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Pubbl. Ven, 29 Gen 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Il fine vita: un tema sempre attuale

Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il tema del fine vita non soltanto ha catturato l´attenzione del panorama giuridico e politico, ma ha anche investito taluni principi costituzionali. Il presente contributo esamina le tre vicende più note in materia, perseguendo un duplice obiettivo: da un lato, segnalare il ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto sull´approvazione di una legge relativa all´eutanasia; dall´altro, rimarcare le differenze sussistenti tra i casi analizzati. Sebbene l´ultima pronuncia della Corte costituzionale costituisca una ”svolta” per il contesto nazionale, un dato appare incontestabile: il tema del fine vita è destinato a suscitare clamore.


Sommario: 1. Diritto alla vita, Costituzione, e dignità umana; 2. Il diritto alla salute: excursus storico ed analisi intrinseca; 2.1 La tutela della salute nella giurisprudenza costituzionale; 2.2 Il riconoscimento del diritto alla salute nello spazio sovranazionale; 3. Tra la vita e la coscienza: il caso Welby; 4. Una fine preannunciata: il caso Englaro; 5. Una lezione di vita: il caso Cappato; 6. L’incidenza del principio costituzionale di autodeterminazione in tema di fine vita; 7. L’approdo al testamento biologico: una conquista italiana “solo” recente; 8. Conclusioni: tra ritardi ed inerzia affiora un’unica certezza.  

Sommario: 1. Diritto alla vita, Costituzione, e dignità umana; 2. Il diritto alla salute: excursus storico ed analisi intrinseca; 2.1 La tutela della salute nella giurisprudenza costituzionale; 2.2 Il riconoscimento del diritto alla salute nello spazio sovranazionale; 3. Tra la vita e la coscienza: il caso Welby; 4. Una fine preannunciata: il caso Englaro; 5. Una lezione di vita: il caso Cappato; 6. L’incidenza del principio costituzionale di autodeterminazione in tema di fine vita; 7. L’approdo al testamento biologico: una conquista italiana “solo” recente; 8. Conclusioni: tra ritardi ed inerzia affiora un’unica certezza.  

 

1. Diritto alla vita, Costituzione, e dignità umana

Nella Costituzione Repubblicana del 1948 si riscontra l’assenza di una disposizione ad hoc sul diritto alla vita. Tuttavia, il silenzio del legislatore costituzionale non abbatte l’opinione prevalente secondo cui tale diritto trova pieno riconoscimento nella Legge Fondamentale. Tale diritto, altresì, trova spazio tra i diritti garantiti dall’art. 2 Cost., in quanto presupposto logico della titolarità e dell’esercizio di ogni altro diritto. Il diritto alla vita rientra nella categoria dei c.d. “beni-presupposto” della Costituzione, pur non essendo esplicitamente accennato nel dettato costituzionale. La dottrina concorda nel ritenere il diritto in esame un’implicazione del sistema costituzionale[1]. Tale ragionamento muove da una considerazione della logica assiologica dell’ordinamento: le lacune individuate vengono colmate solo se imputate a qualche clausola costituzionale aperta. L’art. 2 Cost., infatti, viene considerato una norma c.d. a “fattispecie aperta”, avente la funzione di garantire a livello costituzionale quei diritti non espressamente menzionati in Costituzione, reputati comunque come fondamentali poiché, a seconda del schema filosofico di riferimento, qualificati come tali nella coscienza sociale (visione storicistica) o naturali dell’individuo (visione giusnaturalistica)[2]. La rilevanza del diritto alla vita, dunque, non è oggetto di discussione; come sottolineato da una corrente di pensiero, senza di esso

“il riconoscimento, la tutela e l’esercizio degli altri diritti individuali e sociali della persona umana, e l’imposizione della rimozione di detti ostacoli e dell’adempimento di detti doveri, resterebbero astratte enunciazioni prive di effetti: a cominciare dagli stessi diritti di libertà, perché per poter essere liberi occorre essere innanzitutto soggetti vivi”[3].

Tuttavia, a suscitare perplessità – a parere di chi scrive – non è la natura costituzionalmente implicita del diritto alla vita. Ove tale diritto fosse menzionato nella Carta Costituzionale, la mancanza di elementi indispensabili al suo inquadramento, solleverebbe comunque numerosi dubbi nei confronti dello stesso.

Al contrario di quella italiana, la Costituzione tedesca post-bellica ha riconosciuto esplicitamente il diritto alla vita come fonte primaria di tutti gli altri diritti. L’art. 2 del Grundgesetz, nel prevedere che “ognuno ha diritto alla vita ed all’integrità fisica”, tende a garantire un diritto al cittadino senza impegnare i pubblici poteri in azioni positive[4]. Secondo una parte della dottrina, l’ambiguità della dimensione costituzionale del diritto alla vita deriva dai metodi interpretativi adottati. Si tratta di metodi che delineano il diritto in discussione “pressando” su principi e clausole generali racchiusi nella Costituzione. Seguendo un ragionamento per “valori”, le previsioni costituzionali orientano l’interprete ad assumere

“come punto di riferimento non solo lo specifico dato normativo che emerge dal testo, ma anche il più ampio “valore” che ne è alla base”[5].

Stando alla posizione della giurisprudenza costituzionale, la tutela costituzionale del diritto alla vita, non solo trova fondamento nell’art. 2 Cost., ma è rafforzata in sede penale dal divieto della pena di morte sancito nell’art. 27, comma 4, Cost. In un caso di specie, la Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale di norme che ammettevano l’estradizione per reati puniti con la pena capitale dello Stato richiedente, ha evidenziato che, nel sistema costituzionale italiano, l’inammissibilità della pena di morte si configura quale protezione della garanzia assicurata al bene fondamentale della vita[6].

Con riguardo al rapporto tra diritto alla vita e dignità umana, si è consolidata la tesi secondo cui, da un lato, la dignità consisterebbe nel diritto individualistico all’autodeterminazione del singolo, dall’altro, nella concessione della qualità di ogni essere umano vivente come tale. Tale bilanciamento, prospettato nel caso dell’eutanasia, corrisponde al delicato rapporto tra diritto alla vita e diritto a disporre della propria vita.

Un bilanciamento innovativo rispetto a quello impiegato dalla giurisprudenza costituzionale in un’altra sensibile questione della bioetica: l’aborto. Nel caso sopracitato, infatti, si è parlato di diritto del concepito, inteso come diritto inviolabile dell’uomo riconosciuto e tutelato dall’art. 2 Cost. ed il diritto fondamentale alla vita e alla salute della figura materna[7]. In tale senso, come sottolineato da una parte della dottrina, si assiste al passaggio da un bilanciamento tra diritti riferiti a soggetti distinti (quello alla vita del concepito e quello alla vita e alla salute della madre) ad un bilanciamento in cui entra in gioco l’elemento soggettivo e psicologico attinente alla percezione della propria vita e della propria morte[8].

Nello scenario tracciato, la dignità umana si rivela pericolosa per varie ragioni. In primo luogo, la maggior parte della dottrina concorda sulla complessità[9] della stessa, in quanto concetto ambiguo[10], unico per la variabilità dei suoi confini[11], dal carattere solenne, impossibile da definire in astratto. In secondo luogo, non deve trascurarsi la contemporanea presenza di concezioni assolutiste ed oggettiviste della dignità umana e concezioni liberali ed antipaternaliste della medesima. In terzo luogo, occorre tenere presente che, tale valore non trova riconoscimento soltanto nel dettato costituzionale, ma anche sul piano legislativo, giurisprudenziale, filosofico e politico.

Oltre che nociva, il valore in commento funge da elemento di chiusura: la dignità umana, dunque, pone fine alla discussione, precludendo qualsiasi altra argomentazione. In definitiva, il richiamo a tale valore in tema di fine vita finisce per complicare una questione di per sé spinosa e ancora aperta. Un dato pare indiscutibile: la vita è un bene; la dignità umana, quale elemento costitutivo della sua natura, merita sempre rispetto[12].

2. Il diritto alla salute: excursus storico ed analisi intrinseca  

La Costituzione Italiana dedica alla tutela della salute una specifica disposizione. Ai sensi dell’art. 32 Cost.,

“la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Tale articolo, al comma successivo, prescrive che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge”, aggiungendo che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Da una lettura rapida della disposizione in discussione emerge come il Costituente abbia previsto per la salute non solo una tutela di carattere oggettivo, ma abbia tracciato un vero e proprio diritto soggettivo. Il diritto alla salute è un principio-chiave dell’ordinamento democratico. Per tale motivo, decorsi più di settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana del 1948, la discussione ruota intorno all’ampiezza e alla portata del suddetto diritto, e soprattutto attorno alla sua interpretazione in termini estensivi.

