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Pubbl. Lun, 25 Gen 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Il rischio di credito nell´attività bancaria: dagli accordi di Basilea alla nuova definizione di default

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autori Paolo Del Gaudio , Maria Teresa Del Gaudio



Il presente contributo analizza i rischi dell’attività bancaria con specifico riferimento al rischio di credito e agli strumenti normativi di contenimento dello stesso: gli Accordi di Basilea. Punto focale dell’approfondimento offerto è la nuova disciplina in materia di classificazione delle controparti inadempienti prevista dal Regolamento UE n.171/2018 e dalle Linee Guida dell’EBA (EBA/GL/2016/07) con la quale il Regulator ha introdotto criteri più stringenti per la definizione di posizioni a default, allo scopo di armonizzare la regolamentazione prudenziale di matrice comunitaria. La nuova disciplina dovrà essere applicata entro il 1 Gennaio 2021 e minaccia già di stravolgere i rapporti Banca-Cliente nonché i bilanci degli Istituti di credito.


ENG This contribution analyzes the risks of banking business with specific reference to credit risk and the regulatory tools for containing it: the Basel Accords. The focal point of the study offered is the new regulation on the classification of defaulting counterparties provided by EU Regulation no.171 / 2018 and by the EBA Guidelines (EBA / GL / 2016/07) which the Regulator introduced criteria more stringent for the definition of default positions, in order to harmonize the prudential regulation of a community matrix. The new regulations must be applied by January 1, 2021 and already threatens to upset the Bank-Customer relationship as well as the financial statements of credit institutions.

Sommario: 1. Premessa;  2. I rischi intrinseci all’attività bancaria; 3. Le componenti del rischio di credito; 4. Strumenti normativi per contenere il rischio di credito: gli accordi di Basilea; 5. Contesto normativo e default; 6. La nuova definizione di default; 7. Nuove soglie di rilevanza per la classificazione di un’esposizione a default 8. I criteri di calcolo dei giorni di scaduto; 9. Elementi indicativi di probabile inadempimento; 10. Ritorno in bonis; 11. Il “contagio” del default; 12. Conclusioni.

1. Premessa

L’esercizio del credito ha rappresentato storicamente, e rappresenta tutt’oggi, il cuore dell’attività della Banca, esaltandone la funzione di intermediario finanziario e di propulsore dell’economia il cui intervento risulta mai neutrale. La funzione svolta dal credito bancario nei processi che governano la crescita della società e il progresso economico è comprovata dalla storia dello sviluppo dei moderni sistemi economici, a cominciare da quelli che a partire dalla seconda metà del XVII secolo sono stati interessati dal noto fenomeno della “Rivoluzione Industriale” per arrivare al ruolo centrale svolto dal credito bancario nei processi di sviluppo delle economie emergenti, ove la costituzione di un’articolata e capillare infrastruttura creditizia è presupposto ineludibile per l’avvio e il consolidamento dei processi in questione. A fronte di queste evidenze occorre osservare, inoltre, come nel corso del passato decennio la funzione svolta dal credito bancario sia andata evolvendosi quantitativamente e qualitativamente per effetto dei processi di innovazione e globalizzazione finanziaria. L’importanza dell’attività di impiego si rileva anche indagando le dinamiche interne agli istituti bancari, difatti, l’erogazione dei prestiti arreca un contributo decisivo agli equilibri della gestione bancaria influendo tanto sull’aspetto economico, in termini di redditività, quanto sulla dinamica finanziaria, attraverso il mantenimento di idonee condizioni di liquidità. È pacifico che l’attività di prestito non è un’attività a basso rischio, anzi, ad essa è connessa un’ampia tipologia di rischi raggruppati nella macrocategoria dei “rischi finanziari” che, in quanto tali, non possono essere allocati in capo ad altro soggetto ma sopportati dall’ente creditizio. La più importante componente di rischio connessa all’attività di impiego è certamente il rischio di credito che si sostanzia nell’eventualità che l’Istituto erogatore non venga rimborsato nelle modalità e nei termini previsti contrattualmente. A fronte di tale rischio si pone per la Banca la necessità di valutare, preliminarmente all’erogazione di un prestito, la capacità di rimborso del richiedente e solo in caso di giudizio positivo, circa l’affidabilità del cliente, la domanda di credito dovrà essere accolta. Terminata la fase iniziale di screening alla banca fa capo una duplice esigenza: quella di procedere ad una revisione periodica del credito concesso, al fine di mantenere sotto controllo i processi di cambiamento che possono aver luogo presso la clientela affidata e che possono portare ad una modifica del suo profilo di rischio; nonché la necessità di monitorare in via continuativa il comportamento del soggetto affidato al fine di cogliere quanto prima possibile i sintomi di tensioni finanziarie o di difficoltà gestionali che impongono all’istituto di credito l’assunzione di tempestive decisioni a tutela dei propri interessi.

Da questa breve premessa emerge l’importanza dell’esercizio del credito che trova un espresso riconoscimento nella Carta Costituzionale all’art. 47, e che costituisce uno strumento indispensabile per il progresso sociale e per il pieno e libero sviluppo della personalità individuale. Parimenti evidente è la necessità di contenere il rischio connaturato all’esercizio del credito a tutela dell’integrità del sistema economico. Per contemperare queste contrapposte esigenze, i moderni sistemi economici hanno dato vita ad un impianto normativo che progressivamente ha individuato strumenti legislativi, sempre più precisi, volti a minimizzare il rischio di credito e tesi a limitare i risvolti patologici di un eventuale default. Proprio su tale ultimo fronte si registrano le più importanti novità, che di seguito illustreremo, offrendo preliminarmente una panoramica sui rischi connaturati all’attività bancaria e sui principali strumenti normativi di contenimento.

