secondo essa riguarda diverse disposizioni incriminatrici[8]. Quanto all’ipotesi di concorso formale omogeneo, si pensi all’esempio offerto dalla dottrina dell’automobilista che guida imprudentemente, a folle velocità, sulla strada ghiacciata e, dopo aver perso il controllo del veicolo, investe più pedoni uccidendoli, dando così luogo a più omicidi colposi; quanto, invece, alla distinta ipotesi di concorso eterogeneo, si pensi all’esempio del borseggiatore che, nel sottrarre un portafoglio dalla tasca di un passeggero, per sfuggire all’intervento di un agente di pubblica sicurezza, usando violenza nei confronti sia del derubato che dell’agente, fugge con la refurtiva, consumando con la medesima condotta i delitti di rapina impropria e di resistenza a pubblico ufficiale[9].

Venendo alla disciplina sanzionatoria del concorso formale di reati, l’art. 81, co. I c.p., profondamente riformato dall’intervento del 1974[10], che ha superato l’originario regime del cumulo materiale previsto dal legislatore del 1930 con riferimento all’ipotesi di concorso formale di reati, prevede quanto segue: ‹‹è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge››.

Per concludere, si segnala che il ritorno a un accentuato furore repressivo si è registrato nell’ulteriore intervento riformatore del 2005, che ha aggiunto un comma (l’ultimo) all’art. 81 c.p. con cui si prevede, con riferimento al soggetto recidivo reiterato obbligatorio, che nell’ipotesi di commissione di reati in concorso formale o in continuazione tra loro l’aumento della pena non può in ogni caso essere inferiore a un terzo di quella stabilita per il più grave di essi.

2.2. (segue) Il reato continuato

Quello del reato continuato costituisce senza ombra di dubbio uno degli istituti di diritto sostanziale di maggior rilievo nel nostro ordinamento, la cui disciplina trova specifica collocazione nell’art. 81 cpv c.p.: ‹‹alla stessa pena [quella che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo] soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge››.

L’istituto in parola opera in una particolare ipotesi di concorso materiale di reati, ossia quella in cui un individuo, mediante molteplici azioni od omissioni, commetta più illeciti penali, a patto che gli stessi siano esecutivi di un medesimo disegno criminoso; di talché, le condotte tenute dall’agente (tutte, autonomamente, dotate di uno specifico disvalore sociale) sarebbero, nel complesso della medesimezza del disegno criminoso, espressive di un minor grado di riprovevolezza[11] e, di conseguenza, meritevoli di un trattamento sanzionatorio più mite rispetto ai casi ordinari di concorso materiale di reati[12].

Come già accennato nel corpo della presente trattazione (v. infra cap. 1.1), la formulazione dell’art. 81 cpv c.p. antecedente alla riforma del 1974, pur prevedendo il medesimo trattamento sanzionatorio basato sul cumulo giuridico dei reati confermato dal legislatore riformista, richiedeva il duplice requisito della medesimezza del disegno criminoso e dell’omogeneità dei reati avvinti dal nesso di continuazione; in tal modo, risultava fortemente circoscritta l’area di operatività di un istituto, quale quello della continuazione, di favore per il reo.

Il novellato art. 81 cpv c.p., discostandosi rispetto a quanto previsto dal legislatore del 1930, richiede il solo elemento dell’unità del disegno criminoso; concetto, questo, la cui estensione in sede interpretativa comporta l’allargamento o il restringimento dei confini operativi della disciplina del concorso materiale di reati, che copre tutti quei casi in cui vi siano più azioni od omissioni corrispondenti a plurime violazioni le quali, appunto, difettino del vincolo della continuazione. A tal proposito, si fanno presenti i tre contrapposti orientamenti dottrinali sviluppatisi sull’argomento, l’ultimo dei quali ha raccolto maggiore consenso dagli studiosi:

a) il criterio c.d. volitivo[13], che identifica il medesimo disegno criminoso con la volontà iniziale di ogni reato, confondendo così il programma unitario con il coefficiente volontaristico che deve permeare le singole fattispecie[14];

b) il criterio della rappresentazione anticipata dei singoli episodi delittuosi (c.d. intellettivo)[15], secondo cui il concetto di medesimo disegno criminoso si riferirebbe alla mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli episodi delittuosi poi di fatto commessi dallo stesso agente, quale conseguenza di un vero e proprio programma delittuoso iniziale, che inglobi in sé i diversi reati nei loro elementi essenziali;

c) il criterio dell’unicità dello scopo (c.d. teleologico-programmatico)[16], che richiede, al di là dell’elemento intellettivo della rappresentazione anticipata, che i diversi episodi delittuosi costituiscano attuazione di un preciso e concreto programma diretto alla realizzazione di un obiettivo unitario, in modo tale che sussista un rapporto di interdipendenza funzionale tra i plurimi reati e lo scopo unitario[17], indicatore di un’unica risoluzione criminosa[18].

La giurisprudenza più recente aderisce anch’essa alla tesi basata sul criterio teleologico-programmatico, che rinviene nel reato continuato sia una componente intellettiva che una finalistica, affermando che con la nozione di “medesimo disegno criminoso” il legislatore abbia inteso riferirsi alla rappresentazione, in capo al soggetto agente, della futura commissione dei reati e, dunque, a un elemento che attiene alla sfera psicologica del soggetto, risalente a un momento antecedente rispetto alla commissione del primo dei reati dell’iter criminoso considerato[19]. Sulla scia di quanto consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, anche la Corte Costituzionale è intervenuta sul punto, precisando che il giudizio sulla continuazione tra reati richiede l’accertamento che il soggetto agente, prima di dare il via alla serie criminosa, abbia avuto una rappresentazione almeno sommaria dei reati che si accingeva a commettere e che detti reati siano stati ispirati a una finalità unitaria[20].

2.3. Concorso apparente di norme

Con l’espressione concorso (o conflitto) apparente di norme[21] ci si riferisce all’ipotesi in cui, nonostante più norme incriminatrici appaiano confluire nel medesimo fatto, in quanto la condotta integra contemporaneamente gli elementi costitutivi di più fattispecie, in realtà solo una di esse è veramente applicabile ed uno soltanto è il reato del quale il soggetto agente dovrà rispondere. Invero, due sono i presupposti operativi di tale peculiare istituto di diritto sostanziale: l’esistenza di una medesima situazione di fatto; la convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla.

Tema da sempre dibattuto è quello dei criteri cui affidarsi nell’identificare i casi di concorso apparente di norme, posto che l’unico di essi riconosciuto a livello legislativo è quello di specialità[22], che trova la propria collocazione nell’art. 15 c.p. Quanto, invece, ai criteri di sussidiarietà e di assorbimento (o consunzione), opinioni fortemente contrastanti si registrano soprattutto in dottrina, alla luce del fatto che la norma anzidetta non esclude affatto l’operatività di criteri diversi da quello di specialità.

2.4. (segue) I criteri identificativi: specialità, sussidiarietà e assorbimento

Come accennato poc’anzi, la base normativa del principio di specialità è l’art. 15 c.p., che recita: ‹‹quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito››.

In ossequio a una valutazione di carattere logico-formale, riprendendo letteralmente quanto recentemente ribadito dalle Sezioni Unite, ‹‹il presupposto della convergenza di norme, perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente ai sensi dell’art. 15 c.p., risulta integrato solo da un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costituivi che concorrono a definire la fattispecie di reato››[23]. Sussiste, pertanto, un rapporto di specialità tra due fattispecie delittuose nel momento in cui tutti gli elementi costitutivi dell’una siano ricompresi anche nell’altra, la quale, a sua volta, ne contiene di ulteriori (c.d. “specializzanti”) tali da renderla speciale rispetto alla prima, di talché la norma che si assume essere generale presenterà un’estensione applicativa più ampia rispetto a quella speciale.

L’elemento specializzante che si aggiunge a quelli previsti dalla norma generale può specificare un elemento del fatto già presente in quella generale (in tal caso si parlerà di specialità per specificazione) o, diversamente, aggiungersi a quelli della norma generale (si avrà in tal caso specialità per aggiunta). Orbene, a norma dell’art. 15 c.p., qualora la condotta tenuta da un individuo sia sussumibile in entrambe le fattispecie incriminatrici, prevarrà quella dotata degli elementi aggiuntivi tali da renderla speciale[24]; ciò, si badi, avverrà al di fuori di qualsiasi tipo di considerazione in ordine alla gravità dei reati in gioco, non rilevando affatto la differenza di trattamento sanzionatorio tra i medesimi[25].