Occorre specificare che, la stabilità del diritto alla salute rappresenta il frutto di un processo lungo e travagliato, non privo di incongruenze. Inizialmente, nei Paesi di impronta liberale, la salute era percepita come un problema di ordine pubblico interno ed internazionale. All’inizio del XIX secolo, le politiche a tutela della salute erano finalizzate a contrastare la diffusione di malattie ed epidemie: in mancanza di cure idonee, l’intervento statale mirava a prevenire il sovraccarico delle persone in stato di disagio. Da ciò ne discende che, in tale periodo storico, venivano predisposti mezzi e percorsi di protezione dell’ordine pubblico, trascurando la visione della salute quale situazione giuridica soggettiva della persona. Tale situazione permane con l’entrata in vigore della Costituzione Repubblica, giacchè ogni competenza inerente al settore della salute era devoluta al Ministero dell’Interno, ossia l’autorità centrale deputata ad occuparsi dell’ordine pubblico interno. In concreto, il diritto alla salute non è stato reputato come tale fino all’istituzione del Ministero della salute[13], avvenuta nel 1958. In tale lasso di tempo, la forte considerazione dei diritti civili e sociali e delle libertà del cittadino non si combinava con il riconoscimento e la promozione dei diritti sociali. Tuttavia, con ciò non si vuol mettere in dubbio l’apporto costituzionale in materia di tutela alla salute.

A tal proposito, risuonano le parole di Costantino Mortati, secondo il quale

“la costituzione italiana è la sola, fra quelle contemporanee, che, nel conferire rilievo costituzionale agli interessi collegati con  la salute dei cittadini, ne abbia dato una disciplina compiuta”[14].

I limiti del sistema sanitario dell’epoca, consistenti nella dipendenza della persona al mondo del lavoro e nella sussistenza di livelli di prestazioni differenti a seconda della categoria e del livello professionale di appartenenza, convinsero il legislatore ad introdurre rilevanti provvedimenti. Il primo intervento consisteva nell’istituzione del Ministero della Sanità[15], organo centrale di indirizzo ed organizzazione di tutto il Sistema sanitario nazionale. Con la c.d. Legge Mariotti[16], è stato riformato il sistema degli ospedali, amministrati da enti di assistenza e beneficienza, trasformandoli in enti pubblici e regolamentandone l’organizzazione. La nascita del Servizio sanitario nazionale, fondato su di una logica contributiva e redistributiva, perfeziona l’attuazione della riforma del sistema sanitario[17].

Da tale quadro emerge che, la disciplina sanitaria si è sempre orientata verso la realizzazione di un sistema sanitario unitario, teso a garantire il diritto alla salute a tutti i cittadini, senza alcun tipo di discriminazione. Al contempo, alle Regioni sono state riconosciute crescenti responsabilità[18] gestionali e programmatorie in ambito sanitario.

Per volontà del legislatore, le pressioni verso una progressiva regionalizzazione della sanità dovevano essere controbilanciate dalla presenza di riferimenti nazionali sul livello di assistenza da riconoscere. La legge di revisione costituzionale 18 ottobre 2001, nel ridisegnare le competenze legislative dello Stato e delle Regioni, ha attribuito al primo la competenza legislativa esclusiva per la

“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”[19]

e alle seconde la responsabilità della programmazione, della gestione e della spesa nell’ambito sanitario[20].

Una volta delineato l’excursus storico del diritto in commento, appare opportuno procedere ad un analisi dello stesso. Innanzitutto, in tale diritto deve essere ritenuta inclusa la protezione dell’integrità e dell’equilibrio psico-fisico dell’individuo rispetto a qualsiasi forma di condizionamento, impedimento o comportamento lesivo derivante da altri soggetti, compresa la scelta di assoggettarsi a taluni trattamenti sanitari.

Il diritto alla salute si sostanzia anche come pretesa dell’essere umano ad ottenere le prestazioni sanitarie ritenute indispensabili per la salvaguardia della propria salute. I due diversi profili di protezione accennati corrispondono a distinte posizioni soggettive, ciascuna delle quali munita di una propria identità giuridica; in sostanza, esse identificano da una parte un diritto di libertà, dall’altra un diritto a conseguire prestazioni sanitarie[21]. Un aspetto da non trascurare consiste nella mancanza di una puntuale definizione di “salute”. In genere, essa viene intesa come assenza di malattia, assumendo così una valenza negativa. Una corrente di pensiero, invece, definisce la salute uno “stato anatomico-fisiologico corrispondente, in atto e in potenza, ad un essere naturalmente normale” [22]. Una definizione più ampia, tale da inglobare le relazioni affettive e sociali dell’individuo, considera la salute[23] uno

“stato ottimale corrispondente a funzioni filogeneticamente stabilite, che nell'uomo comprendono anche funzioni logiche, affettive, relazionali e implicano sistemi interpersonali e strutture sociali”. 

 

2.1 La tutela della salute nella giurisprudenza costituzionale

Fino agli anni ’70, la giurisprudenza costituzionale non ha mostrato particolare interesse per il diritto alla salute. Un primo approccio al tema si è avuto con la sentenza 21 maggio 1975, n. 112. In detto caso, la Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 3 dicembre 1931, n. 1580, avente ad oggetto le norme per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali. Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato che l’art. 32 Cost. è una norma di legislazione, in quanto affida a leggi future il compito di soddisfare i bisogni sanitari della società mediante l’organizzazione delle prestazioni ed il riparto dei relativi costi tra comunità e individui, prestando peculiare attenzione alle condizioni economiche di questi ultimi. Da ciò ne discende che, in tale fase storica, la giurisprudenza costituzionale considera l’art. 32 come norma programmatica. Una visione opposta a quella odierna che intravede nel predetto articolo una norma precettiva. Qualche anno dopo, si perviene alla dichiarazione di taluni principi in materia di diritto alla salute.

Nel caso di specie, alla Consulta era stato chiesto di vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 2043[24] c.c., reputato dal giudice a quo illegittimo per la mancata inclusione della risarcibilità del danno alla salute. Con tale pronuncia, la Corte fa venir meno i dubbi sulla natura della situazione giuridica soggettiva individuata dall’art. 32 Cost. Il Giudice delle Leggi, non solo si limita a qualificare il diritto in commento quale diritto soggettivo, ma sostiene che esso, trovando garanzia nell’art. 32 Cost., figura come un diritto primario ed assoluto.

Nella sentenza 29 dicembre 1981, n. 202, la Corte si occupa dell’oggetto di tutela dell’art. 32 Cost., nonché l’integrità fisica dei cittadini, sottolineando che tale tutela si concretizza, da un lato, intervenendo con misure di prevenzione e, dall’altro, concedendo trattamenti sanitari per le categorie vulnerabili. Con la sentenza 27 luglio 1982, n. 142, oltre a ribadire la valenza del bene-salute e l’obbligo costituzionale della sua tutela, la Consulta ha evidenziato come la legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, conceda tale tutela a tutti i cittadini, a prescindere dalla loro capacità economica. Più avanti, la Corte costituzionale ritorna a pronunciarsi sul tema del danno biologico. Nella sentenza 14 luglio 1986, n. 184, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale consisteva nell’art. 2059[25] c.c.: il giudice rimettente riteneva tale articolo incostituzionale, poiché consentiva il risarcimento del danno alla salute solo in conseguenza di un reato e non anche nell’eventualità di illecito civile. Tale pronuncia assume particolare importanza per la definizione di “danno biologico” rilasciata dalla Corte: esso

“costituisce l’evento interno al fatto lesivo della salute mentre il danno morale subiettivo e il danno patrimoniale appartengono alla categoria del danno-conseguenza in senso stretto”.

Una volta terminato l’excursus storico sui precedenti legislativi relativi al risarcimento da danno, la Consulta dichiara non fondata la questione di legittimità dell’art. 2059 c.c., sulla base del fatto che non è quest’ultimo, ma l’art. 2043 c.c. a regolamentare la risarcibilità del danno biologico. Con la sentenza 27 ottobre 1988, n. 992, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, della legge n. 730 del 1983 e dell’art. 15 della legge n. 887 del 1984, in quanto reputati in contrasto con l’art. 32 Cost. Nel caso di cui si discute, la USL aveva negato ad un soggetto il rimborso per le spese da quest’ultimo sostenute per due esami diagnostici effettuati tramite TAC presso un centro privato non convenzionato, il quale risultava essere l’unico in possesso di tale apparecchiatura in tutto il territorio nazionale. Tenuto conto degli articoli sopraindicati, in base ai quali le prestazioni di diagnostica specialistica ad elevato costo devono essere espletate presso strutture pubbliche, la Corte ha statuito che le spese sostenute dai cittadini devono essere rimborsate a carico del Sistema Sanitario Nazionale. La suddetta pronuncia è stata rovesciata due anni dopo con la sentenza 16 ottobre 1990, n. 455: la Corte, da un lato, ribadisce la tutela costituzionale del diritto alla salute, dall’altro, sostiene che essa debba svolgersi mediante un ragionevole bilanciamento con altri interessi parimenti garantiti sul piano costituzionale, prestando attenzione ai limiti finanziari ed organizzativi del settore pubblico. Verso la fine del XX secolo, la Corte costituzionale ha preso parte al dibattito sul c.d. “metodo Di Bella”[26]. Nella sentenza 26 maggio 1998, n. 185, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di taluni articoli del decreto legge n. 23 del 1998 alla luce degli artt. 2 e 3 Cost.