2. I rischi intrinseci all’attività bancaria

L’Articolo 10, comma 1, del Testo Unico Bancario contiene la definizione di “attività bancaria”, consistente nella “raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito. Tale attività ha carattere di impresa ed è riservata alle banche: esse possono esercitare, oltre a quella bancaria, ogni altra attività finanziaria nonché le attività connesse e strumentali, salvo quelle per cui è prevista riserva di legge”.

Da tale norma si desume come gli intermediari bancari nello svolgimento della loro attività caratteristica assumano una funzione fondamentale per l’esistenza e lo sviluppo dei moderni sistemi economici, ovvero trasferiscono risorse finanziarie da soggetti che presentano un surplus monetario a coloro che le richiedono, ponendosi come controparte di entrambi. Questa funzione, indicata come “intermediazione creditizia”, viene quindi esercitata dalle banche tramite la raccolta di fondi da parte dei risparmiatori e la simultanea concessione di prestiti ad imprese e famiglie al fine di soddisfarne le necessità di investimento e consumo.

Indubbio che una certa componente di rischio è intrinseca ad ogni forma di attività d’impresa, dato il carattere di aleatorietà di quest’ultima che fa sì che il risultato di un’operazione misurato ex-post possa risultare diverso da quello che ci si attendeva ex-ante, ciò risulta amplificato con riferimento all’attività bancaria, quale attività d’impresa che si basa sul trasferimento temporale di elementi come il credito e la moneta, soggetti per loro stessa natura alla possibilità di subire variazioni nel loro valore. Nello specifico, i rischi tipici connessi allo svolgimento dell’attività degli intermediari creditizi possono essere raggruppati in tre categorie principali: il rischio di mercato, il rischio di liquidità e il rischio di credito.

Per quanto concerne il rischio di mercato, questo consiste nell’oscillazione dei prezzi delle attività finanziarie (in particolare del tasso d’interesse, del tasso di cambio e delle quotazioni azionarie) e si sostanzia tipicamente nel c.d. trading book[1], componente di rischio che impatta sul grado di negoziabilità dello strumento finanziario determinando l’insorgere di possibili perdite a seguito della dismissione di posizioni detenute a fini di negoziazione ovvero intenzionalmente destinate ad una vendita nel breve termine e/o assunte allo scopo di trarre beneficio, nel breve periodo, di eventuali variazioni dei prezzi; e nel c.d. banking book[2], parte del rischio di mercato legata all’oscillazione dei tassi d’interesse e alle ripercussioni sul rendimento dei prestiti in essere e nel costo dei depositi il cui tasso di rendimento era stato negoziato in precedenza.

Il rischio di liquidità, invece, si manifesta in seguito all’incapacità della controparte di adempiere puntualmente ai propri impegni nei termini contrattualmente previsti, provocando uno squilibrio negli afflussi di cassa attesi dall’ente creditizio e dunque l’insorgere di possibili situazioni di illiquidità. Tecnicamente, esso può trovare origine nel funding liquidity risk, ovvero il rischio di non riuscire a fronteggiare adeguatamente eventuali uscite di cassa, e nel market liquidity risk, identificabile nell’impossibilità di convertire prontamente in liquidità un’attività finanziaria senza sostenere costi elevati.

Viceversa, per quanto attiene al rischio di credito, adottando una definizione largamente condivisa in ambito accademico, si intende il rischio che nell'ambito di un'operazione creditizia il debitore non assolva, anche parzialmente, ai suoi obblighi di rimborso del capitale e/o al pagamento degli interessi. La concessione di prestiti determina per la banca un’erogazione di risorse finanziarie a fronte della quale si pone il diritto ad ottenere, a scadenza futura, il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi e delle commissioni secondo quanto contrattualmente stabilito. Pertanto, alla banca possono derivare pregiudizi in caso di mancato o ritardato rimborso (totale o parziale) di un prestito, con evidenti conseguenze negative osservabili sia sul piano reddituale, sia finanziario nonché in caso di deterioramento della capacità di rimborso della clientela, quand’anche questa non si manifesti con inadempimenti contrattuali ma, per esempio, con un decadimento della redditività gestionale o con l’aumento dei rischi aziendali. In tali circostanze, infatti, il valore delle attività rappresentate dai prestiti tende a diminuire perché il tasso di attualizzazione da applicarsi ai flussi futuri per la stima del valore medesimo deve essere aumentato per tener conto del maggiore livello di rischiosità. Risulta dunque evidente come il decadimento della qualità del credito erogato determini conseguenze di rilievo in termini di valore delle attività, con implicazioni negative sulla redditività gestionale della banca e, quando esso sia particolarmente grave, sulla solvibilità della banca medesima. A fronte di tale rischio, la dottrina e la stessa prassi bancaria rimarcano l’importanza che assumono un’adeguata diversificazione del portafoglio prestiti e l’adozione e il mantenimento nel tempo di idonei criteri e procedure per la valutazione, la selezione, il monitoraggio e il controllo della clientela affidata.