Nodo interpretativo da sciogliere per una corretta applicazione del criterio di specialità è, senz’altro, quello del significato da attribuire al concetto di ‹‹stessa materia››, da cui dipende la più o meno ampia operatività del criterio in parola. A tal riguardo, tre sono gli orientamenti da segnalare:

a) quello, più diffuso in giurisprudenza che in dottrina[26], secondo il quale, nell’ottica di un generale restringimento dell’area del concorso apparente di norme, il concetto in esame si riferirebbe ai casi in cui, al di là della medesimezza del fatto in sé per sé considerato, sussista tra le norme apparentemente integrate l’identità od omogeneità del bene giuridico tutelato[27];

b) quello della c.d. specialità in concreto, stando al quale si avrebbe concorso apparente di norme per specialità anche nel caso in cui, pur prevedendo dette norme uno stesso fatto, tra le medesime non sussista “in astratto” un rapporto di genere a specie[28]; in altri termini, l’orientamento in parola allude a un rapporto tra norme che, pur descrivendo modelli legali di reato tra i quali non intercorre un rapporto strutturale di specialità, ricomprendono entrambe un medesimo fatto concreto in ragione delle particolari modalità con le quali quel fatto è stato realizzato[29];

c) quello della c.d. specialità reciproca (o bilaterale), fortemente minoritario rispetto agli altri due, che si riferisce al rapporto intercorrente tra due norme delle quali l’una nei confronti dell’altra risulta essere al contempo sia speciale che generale[30], in quanto, accanto ad un nucleo di elementi comuni, essa presenta elementi speciali ed elementi generali rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra e viceversa[31].

Venendo al criterio identificativo della sussidiarietà, esso trae origine dalle molteplici “clausole di riserva” inserite dal legislatore nel nostro codice penale, del tipo ‹‹qualora il fatto non costituisca un più grave reato›› oppure ‹‹se il fatto non è preveduto come più grave reato da altra disposizione di legge›› o, ancora, ‹‹fuori dei casi indicati nell’art…››. Clausole di tal specie, infatti, denotano espressamente la volontà del legislatore di prevedere che talune norme siano sussidiarie rispetto ad altre, di talché esse non si applicheranno a un fatto concreto che integri anche gli estremi di un altro e più grave reato[32] (si pensi, per esempio, all’abuso d’ufficio, norma sussidiaria rispetto alle altre più gravi volte a reprimere i reati contro la pubblica amministrazione).

Si è autorevolmente osservato in dottrina come il proliferare delle clausole di riserva all’interno del codice penale confermi quanto già presagito nella “Relazione al Progetto definitivo del codice penale[33], ossia che esse obbediscono a un vero e proprio “criterio di sistema”, espressivo di un principio di portata generale che merita di trovare applicazione anche al di fuori dei casi di sussidiarietà espressa. Invero, non mancano nel nostro ordinamento casi di sussidiarietà c.d. tacita, che ricorre qualora due fattispecie incriminatrici, all’interno delle quali sia contemporaneamente sussumibile il medesimo fatto, si pongano tra loro in un “rapporto di rango”, in quanto riferite a due figure di reato di differente gravità, offendendo la figura di reato più grave beni ulteriori rispetto a quello leso dalla figura criminosa meno grave ovvero rappresentando uno stadio di offesa più intensa allo stesso bene (a titolo esemplificativo, si pensi al rapporto tra il delitto di strage e quello di incendio, sussidiario rispetto al primo)[34].

Orbene, il criterio di sussidiarietà opera con riguardo a due norme che prevedono stadi e gradi diversi di offesa al medesimo bene giuridico; da ciò deriva che l’offesa maggiore assorbe quella minore, derogandola (lex primaria derogat legi subsidiarie)[35].

Quanto, poi, al terzo ed ultimo criterio di individuazione del concorso apparente di norme, ossia quello di assorbimento (o consunzione)[36], esso si riferisce ai casi in cui la commissione di un reato sia strettamente funzionale ad un altro e più grave reato, la cui previsione “consuma” e assorbe in sé il disvalore del fatto concreto complessivamente considerato[37]. In altre parole, detto criterio opera nel momento in cui la realizzazione di un illecito penale comporta, secondo l’id quod plerumque accidit, la consumazione di un secondo reato, che risulta così assorbito nel primo; il tutto in ossequio al più generale principio del ne bis in idem sostanziale[38], il quale vieta ogni ipotesi di duplicazione sanzionatoria in capo al medesimo individuo per uno stesso fatto.

Due sono, dunque, i tratti essenziali del criterio di assorbimento tali da porlo in antitesi rispetto al criterio di specialità: l’essere basato su un rapporto prettamente di valore (e non logico-formale), in base al quale l’apprezzamento negativo del fatto appare già compreso nella norma che prevede il reato più gravemente punito; il richiedere la mera unitarietà normativo-sociale del fatto[39] (e non la vera e propria identità naturalistica del medesimo, come, appunto, per la specialità).

Nel segnalare le considerazioni offerte da quel filone dottrinale favorevole al riconoscimento del criterio di assorbimento nel nostro ordinamento, si osserva come esso trovi fondamento nell’esigenza di ovviare all’artificiosa proliferazione delle specie incriminatrici[40] cui è ricorso il legislatore, senza che a tale eccesso di previsione casistica corrisponda un autonomo e reale disvalore dei singoli fatti di volta in volta incriminati[41].

2.5. (segue) Il reato complesso

Alla base del principio di consunzione, nei cui confronti la prevalente giurisprudenza mostra un atteggiamento rigoristico, vi è la disciplina del reato complesso di cui all’art. 84 c.p., che dispone quanto segue: ‹‹I. Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reati. II. Qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79››.

In sintesi, la norma testé riportata prevede l’unificazione normativa sotto forma di identico reato di due o più figure criminose, i cui rispettivi elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura risultante dall’unificazione, potendo altresì il reato assorbito assumere la posizione di circostanza di aggravamento del reato assorbente[42]. Orbene, la ratio alla quale risponde la disciplina del reato complesso è quella di evitare che l’interprete sia indotto ad applicare il regime del concorso di reati laddove il legislatore ha proceduto a un’unificazione normativa di fatti che, in sé per sé considerati, integrerebbero autonome fattispecie incriminatrici[43].

In contrapposizione a chi reputa la disposizione di cui all’art. 84 c.p. una pleonastica applicazione del più generale principio di specialità[44], è stato osservato che la norma in parola cessa di essere superflua nel momento in cui la si interpreta come enunciazione del principio di consunzione, espressivo dell’idea secondo cui la commissione di un reato che sia funzionale a un altro e più grave reato comporta l’assorbimento del primo di essi in quello più grave[45].

Ancora, da una interpretazione in chiave estensiva della disposizione di cui all’art. 84 c.p. si sono sviluppate in seno alla dottrina le teorie del reato c.d. “complesso in senso lato” e di quello c.d. “eventualmente complesso”: la prima opta per l’assorbimento nel caso in cui un reato abbracci un diverso reato meno grave più ulteriori elementi che, di per sé, non configurano alcun reato (si pensi al delitto violenza sessuale, frutto della combinazione del reato di violenza privata e dell’ulteriore elemento della congiunzione carnale, di per sé privo di rilievo penale)[46]; la seconda, al contrario, rinviene un rapporto di consunzione tra fattispecie anche in assenza di una figura astratta di reato complesso ex art. 84 c.p., purché la commissione del reato da assorbire sia in concreto strettamente funzionale alla commissione di un altro e più grave reato (si pensi al delitto di simulazione di reato, assorbito nel diverso delitto di calunnia laddove la simulazione delle tracce di un reato inesistente sia, fin dall’origine, diretta a rendere maggiormente attendibile la falsa incolpazione)[47].

Da considerarsi autonomamente rispetto a quanto illustrato sinora, poiché, pur comportando l’assorbimento di una norma nell’altra, sono riferite a specifiche ipotesi di fatti concreti cronologicamente separati e integranti gli estremi di differenti figure di reato, sono le discipline dell’antefatto non punibile e del postfatto non punibile, che trovano la propria ragion d’essere nelle esigenze di tutela del generale divieto di bis in idem sostanziale: nel primo caso, il legislatore riconosce irrilevanza penale alla norma violata con i fatti cronologicamente antecedenti, costituendo il reato antecedente il mezzo ordinario di realizzazione del successivo e più grave reato, secondo l’id quod plerumque accidit[48]; nel secondo caso, al contrario, ad essere disapplicata sarà la norma violata con i fatti cronologicamente posteriori, il cui disvalore è già incluso nella condotta che integra il reato anteriore (si pensi, a titolo esemplificativo, ai delitti di favoreggiamento personale e di favoreggiamento reale, che, per espressa indicazione legislativa, si applicano ‹‹fuori dei casi di concorso›› nel reato antecedente).

3. Il precedente del 2019

‹‹L’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1 non assorbe, per difetto di una relazione di specialità tra le fattispecie, il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis cod. pen.››[49]: ciò è quanto ritenuto in data 12 aprile 2019 dalla prima Sezione penale della Corte di Cassazione, la quale annullava con rinvio la sentenza pronunciata il 10 maggio 2018 dalla Corte di Assise di Appello di Roma, rea di aver ritenuto il delitto di stalking, di cui era stata accertata la sussistenza, assorbito in quello di omicidio.

I giudici di legittimità, investiti per la prima volta del problema, negavano all’omicidio aggravato dagli atti persecutori natura di reato complesso ed escludevano, altresì, la sussistenza di un legame di specialità tra detto reato e quello, meno grave, di cui all’art. 612 bis c.p. Partendo dall’assunto secondo cui non vi sarebbe interferenza tra le fattispecie, essendo l’elemento aggravatore dell’omicidio di natura soggettiva e non appartenendo, pertanto, alla condotta e alle sue modalità di realizzazione, la Suprema Corte riteneva che ‹‹tra esse v’è una relazione di piena compatibilità perché la commissione degli atti persecutori, reato di natura abituale e a condotta tipizzata, non involge in alcun modo la commissione del fatto di omicidio, reato di natura istantanea e causalmente orientato››[50].