Essa, da una parte, segnalava una discriminazione a detrimento dei farmaci del c.d. “multitrattamento Di Bella” rispetto agli altri farmaci all’avanguardia; dall’altra, intravedeva una discriminazione tra i malati terminali scelti per la sperimentazione e coloro che potevano accedere ai farmaci del “metodo Di Bella” soltanto a proprio spese. Alla luce di tale quadro, la Corte ha invitato il legislatore ad emanare delle norme che permettessero anche ai soggetti indigenti di accedere a tale trattamento. Con l’inizio del nuovo secolo, la Consulta ha offerto peculiari definizioni su taluni tipi di danno, ossia il danno biologico, il danno esistenziale ed il danno morale. Nella sentenza 11 luglio 2003, n. 233, la Consulta ha qualificato quest’ultimo come il “transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima”; il danno biologico, invece, come

“lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico”;

infine, il danno esistenziale, come il “danno che deriva dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”. Con la sentenza 23 dicembre 2008, n. 438[27], il Giudice delle Leggi è intervenuto su due temi: da un lato, il tema del consenso informato, e dall’altro quello della distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni in ordine alla tutela della salute. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, della legge regionale del Piemonte del 6 novembre 2007, n. 21[28], recante norme in materia di uso di sostanze psicotrope su bambini ed adolescenti[29] per violazione dell’art. 117, comma 3, Cost.

Entrando nello specifico, il promuovente sosteneva che l’articolo sopracitato eccedeva dalla competenza legislativa concorrente regionale in materia di tutela della salute: la disciplina del consenso informato, definito dalla Consulta quale “espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico” e configurato in termini di “vero e proprio diritto della persona” fondato sui principi sanciti negli artt. 2, 13 e 32 Cost., è riservata alla legislazione statale[30]. Ove il consenso informato rientrasse tra le materie d’intervento della legislazione concorrente regionale, il diritto fondamentale alla salute incorrerebbe nel rischio di ricevere trattamenti differenziati sul territorio nazionale. A tal proposito, si ricordi che, proprio al fine di evitare tale pericolo, l’art. 117 Cost. attribuisce allo Stato il compito di determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

2.2 Il riconoscimento del diritto alla salute nello spazio sovranazionale 

Il diritto alla salute è contemplato in molteplici fonti di diritto internazionale: da un lato, esso è configurato come fondamentale, dall’altro, risulta indispensabile per l’effettività di ulteriori diritti umani. Il diritto in questione q  oggetto trova iniziale menzione nel preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Salute, che ammette il diritto fondamentale al godimento “del più elevato standard di salute possibile”, a sua volta definita come “stato completo di benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia o infermità”[31]. Parallelamente all’entrata in vigore della Costituzione dell’OMS, la tutela della salute è consacrata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nella conseguente Dichiarazione americana dei diritti e doveri dell’uomo. La prima non prevede espressamente un diritto umano alla salute; essa prescrive il “diritto ad un tenore di vita sufficiente ad assicurare salute e benessere”, dando priorità all’accesso alle cure mediche e agli altri fattori vitali per la salute ed il benessere, tra cui l’abitazione, i servizi sociali, l’alimentazione ed il vestiario[32].

La Dichiarazione americana, invece, dichiara che ogni individuo ha diritto alla salvaguardia della salute attraverso idonei interventi sanitari e sociali che lo Stato deve attuare, in conformità alle risorse pubbliche accessibili, al fine di assicurare cibo, vestiario, alloggio ed assistenza medica[33]. Occorre evidenziare che, il diritto alla salute è citato in vari accordi internazionali, comprese le convenzioni sui diritti dell’uomo a carattere generale, le convenzioni riservate ai diritti di categorie di soggetti vulnerabili, e a determinati regimi convenzionali[34]. Con riguardo alle Convenzioni universali, il diritto in esame è sancito nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e in altre rilevanti convenzioni facenti parte dello scenario ONU, tra cui la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne[35], la Convenzione sui diritti delle persone disabili[36], la Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie[37], e la più nota Convenzione sui diritti del fanciullo[38].

Come le Convenzioni, anche gli accordi regionali risultano plurimi. In tale quadro, si colloca la Carta sociale europea[39], il Protocollo addizionale alla Convenzione interamericana sui diritti dell’uomo relativo ai diritti economici, sociali e culturali[40], la Convenzione interamericana sui diritti delle persone anziane[41], la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e il suo Protocollo sui diritti delle donne in Africa[42], la Carta africana sui diritti e il benessere del fanciullo e la Carta araba dei diritti dell’uomo[43].

Alla luce di tale quadro, emerge come la pluralità e l’inevitabile sovrapposizione dei differenti regimi convenzionali applicabili – universali/regionali, generali/settoriali – abbinate alla mancanza di univocità nella formulazione del diritto alla salute, conducano alla concezione di una tutela internazionale “a geometria variabile”, che stona con l’esigenza di assicurare la realizzazione di un diritto universale[44]. Al pari della dimensione nazionale, anche nel campo internazionale il diritto alla salute risulta associato ad altri diritti espressi in Atti stipulati tra gli Stati[45]. Questi ultimi si rivelano, in base alle circostanze, o paralleli (diritto alla vita), o presupposti (diritto all’alimentazione) o consequenziali (diritto ad un’appropriata educazione sanitaria) rispetto al diritto alla salute[46]. In ambito internazionale, l’attuazione del diritto alla salute è verificata dagli Istituti specializzati dell’ONU attraverso il ricorso a quattro parametri: la disponibilità, l’accessibilità, l’accettabilità e la qualità dell’organizzazione sanitaria.

3. Tra la vita e la coscienza: il caso Welby

Il primo vero dibattito pubblico in tema di fine vita si è avuto in occasione di una vicenda nota non soltanto alla cronaca, ma anche al panorama giuridico: il c.d. caso Welby. Tale caso prende le mosse dalla richiesta di un individuo malato di distrofia muscolare fin da giovane, intubato a causa di una crisi respiratoria, nonostante la sua contrarietà. A fronte della celere evoluzione della sua malattia, l’uomo giunse a richiedere il distacco del ventilatore artificiale attraverso un primo ricorso ex art. 700 c.p.c., in seguito al netto rifiuto del proprio medico di procedere a quanto invocato dall’assistito. In tale circostanza[47], il Tribunale di Roma, da una parte, statuiva che “il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle società culturalmente evolute”, dall’altra, lamentava che, per il trattamento terapeutico salva-vita, l’ordinamento giuridico italiano

“non prevede nessuna disciplina specifica sull’ordinamento del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell’attuazione pratica del principio di autodeterminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o l’interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente”.

Il ricorso avanzato da Piergiorgio Welby venne dichiarato inammissibile dal Tribunale di Roma[48]. Tenuto conto dell’aggravamento del proprio stato di salute, il soggetto in questione decise di contattare un altro medico. Qualche giorno dopo, Welby moriva con l’intervento sedativo del secondo medico. Nei confronti di quest’ultimo, venne aperto sia un procedimento per verificare la presenza dei presupposti in ordine ad un’azione disciplinare, sia un procedimento penale. Per quanto concerne il primo, la Commissione disciplinare dell’Ordine provinciale dei medici chirurgici e odontoiatri della città di Cremona aveva richiesto l’archiviazione del caso, sulla base di un’esplicita volontà del paziente circa la cessazione della cura in corso, aggiungendo che la sedazione era “in linea con i normali protocolli”. Con riguardo al secondo, la Procura della Repubblica di Roma valutava di archiviare il caso solo ove la consulenza del collegio medico-legale avesse escluso l’esistenza del nesso causale tra la morte dell’individuo e la sedazione. Una volta rigettata la richiesta di archiviazione, il Giudice per le indagini preliminari ha iscritto il nome dell’anestesista come indagato per omicidio dell’uomo consenziente. In seguito, il Giudice dell’udienza preliminare ha dichiarato il non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. statuendo che il fatto, pur integrando nei suoi elementi la fattispecie di cui all’art. 579 c.p., non poteva essere punito in ragione della sussistenza della scriminante dell’adempimento di un dovere. Nella sentenza del Tribunale di Roma[49] si ricava che “la condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce l’esercizio di un diritto soggettivo” e l’andare avanti comporta l’adempimento di un “dovere giuridico che ne scrimina l’illeceità della condotta causativa della morte altrui”; si valuta, altresì, di “ridisegnare, mediante l’intervento del legislatore, i limiti della fattispecie di cui all’art. 579 c.p.”, al fine di escludere

“esplicitamente l’ipotesi del medico che, ottemperando la volontà del paziente, cagioni la morte di quest’ultimo, mentre una previsione incriminatrice così ampia ingloba necessariamente anche questo caso”.