3. Le componenti del rischio di credito

L’esercizio del credito espone la banca al rischio di subire perdite parziali o totali del capitale concesso in prestito, perdite che possono essere attese o inattese. In base a quest’ultima distinzione è possibile individuare essenzialmente due componenti di tale rischio: la perdita attesa, expected loss, e la perdita inattesa, unexpected loss. Tuttavia, solo la componente inattesa del rischio di credito costituisce una vera e propria fonte di rischio giacché le perdite attese devono essere stimate ed incluse negli accantonamenti prudenziali e nell’attività di pricing[3] effettuata a priori dalle banche. La perdita attesa dunque, potendo essere stimata ex-ante, si configura come una componente di costo già inclusa nelle aspettative dell’istituto di credito. La perdita attesa rappresenta il valore medio della distribuzione delle perdite che un’istituzione creditizia si attende di subire su un portafoglio di prestiti. Essa rappresenta la perdita, e quindi il costo, che la banca si aspetta ex ante di dover sostenere per l’esposizione creditizia nei confronti di un determinato portafoglio. La Probability of Default indica la probabilità che la controparte dell’esposizione versi in stato di default entro un orizzonte temporale definito. È, pertanto, una misura della rischiosità del debitore che viene riflessa nel suo merito creditizio.  

La perdita inattesa può, invece, essere definita come “la variabilità della perdita attorno al suo valore atteso (la perdita attesa)”. Tale componente rappresenta la vera fonte di rischio di credito per la banca erogatrice in quanto indica l’eventualità che la perdita, a posteriori, si riveli maggiore di quella stimata ex ante, in sede di affidamento, e pertanto non trovi adeguata copertura nella componente di spread applicata sul tasso attivo del prestito in esame. Alle due diverse accezioni di perdita, corrispondono parimenti diverse ripercussioni dal punto di vista delle politiche di bilancio dell’istituto creditizio, in particolare per quanto riguarda la modalità di copertura delle stesse: le perdite attese saranno coperte mediante accantonamenti periodici costituiti dalle rettifiche di valore sui crediti imputate in conto economico (svalutazioni), pertanto rappresentano delle voci di costo nel bilancio dell’istituto creditizio, mentre le perdite inattese invece devono trovare corrispondente copertura in un’adeguata dotazione patrimoniale della banca erogatrice, la quale deve essere in grado di assorbirle.

4. Strumenti normativi per contenere il rischio di credito: gli accordi di Basilea

Data la rilevanza che l’attività di prestito assume rispetto al totale delle attività svolte dalle banche, il rischio di credito, generato dall’attività di prestito, finisce per costituire uno dei principali fattori di rischiosità e per divenire una delle più diffuse cause di crisi bancaria. Ne è riprova lo storico fallimento della banca tedesca Bankhaus Herstatt[4], datato 26 giugno 1974, che ha segnato un punto di svolta nella gestione normativa del rischio di credito, rendendo evidente la necessità di un accordo internazionale volto al rafforzamento della stabilità del sistema bancario ed all’introduzione di requisiti patrimoniali minimi omogenei per gli istituti creditizi. Alla fine di quell’anno, i governatori delle Banche Centrali dei paesi membri del G-10[5] insieme a Lussemburgo e Spagna, diedero vita al Comitato di Basilea[6] con lo scopo di promuovere la cooperazione internazionale sul tema della vigilanza prudenziale, predisporre una serie di standard minimi di solvibilità per le banche e rafforzare la stabilità e l’affidabilità del sistema finanziario. Sin da allora il Comitato agisce tramite la produzione di linee guida, raccomandazioni, best practices ed accordi che, pur non risultando formalmente vincolanti, sono stati oggetto di recepimento, con modalità divergenti tra una nazione e l’altra, da parte non solo dei paesi aderenti ma anche di molte altre nazioni che pur non essendo rappresentate in seno al Comitato hanno adottato gli Accordi di Basilea come standard di regolamentazione bancaria. Il primo importante traguardo raggiunto dal Comitato ha riguardato il raggiungimento, da parte delle banche, di un requisito patrimoniale minimo a fronte dei rischi insiti nelle loro attività. Tale richiesta è stata formalmente avanzata nel 1988 con il c.d. “Accordo di Basilea I” che ha introdotto l’obbligo di adozione del cd. “coefficiente di solvibilità” in base al quale il patrimonio minimo di vigilanza delle banche doveva essere pari all’ 8%  dell’attivo ponderato in relazione al rischio di perdita per inadempimento dei debitori. Il patrimonio di vigilanza era suddiviso in due blocchi: il patrimonio di base o Tier 1, pari ad almeno il 50% del total capital, comprendente il capitale azionario versato, le riserve palesi e una serie di possibili strumenti più o meno innovativi di capitalizzazione dotati di caratteristiche conformi alle linee fissate dal Comitato di Basilea e il patrimonio supplementare o Tier 2, pari al massimo al 100% del Tier 1, costituito dalle riserve da rivalutazione, dalle riserve occulte, dagli accantonamenti generici a fondi rischi su crediti, dagli strumenti ibridi di patrimonializzazione e dai prestiti subordinati ordinari di durata pari o superiore a 5 anni. Ai fini dell’applicazione di tale coefficiente, i crediti venivano ripartiti in alcune classi in base al loro rischio teorico e ad ognuna di esse veniva attribuita una ponderazione crescente in funzione del rischio di credito che andava dallo 0% per finanziamenti concessi a Stati sovrani caratterizzati da alto livello di affidabilità, sino al 100% per i normali crediti a imprese non assistiti da garanzie, e al 200% per i crediti oggetto di contenzioso.