3.1. Il casus decisus

La vicenda portata innanzi ai giudici della Suprema Corte trae origine da una serie di condotte poste in essere da P.V., il quale, contrariato e amareggiato per la rottura con la propria fidanzata, dapprima la molestava e minacciava con assidui contatti telefonici e informatici, avanzandole tra l’altro continue richieste di incontri, per poi giungere fino all’atto estremo di ucciderla, strangolandola, e di distruggerne il cadavere (esso è stato rinvenuto carbonizzato la mattina del 29 maggio 2016); ciò a seguito della scoperta, grazie all’accesso abusivo all’account di Facebook della donna, che la medesima aveva intrapreso una relazione sentimentale con un altro uomo, del quale, peraltro, P.V. incendiava l’autovettura.

All’esito del giudizio di primo grado, celebrato nelle forme del rito abbreviato, l’imputato veniva condannato all’ergastolo per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., nonché dalla premeditazione, dall’aver profittato della minorata difesa e dall’abiezione del motivo omicida, per gli atti persecutori, per la distruzione del cadavere e per il danneggiamento seguito dall’incendio dell’autovettura.

La Corte di Assise di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena in anni trenta di reclusione, ritenendo, sulla base del disposto normativo di cui all’art. 84 c.p., il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. assorbito in quello di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. e non potendo esso, pertanto, trovare autonoma applicazione.

Contro la citata sentenza proponevano ricorso per Cassazione sia il difensore dell’imputato che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello, il secondo dei quali deduceva il vizio della violazione di legge quanto all’assorbimento degli atti persecutori nel delitto di omicidio aggravato. Osservava il P.G., infatti, che quel che aggrava il reato di omicidio non è la contestuale commissione dello stalking, bensì il fatto che l’autore dell’omicidio corrisponda (soggettivamente) a quello degli atti persecutori, sicché si configurerebbe un concorso reale tra i due reati. Ben più corposo, invece, è stato l’atto di impugnazione depositato dal difensore dell’imputato, articolato in cinque motivi i quali deducevano il vizio della violazione di legge e del difetto di motivazione relativamente alle aggravanti contestate.

3.2. L’ipotesi del concorso di reati. Motivazioni a sostegno

Come si è già avuto modo di illustrare (v. infra cap. 3), la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso presentato dal P.G., ha annullato la sentenza impugnata rinviando per un nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Assise di Appello di Roma, chiamata a pronunciarsi sul trattamento sanzionatorio da comminare all’imputato alla luce del principio di diritto secondo cui l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. non assorbe il delitto di atti persecutori; ciò è stato deciso in ragione dell’assenza di un rapporto di specialità tra fattispecie strutturalmente diverse, sicché si sarebbe dovuta riconoscere agli atti persecutori la natura di reato autonomo in concorso reale con l’omicidio aggravato. Ed è alla luce di tali indicazioni fornite dalla Suprema Corte che l’11 settembre 2019 il Collegio della seconda sezione penale bis ha condannato P.V. alla pena di anni quattro di reclusione per il reato di stalking e rideterminato la pena finale nell’ergastolo.

Venendo all’iter logico-argomentativo seguito dai giudici di legittimità, esso poggia le basi sulla mancanza di un rapporto strutturale di specialità[51] tra le differenti fattispecie di atti persecutori e di omicidio aggravato dallo stalking; l’art. 15 c.p., invece, può operare nel nostro ordinamento solo laddove più norme incriminatrici siano astrattamente riconducibili al medesimo fatto concreto[52], non potendosi ricorrere ad esso nell’ipotesi di una pluralità di fatti distinti tra loro. Invero, nel caso di specie, quelli contestati all’imputati sono due fatti di reato strutturalmente e cronologicamente autonomi e distinti: l’agente ha dapprima posto in essere le condotte integranti il delitto di atti persecutori, consistenti nel minacciare e molestare sia telefonicamente che personalmente l’ex fidanzata, per poi determinarsi ad ucciderla e a distruggerne il cadavere solo in seguito alla scoperta di una sua nuova relazione sentimentale.

Ancora, come ha puntualmente osservato la Suprema Corte, ad escludere qualsivoglia rapporto di interferenza in termini di specialità tra i delitti in parola, depone la loro diversità strutturale: invero, il reato di cui all’art. 612 bis c.p. si sostanzia in minacce o molestie protrattesi per un tempo più o meno lungo alle quali consegua uno degli eventi lesivi alternativamente previsti (perdurante e grave stato di ansia o di paura oppure fondato timore per l’incolumità propria o di altri), che ad ogni modo non ledono l’integrità fisica della vittima o, peggio, il bene vita; il delitto di omicidio, al contrario, si qualifica esclusivamente per l’evento tipico della morte, del tutto estraneo alla fattispecie di atti persecutori.

Sempre dall’autonomia e dalla diversità dei fatti sussumibili nelle diverse fattispecie di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. deriva l’impossibilità di consentire l’operatività della clausola posta all’incipit dell’art. 612 bis c.p. (‹‹salvo che il fatto costituisca più grave reato››), essendo essa destinata a operare solo nell’evenienza in cui il fatto concreto sia unico e plurime siano le fattispecie apparentemente integrate. Invero, i giudici di legittimità hanno ritenuto a tal proposito che la clausola in parola ‹‹al di là della questione circa una sua reale ed effettiva utilità[53], non può aver riguardo al rapporto con il delitto di omicidio, la cui natura istantanea lo pone al di fuori dell’area di possibile interferenza con il reato abituale di atti persecutori››[54].

Sgomberato il campo da ogni possibilità applicativa del concorso apparente di norme per assenza del rapporto di specialità tra le fattispecie, la Suprema Corte ha, altresì, negato che la figura di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. possa considerarsi reato complesso: ciò sulla base della connotazione di carattere prettamente soggettivistico dell’elemento aggravatore desumibile dal dettato normativo (l’essere il fatto commesso ‹‹dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612 bis››), che non fa riferimento ad alcun dato di tipo oggettivo. Stando alla motivazione proposta dai giudici di legittimità, l’art. 576, n. 5.1 c.p. si limita a richiedere la mera identità soggettiva tra l’autore degli atti persecutori e quello dell’omicidio, senza tuttavia stabilire alcun legame di carattere eziologico o cronologico tra le diverse condotte. Quanto ritenuto dai predetti poggia sull’assunto secondo cui l’aggravamento di pena troverebbe la propria giustificazione nel disvalore insito di per sé nella condotta integrante il delitto di omicidio posta in essere dal medesimo autore dello stalking e non sarebbe, invece, volta a sanzionare i fatti di atti persecutori poi sfociati nell’omicidio della stessa persona offesa, ai quali andrebbe dunque riconosciuta autonoma rilevanza (ergo, autonoma sanzione) ai sensi dell’art. 612 bis c.p.; ciò sulla base, tra altro, di un confronto con la diversa e contigua ipotesi aggravatrice di cui all’art. 576, n. 5 c.p., ove il legislatore ha optato per un formula lessicale significativamente diversa, che esige (essa sì!) per la sua operatività una relazione di occasionalità tra il delitto di omicidio e uno dei delitti previsti dagli artt. 572, 583 quinquies, 600 bis, 600 ter, 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale[55].

Momento-chiave del ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte nel motivare la natura prettamente soggettiva dell’elemento aggravatore dell’omicidio (e, di riflesso, l’esclusione del reato complesso) è racchiuso nella considerazione secondo cui, ‹‹in riferimento alla previsione che ora è d’interesse, il disvalore aggiunto di cui si colora il fatto dell’omicidio è invece posto in diretta derivazione dall’essere l’autore colui che prima, non importa quando, ha oppresso la vittima con atti persecutori, e ciò perché in tal modo riceve una deplorevole e particolare spinta criminosa proprio dal contesto di sopraffazione in cui si è strutturata la relazione con la vittima››[56].

Orbene, è proprio alla luce di quanto poc’anzi illustrato che la Cassazione è giunta a ritenere che non ci sia relazione di piena compatibilità tra il delitto di atti persecutori (abituale e a condotta tipizzata) e quello di omicidio (istantaneo e causalmente orientato), non potendo l’elemento aggravatore previsto dall’art. 576, n. 5.1 c.p. comportare un’interferenza tra le fattispecie per via della sua natura soggettiva. L’art. 84 c.p., infatti, regola il caso dell’interferenza tra fattispecie sotto il profilo oggettivo del tipo normativo, prevedendo, come si è già avuto modo di illustrare (v. infra cap. 2.5), un’eccezione alla regola del concorso reale di reati laddove la legge consideri come “elementi costitutivi” o come “circostanze aggravanti” di un solo reato fatti che costituirebbero, per se stessi, reato.