In virtù dell’importanza assunta dalla suddetta pronuncia, appare opportuno soffermarsi sui tratti principali. In primo luogo, si riscontra, nella motivazione della pronuncia, una particolare attenzione riservata dal giudice al vissuto e alla volontà dell’individuo. In secondo luogo, la sentenza si sofferma sul ricorso presentato da Welby per conseguire il distacco dal polmone meccanico, affermando che, un principio costituzionale, quale quello dell’autodeterminazione terapeutica, non può rimanere inattuato in ragione dell’esistenza di norme di rango inferiore di contenuto contrario, poiché si incorrerebbe “in una palese violazione dei principi che presiedono alla disciplina della gerarchia delle fonti”.[50] Tale pronuncia, altresì, delinea i due presupposti richiesti al titolare per la sospensione delle terapie: la dichiarazione ad un operatore sanitario competente ed il consenso qualificato del paziente.

Con riguardo al primo, si tratta del medico con il quale il proponente perviene ad un accordo terapeutico, a cui spetta il compito di informare il paziente delle conseguenze scaturenti dalla volontà dello stesso. Per quanto concerne il consenso, il giudice sostiene che il rifiuto debba essere personale, informato, autentico, reale ed attuale. Dal quadro appena delineato emerge che, il problema principale non consiste tanto nell’esigenza di colmare una lacuna normativa, quanto invece nella necessità di un equilibrio tra la volontà del paziente e la rilevanza della competenza medica rispetto al caso clinico. A tale bilanciamento, si perviene mediante un rapporto comunicativo tra medico e paziente, che nel caso in esame è mancato[51]. L’attenzione alla dolorosa vicenda di Welby previene la ricostruzione della vicenda in termini di suicidio assistito reputata “fuori luogo” innanzi alla presa d’atto di un decesso imminente[52].

4. Una fine preannunciata: il caso Englaro

Il caso di Eluana Englaro, oltre a coinvolgere l’opinione pubblica, ha animato il dibattito sul delicato tema del fine vita. Come precisato da una parte della dottrina[53], si tratta di un “grande caso costituzionale”, che esorta a meditare sui principi fondamentali del costituzionalismo: la garanzia dei diritti, la separazione dei poteri, il rapporto tra il diritto e la legge, tra il diritto e la morale. Il caso in esame è stato oggetto di dieci provvedimenti dei giudici civili, di cui tre emessi dalla Cassazione e uno dalla Corte costituzionale. Prima di delineare gli aspetti cruciali di tale vicenda, appare indispensabile ricostruire il fatto. Nel 1992, Eluana Englaro, in seguito ad un incidente stradale che le aveva causato un gravissimo trauma cranicoencefalico, entrava prima in una condizione di coma profondo, e più avanti, in un persistente stato vegetativo, con conseguente perdita di ogni facoltà psichica superiore. La travagliata vicenda giudiziaria prese avvio con la presentazione di un’istanza al Tribunale di Lecco, da parte del padre della donna designato tutore della figlia ormai in stato vegetativo permanente, tramite la quale si chiedeva al giudice di interrompere le cure che consentivano di protrarre lo stato vegetativo, fatta eccezione per la somministrazione dei farmaci relativi all’epilessia e quelli eventualmente necessari per i segni del disagio fisico imputabile alla carenza di liquidi.

La richiesta del padre si basava sulla circostanza che la figlia in precedenza aveva espresso la volontà di non essere tenuta in condizioni simili. Il Tribunale di Lecco dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto giudicato in netto contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento, ed in particolare, con l’art. 2 Cost. che tutela il diritto alla vita come primo tra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, ed in osservanza dell’art. 579 c.p. che riafferma l’indisponibilità del predetto diritto punendo anche l’omicidio del consenziente[54]. Il tutore decise di impugnare tale provvedimento presso la Corte di Milano che, pur rigettando il ricorso, diede una diversa motivazione rappresentata dalla piena incertezza sulla qualificazione scientifica della nutrizione e idratazione artificiale[55]. Nel 2002, il Tribunale di Lecco rigettò, ancora una volta, il ricorso del tutore, posizionando nuovamente la vicenda sul piano della compatibilità della richiesta di interruzione delle cure da parte del tutore dell’interdetto con l’ordinamento giuridico. Chiamata di nuovo a decidere in sede di reclamo sullo stesso caso, la Corte di Milano rigettò la richiesta del tutore invitando il legislatore ordinario a rilevare e predisporre degli strumenti appropriati per l’efficace tutela della persona ed il rispetto del suo diritto di autodeterminazione,

“prevedendo una verifica rigorosa da parte dell’autorità giudiziaria della sussistenza di manifestazioni di direttive anticipate”[56].

In seguito, la Corte di Cassazione dichiarò inammissibile il ricorso proposto dal tutore contro il decreto di rigetto della Corte d’Appello di Milano[57]. In tale occasione, la Suprema Corte si soffermò sui limiti del potere di cura riservato al padre della donna, ritenendo indispensabile la nomina di un curatore speciale. Una volta ottenuta tale nomina, egli instaurò un terzo procedimento, basato sulla volontà pregressa dell’incapace; il ricorso fu dichiarato inammissibile ritenendo che il tutore non fosse legittimato, neppure con l’assenso del curatore speciale, ad assumere scelte al posto o nell’interesse di Eluana in materia di diritti e “atti personalissimi”. Un piccolo spiraglio di luce si intravide nella pronuncia della Corte di Appello di Milano[58] che ridisegnò in parte in provvedimento reputando ammissibile il ricorso in ragione del generale potere di cura della persona incombente al rappresentante legale dell’incapace. Tuttavia, il ricorso fu comunque rigettato nel merito dalla Corte d’Appello che non giudicava le idee espresse dalla donna, all’epoca in cui era completamente cosciente, idonee a valere anche nell’attualità come espressione di una volontà ferma di diniego dei trattamenti di sostegno. In particolare, dalle testimonianze rese da persone molto vicine alla donna, emerse che quest’ultima, in occasione dell’incidente stradale di un suo amico entrato in coma, avesse affermato che “quella non poteva considerarsi vita”[59].

L’inversione di rotta si ebbe solo nel 2007 mediante una pronuncia chiave[60] della Suprema Corte che, accogliendo il ricorso presentato dal padre della donna, cassò con rinvio il decreto della Corte di Appello di Milano. Il percorso argomentativo della Cassazione parte dal presupposto che il principio di autodeterminazione, del quale il consenso informato costituisce una delle sue proiezioni applicative, è ormai considerato la base e la legittimazione dell’attività sanitaria[61].

La Suprema Corte, dunque, finisce per accordare al soggetto che versa in condizioni critiche la scelta di valutare i trattamenti terapeutici, e di conseguenza, accettare o rifiutare le cure. Tale ragionamento investe anche la persona priva di una stabile incapacità. La pronuncia della Cassazione rivolge particolare attenzione alla figura del tutore; essa, infatti, invoca l’art. 6, comma 3, della Convenzione di Oviedo, in relazione al quale l’intervento del medico sul paziente non può essere attuato senza l’autorizzazione del rappresentante legale o di altro soggetto abilitato dalla legge. La Suprema Corte condiziona l’interruzione delle cure alla sussistenza di due solide condizioni. La prima, avente carattere oggettivo, consiste nello stato vegetativo del paziente. In tal senso, la Cassazione puntualizza che, la terapia può essere sospesa nel momento in cui

“la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona”.

La seconda condizione, avente carattere soggettivo, attiene al rilascio della prova dalla quale deve emergere la volontà dell’incapace di sospendere le cure[62]. Nel 2008, la Corte d’Appello di Milano, in seguito ad un’accurata ricostruzione della vita e della personalità della donna, autorizzò l’interruzione del trattamento terapeutico[63]. Tale decisione fu impugnata in Cassazione[64] dal Pubblico Ministero; in tale occasione, le Sezioni Unite della Suprema Corte dichiararono inammissibile il ricorso per carenza di legittimazione da parte del P.M. presso la Corte di merito. L’iter giudiziario giunse al termine con la pronuncia del TAR che provvide ad annullare l’atto dell’amministrazione sanitaria regionale lombarda, intento ad impedire la sospensione del trattamento del paziente in stato vegetativo permanente[65].

Appare necessario segnalare il conflitto di attribuzione sollevato innanzi alla Corte costituzionale dalle Camere del Parlamento avverso il provvedimento della Corte di Cassazione ed il decreto della Corte d’Appello di Milano. I ricorsi per conflitto di attribuzione sollevati dalla Camera dei Deputati e dal Senato della Repubblica furono prontamente dichiarati inammissibili[66].