Il coefficiente di solvibilità individuato dall’accordo di Basilea I costituiva un’evoluzione rispetto ai coefficienti dimensionali di solidità precedentemente in uso, i quali rappresentavano requisiti minimi di patrimonio rispetto al totale delle attività (senza prevedere ponderazioni per il rischio), e che per tale ragione avevano mostrato grossi limiti in quanto spingevano le banche ad effettuare operazioni di c.d. “arbitraggio regolamentare” aumentando le componenti più rischiose dell’attivo per incrementare i ricavi a parità di dimensione dell’esposizione con il risultato che si accresceva la mole di rischi assunti anziché limitarli. Nonostante, dunque, l’Accordo del 1988 abbia svolto un ruolo importante nel delineare l’odierna architettura del sistema finanziario internazionale esso non è stato immune da critiche. I principali limiti rinvenuti nel primo quadro regolamentare promosso dal Comitato di Basilea riguardavano anzitutto la gamma di ponderazioni da applicare alle varie tipologie di esposizioni, le quali non erano sufficientemente articolate e, pertanto, non adatte a differenziare sufficientemente i diversi profili di solvibilità dei debitori; così come la formula di calcolo del requisito patrimoniale appariva statica rispetto alle diverse fasi congiunturali e al ciclo economico.

Il riconoscimento di tali limiti spinse il Comitato ad un processo di riforma del sistema di adeguatezza patrimoniale che ebbe come risultato, nel 2004, la stipula del “Nuovo Accordo sui requisiti minimi di capitale firmato a Basilea”, meglio noto con il nome di Basilea II. Il testo dell’Accordo è stato in seguito recepito dai vari ordinamenti nazionali, entrando in vigore nel nostro Paese a partire dal 2007[7]. Pur mantenendo inalterati i principi basilari sui quali si fondava la vecchia disciplina, con il nuovo Accordo si è avuto un processo di riforma che non intaccava solamente i requisiti patrimoniali, estendendosi alla definizione del ruolo degli organi di vigilanza nazionale ed alla disciplina di mercato. Lo scopo principale è stato quello di assicurare una maggiore copertura dei rischi ed una loro più attenta misurazione, facendo leva soprattutto sugli strumenti e le tecniche presenti all’interno delle banche. La struttura della regolamentazione prudenziale introdotta con Basilea II si basa su “tre pilastri” o pillar.

Il primo pilastro introduce un requisito patrimoniale. Rispetto allo schema proposto dall’Accordo del 1988, se da un lato rimane sostanzialmente invariata la richiesta di una dotazione di capitale di vigilanza pari almeno all’8% delle attività ponderate per il rischio, dall’altro si registrano importanti novità per quanto riguarda la gamma di rischi considerati e le modalità che le banche possono adottare per individuarli e misurarli. In particolare, mentre il primo accordo contemplava esplicitamente solo due tipologie di rischio (il rischio di credito e, in un secondo momento[8], quello di mercato), con Basilea II trova espresso riconoscimento anche un insieme di rischi derivanti dall’inadeguatezza o dal malfunzionamento della struttura organizzativa bancaria ricompresi sotto la nomenclatura di “rischio operativo”. Il secondo pilastro richiede alle banche di dotarsi di una strategia e di un processo di controllo dell’adeguatezza patrimoniale, attuale e prospettica, risaltando il ruolo dell’autorità di vigilanza e rimettendo a questa il compito di verificare l’affidabilità e la coerenza dei relativi risultati e di adottare, ove la situazione lo richieda, le opportune misure correttive[9]. Il terzo pilastro introduce obblighi di informativa al pubblico riguardanti l’adeguatezza patrimoniale, l’esposizione ai rischi e le caratteristiche generali dei relativi sistemi di gestione e controllo. Tale pilastro ha introdotto la c.d. “disciplina di mercato” che dovrebbe portare il mercato, e non più soltanto l’autorità di vigilanza a penalizzare, mediante un maggior costo del reperimento di risorse finanziarie, gli operatori meno capaci nell’assumere, nel misurare e nel fronteggiare i rischi con un’adeguata dotazione patrimoniale. La ratio di tale disciplina trova fondamento nella convinzione che il mercato premi la trasparenza informativa permettendo alle banche più virtuose di finanziarsi a condizioni più favorevoli, penalizzando invece gli istituti meno capitalizzati.

La disciplina introdotta da Basilea II rafforza, inoltre, il legame tra requisiti di carattere patrimoniale e profili organizzativi, valorizzandone le sinergie tanto nella gestione delle banche quanto nella valutazione e negli interventi di carattere prudenziale. Per quanto concerne lo specifico trattamento previsto per il rischio di credito, il Nuovo Accordo di Basilea II ha recepito diverse delle critiche delle quali era stato oggetto il testo del 1988 attribuendo un ruolo fondamentale all’assegnazione del rating, espressione del merito creditizio della controparte dell’esposizione. In tal senso, la novità introdotta dallo schema regolamentare del 2004, è stata la previsione della facoltà, per gli istituti creditizi, di affiancare all’uso dei rating esterni emessi dalle agenzie specializzate (ECAI – External Credit Assessment Institution[10]) anche la possibilità di produrre internamente un giudizio sul merito creditizio delle controparti. La definizione di Default rappresenta uno dei punti essenziali della disciplina introdotta da Basilea II, in particolare per l’applicazione del metodo dei rating interni; il concetto di default è infatti necessario per la stima di tutti i parametri di rischio (ad eccezione della scadenza).