3.3. (segue) Profili di criticità

Nell’ottica di quella che vuole essere un’analisi critica della sentenza che si sta analizzando, occorre muovere dalla ragione di fondo che si è posta a base della scelta legislativa di inserire nel 2009[57] l’aggravante di cui all’art. 576, n. 5.1 c.p., ovvero quella di reprimere un allarmante fenomeno sociale che vedeva in costante aumento i casi di omicidi perpetrati ai danni delle vittime di stalking, optando per la risposta sanzionatoria in assoluto più severa e, dunque, dissuasiva: l’ergastolo. Occorre chiedersi, tuttavia, se nella mente del legislatore riformatore ci fosse, così come emerge dalla lettura dell’aggravante in chiave soggettivistica di cui alla sentenza del 12 aprile 2019, l’effettiva volontà di punire con la pena detentiva a vita l’omicida-stalker in quanto tale, a prescindere da ogni relazione di tempo, di spazio, di contesto e di causa tra le condotte integranti i due diversi delitti in gioco.

Stando a quanto ritenuto dai giudici di legittimità con la pronuncia in esame, si corre il rischio di giungere ad esiti irragionevoli e a dir poco pericolosi: l’aggravante di cui all’art. 576, n. 5.1 c.p., infatti, opererebbe tanto quando l’omicidio venga commesso all’esito di una serie di condotte integranti lo stalking, tanto quando l’omicidio sia nettamente sganciato da qualsiasi condotta persecutoria; ciò, si badi, comporterebbe l’equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di condotte connotate da un diverso disvalore sociale. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai due diversi casi di chi ponga in essere una serie di condotte scientemente orientate a sopraffare e perseguitare la vittima per poi toglierle la vita e di chi, invece, scontata una condanna per atti persecutori, dopo svariati anni cagioni la morte della medesima persona offesa, spinto magari da ragioni totalmente diverse rispetto a quelle che anni prima lo avevano indotto a perseguitarla. Ebbene, da un’interpretazione in chiave soggettivistica dell’aggravante in parola deriverebbe la sua applicazione anche quando, come nel secondo degli esempi proposti, manchi la ratio dell’aggravamento stesso, ossia quella di punire con la pena dell’ergastolo i casi in cui l’omicidio rappresenti l’esito finale, l’ultimo atto di una serie spregevole di condotte persecutorie poste in essere precedentemente, escludendola, al contrario, nelle ipotesi in cui l’evento morte sia totalmente sganciato da qualsivoglia volontà persecutoria sia sotto il profilo causale che temporale[58].

Tutto ciò considerato, l’ambigua formulazione cui è ricorso il legislatore del 2009 non può, dunque, autorizzare a interpretare in chiave soggettivistica l’aggravante di cui all’art. 576, n. 5.1 c.p. col rischio, tra l’altro, di disobbedire al principio del ne bis in idem sostanziale, dal momento che, negata all’omicidio aggravato dallo stalking la natura di reato complesso, ci si troverebbe a punire due volte il medesimo individuo per la stessa condotta integrante gli atti persecutori: una prima volta ai sensi dell’art. 612 bis c.p.; una seconda volta, invece, applicando l’aggravante di cui all’art. 576, n. 5.1 c.p. in ragione della mera identità soggettiva tra l’omicida e lo stalker (punito già in via autonoma per le condotte persecutorie).

È alla luce dei rilievi critici testé illustrati che la Suprema Corte, investita nuovamente nel 2020 del problema della qualificazione giuridica da riconoscere al rapporto intercorrente tra l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. e il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., si è mossa con la seconda delle sentenze oggetto della presente trattazione, di cui si parlerà compiutamente nel prosieguo.

4. L’ultimo approdo giurisprudenziale

All’esito di un’analisi fortemente critica della pronuncia del 2019, la terza Sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 30931 depositata il 6 novembre 2020, ha fissato il seguente principio di diritto: ‹‹tra gli art. 576, comma 1, n. 5.1, e 612 bis cod. pen. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., e, pertanto, il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l’omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa››[59].

I giudici di legittimità hanno censurato in toto l’interpretazione abrogans dell’art. 84, co. I, c.p. fornita dalla Cassazione con la pronuncia dell’anno precedente, rea di aver comportato un doppio addebito dei medesimi fatti (gli atti persecutori) all’autore: prima, come reato autonomo ai sensi dell’art. 612 bis c.p.; poi, come specifica circostanza di aggravamento dell’omicidio ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. In altre parole, l’esclusione dell’omicidio aggravato dallo stalking dall’alveo dei reati complessi, cui è conseguito il ricorso alla disciplina ordinaria del concorso materiale di reati, ha prodotto una chiara violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.

4.1. Il casus decisus

La vicenda che occupa la Suprema Corte trae origine dalla sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro, la quale, in parziale riforma della decisione resa dal Tribunale di Castrovillari, assolveva l’imputato in ordine al delitto di furto aggravato, di cui al capo C) dell’imputazione, dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione relativamente al capo A) e lo condannava per i delitti di atti persecutori, sequestro di persona e violenza sessuale (in esso assorbita la violenza privata di cui al capo E), contestati rispettivamente ai capi B), D), e F), rideterminando la pena in anni dieci e mesi sette di reclusione.

Proposto ricorso per Cassazione avverso la citata sentenza di secondo grado, l’imputato lamentava dinanzi ai giudici di legittimità, quale primo motivo di gravame, la violazione del principio del ne bis in idem processuale, assumendo di essere già stato condannato in altro processo con sentenza passata in giudicato a titolo di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. per i medesimi fatti (verificatisi in Saracena e luoghi limitrofi fino al 26 marzo 2013) poi contestati a titolo di stalking; ciò che avrebbe dovuto condurre il giudice a quo a una declaratoria di non procedibilità.

Invero, con la sentenza del 2 febbraio 2015, la Corte di Assise di Cosenza aveva condannato il ricorrente, tra l’altro, per il delitto di tentato omicidio aggravato dall’essere il medesimo autore anche del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. nei confronti della stessa persona offesa. In tale occasione, nel ritenere la penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di atti persecutori, i giudici avevano osservato che ‹‹sono emerse chiaramente le minacce anche di morte per il caso in cui fosse stato lasciato, la gelosia e la possessività, abnormi, la tendenza a controllare ogni minimo spostamento della ex compagna, gli appostamenti per strada e nei pressi dell’abitazione, le molestie reiterate anche per mezzo di numerosissimi contatti telefonici, addirittura una violenza privata e una tentata violenza sessuale compiute in una zona isolatissima, boschiva e montana, di Saracena, tutte circostanze tali da provocare un perdurante stato d’ansia nella donna, elemento costitutivo del delitto in oggetto››[60].

Le condotte poste a fondamento della citata pronuncia della Corte di Assise di Cosenza, come rilevato dagli stessi giudici di legittimità, sono effettivamente le stesse (c’è perfetta coincidenza fattuale, nonché spazio-temporale[61]) poi oggetto di contestazione al capo B) dell’imputazione quale autonomo reato di atti persecutori, sicché in capo ai giudici della terza Sezione penale della Corte di Cassazione si pone il seguente quesito di diritto: l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., relativamente al quale il ricorrente è stato già condannato in altro processo con sentenza divenuta definitiva, assorbe o meno il delitto di atti persecutori autonomamente contestato nel processo giunto sino al terzo grado di giudizio?

4.2. La tesi del reato complesso. L’iter logico-argomentativo della Suprema Corte

Quale unico precedente della Corte di legittimità in materia di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 5.1 c.p., quello del 2019 è stato oggetto di un’attenta e aspramente critica disamina da parte dei giudici della Sezione III penale della medesima Corte, i quali, investiti nuovamente della questione, sono giunti a una decisione di segno diametralmente opposto: il delitto di omicidio aggravato dallo stalking, quale reato complesso ai sensi dell’art. 84 c.p., assorbe in sé il diverso e meno grave delitto di cui all’art. 612 bis c.p., in ragione del fatto che il disvalore insito nella condotta persecutoria viene già integralmente e adeguatamente considerato dall’art. 576, n. 5.1 c.p., che commina la pena dell’ergastolo. Ed è proprio la disciplina del reato complesso a permettere, in ossequio alle intenzioni repressive del legislatore riformatore del 2009, di derogare alle regole ordinarie del concorso materiale tra i reati di stalking e di omicidio, che, in assenza dell’art. 576, n. 5.1 c.p., avrebbe condotto alla pena massima di anni trenta di reclusione ex artt. 71 ss. c.p.[62].

In contrapposizione a quanto ritenuto dalla Cassazione nel 2019 (e ripreso dalla sentenza di Appello oggetto di gravame) in merito alla connotazione prettamente soggettivistica dell’aggravante in esame desumibile da un diretto confronto con la contigua norma di cui all’art. 576, n. 5 c.p. – essa, sì, inquadra pacificamente un’ipotesi di reato complesso sulla base del nesso modale e funzionale (‹‹in occasione della commissione di taluno dei delitti…››) che lega l’omicidio alle condotte puntualmente indicate e apparentemente sussumibili in altre fattispecie delittuose –, la Sezione III penale della medesima Corte, con la sentenza n. 30931 del 2020, ha ritenuto che ‹‹l’incerta e infelice formulazione della norma non può giustificare un’interpretazione soggettivistica, incentrata sul tipo di autore, senza considerare che la pena [l’ergastolo] si giustifica non per ciò che l’agente è, ma per ciò che ha fatto››[63]. In altre parole, ciò che aggrava il delitto di omicidio e lo rende tale da richiedere una pena esemplare è l’essere esso preceduto da condotte persecutorie che, dopo aver indotto la vittima in uno stato di soggezione, paura e turbamento, siano tragicamente culminate nella soppressione della medesima persona offesa.