5. Una lezione di vita: il caso Cappato

Il tema del fine vita ritorna prepotentemente sulla “scena” con il caso che vede protagonisti Fabiano Antonini e Marco Cappato. Il primo, diventato cieco e tetraplegico in seguito ad un incidente stradale, tenta di recuperare quelle condizioni di vita che gli avrebbero consentito un’esistenza dignitosa. Una volta preso atto della crudele realtà, l’uomo decide di porre fine alla proprie sofferenze fisiche e mentali. Per tale motivo, inizialmente, si rivolge al Presidente della Repubblica con un videomessaggio pubblico attraverso il quale richiede rispetto verso la propria scelta. In mancanza di risposta, l’uomo entra in contatto con l’associazione “Luca Cascioni”, ed in particolare con la figura di Marco Cappato, impegnato in prima linea per la lotta all’eutanasia. Quest’ultimo si assume la responsabilità di portare materialmente l’uomo in una clinica svizzera, permettendo così allo stesso di attuare la propria volontà. Con il caso in esame, emerge una mancanza di linearità in ordine alla distinzione tra aiuto ed istigazione al suicidio. Il radicale viene iscritto nel registro degli indagati da parte della Procura presso il Tribunale di Milano, che in origine chiede l’archiviazione della causa considerando legittima la condotta di Cappato; tuttavia, il GIP del Tribunale di Milano dispone l’archiviazione coatta per il reato[67] di cui all’art. 580 c.p. La Corte d’Assise di Milano[68] solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sotto un duplice piano[69]. In primo luogo, l’autorità giudiziaria incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, dunque, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo[70].

In secondo luogo, la Corte d’Assise di Milano prevede che le condotte di agevolazione dell'esecuzione del suicidio, che non influiscano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per considerato contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost. Con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale[71] affronta la spinosa questione della compatibilità costituzionale del divieto di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p.

La Consulta adotta una decisione formalmente processuale di rinvio del giudizio[72] ad una nuova udienza di discussione, al fine di offrire “al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse in linea di principio alla sua discrezionalità”.

Tuttavia, dalla pronuncia della Corte, si scorge che, in caso di inerzia del legislatore nei successivi undici mesi, seguirà una sentenza manipolativa, finalizzata a mettere un punto definitivo alla delicata questione. La Corte però non condivide pienamente l’interpretazione del giudice rimettente. Dal diritto alla vita, tacitamente tutelato dall’art. 2 Cost. ed apertamente garantito dall’art. 8 della CEDU non scaturisce un’ampia libertà di scelta[73] circa la propria esistenza, né il diritto della persona a conseguire dallo Stato o da un terzo un sostegno a porre fine alla propria vita. La ratio della fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio risiede nella tutela dei soggetti più deboli e vulnerabili:

“essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”.

La Corte costituzionale invoca la legge n. 219/2017 e osserva come quest’ultima disciplini vicende simili per il caso in cui la persona decida di lasciarsi morire sospendendo la terapia. Per quanto concerne i profili di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., la Consulta afferma che il valore fondamentale della vita non esclude l’obbligo di rispettare la scelta del soggetto di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione delle cure. Tali considerazioni permettono alla Corte costituzionale di definire il margine d’incompatibilità costituzionale[74] dell’art. 580 c.p. L’inerzia del legislatore costringe il Giudice delle Leggi ad attivarsi[75]. Nella sentenza n. 242 del 2019, la Consulta osserva che

“decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità”, considerato che “posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio”, in modo tale da “evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale”, principalmente “negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore”.

Con la predetta pronuncia, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.

“nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

La recente sentenza della Corte costituzionale desta scalpore, non tanto per le sue puntuali argomentazioni, quanto invece per un richiamo più attenuato alla dignità umana, rispetto ai numerosi riferimenti nella precedente ordinanza. Sotto tale profilo, una parte della dottrina[76] ravvisa in tale circostanza la volontà del legislatore costituzionale di scongiurare un ipotetico cortocircuito tra la nozione soggettiva patrocinata nell’ordinanza n. 207/2018 ed una lettura della dignità umana di matrice nettamente oggettiva rilevabile dal tenore della sentenza n. 141 del 2019 in tema di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.

Appare necessario precisare che, con la sentenza n. 242 del 2019, la Corte costituzionale non ha inteso legittimare un diritto di morire, quanto incentivare la massima declinazione dell’autonomia decisionale del soggetto, in virtù della tutela della dignità umana. Alla luce di tale scenario, sembra opportuno parlare di un diritto alla piena dignità anche nel morire[77], piuttosto che di un diritto a morire con dignità.  

6. L’incidenza del principio costituzionale di autodeterminazione in tema di fine vita

In genere, il principio costituzionale di autodeterminazione è posto alla base delle decisioni di fine vita. Si tratta di un concetto vitale, poiché invocato a favore della possibilità di rifiutare trattamenti terapeutici. Nel corso degli anni, la dottrina si è interrogata sulla presenza di limiti ragionevoli alla libertà dell’individuo di autodeterminarsi[78]. Una valida risposta è riscontrabile in tema di aborto. Di recente, il legislatore costituzionale ha inteso il diritto alla procreazione cosciente e responsabile come manifestazione del diritto di autodeterminazione della donna in relazione alla sua vita di madre. In considerazione di ciò, è stato accordato alla medesima il risarcimento[79], in assenza di informazione da parte del medico sullo stato di salute del feto, non essendo stata posta nelle condizioni di espletare il suo diritto di abortire, ledendo così la sua libertà di autodeterminazione. Nel suddetto caso, si assiste ad un conflitto tra il diritto di autodeterminazione della donna ed il diritto del concepito di nascere.

Oggi, si assiste ad una netta prevalenza del primo sul secondo. Tale ragionamento trova concretizzazione anche in tema di fine vita[80], fermo restando che, in quest’ultimo caso, il conflitto scaturirebbe tra diritti riferibili alla stessa persona. Per tale ragione, l’individuo avrebbe piena libertà di decisione in ordine alla priorità di valori che preferisce.

Come noto, il riconoscimento del diritto in esame è il frutto di un lungo processo giurisprudenziale. Il 16 dicembre 2006, il Tribunale di Roma rifiuta di riconoscere a Welby il diritto di autodeterminarsi con riferimento alla propria salute, negando l’autorizzazione al medico competente che avrebbe dovuto scollegare il respiratore artificiale. In virtù del principio dell’indisponibilità del bene vita, siffatto diritto è considerato “non concretamente tutelato dall’ordinamento”. A distanza di un anno, nel caso Englaro, il giudice di legittimità acconsente al distacco dei trattamenti di idratazione e alimentazione in ragione del principio del consenso informato. In tale occasione, il principio in questione trova terreno fertile grazie ad un’estesa lettura del diritto alla salute.

La Cassazione statuisce, da un lato, che “il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto e alla sua autodeterminazione” e, dall’altro, che un trattamento sanitario obbligatorio presenta specifici limiti disegnati dall’art. 32 Cost. al di fuori dei quali la salute

“come tutti i diritti di libertà, implica la tutela  del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”.

La concezione della salute come diritto di libertà permette di fronteggiare altre questioni in tema di fine vita. Nel 2016, il Tribunale di Cagliari[81] autorizza i medici a staccare il respiratore artificiale ad un individuo malato di SLA, giacchè il diritto all’autodeterminazione terapeutica

“come tutti i diritti di libertà, è evidentemente condizionato dalle convinzioni etiche proprie del titolare del diritto medesimo ed è altresì coerente con la nuova dimensione che oggi ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di benessere fisico e psichico, coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita e le relazioni con gli altri”.

Con la legge 22 dicembre 2017, n. 219, il diritto di autodeterminazione terapeutica ricomprende non solo il diritto di lasciarsi morire rigettando cure salvavita, ma anche quello di chiedere la sedazione palliativa profonda continua nell’ipotesi di “prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte”. Contestualmente all’approvazione della legge sopraindicata, la giurisprudenza costituzionale si è imbattuta nel caso Cappato. A tal proposito, occorre segnalare che, nella predetta vicenda, la Corte non si è distaccata dalla consolidata lettura che interpreta il diritto di autodeterminazione terapeutica associato al secondo comma dell’art. 32. Nel ragionamento della Corte, il diritto in questione continua a concentrarsi sul diritto al rifiuto di cure; l’apertura verso una forma di assistenza al suicidio non ha spinto[82] la Consulta a basare tali forme di autodeterminazione direttamente sullo statuto di libertà correlato al diritto alla salute, comprensivo anche del suo lato negativo. Il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato è una conquista delle società democratiche. Nel corso degli anni, il rapporto tra medico e paziente è mutato; una corrente di pensiero ritiene che l’importanza assunta dal consenso informato abbia spostato il potere di scelta dal medico al paziente[83]. In tale senso, appare opportuno evidenziare che i progressi della tecnologia non solo hanno consentito di rendere sempre più labile il confine tra la vita e la morte, ma hanno generato anche dei problemi sia giuridici che morali[84].

7. L’approdo al testamento biologico: una conquista italiana “solo” recente

L’espressione “testamento biologico” trae origine dal termine inglese “living will”[85] adottato, per la prima volta, da Luis Kutner nel suo contributo “Due Process of Euthanasia: The living Will, A Proposal” comparso nel 1969 nella rivista statunitense Indiana Law Journal. In Italia, invece, la suddetta locuzione è destinata a lasciare il posto ad ulteriori espressioni[86], in quanto ritenuta poco chiara dalla dottrina sul piano terminologico delle categorie del diritto. Tale strumento rinvia concettualmente al differente istituto del testamento mortis causa che, a prima vista, non sembra legato al tema in discorso, per vari motivi. In primo luogo, i due istituti si diversificano in base al presupposto: ai sensi dell’art. 587 c.p., “il testamento è un atto con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”; mentre il testamento biologico è un negozio giuridico unilaterale inter vivos che riporta in anticipo le cure sanitarie da adottare nell’ipotesi di una propria impossibilità a riferire direttamente a causa di malattia o incapacità. In secondo luogo, gli istituti in esame si differenziano in ragione del contenuto dei rispettivi atti: le disposizioni testamentarie hanno principalmente carattere patrimoniale; mentre il testamento biologico racchiude la volontà dell’individuo circa le terapie da adottare in caso di incapacità, tale da richiedere necessariamente un intervento medico.