Nell’ambito dello schema regolamentare previsto da Basilea II la definizione di insolvenza (o default) si basa su due criteri[11]: il primo, definito “soggettivo”, prevede la valutazione della capacità del debitore di adempiere in modo puntuale alle obbligazioni contrattuali; il secondo criterio, definito “oggettivo”, sancisce che i crediti scaduti da oltre 90 giorni, su qualunque obbligo di debito materiale con il gruppo bancario di riferimento, configurano il verificarsi dell’insolvenza. In proposito, Banca d’Italia, nell’ambito dei margini di discrezionalità che gli sono propri, ha previsto per i crediti retail e nei confronti di enti del settore pubblico che il limite di 90 giorni venga elevato a 180. Inoltre, le banche italiane potranno applicare il limite dei 180 giorni anche ai crediti del portafoglio corporate per un periodo transitorio di 5 anni.

Nel corso del 2013 è stata trasposta nell’ordinamento dell’Unione Europea l’ulteriore riforma degli accordi del Comitato di Basilea – nota come Basilea III- volta a rafforzare la capacità delle banche di assorbire shock derivanti da tensioni finanziarie ed economiche, indipendentemente dalla loro origine, riducendo in tal modo il rischio di contagio dal settore finanziario all’economia reale. L’ampio programma di iniziative avviato dal Comitato riflette l’esperienza maturata nel corso della crisi finanziaria del 2008. Tramite questo programma di riforme il Comitato ha inteso altresì migliorare la gestione del rischio e la governance delle banche, nonché rafforzare la loro trasparenza e informativa. Nel fare ciò il Comitato ha mantenuto l’approccio basato su tre pilastri, che era alla base dell’Accordo sul Capitale, integrandolo e rafforzandolo per accrescere quantità e qualità della dotazione di capitale degli intermediari finanziari, introducendo strumenti di vigilanza anticiclici, regole sulla gestione del rischio di liquidità e sul contenimento della leva finanziaria.

In ambito comunitario i contenuti di Basilea III, sono stati recepiti tramite due atti normativi: la Direttiva 2013/36/UE del 26 giugno 2013 (Capital Requirements Directive IV o CRD IV), che disciplina fra l’altro le modalità per l’accesso all’attività bancaria, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, il processo di controllo prudenziale, le riserve patrimoniali addizionali e il  Regolamento UE n.757/2013 del 26 giugno 2013 (Capital Requirements Regulation o CRR), che disciplina gli strumenti di vigilanza prudenziale del primo pilastro e le regole di informativa al pubblico del terzo pilastro. Alla normativa europea si affiancano le disposizioni emesse dalla Banca d’Italia con la Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 che raccoglie le disposizioni di vigilanza prudenziale, riferibili alle banche e ai gruppi bancari italiani, riviste e aggiornate per adeguare la normativa nazionale alle novità intervenute nel quadro regolamentare internazionale con particolare riguardo al nuovo assetto normativo e istituzionale della vigilanza bancaria dell’Unione Europea. La nuova versione dell’Accordo si muove su due fronti: la regolamentazione di tipo microprudenziale e quella macroprudenziale. A livello microprudenziale si è rafforzata la capacità delle banche di resistere a situazioni di stress estremo. La “Grande Recessione”[12] ha, infatti, evidenziato come gli istituti creditizi fossero impreparati ad affrontare un evento di tale portata. Le nuove regole introdotte da Basilea III hanno avuto un impatto non solo sull’ammontare di patrimonio da detenere ai fini di vigilanza, ma anche sulla qualità degli strumenti finanziari ammessi alla composizione del patrimonio stesso, includendo una definizione più stringente dei requisiti minimi che devono possedere tali strumenti. A livello macroprudenziale, l’obiettivo del nuovo impianto regolamentare è stato il contenimento del rischio sistemico, ovvero il rischio che uno shock circoscritto al sistema finanziario possa portare ad una destabilizzazione dell’intero sistema economico diffondendosi per mezzo delle numerose interconnessioni esistenti tra le varie istituzioni finanziarie, in particolare tra quelle sistematicamente rilevanti. Dal punto di vista operativo, con l’adozione di Basilea III sono stati introdotti nuovi indicatori di liquidità, viene richiesto alle banche il raggiungimento di adeguati livelli di liquidità allo scopo di sopportare eventuali deflussi di cassa che potrebbero tradursi in situazioni di stress nell’arco temporale di un mese (è il caso dell’indicatore di Liquidity Coverage Ratio – LCR) e di un anno (Net Stable Fundig Ratio – NSFR). Il Terzo Accordo sul capitale ha inoltre previsto una nuova definizione del capitale di vigilanza. Sebbene permanga la richiesta di un coefficiente di solvibilità pari all’8% delle attività ponderate per il rischio, si modifica la nozione di capitale di vigilanza e la qualità degli strumenti finanziari ammessi alla sua composizione. Nel dettaglio, il capitale ai fini di vigilanza è dato dalla somma di due elementi: il Capital Tier 1 – patrimonio di base - che deve rappresentare in qualsiasi momento almeno il 6% delle attività ponderate per il rischio (in Basilea II era il 4,5%). Esso è composto a sua volta da due elementi distinti: il Common Equity Tier 1 (CET1), considerato la forma di capitale con la qualità più elevata, deve costituire in ogni momento perlomeno il 4,5% delle attività ponderate per il rischio ed è formato da azioni ordinarie, riserve da sovrapprezzo, utili ritenuti, riserve di rivalutazione ed una serie di ulteriori aggiustamenti normativi e l’Additional Tier 1, composto da strumenti patrimoniali che, pur non avendo i requisiti per essere ammessi nel CET1, hanno piena capacità di assorbire le perdite. Al Capital Tier 1 va poi aggiunto il Capital Tier 2 – Patrimonio supplementare.