Nell’ottica dei giudici di legittimità, ciò che aggrava l’omicidio ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. non è la mera identità soggettiva tra lo stalker e l’omicida, bensì la vera e propria connessione teleologica che lega i fatti di omicidio e quelli di atti persecutori commessi in danno della stessa vittima; ciò sulla base della logica di progressione che deve legare le condotte, le quali, al di là della contestualità sul piano temporale, devono essere espressive di una più generale volontà persecutoria che, in quanto cieca e folle, si spinge fino all’atto estremo dell’uccisione della vittima. Tale soluzione interpretativa rispecchia esigenze di salvaguardia del principio di materialità, espressivo di una concezione oggettivistica del reato inteso quale fatto umano offensivo di un determinato bene giuridico; sicché, risulterebbe inaccettabile l’interpretazione soggettivistica offerta dalla Cassazione nel precedente del 2019, che pone a base del rigidissimo trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 576, n. 5.1 c.p. la mera identità del soggetto agente stalker/omicida, a prescindere dal fatto che a ciò consegua una più intensa e grave lesione del bene giuridico protetto dalla norma.

Sulla scia delle valutazioni di cui si è detto sinora, la Suprema Corte è giunta al nodo cruciale delle proprie considerazioni in diritto, ossia quello dell’assunta violazione del principio del ne bis in idem posta ad oggetto del primo motivo di gravame da parte del ricorrente. I giudici di legittimità, censurando l’interpretazione soggettivistica dell’art. 576, n. 5.1 c.p., rea di condurre ad una vera e propria “interpretazione abrogans” dell’art. 84 c.p., hanno ritenuto che essa ‹‹non appare rispettosa del principio del ne bis in idem sostanziale, posto a fondamento della disciplina del reato complesso, il quale vieta che uno stesso fatto venga addossato giuridicamente due volte alla stessa persona, nei casi in cui l’applicazione di una sola norma incriminatrice assorba il disvalore del suo intero comportamento››[64].

Orbene, alla luce del percorso logico-argomentativo sin qui illustrato, la Corte di Cassazione ha accolto il primo motivo del ricorso proposto dall’imputato, ritenendo che le condotte integranti lo stalking siano già state oggetto di apprezzamento in altro processo dinanzi alla Corte di Assise di Cosenza e, dunque, assorbite nel delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., per il quale il ricorrente è stato condannato con sentenza divenuta definitiva. I giudici di legittimità hanno, così, annullato senza rinvio la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro in riferimento al delitto di atti persecutori contestato al capo B), con eliminazione della relativa pena, pari a mesi quattro di reclusione.

5. Considerazioni conclusive

Dalla disamina proposta con riguardo alle due difformi pronunce della Suprema Corte sono emersi in tutta la loro ampiezza i risvolti problematici derivanti dall’ambiguità di un dettato normativo, quello cui è ricorso il legislatore all’art. 576, n. 5.1 c.p. (‹‹dall’autore del delitto…››), reo di aver aperto le porte a plurime interpretazioni; ciò alla luce, tra l’altro, di quanto disposto dal precedente n. 5 del medesimo articolo, la cui formulazione, ben più precisa e univoca (‹‹in occasione della commissione…››), palesa la volontà di punire con la somma pena dell’ergastolo l’omicidio commesso in stretta connessione teleologico-funzionale con i delitti ivi indicati, quale reato complesso assorbente i reati meno gravi.

Ciò premesso, tuttavia, non si ritiene comunque condivisibile l’interpretazione soggettivistica dell’aggravante di cui all’art. 576, n. 5.1 c.p. proposta dalla Cassazione nel 2019, stando alla quale l’omicida che sia anche stalker nei confronti della medesima persona offesa si vedrebbe comminata la pena dell’ergastolo per una questione di mera identità soggettiva, senza che a ciò si accompagni un maggior disvalore della condotta in sé tale da renderla meritevole dell’aggravamento. Peraltro, si badi, sarebbe proprio da un’interpretazione di questo tipo che deriverebbe l’espunzione dell’omicidio aggravato dallo stalking dall’alveo dei reati complessi, regolando l’art. 84 c.p. l’interferenza tra fattispecie sotto il profilo oggettivo del tipo normativo; sicché non potrebbe operare la disciplina del concorso apparente di norme, con le conseguenze nefaste che ne deriverebbero in tema di ne bis in idem sostanziale (v. infra cap. 3.3).

Sebbene, dunque, l’interpretazione soggettivistica dell’aggravante in esame sia più conforme al significato letterale delle parole cui è ricorso il legislatore riformatore del 2009, esigenze di diritto sostanziale e di politica criminale impongono di interpretare la norma di cui all’art. 576, n. 5.1 c.p. in chiave oggettivistica, alla luce dei principi di materialità[65] e offensività che permeano il nostro ordinamento[66], riferendosi essa a un’ipotesi di reato complesso in rapporto di consunzione col meno grave delitto di atti persecutori. Di talché, pur non potendosi ricorrere all’art. 15 c.p. per l’assenza di un rapporto di specialità tra le fattispecie di omicidio aggravato dallo stalking e di atti persecutori, sarà l’art. 84 c.p. a fissare modalità e opportunità di applicazione dell’art. 576, n. 5.1 c.p. quale norma solo apparentemente in concorso con quella di cui all’art. 612 bis c.p.; quest’ultima, infatti, non trova autonoma applicazione, essendo il disvalore insito nella condotta di stalking interamente assorbito nell’onnicomprensiva condotta integrante l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p.

Ancora una volta, come fin troppo spesso accade, le rivedibili scelte lessicali del legislatore aprono questioni interpretative di grande rilievo e (ahinoi) di notevole pericolosità, al punto da indurre la giurisprudenza ad applicazioni di dette norme lesive di principi-cardine del nostro sistema penale, quale il divieto di bis in idem sostanziale, rispondente a un’esigenza equitativa insopprimibile. Alla luce di una giurisprudenza di legittimità molto dibattuta, seppur ancora troppo “giovane”, registrandosi in materia di omicidio aggravato dallo stalking soltanto le due sentenze analizzate, sarebbe dunque auspicabile un nuovo intervento legislativo che vada a riformulare l’art. 576, n. 5.1 c.p. sull’esempio offerto dal contiguo n. 5 dello stesso articolo, il tutto nell’ottica della salvaguardia del principio di legalità, il quale costituisce irrinunciabile baluardo delle esigenze di certezza del diritto.

Volgendo ora lo sguardo al controverso tema della corretta individuazione dei criteri identificativi del concorso apparente di norme, che fa da cornice alla specifica questione giuridica sollevata dall’art. 576, n. 5.1 c.p., sembra potersi concludere nel senso del tacito riconoscimento del criterio di consunzione; esso, infatti, secondo i fautori della tesi favorevole alla sua operatività, troverebbe puntuale riconoscimento proprio nella disciplina del reato complesso di cui all’art. 84 c.p., che niente ha a che vedere col principio di specialità, riferendosi a quei casi in cui la commissione di un reato sia funzionale a un altro e più grave reato nel quale rimane assorbito.

Invero, così come avviene nel caso dell’omicidio aggravato dallo stalking nei confronti della stessa persona offesa, l’assorbimento involge tutte quelle condotte le quali, pur se astrattamente sussumibili in una fattispecie delittuosa, comportano, secondo l’id quod plerumque accidit, la consumazione di un ulteriore e più grave reato, la cui previsione risulta da sola bastevole a consumare e assorbire in sé il disvalore del fatto complessivamente considerato. Ed è proprio la connessione funzionale tra le condotte integranti i differenti reati di omicidio e stalking, espressiva di una generale e deplorevole volontà persecutoria, ad essere stata valorizzata dai giudici di legittimità con la sentenza depositata il 6 novembre 2020 e posta a fondamento del concorso apparente di norme, laddove, in assenza di criteri di “supporto” a quello di specialità, si sarebbe giunti a una conclusione (la pronuncia del 12 aprile 2019 ne è un esempio) lesiva del principio del ne bis in idem sostanziale.

Orbene, se, da un lato, le due sentenze in materia di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. hanno mostrato tutte le fragilità di una norma oggettivamente ambigua e fuorviante nella propria formulazione, dall’altro, grazie al dibattito sorto con riguardo alle loro motivazioni, hanno avuto il grande merito di dare risalto all’importanza del criterio di consunzione, quale valido e autonomo mezzo di contrasto all’artificiosa e incontrollata proliferazione di specie incriminatrici denunciata dalla dottrina.