Sebbene i due istituti presentino nette divergenze, una parte della dottrina[87] reputa che il testamento esprima efficacemente la funzione del testamento biologico. Essa riprende il classico uso dell’istituto testamentario, chiamando in causa lo storico francese Philippe Ariès, secondo il quale

“dal XIII al XVIII secolo, il testamento è stato per ognuno il mezzo per esprimere, spesso in modo assai personale, i propri pensieri profondi, la propria fede religiosa, l’attaccamento alle cose, gli essere amati, a Dio, le decisioni prese per assicurarsi la salvezza dell’anima, il riposo del corpo”[88].

Sul piano concettuale, il testamento biologico potrebbe essere immaginato come una specie di diario, nel quale la persona riporta il proprio punto di vista. Tornando al contesto italiano, un intervento del legislatore avrebbe migliorato il rapporto medico-paziente: da un lato, assicurando a quest’ultimo il diritto a non essere estraniato nelle scelte relative alla propria esistenza; dall’altro, escludendo che il primo incorresse in responsabilità al momento dell’interruzione del trattamento terapeutico, pur in presenza della volontà del paziente.

La recente legge n. 219 del 2017, dunque, sana un enorme lacuna normativa. A differenza del precedente progetto, nella legge in discussione il ruolo del legislatore non entra in contrasto con quello dei magistrati, ma si allinea alla giurisprudenza. La legge n. 219 del 2017 posiziona le norme sulle “disposizioni anticipate di trattamento” nel contesto di un rapporto terapeutico incentrato sul consenso, inteso come rapporto fiduciario in cui l’individuo esprime le proprie intenzioni in ordine alle cure sanitarie. In caso di futura incapacità, il legislatore accorda alla persona l’opportunità di comunicare “le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”, e di designare un curatore che subentri, al posto dello stesso, nel rapporto terapeutico. Le disposizioni anticipate, dunque, costituiscono un valido mezzo che rafforza l’autonomia individuale ed il consenso informato nelle decisioni sanitarie.

Tuttavia, la legge n. 219/2017 non risulta priva di criticità. Una corrente di pensiero[89] reputa la suddetta disciplina superflua: il medico, infatti, poteva avvalersi della legge n. 38/2010 che prevede regole volte ad alleviare la sofferenza attraverso la terapia del dolore e la sedazione palliativa profonda. D’altro canto, in assenza di tale legge sarebbe stato comunque possibile manifestare disposizioni anticipate di trattamento ricorrendo all’istituto dell’amministrazione di sostegno.

Prima dell’entrata in vigore di tale legge, l’autodeterminazione della persona era già riconosciuta dal legislatore: essa poteva comunicare le proprie intenzioni stilando innanzi ad un avvocato o ad un notaio un biotestamento, nel quale riportare quali cure accettare o rifiutare. Una seconda voce[90] rileva nella disciplina in commento un’incongruità: il legislatore sembra vincolare l’attività di attuazione delle disposizioni anticipate di trattamento da parte del fiduciario e del medico[91], al rispetto della volontà della persona; al tempo stesso, la novella permette al medico, in accordo con il fiduciario, di disattendere, in tutto o in parte, le DAT,

“qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.

In tale scenario, ben si colloca il pensiero di John Stuart Mill, secondo il quale “su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”[92]

8. Conclusioni: tra ritardi ed inerzia affiora un’unica certezza

Nel corso degli anni, il Parlamento italiano ha rinviato talune questioni in ragione della loro spiccata sensibilità. In particolare, nell’ottica del legislatore il riconoscimento di nuovi diritti era intralciato da una società civile non ancora in grado di abbracciarne l’emersione, in quanto legata alle rigide concezioni del passato. Tra le questioni relegate dal legislatore rientra il tema del fine vita, nonché l’eutanasia, il suicidio assistito, il testamento biologico.

Occorre marcare che, non solo il Parlamento riteneva poco urgenti e vitali le suddette questioni, ma addirittura si tendeva a contrastare illa discussione; di conseguenza, nelle aule parlamentari non potevano affiorare né le tesi propizie né quelle ostili all’apertura delle pratiche eutanasiche.

Nonostante la resistenza del legislatore, la necessità di colmare un vuoto normativo in materia ha avviato il dibattito sulla legittimità di una legge sull’eutanasia. In tema di fine vita, il silenzio legislativo è percepito nel momento in cui il Giudice delle Leggi prospetta differenti soluzioni normative tutte compatibili con il dettato costituzionale. In tali casi, la Corte costituzionale si raffronta con “il potere discrezionale del legislatore” richiamato dall’art. 28[93] della legge 11 marzo 1953, n. 87. In tale senso, appare opportuno segnalare che il rapporto tra la Corte ed il Parlamento non è mai stato stabile; infatti, non sono mancati casi in cui la Corte ha sorpassato il principio sancito dall’art. 28 al fine di mettere fine ad una determinata questione.

I silenzi del legislatore si sono rivelati letali: ancora oggi persistono norme in contrasto con i principi costituzionali e deficit di tutela per i diritti dei cittadini. Una parte della dottrina sottolinea come i silenzi del Parlamento non possano essere considerati legittimi nel momento in cui provocano carenze di garanzie costituzionalmente riconosciute; tuttavia, la stessa avverte che

“non è però sempre agevole distinguere, in concreto, un silenzio legittimo, mantenuto nell’assenza di alcun obbligo di dare copertura normativa a un principio costituzionale, da un’inammissibile omissione”[94].

Diversamente dal panorama italiano, quello sovranazionale inizia ad interessarsi al tema del fine vita già verso la fine degli anni Novanta. La Corte di Strasburgo, al contrario della Corte costituzionale, ha pronunciato numerose decisioni aventi ad oggetto proprio il diritto a morire. La Corte Europea dei diritti dell’uomo si trova ad affrontare, per la prima volta, un caso di fine vita con la vicenda umana di Ramón Sampedro, attivista spagnolo affetto da una tetraplegia a seguito di lesioni irreversibili del midollo spinale causate da un grave incidente.

Fin dal 1993, egli aveva presentato presso diversi tribunali spagnoli la richiesta incentrata sul riconoscimento del suo diritto a morire in maniera dignitosa. Una volta subito il rigetto del ricorso di amparo presentato presso la Corte costituzionale spagnola e la dichiarata inammissibilità del ricorso da parte della Commissione del Consiglio d’Europa, l’individuo riprende l’iter chiedendo di non perseguire il medico che lo avrebbe aiutato a morire dignitosamente. Esaurite le vie del giudizio, Sampedro si presenta nuovamente innanzi alla Corte costituzionale con un ricorso individuale di amparo per lesione dei suoi diritti fondamentali, contestando che il diniego delle sue richieste comportava una lesione profonda della dignità umana. In attesa della pronuncia della Corte costituzionale, il soggetto muore con l’ausilio di terzi rimasti ignoti. La cognata di Sampedro, Manuela Sanles Santes, manifesta la volontà di portare avanti il giudizio in qualità di terzo.

Tuttavia, la Corte dichiara l’estinzione del processo, negando alla donna la possibilità di proseguire nel giudizio; il Giudice delle Leggi ricorda che la continuazione dello stesso è consentita soltanto nei casi in cui si discuta di diritti personali degli eredi inerenti al loro stato civile, alla protezione della privacy, dell’immagine personale e familiare, o dell’onore.

A fronte di ciò, la ricorrente decide di adire la Corte EDU obiettando la violazione della Carta europea dei diritti fondamentali e dell’art. 2 della CEDU, non essendo stato riconosciuto all’uomo il diritto a morire in maniera dignitosa, speculare al diritto alla vita.

Senza entrare nel merito delle eccezioni sollevate dalla donna, la Corte Europea dei diritti dell’uomo dichiara inammissibile il ricorso per l’assenza, in capo alla stessa, della legittimazione a ricorrere non essendo essa vittima ex art. 34 CEDU. Nel caso Diane Pretty[95] v. Regno Unito, la Corte EDU entra nel merito delle questioni relative al fine vita. Un passo in avanti è compiuto nel caso Ernst Haas[96] v. Svizzera, nel quale la Corte riconosce che l’autodeterminazione comprende anche il diritto a scegliere come terminare la propria vita, ai sensi degli artt. 2 ed 8 CEDU. Tornando allo scenario italiano, un’inversione di rotta è ravvisabile sul piano dei diritti fondamentali. Nelle pronunce del Giudice delle Leggi si nasconde una visione soggettiva della dignità: quest’ultima, oltre a rappresentare un “dono” che spetta all’essere umano in quanto tale, costituisce un “traguardo” che si raggiunge tramite le azioni di ciascun individuo, “per dare un senso e un significato alla propria vita”[97].