Tra le altre novità introdotte da Basilea III merita, poi, una menzione particolare la previsione dell’obbligo di detenzione di un buffer[13] di conservazione del capitale, costituito da strumenti di common equity, fino ad un importo del 2,5% delle attività ponderate per il rischio. Gli scopi perseguiti sono essenzialmente due: assicurarsi che le banche siano in grado di assorbire le perdite conseguenti a periodi di stress duraturi, e mitigare la prociclicità[14] del settore finanziario, assicurando che le banche accumulino un capitale aggiuntivo rispetto ai minimi regolamentari. Viene inoltre disciplinata l’introduzione di un nuovo requisito il c.d. “leverage ratio”, calcolato come il rapporto tra il Capital Tier 1 e la “Total Exposure”, ovvero la somma di tutte le esposizioni ed asset fuori bilancio che non rientrano nel calcolo del Capital Tier 1, tale rapporto deve essere in ogni momento superiore o uguale alla soglia del 3%.

Dunque, le regole introdotte con Basilea III pur non intervenendo formalmente sul requisito patrimoniale in termini di total capital ratio, che resta pari all’ 8%, consentono anzitutto di migliorare la qualità del capitale delle banche, con riguardo soprattutto alle due componenti del Tier 1, e, in secondo luogo, di aumentare la dotazione patrimoniale delle stesse.

5. Contesto normativo e default

Il Regolamento dell’Unione Europea del 26 giugno 2013, n. 5751 sui requisiti di capitale delle banche (c.d. Capital Requirements Regulation – CRR ) introduce all’art. 178 specifiche disposizioni sul default di un debitore, dando mandato all’Autorità Bancaria Europea (EBA) di emanare le linee guida sull’applicazione della definizione di default e alla Commissione Europea di adottare un Regolamento delegato circa la misura della “soglia di rilevanza” delle esposizioni c.d. in arretrato, sulla base delle norme tecniche di regolamentazione pubblicate dall’EBA. Il 28 settembre 2016, l’EBA ha pubblicato le linee guida in materia di definizione di default e contestualmente le norme tecniche sulla cosiddetta “soglia di rilevanza”. La Commissione Europea con il Regolamento delegato (UE) n. 171 del 19 ottobre 2017 ha, quindi, specificato i criteri per la fissazione della soglia di rilevanza, a cui si dovranno attenere le autorità di vigilanza. Sulla base di tali indicazioni, poi, Banca d’Italia ha emanato la Comunicazione 26 giugno 2019 attraverso la quale ha dato notizia delle modifiche introdotte ed ha novellato, in ossequio al predetto Regolamento delegato e agli orientamenti sull’applicazione della definizione di default ex art. 178 del Regolamento (UE) n. 575/2013 (EBA/GL/2016/07, di seguito GL), il paragrafo relativo alla qualità del credito della Circolare n.272, meglio nota come “Matrice dei conti”. Le modifiche attengono ai seguenti profili[15]:

  • ai fini dell’identificazione e classificazione delle esposizioni creditizie deteriorate è richiesto che le banche tengano anche conto di quanto previsto dalle Linee Guida sull’applicazione della definizione di default;
  • le esposizioni creditizie deteriorate devono, durante il “cure period” di 3 mesi previsto dal paragrafo 71 delle Linee Guida, continuare a essere segnalate nelle pertinenti categorie nelle quali le stesse si trovavano;
  • le soglie di rilevanza (relativa e assoluta) al superamento delle quali decorre il conteggio dei giorni di scaduto sono allineate a quanto previsto dal RD e dalla Circolare n. 285 della Banca d’Italia;
  • non è più possibile compensare le esposizioni scadute e/o sconfinanti esistenti su alcune linee di credito con i margini disponibili esistenti su altre linee di credito concesse al medesimo debitore;
  • sono recepiti una serie di trattamenti specifici previsti dalle Linee Guida, ad esempio in materia di operazioni di factoring e di esposizioni di natura commerciale verso le amministrazioni centrali, le autorità locali e gli organismi del settore pubblico.

Di converso, risultano automaticamente modificate le disposizioni della Circolare n. 115 del 7 agosto 1990 “Istruzioni per la compilazione delle segnalazioni di vigilanza su base consolidata” e la Circolare n.262 del 22 dicembre 2005 “Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione”, per effetto dei rinvii previsti dalle stesse, alla Matrice dei conti.

6. La nuova definizione di default

L’articolo 178 del Regolamento (UE) n. 575/2013 disciplina la definizione di default prudenziale. Un debitore è considerato in stato di default quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:

  1. condizione soggettiva, “unlikeliness to pay” – l’intermediario giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quale l’escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alla sua obbligazione;
  2. condizione oggettiva, “past-due criterion” – il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni consecutivi nel pagamento di un’obbligazione rilevante;

Il Regolamento Delegato stabilisce i criteri rispetto ai quali un’esposizione creditizia scaduta va considerata rilevante e, quindi, in stato di default secondo la condizione oggettiva, indicando inoltre i termini assoluti e relativi per l’applicazione della soglia ai fini prudenziali. Con funzione integrativa rispetto al Regolamento Delegato, le GLs[16] specificano i criteri di calcolo dei giorni di scaduto per la classificazione a default, i criteri di uscita dallo stato di default, gli indicatori qualitativi e quantitativi da considerare ai fini dell’identificazione del probabile inadempimento. Occorre precisare che il Regolamento Delegato e le Linee Guida si applicano a tutti gli enti, a livello individuale e consolidato, a prescindere dall’approccio utilizzato per il calcolo del rischio di credito[17].