Note e riferimenti bibliografici

1] A norma dell’art. 576, co. I, n. 5.1 c.p., ‹‹si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’articolo precedente [omicidio] è commesso […] dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612 bis nei confronti della stessa persona offesa››.

[2] Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 30931 del 13 ottobre 2020 (dep. 6 novembre 2020), Pres. Ramacci, est. Corbetta, ric. Giannieri.

[3] Cass. pen., Sez. I, sentenza n, 20786 del 12 aprile 2019 (dep. 14 maggio 2019), Pres. Casa, rel. Santalucia, ric. P.G. C. App. Roma: tale pronuncia, che sarà più avanti oggetto di specifico approfondimento, aveva sostanzialmente escluso l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p. per difetto di una relazione di specialità (unico criterio ritenuto valido), non rilevandosi una qualsivoglia affinità strutturale tra dette fattispecie.

[4] Sull’argomento cfr. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, Città di Castello, 1937; Moro, Unità e pluralità di reati, 2a ed., Padova, 1954; Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, 2a ed., Bologna, 1966.

[5] Testualmente Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2003.

[6] Sull’argomento vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, parte generale, 8a ed., Bologna, 2019.

[7] Per un recente e autorevole precedente giurisprudenziale, vedi Cass. pen., SS.UU., n. 40981/2018, Apolloni: ‹‹integra un concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, comma 1, c.p., la condotta di chi, nel medesimo contesto fattuale, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio››; cfr. Cass. pen., SS.UU., n. 8413/2007: ‹‹la condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza in danno di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare non configura un unico reato, bensì una pluralità di reati in concorso formale o, ricorrendone i presupposti, in continuazione tra loro››.

[8] Vedi Cass. pen., Sez. I, n. 7249/1993: ‹‹nel caso in cui al ferimento di una donna – nella specie attinta da colpi di pistola – sia conseguito l’aborto e successivamente – a distanza di pochi giorni – la morte e siano ritenuti sussistenti gli elementi oggettivi e soggettivi del delitto di procurato aborto di cui all’art. 18 l. n. 194/1978, tale reato non può essere assorbito in quello più grave di omicidio di cui all’art. 575 c.p., poiché l’evento dell’aborto si è realizzato sul piano fenomenico in modo distinto e anteriore rispetto a quello della morte della donna. Tuttavia, trattandosi di eventi autonomi puniti da disposizioni di legge diverse, cagionati con una sola azione, il reato di procurato aborto deve essere unificato con quello di omicidio ai sensi dell’art. 81, comma 1, c.p. (concorso formale) e non col vincolo della continuazione››.

[9] Esempi tratti da Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 706.

[10] Sui motivi ispiratori della riforma della disciplina del concorso formale di reati vedi Vassalli, La riforma penale del 1974, 1975, pag. 55. Secondo l’autore, due sarebbero i motivi del superamento del cumulo materiale a favore del differente regime sanzionatorio del cumulo giuridico delle pene: da un lato, la considerazione che il peso umano della sofferenza, quantomeno nel caso della detenzione, si accresce progressivamente con la durata delle pene e, pertanto, applicando il cumulo materiale si violerebbe quel rapporto di proporzione tra numeri di reati ed entità delle pene implicito nella stessa idea ispiratrice del cumulo materiale delle sanzioni; dall’altro, l’ancor più decisiva considerazione che chi consuma più reati con una sola azione attua una sola risoluzione criminosa e, perciò, dimostra una minore pericolosità sociale (in ciò il motivo di fondo che si rinviene nei lavori preparatori della riforma).

[11] In tal senso vedi Carrara, Programma del corso di diritto criminale, 6a ed., pag. 520: a parere dell’autore, la ragione del trattamento penale più favorevole del reato continuato risiederebbe nella circostanza che “nei fatti continuati” riscontriamo “non già più e diverse determinazioni criminose, ma una sola”.

[12] Di questo avviso Proto, Sulla natura giuridica del reato continuato, Palermo, 1950; Coppi, Reato continuato e cosa giudicata, Napoli, 1969; Zagrebelsky, Reato continuato, 2a ed, Milano, 1976; Ambrosetti, Problemi attuali in tema di reato continuato, Padova, 1991; Brunelli, voce Reato continuato, in Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 4926. Per una lettura critica dell’art. 81 cpv c.p. vedi Mezger, Diritto penale (strafrecht), Cedam, 1935, pag. 482: a parere dell’autore, l’istituto del reato continuato poggia su un assunto logico non condivisibile, poiché, a differenza di quanto posto a fondamento della norma in parola, la medesimezza del disegno criminoso costituirebbe tuttalpiù ragione di aggravamento della colpevolezza e, di conseguenza, della risposta sanzionatoria.

[13] Pagliaro, Cosa giudicata e continuazione di reati, in Cassazione Penale, 1987, pag. 95.

[14] Per un’analisi critica vedi Zagrebelsky, voce Reato continuato, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1987, pag. 315.

[15] Vedi De Francesco, La connessione teleologica nel quadro del reato continuato, 1978, pag. 110; cfr. Bettiol, Diritto penale, Padova, 1986, pag. 646.

[16] Vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 714: a parere degli autori, se si rinunciasse a richiedere l’unicità di scopo, non sapremmo più quale sia l’elemento significativo in grado di accomunare reati anche del tutto eterogenei tra di loro, come ad esempio omicidi, furti, danneggiamenti; cfr. Antolisei, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 516; cfr. Flora, Concorso formale e reato continuato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1976, pag. 512.

[17] Ex multis, vedi Rampioni, Nuovi profili del reato continuato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, pag. 625.

[18] In tal senso vedi Cass. pen., Sez. I, n. 354/1991: ‹‹ai fini della configurabilità della continuazione di reati, venuto meno con la riforma del 1974 il requisito dell’omogeneità delle violazioni, rilevanza decisiva ha acquistato l’identità del disegno criminoso, che si orienta ancor più nettamente in senso soggettivo, come ideazione, volizione di uno scopo unitario che dà senso a un programma complessivo, nel quale si collocano le singole azioni od omissioni, di volta in volta poi commesse con singole determinazioni, sul piano volitivo. Ciò esige che lo scopo sia sufficientemente specifico, che la rappresentazione dell’agente ricomprenda tutta la serie degli illeciti che si inquadrano nel programma concepito nelle sue linee generali ed essenziali, sicché una divergenza essenziale esclude l’illecito o gli illeciti dal disegno criminoso e quindi dalla continuazione; ed infine, che il programma criminoso sia prefigurato fin dalla consumazione del primo reato che si assume rientrare nella continuazione››.

[19] Da ultima, vedi Cass. pen., Sez. I, n. 41239/2019.

[20] Corte. Cost., n. 183/2013.

[21] Sull’argomento vedi Antolisei, Concorso formale di reati e conflitto apparente di norme, in Giust. pen., 1942, II, pag. 209; cfr. Pagliaro, voce Concorso di norme penali, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961; cfr. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, op. cit.

[22] Nel senso del riconoscimento della specialità quale unico criterio di identificazione dei casi di concorso apparente di norme vedi Cass. pen., SS.UU., n. 20664/2017, Pres. Canzio, ric. Stalla: in tale occasione, la Suprema Corte ha ritenuto che il reato di malversazione ai danni dello Stato (art. 316 bis c.p.) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.). Sull’argomento vedi Bernardi, La Suprema Corte alle prese con il “principio di assorbimento” in una recente sentenza in materia di abuso di ufficio, in Diritto penale contemporaneo, giugno 2017, pag. 274: l’autore sottolinea le difficoltà riscontrate nel tracciare il confine tra i tre criteri della specialità, della sussidiarietà e dell’assorbimento, riconducibili, a parere della giurisprudenza maggioritaria, nell’onnicomprensivo criterio di specialità.

[23] Vedi testualmente Cass. pen., SS.UU., n. 41588/2017, Pres. Canzio, ric. La Marca: la sentenza in parola, in piena adesione all’impostazione monistica, secondo la quale il criterio di specialità espressamente previsto dal legislatore all’art. 15 c.p. costituisce il “criterio euristico di riferimento” nel risolvere i conflitti tra fattispecie incriminatrici, muove nel senso del pieno rispetto del sommo principio di legalità. Per una compiuta analisi della sentenza in parola, vedi Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Diritto penale contemporaneo, novembre 2017, pag. 173. Cfr. Cass. pen., SS.UU., n. 1963/2010.

[24] Sull’argomento vedi Pagliaro, Relazioni logiche ed apprezzamenti di valore nel concorso di norme penali, Palermo, 1977, pag. 217: l’autore definisce il reato speciale come un “sottoinsieme dell’insieme” dei casi contemplati dalla disposizione generale.

[25] Vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 723: gli autori ripercorrono lo schema logico testé esposto prendendo ad esempio l’ipotesi di una condotta sussumibile sia nella fattispecie di furto ex art. 624 c.p. che nella fattispecie (speciale rispetto alla prima) di furto d’uso di cui all’art. 626, co.I, n. 1 c.p.; in tal caso, a prevalere sarà la seconda, in ragione dell’elemento specializzante consistente nell’aver fatto un uso momentaneo della cosa sottratta per poi immediatamente restituirla e ciò avverrà a prescindere dal fatto che il furto d’uso sia punito in maniera più blanda rispetto al furto comune.