Una conquista importante considerato che la dignità umana non è altro che “il diritto dei diritti”.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Sul punto, G. Dossetti, Costituzione e riforme, Il Margine, n. 5, 1995, pp. 263-264, afferma che “nel campo dei diritti, e dei relativi principi immutabili, viene anzitutto il diritto alla vita. Il nostro testo costituzionale non ne parla in recto. Ma è certo un prius ontologico, che si può presumere implicito in molte disposizioni costituzionali”.

[2] Con riguardo all’interpretazione dell’art. 2 Cost., una delle discussioni più accese attiene all’identificazione della stessa come norma a fattispecie aperta ovvero a fattispecie chiusa. Per taluni, infatti, l’art. 2 Cost. dovrebbe essere interpretato come riferibile soltanto al catalogo dei diritti espressamente sanciti dalla Costituzione. Sul tema, si veda S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali, in giurcost.org, 2006, pp. 9-15.

[3] F. Mantovani, Diritto Penale - Parte Speciale - Delitti contro la persona, Cedam, Padova, 2019, p. 91.

[4] M. Andreis, La tutela della salute tra tecnica e potere amministrativo, Giuffrè, Milano, 2006, p. 411.

[5] L. Pirozzi, Appunti per una riflessione sul diritto alla vita nella Costituzione italiana (a partire dall’ord. n. 207/2018 sul “caso Cappato”), in federalismi.it, n. 13, 2019, p. 6.

[6] Corte Cost. 27 giugno, 1996, n. 223.

[7] Corte Cost. 27 febbraio 1975, n. 27; Corte Cost. 10 febbraio 1997, n. 35.

[8] G. Razzano, Dignità nel morire, eutanasia e cure palliative nella prospettiva costituzionale, Giappichelli, Torino, 2014, p. 3.

[9] Sul punto, sia consentito il richiamo a L. Leo, L’anima dei diritti umani: la dignità della persona, in salvisjuribus.it, 2020.

[10] B. Jorion, La dignité de la personne humaine, in Revue du droit public, n. 1, 1999, p. 215.

[11] A. Pirozzoli, Il valore costituzionale della dignità. Un profilo giurisprudenziale, in Rassegna parlamentare, n. 2, 2007, p. 324.

[12] C. Triberti, M. Castellani, Libera scelta sul fine vita. Il testamento biologico, Goware, Firenze, 2018.

[13] Si ricordi che, prima dell’istituzione del SSN, il sistema assistenziale sanitario era incentrato su molteplici “enti mutualistici”: ciascun ente, competente per una determinata categoria di lavoratori iscritti, era finanziato con i contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro e garantiva protezione sanitaria anche ai familiari a carico.

[14] C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Raccolta di scritti, III, Giuffrè, Milano, 1972, p. 433.

[15] Legge 13 marzo 1958, n. 296.

[16] Legge 12 febbraio 1968, n. 132.

[17] Legge 23 dicembre 1978, n. 833.

[18] Legge 17 agosto 1974, n.386.

[19] Art. 117, comma 2, lett. m).

[20] Si ricordi che, con il D.P.C.M. 12 gennaio 2017 (“Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza”, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”), pubblicato sulla G.U. n. 65 del 18 marzo 2017, i Lea sono stati aggiornati. Sul tema, si veda M. Bergo, I nuovi livelli essenziali di assistenza. Al crocevia fra la tutela della salute e l’equilibrio di bilancio, in rivistaaic.it, n. 2, 2017; S. Cavalieri, I livelli essenziali delle prestazioni e i nuovi diritti culturali, in rivistaaic.it, n. 3, 2017; M. Atripaldi, Diritto alla salute e livelli essenziali di assistenza (LEA), in federalismi.it, 2017; G. Guerra, I nuovi Livelli essenziali di assistenza sanitaria, in politichesanitarie.it, Vol. 18, n. 1, 2017.

[21] D. Morana, La salute come diritto costituzionale: Lezioni. Seconda edizione, Giappichelli, Torino, 2015, p. 3.

[22] F. Pergolesi, Diritto costituzionale, CEDAM, Padova, 1963, p. 1963.

[23] G. Prodi, Salute/malattia, in Enc. Einaudi, Torino, 1981, vol. 12, p. 422.

[24] Ai sensi dell’art. 2043 c.c.: “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

[25] Ai sensi dell’art. 2059 c.c.: “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

[26] Si ricordi che, il c.d. metodo Di Bella, ideato dal medico Luigi Di Bella tra il 1997 ed il 1998, è una terapia alternativa per il trattamento dei tumori, priva di riscontri scientifici circa i suoi fondamenti e la sua efficacia.

[27] Per un commento sulla sentenza, si veda D. Cevoli, Diritto alla salute e consenso informato. Una recente sentenza della Corte Costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2008.

[28] Come specificato da B. Lelli, Consenso informato e attitudini garantistiche delle Regioni, in giurcost.it, 2008, “l’obiettivo della legge era quello di accompagnare l’eventuale uso di psicofarmaci in età minore con determinate cautele, anche allo scopo, se del caso, di scongiurarne l’abuso o l’uso improprio. A tal fine, venivano previste, da un lato, azioni di monitoraggio, sorveglianza e valutazione sui trattamenti in corso di natura psicofarmacologica (art. 5); e, dall’altro, il divieto di somministrazione di test o questionari relativi allo stato psichico ed emozionale degli alunni, se non finalizzati ad uso interno ed esclusivamente didattico (art. 4). Ma, il punto chiave della normativa risiede (o meglio risiedeva fino all’intervento del giudice costituzionale) nella disciplina del consenso informato per tale tipo di trattamenti (art. 3), che, si noti per incidens, non rinviene al livello suo proprio, cioè quello statale, una regolamentazione di carattere uniforme, essendo questa piuttosto frammentata in discipline di settore”.

[29] Si ricordi che, l’art. 12 della Convenzione di New York impone di prendere in considerazione la volontà dei minori.

[30] Secondo F. Corvaja, Principi fondamentali e legge regionale nella sentenza sul consenso informato, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2009, “non è escluso che la decisione della Corte di sottrarre alle Regioni la disciplina del consenso informato trovi fondamento, più che nell’adesione dei giudici costituzionali alla dogmatica della separazione, nella volontà di impedire alla legge regionale di venire direttamente a contatto con diritti costituzionali considerati “sensibili”, e quindi sottratti alla conformazione del legislatore regionale, anche per ragioni legate alla eguaglianza”.

[31] La suddetta definizione sopprime il dualismo concettuale “salute-malattia” e offre una prospettiva dello stato di benessere dell’essere umano non meramente associata all’intervento sanitario. Tale concetto è stato ripreso dalla Dichiarazione di Alma Ata del 1978.

[32] Par. I della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione 217 A (III) del 10 dicembre 1948.

[33] Art. XI della Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo, approvata il 2 maggio 1948 a Bogotà dalla nona Conferenza Internazionale americana.

[34] Si pensi agli artt. 13, 15, 25, 26, 29, 33 della Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra, adottata a Ginevra il 12 agosto 1949; alla Convenzione sul quadro promozionale per la salute e la sicurezza sul lavoro, adottata a Ginevra il 15 giugno 2006.

[35] Art. 11, par. 1 lett. f), art. 12 par. 1 e art. 14 par. 2 lett. b) della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU con risoluzione 34/180 del 18 dicembre 1979.

[36] Art. 24 della Convenzione dei diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU con risoluzione 44/25 del 20 novembre 1989.

[37] Artt. 28, 43 e 45 della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti del lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU con risoluzione 45/158 del 18 dicembre 1990.

[38] Art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU con risoluzione 44/25 del 20 novembre 1989.

[39] Artt. 11 e 13 della Carta sociale europea, firmata a Torino il 18 ottobre 1861 e rivisitata a Strasburgo il 3 maggio 1996.

[40] Art. 10 del Protocollo addizionale alla Convenzione americana sui diritti dell’uomo.

[41] Art. 19 della Convenzione interamericana sui diritti delle persone anziane, adottata dall’Assemblea Generale dell’OSA, il 15 giugno 2015.

[42] Art. 16 della Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli; art. 14 del Protocollo alla Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa, adottato a Maputo l’11 luglio 2003.

[43] Art. 14 della Carta africana sui diritti e il benessere del fanciullo, adottata a Nairobi l’11 luglio 1990.

[44] Al fine di consentire la piena comprensione di tale affermazione, S. Nigri, Salute pubblica, sicurezza e diritti umani nel diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2018, p. 65-67, traccia un’analisi comparata delle norme pattizie più rilevanti. 

[45] Come ben sottolineato da R. Ferrara, Salute e sanità, Giuffrè, Milano, 2010, p. 87, “è evidente come il diritto alla salute non si risolva nella semplice possibilità di fruire di cure immediate ed adeguate, ma si leghi intimamente a svariati altri aspetti normativi che compongono l’essenziale cornice di riferimento per la salvaguardia della salute medesima”. 