Gli orientamenti EBA specificano al paragrafo 11 le modalità mediante cui, gli enti che utilizzano il modello basato su rating interni, devono applicare per la prima volta tali orientamenti. È richiesto loro di valutare e conseguentemente rettificare, ove necessario, i propri sistemi di rating, in modo che le stime dei parametri di rischio rispecchino la nuova definizione di default, effettuando:

  • ove possibile, la rettifica dei dati storici sulla base della nuova definizione di default;
  • la valutazione della rilevanza dell’impatto, su tutti i parametri di rischio e sui requisiti di fondi propri, della nuova definizione di default e la comparazione con la definizione precedente, ove applicabile, dopo aver effettuato le pertinenti rettifiche dei dati storici;
  • la previsione di un ulteriore margine di cautela nei propri sistemi di rating, in modo da considerare possibili distorsioni delle stime di rischio derivanti dalla discordante definizione di default nei dati storici utilizzati per i modelli.

7. Nuove soglie di rilevanza per la classificazione di un’esposizione a default

Ai sensi dell’art. 178, comma 2, lettera d) della CRR: “la rilevanza di un’obbligazione creditizia in arretrato è valutata rispetto ad una soglia fissata dalle autorità competenti. Tale soglia riflette il livello di rischio che l’autorità competente ritiene ragionevole.” La Commissione con il Regolamento Delegato ha adottato le norme tecniche di regolazione dell’EBA[18], prevedendo che le soglie di rilevanza siano espresse:

  • In termini assoluti[19]: 100 euro per le esposizioni al dettaglio[20] e 500 euro per le altre esposizion. Le Autorità competenti possono prevedere un ammontare inferiore.
  • In termini relativi[21]: 1% dell’importo complessivo di tutte le esposizioni del cliente verso la banca (cd. esposizione lorda)[22].

Un’esposizione scaduta va considerata rilevante solo se supera entrambe le soglie assoluta e relativa.

8. I criteri di calcolo dei giorni di scaduto

Il Regolamento Delegato prevede che la classificazione a default avvenga al superamento delle soglie di rilevanza per 90 giorni consecutivi[23].

Il conteggio dei giorni consecutivi di scaduto inizia solo dopo il superamento delle soglie di rilevanza. Le Linee Guida EBA specificano che il conteggio ai fini della classificazione a default decorre dalla data in cui “l’importo del capitale, degli interessi o delle commissioni non sia stato pagato alla data in cui era dovuto[24] vale a dire dal momento in cui esso diviene esigibile in base al diritto a esso applicabile. Per il calcolo dei giorni di arretrato è specificato che:

  • nel caso in cui il contratto di credito preveda una modifica del programma dei pagamenti, il conteggio dei giorni di arretrato si basa sul nuovo programma;
  • nel caso in cui il rimborso dell’obbligazione sia sospeso in virtù di una normativa che preveda questa possibilità o in virtù di altre restrizioni legali, il conteggio dei giorni di arretrato è sospeso durante tale lasso di tempo;
  • nel caso in cui il rimborso dell’obbligazione sia oggetto di una controversia tra debitore e l’ente, il conteggio dei giorni di arretrato è sospeso sino alla soluzione della controversia.

Il termine dei 90 giorni è esteso a 180 giorni dal superamento di entrambe le soglie se:

  • tutte le esposizioni incluse nel calcolo dell'obbligazione creditizia in arretrato sono garantite da immobili residenziali o da immobili non residenziali di PMI[25];
  • le esposizioni incluse nel calcolo dell'obbligazione creditizia in arretrato sono esposizioni verso organismi del settore pubblico.

Specifiche indicazioni sono anche fornite per il conteggio dei giorni di scaduto nel caso di operazioni di factoring[26].

Essenziale è che il calcolo della somma di tutti gli importi arretrati connessi a un’obbligazione creditizia del debitore verso l’ente, verso la sua impresa madre o verso una delle filiazioni del suddetto debitore venga effettuato con una frequenza che consenta la tempestiva identificazione del default[27].

Se il debitore risponde al criterio di arretrato, tutte le esposizioni verso di questi sono considerate in stato di default a meno che non si verifichi una delle seguenti condizioni:

  1. le esposizioni sono ammissibili come esposizioni al dettaglio e l’istituto applica la definizione di default a livello di singola linea di credito;
  2. l’istituto ritiene che si sia verificata una cosiddetta “situazione tecnica di arretrato” [28].

L’art. 178 del regolamento (UE) n.575/2013 sancisce che le situazioni tecniche di arretrato non debbano essere classificate come default, per cui è necessario rettificare tempestivamente tutti gli errori riscontrati che hanno portato alla situazione tecnica di arretrato.

Un’importante novità rispetto alla disciplina passata riguarda la compensazione. La banca infatti, ai sensi della nuova disciplina, classifica in default il debitore anche se quest’ultimo presenta margini ancora disponibili su sue altre linee di credito. Tali importi non potranno più essere utilizzati per compensare gli inadempimenti in essere su altre sue posizioni.