[26] In senso conforme a tale orientamento vedi Cass. pen., SS.UU., n. 9568/1995, La Spina: ‹‹perché si verifichi il concorso di norme (con la conseguente necessità di individuare la norma speciale che deroga a quella generale) è necessaria, in primo luogo, l’identità della natura delle norme, che devono essere tutte norme penali, e, successivamente, l’identità dell’oggetto di tali norme, che devono regolare tutte la stessa materia; devono essere, perciò, caratterizzate dall’identità del bene alla cui tutela sono finalizzate››; cfr. Cass. pen., SS.UU., n. 6713/1981; cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 4584/2014, Iarvese; cfr. Cass. pen., Sez. II, n. 5793/2013, Campolo; cfr. Cass. pen., Sez. V, n. 373/1979: affinché sussista un rapporto di specialità, si richiede che le norme abbiano la ‹‹stessa oggettività giuridica››. In senso contrario vedi Cass. pen., SS.UU., n. 1235/2010, Giordano: in tale occasione la Suprema Corte si è pronunciata contro la sovrapposizione tra i concetti di “stessa materia” e di identità del bene giuridico tutelato, richiedendo soltanto un ‹‹confronto strutturale tra le fattispecie astratte, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse››; cfr. Cass, pen., SS.UU., n. 16568/2007; cfr. Cass. pen., SS.UU., n. 420/1981: ‹‹nel concorso apparente di norme, l’individuazione di quella applicabile non deriva dall’identità del bene giuridico protetto dalle disposizioni (apparentemente) confliggenti, e correlativamente la diversità degli interessi tutelati è di per sé inidonea ad escludere l’esistenza del concorso, rilevando, altresì, che è stato invero ritenuto che il riferimento normativo alla ‘stessa materia’ (art. 15 c.p.) non può significare l’identità del bene giuridico sia per la equivocità ed improprietà della terminologia rispetto alla nozione che avrebbe dovuto esprimere, sia perché resterebbero esclusi dall’ambito di operatività del concorso apparente di norme casi che sono ad esso sicuramente riconducibili, come ad esempio la specialità della fattispecie di violenza carnale rispetto a quella di violenza privata››.

[27] Per un’analisi critica vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 724: a parere degli autori, sposando la tesi testé esposta verrebbe sostanzialmente stravolta la funzione dell’art. 15 c.p., che poggia su valutazioni di carattere logico-formale e non, al contrario, su apprezzamenti di valore quali quello che si innesterebbe se si guardasse all’oggettività giuridica. Dello stesso avviso Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, 5a ed., Milano, 2015, pag. 490: il concetto di “stessa materia” non evoca minimamente l’idea di un identico bene giuridico tutelato, stando piuttosto ad indicare l’esigenza che uno stesso fatto sia riconducibile sia alla norma generale che a quella speciale; in secondo luogo, gli autori osservano che nessuna ragione di tipo logico si oppone a che si consideri norma speciale una norma che tutela, accanto al bene tutelato dalla norma generale, anche un bene diverso (es. le fattispecie di cui agli artt. 343 e 341 bis c.p., da considerarsi speciali rispetto alla norma che regola l’ingiuria).

[28] Sull’argomento vedi Mantovani, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 138; cfr. Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 489: l’esempio cui ricorrono gli autori è quello della falsificazione di un atto pubblico che venga in concreto utilizzato come mezzo per commettere una truffa, il cui concorso (apparente) si risolverebbe, stando all’orientamento in parola, col prevalere del delitto di falsificazione, in quanto punito più severamente. A favore della specialità in concreto vedi in giurisprudenza Cass. pen., Sez. II, n. 9541/2011, Tarducci.

[29] Per un’analisi critica vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 725: il concetto di specialità in concreto si risolverebbe in un “non-senso”, in quanto, riferendosi il rapporto di specialità al rapporto tipicamente sussistente tra norme astratte, esso o esiste oppure non esiste, per nulla rilevando le circostanze concrete del fatto.

[30] Per un’applicazione giurisprudenziale, vedi Cass. pen., Sez. II, n. 15879/2008, Baruffaldi.

[31] Nel senso dell’insostenibilità logica del concetto di specialità reciproca vedi Pagliaro, Relazioni logiche, op. cit., pag. 221; cfr. Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 726.

[32] Per un’autorevole pronuncia nel senso dell’implicito accoglimento del criterio di sussidiarietà espressa vedi Cass. pen., SS.UU., n. 47164/2005: le Sezioni Unite, nel riferirsi all’inciso finale dell’art. 15 c.p., per cui, rispetto al principio di specialità, sono fatti salvi i casi previsti dalla legge, negano che in esso possano essere ricompresi i vaghi criteri dell’assorbimento e della consunzione, ritenendo che esso ‹‹allude evidentemente alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici, che, in deroga al principio di specialità, prevedono, sì, talora l’applicazione della norma generale, anziché di quella speciale, considerata sussidiaria; ma si riferiscono appunto solo a casi determinati, non generalizzabili. E infatti è appunto un’esplicita clausola normativa di riserva a escludere il concorso tra le condotte di produzione e di immissione in circolazione dei supporti illecitamente prodotti››.

[33] Relazione al Progetto definitivo del codice penale, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 26 ottobre 1930.

[34] Sul punto si segnalano le considerazioni di Antolisei, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 141: l’autore critica l’obiezione mossa da quel filone dottrinale secondo cui il criterio di sussidiarietà costituirebbe un mero doppione del criterio di specialità, in quanto essa trascura il fatto che il rapporto di specialità presuppone un rapporto logico di genere a specie tra i rispettivi elementi delle fattispecie astratte, non identificandosi dunque col criterio di sussidiarietà, che implica invece l’assorbimento di un fatto meno grave in uno più grave lesivo del medesimo bene, anche se le rispettive fattispecie incriminatrici astratte contengono elementi strutturalmente del tutto diversi. Maggiormente condivisa in dottrina risulta essere, invece, l’obiezione mossa da Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 728: il punto debole del criterio di sussidiarietà sarebbe che il medesimo risulta essere difficilmente distinguibile da quello di assorbimento, basandosi anch’esso su un mero apprezzamento di valore.

[35] Sull’argomento, vedi Grispigni, Diritto penale italiano, Milano, 1952, pag. 416.

[36] Per un’autorevole pronuncia favorevole all’autonoma valenza dell’assorbimento quale criterio identificativo del concorso apparente di norme, vedi Cass. pen., SS.UU., n. 22902/2001, Tiezzi: le Sezioni Unite hanno riconosciuto ‹‹l’esigenza di far ricorso ad ulteriori criteri di soluzione del concorso di norme nel senso dell’apparenza, dettati dallo stesso legislatore, quando espressamente esclude il concorso reale di norme e quindi di reati, o, in assenza di una specifica previsione, desumibili dal sistema, che esprime in sé un’istanza-guida di giustizia materiale che non tollera l’addebito plurimo di un medesimo fatto tutte le volte che l’applicazione di una sola delle norme in cui è sussumibile il fatto ne esaurisca l’intero contenuto di disvalore sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo: è il c.d. ne bis in idem sostanziale, rispondente ad un’esigenza equitativa insopprimibile. È su questa base c.d. valutativa che si sono elaborati i criteri della sussidiarietà e della consunzione o assorbimento, in virtù del quale ultimo - lex consumens derogat lex consumptae - si determina un concorso apparente di norme quante volte l’applicazione della sola norma che prevede la pena più grave esaurisce l’intero disvalore del fatto››.

[37] Cfr. Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 729: il fatto apparirebbe identico pur in presenza di azioni diverse sul piano naturalistico, purché espressive tuttavia di un disvalore penale omogeneo, come tale avvertito dalla coscienza sociale. Alla stregua di tale premessa va risolto il dilemma del rapporto giuridico tra le fattispecie di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) e di falsa testimonianza (art. 372 c.p.): tra dette norme, dovendosi escludere un rapporto di specialità quale criterio intercedente tra fattispecie astratte, opererebbe l’assorbimento del delitto meno grave (il favoreggiamento) nel delitto più gravemente punito (la falsa testimonianza), riferendosi le due fattispecie sostanzialmente alla medesima condotta menzognera rivolta però a differenti soggetti (l’autorità di polizia nel primo caso e il giudice nel secondo).

[38] Per un’applicazione di tale principio nella giurisprudenza europea vedi la sentenza della Corte Edu del 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia: la corte di Strasburgo ha rilevato il contrasto tra la CEDU e il sistema del doppio binario (amministrativo e penale) su cui ruota il nostro ordinamento nel reprimere gli abusi di mercato.

[39] Sul punto vedi Pagliaro, Relazioni logiche, op. cit., pag. 224.

[40] Testualmente Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 730.

[41] Ex multis, vedi Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, 2a ed., Torino, 1991, pag. 8: l’autore illustra i rilievi critici della tecnica legislativa adottata dal codice Rocco, reo di aver creato figure di reato prive di autonoma funzione repressiva e rispondenti, tuttalpiù, a finalità simbolico-repressive. Cfr. Fiandaca, Il codice Rocco e la continuità istituzionale in materia penale, in Quest. crim., 1981.