[46] A. Oddenino, Profili internazionali ed europei del diritto alla salute, in Trattato di Biodiritto. Salute e sanità, R. Ferrara e C. Sartoretti (a cura di), Giuffrè Editore, Milano, 2010, p.87.

[47] Trib. Roma, Sez. I civ., 16 dicembre 2006.

[48] In particolare, il Tribunale rigetta il ricorso statuendo che “il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente [...], ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento”.

[49] Trib. Roma, 23 luglio 2007, n. 2049.

[50] Sul punto, il GUP aggiunge che “[...] il diritto soggettivo riconosciuto dalla norma costituzionale nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione”.

[51] G. Razzano, Dignità nel morire, eutanasia e cure palliative nella prospettiva costituzionale, Giappichelli, Torino, 2014, p. 130.

[52] L. Risicato, Indisponibilità o sacralità della vita? Dubbi sulla ricerca (o sulla scomparsa) di una disciplina laica in materia di testamento biologico, in statoechiese.it, 2009, p. 13.

[53] T. Groppi, Il caso Englaro: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno, in astrid-online.it, 2009, p. 1.

[54] Trib. Lecco, decr. 2 marzo 1999.

[55] Corte App. Milano, decr. 31 dicembre 1999.

[56] Corte App. Milano, 10 dicembre 2003.

[57] Cass., sez. I, ord. n. 8291 del 20 aprile 2005.

[58] Corte App. Milano, decr. 16 dicembre 2006.

[59] I giudici di Milano considerarono tali deposizioni come “dichiarazioni generiche, rese a terzi con riferimento a fatti accaduti ad altre persone, in momenti di forte emotività, quando Eluana era molto giovane, si trovava in uno stato di benessere fisico e non nell’attualità della malattia, era priva di maturità certa rispetto alle tematiche della vita e della morte”.

[60] Cass., sez. I, sent. n. 21748 del 16 ottobre 2007.

[61] G. Casciaro, P. Santese, Il consenso informato, Giuffrè, Milano, 2012, p. 161.

[62] Sul punto, la Suprema Corte precisa che “la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

[63] Corte d'Appello Milano, sez. I civ., dec., 9 luglio 2008.

[64] Cass. sez. civ., sent. n. 27145 del 13 novembre 2008. 

[65] Tar. Milano, sez. III, 26 gennaio 2009, n. 214.

[66] Corte cost. ord. n. 334 dell’8 ottobre 2008.

[67] Per un puntuale ricostruzione delle argomentazioni svolte dalla Procura e dal GIP di Milano, si veda D. Napoli, Il caso Cappato–DJ Fabio e le colonne d’Ercole del fine vita. Dal diritto a lasciarsi morire al diritto a morire con dignità, in BioLaw Journal, n. 3, 2017.

[68] Corte App. Milano, ord. 14 febbraio 2008.

[69] M. Forconi, La Corte d’Assise di Milano nel caso Cappato: sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, n. 2, 2018, p. 1.

[70] Stando alle considerazioni del giudice a quo, l’art. 580 c.p. presupponeva che “il suicidio fosse una condotta connotata da elementi di disvalore perché contraria ai principi fondamentali della società, quello della sacralità/indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nel corso del regime fascista”.

[71] Il provvedimento è connotato da una vocazione che potremmo definire “bifronte”: è un’ordinanza perché, oltre ad essere così definita formalmente, opera sul procedimento costituzionale disponendo il rinvio a una nuova udienza di discussione e la sospensione del giudizio a quo. Al contempo, però, la decisione entra analiticamente nel merito della questione di legittimità costituzionale sollevata e assume tutti i connotati di una sentenza di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata” almeno fino alla nuova udienza di discussione” (C. Masciotta, Innovazioni procedurali e “nuovi diritti”: i chiaroscuri dell’ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, in federalismi.it, n. 6, 2019).

[72] Sul punto, si veda M. Picchi, “Leale e dialettica costituzionale” fra Corte Costituzionale e Parlamento: a proposito della recente ordinanza n. 207/2018 di monito al legislatore e contestuale rinvio della trattazione delle questioni di legittimità costituzionale, in osservatoriosullefonti.it, Fasc. 3, 2018, pp. 9-14.

[73] Sul punto, la Corte ricorda “che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio”.

[74] In particolare, la Consulta dichiara che “entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione  del  malato  nella scelta delle terapie, comprese quelle  finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13, e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.

[75] Sulla condotta del legislatore italiano, si veda A. Ridolfi, Un nuovo tipo di pronuncia: la via italiana alla unvereinbarerklarung, in Nomos-Le attualità del diritto, n. 3, 2019, pp. 16-20.  

[76] C. Cupelli, Il parlamento decide di non decidere e la Corte Costituzionale risponde a se stessa, in sistemapenale.it, n. 12, 2019, p. 46.

[77] Sul punto, si veda G. Fiandaca, Fino a che punto è condivisibile la soluzione costituzionale del Caso Cappato, in discrimen.it, n. 1, 2020, pp. 10-14.

[78] In particolare, M. Santamarianova, Questioni di fine vita: eutanasia, Independently, 2018, p. 45, avanza dei dubbi sul fatto che la scelta sia veramente libera.

[79] Corte Cass, sez. III civile, sent. 15 novembre 2019, n. 29709.

[80] R. Carrano, Riflessioni sulle decisioni di fine vita, tra autonomia, dignità e solidarietà, in Le decisioni di fine vita, M. Bianca (a cura di), Giuffrè, Milano, 2011, p. 116. 

[81] Trib. Cagliari, decr. 16 luglio 2016. Sul tema, si veda F. G. Pizzetti, Considerazioni a margine del “caso Piludu” fra princìpi costituzionali e pronunce giurisprudenziali in materia di rifiuto di trattamenti sanitari salvavita, in BioLaw Journal, n. 1, 2017.

[82] A tal riguardo, C. Iannello, Il diritto di morire tra autodeterminazione terapeutica, trasformazione della sovranità e rifiuto sociale della morte, in Bioderecho.es, n. 9, 2019, p. 11, osserva che “una simile interpretazione sarebbe stata possibile alla luce della Carta costituzionale e dell’evoluzione interpretativa che ha avuto il concetto di salute nella dottrina e nella giurisprudenza. La Carta costituzionale, infatti, in modo assolutamente innovativo per il tempo in cui fu approvata, ha inquadrato la salute come una libertà fondamentale dell’individuo, in piena coerenza con il fondamento personalistico su cui si fonda la Costituzione repubblicana che valorizza gli ambiti di autonomia individuale”.

[83] G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, in Riv. critica del diritto privato, 2006, p. 43.

[84] Sul tema, si veda F. Zammartino, Annotazioni sul trattamento di fine vita: tra incertezze legislative e giurisdizionalizzazione dei diritti, in rivistaaic.it, n. 2, 2020, p. 352-354.

[85] Sul tema, si veda C. Piciocchi, Dichiarazioni anticipate di trattamento: dare “forma al vuoto” in attesa di una legge, in rivistaaic.it, n. 2, 2016, pp. 4-9.

[86] A fronte di ciò, iniziarono a diffondersi le seguenti espressioni: “direttive di fine vita”, “disposizioni anticipate di trattamento”, “dichiarazioni anticipate di trattamento”. 

[87] M. Foglia, Consenso e cura: La solidarietà nel rapporto terapeutico, Giappichelli, Torino, 2018, p. 181.

[88] P. Ariès, Storia della morte in Occidente, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1998, p. 55.

[89] R. Maddaluna, Libertà di cura e scelte di fine vita: la nuova legge sul biotestamento, in Diritto Pubblico Europeo Rassegna Online, n. 2, 2018, pp. 94-95.

[90] V. Donato, Note critiche sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) in comparazionedirittocivile.it, 2018, pp. 14-15.

[91] In senso critico, si veda C. Cupelli, Libertà di autodeterminazione e disposizioni anticipate di trattamento, in La responsabilità penale nelle professioni sanitarie, B. Romano (a cura di), Pacini, Pisa, 2019, p. 159, per il quale la legge in questione avrebbe ridotto il medico ad un “mero esecutore” della volontà del malato, limitando così la libertà, l’autonomia e la responsabilità professionale dello stesso.

[92] J. S. Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano, 2009, p. 28.

[93] Ai sensi dell’art. 28 della suddetta legge: “Il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”.

[94] A. Morelli, La voce del silenzio. La decisione della Corte sull’aiuto al suicidio e il “perdurare dell’inerzia legislativa”, in dirittifondamentali.it, n. 1, 2020, p. 726.

[95] Per una ricostruzione puntuale del caso si veda, I. R. Pavone, La convenzione europea sulla biomedicina, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 93-95. 

[96] Per un commento sul caso si veda, D. Butturini, Note a margine di Corte E.D.U. HAAS contro Svizzera, in rivistaaic.it, n. 3, 2011.

[97] F. G. Pizzetti, In margine ai profili costituzionali degli ultimi sviluppi del “caso Englaro”: i limiti della legge e “progetto di vita”, in astrid-online.it, 2017, p. 57.

 

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