[42] Cfr. Vassalli, Nuove e vecchie incertezze sul reato complesso, 1978, pag. 407. Sul punto vedi anche Cass. pen., Sez. I, n. 7097/1981: ‹‹perché sia configurabile la figura del reato complesso non basta che più fatti, i quali isolatamente considerati costituiscono altrettanti reati, abbiano qualche elemento comune, ma occorre che uno dei reati, convergendo per volontà legislativa nell’altro quale elemento costitutivo o circostanza aggravante, perda la propria autonomia fondendosi, per la identità dell’elemento oggettivo rappresentato dalla condotta dell’agente e dal suo risultato (evento) e dell’elemento soggettivo consistente nella volontà cosciente diretta alla realizzazione del fine perseguito, in un solo reato››.

[43] Per una recente applicazione giurisprudenziale della disciplina in esame vedi Cass. pen., Sez. II, n. 28847/2019: i giudici di legittimità hanno ritenuto che ‹‹il delitto di danneggiamento con violenza alla persona, come riformulato dall’art. 2, comma 1, lett. l), del d.lg. n. 7 del 2016, assorbe quello di cui all’art. 581 c.p., in quanto le percosse, consistendo in atti di violenza che non determinano effetti morbosi ma solo sensazioni dolorifiche, integrano un elemento costitutivo del primo delitto, rilevando come modalità della condotta tipica››.

[44] Di questo avviso Antolisei, Reato composto, reato complesso e progressione criminosa, in Archivio penale, 1949, pag. 67; cfr. Romano, Commentario sistematico del codice penale (artt. 1-84), 3a ed., Milano, 2004, pag. 797. In tal senso, in giurisprudenza, vedi Cass. pen., SS.UU., n. 20664/2017, cit.: a parere degli Ermellini, l’art. 84 c.p. informa le correlazioni tra gli elementi eventuali del reato nei medesimi termini previsti dall’art. 15 c.p. Per altre considerazioni sul punto vedi Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 495: gli autori osservano come, in caso di furto in abitazione, non concorrerebbero con l’art. 624 bis, co. I c.p. anche le norme relative ai reati di furto semplice e di violazione di domicilio, essendo quella del furto in abitazione norma speciale ex art. 15 c.p. rispetto a quelle di cui, rispettivamente, agli artt. 624 e 614 c.p.

[45] In quest’ottica vedi Cass. pen., Sez. II, n. 24837/2009, Macovei: la Suprema Corte ha ritenuto che la rapina aggravata dal sequestro di persona ai sensi dell’art. 628, co. III, n. 2 c.p. viene integrata, assorbendo il diverso delitto di sequestro di persona, nei soli casi in cui la privazione della libertà personale sia limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina e ne rappresenti il mezzo immediato e diretto di esecuzione, trovandosi dunque in rapporto di funzionalità rispetto a tale delitto.

[46] Cfr. Prosdocimi, Reato complesso, in Dig. disc. pen., XI, 1996, pag. 217. Per un’analisi critica vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 733: la figura del reato complesso in senso lato costituirebbe un’inutile ampliamento della disciplina di cui all’art. 84 c.p., potendosi il caso proposto ad esempio risolvere a favore della sola applicazione della fattispecie di violenza sessuale sulla base del criterio di specialità, di cui all’art. 15 c.p.

[47] In questa logica vedi Cass. pen., Sez. VI, n. 1380/1970, Vitti: con tale pronuncia la Suprema Corte aveva escluso l’assorbimento della simulazione di reato nel diverso delitto di autocalunnia in un caso in cui l’agente aveva simulato le tracce di un furto allo scopo di permettere al presunto derubato di conseguire un indennizzo da parte dell’istituto assicurativo e solo successivamente, poiché scoperto dalla polizia, si era auto-incolpato dell’immaginario furto. Per un’analisi critica della tesi del reato eventualmente complesso vedi Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 497: secondo gli autori la tesi in esame darebbe adito a rilevanti incertezze applicative, in quanto il nostro codice penale prevede già all’art. 61, n. 2 la specifica aggravante del nesso teleologico, che ricorre proprio allorché un reato venga commesso allo scopo di eseguirne un altro.

[48] Vedi Cass. pen., Sez. III, n. 36364/2008, De Pietro: ai sensi dell’art. 600 quater, co. I c.p., la detenzione di materiale pedopornografico è punita qualora il fatto sia commesso al di fuori delle ipotesi previste dal contiguo art. 600 ter c.p., che a sua volta punisce la cessione di materiale pornografico minorile; di talché, la mera detenzione rappresenterebbe un antefatto non punibile rispetto alla cessione.

[49] Testualmente Cass. pen., Sez. I, n. 20786/2019, cit., pag. 8.

[50] Cass. pen., Sez. I, n. 20786/2019, cit., pag. 7: alla base della natura soggettiva dell’elemento aggravatore vi sarebbe la considerazione secondo cui ‹‹il disvalore aggiuntivo di cui si colora il fatto dell’omicidio è invece posto in diretta derivazione dall’essere l’autore colui che prima, non importa quando, ha oppresso la vittima con atti persecutori, e ciò perché in tal modo riceve una deplorevole e particolare spinta criminosa proprio dal contesto di sopraffazione in cui si è strutturata la relazione con la vittima››.

[51] La Suprema Corte rammenta che in materia di concorso apparente di norme non operano altri criteri al di fuori di quello di specialità, come tra l’altro ribadito dalla già citata sentenza “Stalla” (Cass. pen., SS.UU., n. 20664/2017, cit.).

[52] Cfr. Cass. pen., Sez. II, n. 3933/2016: in tale occasione, i giudici di legittimità, di fronte ad un unico fatto di condotte vessatorie reiterate nei confronti di un familiare come tale riconducibile sia alla fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p. che a quella di cui all’art. 572 c.p., hanno risolto il concorso apparente di norme in virtù della clausola di riserva posta all’incipit dell’art. 612 bis c.p., applicando soltanto la fattispecie più grave di maltrattamenti contro familiari e conviventi.

[53] Sul punto si registra una diametrale diversità di vedute circa l’ambito di operatività della clausola in parola, posto che essa si presenta assolutamente indeterminata. Per un’attenta analisi dei due diversi orientamenti che fanno dipendere l’operatività della clausola di riserva dall’identità o meno dei beni giuridici salvaguardati dalle norme in conflitto, vedi Bernardi, La Suprema Corte, op. cit., pag. 274.

[54] Testualmente Cass. pen., Sez. I, n. 20786/2019, cit., pag. 8.

[55] Cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 29167/2017, Nwajiobi: in tale occasione la Corte di Cassazione ha evidenziato il rapporto di connessione, sia pure occasionale, che fa mantenere autonomia di concorso reale tra i reati in gioco salvo che esso si risolva nella contestualità e, quindi, nella sostanziale unità spazio-temporale delle condotte.

[56] Cass. pen., Sez. I, n. 20786/2019, cit., pag. 7.

[57] Art. 1, co. I, lett. b) del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge 23 aprile, n. 38.

[58] Per un’interpretazione sistematica della contigua aggravante prevista dall’art. 576, n. 5 c.p. nel senso della sua applicabilità sia nei casi di contemporaneità delle condotte che nei casi in cui l’omicidio si verifichi dopo un breve lasso di tempo dalla violenza sessuale, vedi Cass. pen., Sez. I, n. 29167/2017: secondo la Corte di Cassazione, in difetto di contestualità delle condotte, la mera occasionalità tra l’omicidio e i reati elencati dalla norma non consentirebbe l’applicazione dell’art. 84 c.p., potendosi al più farsi ricorso alla disciplina del concorso formale di reati ex art. 81, co. I c.p. Cfr. Larizza, Art. 576 c.p., in Dolcini-Gatta (a cura di), Codice penale commentato, III, 2015, pag. 78.

[59] Cass. pen., Sez. III, n. 30931/2020, cit., pag. 6.

[60] Corte di Assise di Cosenza, 2 febbraio 2015, pag. 23.

[61] Cass. pen., Sez. III, n. 30931/2020, cit., pag. 4.

[62] La questione assume ancor più rilevanza alla luce del disposto normativo di cui all’art. 438, co. I bis c.p.p., introdotto dalla legge 12 aprile 2019, n. 33, che non ammette il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo.

[63] Cass. pen., Sez. III, n. 30931/2020, cit., pag. 5.

[64] Cass. pen., Sez. III, n. 30931/2020, cit., pag. 6.

[65] Sull’argomento vedi Fiandaca-Musco, Manuale di diritto penale, op. cit., pag. 198: gli autori subordinano il rispetto del principio di materialità al fatto che il reato si manifesti in un contegno esteriore accertabile nella realtà fenomenica; solo così, infatti, il giudice potrà essere in grado di accertare il “fatto materiale” in cui il reato stesso dovrebbe concretizzarsi.

[66] Non potrà applicarsi l’aggravamento di pena a meno che non vi sia una lesione più intensa e grave del bene giuridico già tutelato dall’art. 575 c.p., al di là di una qualsivoglia connotazione soggettiva dell’agente.

 

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