9. Elementi indicativi di probabile inadempimento

Ai fini dell’improbabile adempimento di cui all’art. 178, paragrafo 3, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013, gli enti devono tener conto del fatto che “un debitore si trova in una situazione di improbabile adempimento nel caso in cui l’interesse connesso alle obbligazioni creditizie non sia più iscritto nel conto economico dell’istituto a causa della diminuzione della qualità creditizia dell’obbligazione”. A tal proposito l’EBA fornisce alla banca un elenco, non esaustivo, di elementi indicativi del probabile inadempimento. Dovrebbero essere considerate come risultato di un significativo scadimento del merito di credito di un’obbligazione creditizia e, di conseguenza, dovrebbero essere considerate come una indicazione dell’improbabile adempimento:

  • le rettifiche specifiche di valore sui crediti, risultato di un significativo peggioramento del merito di credito;
  • la ristrutturazione onerosa, concessioni nei confronti di un debitore che fronteggia o è in procinto di fronteggiare difficoltà nell’onorare i propri impegni finanziari. Il debitore dovrebbe essere classificato in stato di default quando le relative misure di forbearance implicano una ridotta obbligazione finanziaria (una remissione del debito o un differimento dei pagamenti) per un ammontare superiore alla soglia dell’1 %;
  • altre informazioni disponibili in possesso delle banche (ad esempio, fonti di reddito insufficiente per pagare le rate; dubbi sulla capacità di generare flussi cassa sufficienti; aumento significativo leva finanziaria[29]; etc)

10. Ritorno in bonis

Il paragrafo 31 delle Linee Guida EBA disciplina i criteri per il ritorno ad uno stato di non default. A tal fine è richiesto anzitutto che siano trascorsi almeno tre mesi dal momento in cui non ci siano più le condizioni determinanti lo stato di default. Durante tale periodo la banca è tenuta a monitorare il comportamento del debitore e la sua situazione finanziaria. Trascorsi tre mesi, l’esposizione esce dal default se la banca è soddisfatta del miglioramento della qualità creditizia del debitore. Diversamente, laddove l’ente constati ancora l’improbabile adempimento integrale delle proprie obbligazioni senza l’escussione di garanzie, le esposizioni dovranno continuare a essere classificate come in default fino a che l’ente giudichi il miglioramento della qualità creditizia come effettivo e permanente. Le Linee Guida specificano inoltre che tali condizioni devono essere verificate anche con riferimento alle nuove esposizioni verso il debitore, in particolare se le precedenti esposizioni verso il debitore, classificate a default, siano state vendute o annullate.

Infine, per le esposizioni forborne sono previste prescrizioni aggiuntive per il ritorno in bonis, ovvero, occorrerà comunque che sia trascorso almeno un anno dal momento della concessione della misura.

11. Il “contagio” del default

Il default di un’obbligazione creditizia congiunta comporta, nel caso in cui la banca applichi la definizione di default a livello di debitore, la classificazione in default di tutte le altre obbligazioni creditizie congiunte verso il medesimo insieme dei debitori nonché delle obbligazioni detenute dagli stessi singoli debitori. Il default di un singolo debitore, invece, non si estende automaticamente alle sue eventuali obbligazioni congiunte con altri debitori.

Ai sensi del paragrafo 96 del regolamento n. 575 del 2013, infatti, “gli enti dovrebbero considerare un’obbligazione creditizia congiunta come un’esposizione nei confronti di due o più debitori che sono ugualmente responsabili del rimborso dell’obbligazione creditizia. Tale nozione non si estende a obbligazioni creditizie di singoli debitori garantite da un’altra persona fisica o giuridica sotto forma di garanzia o di altra tutela del credito[30].

Qualora la banca scelga di applicare la definizione di default a livello di debitore e classifichi il debitore in stato di default anche tutte le altre banche e intermediari finanziari del gruppo di appartenenza valuteranno la possibilità di classificarlo in maniera analoga, anche nella circostanza in cui tale debitore non presenti esposizioni in arretrato verso questi ultimi, al fine di garantire l’uniformità nello stato classificativo. Inoltre, una banca appartenente ad un gruppo deve valutare l’eventuale superamento della soglia di rilevanza per oltre 90 giorni consecutivi con riferimento non solo alle esposizioni del debitore nei confronti della banca, ma anche a quelle nei confronti delle banche e degli intermediari dell’intero gruppo.

12. Conclusioni

L’evoluzione regolamentare realizzata a livello europeo negli ultimi anni, che mira al raggiungimento del cd. “level-playing field”, ha determinato per tutte le banche europee straordinari sforzi in termini di implementazioni e adeguamento dei processi amministrativi e manageriali interni ai dipartimenti di Risk Management, Accounting e Regulatory Reporting. Il processo di armonizzazione normativa, inaugurato con gli accordi di Basilea, ha previsto, da ultimo, l’introduzione di una nuova definizione di default. Come si è già avuto modo di osservare, la nuova disciplina introduce criteri più stringenti che avranno un impatto significativo anzitutto sui processi interni alla banca conseguenti ai numerosi e delicati adempimenti necessari per effettuare correttamente le segnalazioni di vigilanza (che riguardano ad esempio i default tecnici, la soglia di materialità e le misure di tolleranza) ed ulteriori conseguenze preoccupanti  si registreranno a causa dell’abbassamento della soglia di materialità relativa, che passerà dal 5% all’ 1%, e dell’introduzione di soglie assolute particolarmente basse, 100 euro per la clientela retail e 500 euro per la clientela non retail. L’effetto dirompente della normativa oggetto di approfondimento è iconograficamente rappresentato dalle risultanze di un recente studio di Crif, effettuato su un campione rappresentativo del sistema bancario, secondo il quale la nuova regolamentazione produrrà il deterioramento di posizioni finora considerate in bonis in misura pari al 7,5 % della clientela totale, un’enormità.

Si attendono conseguenze rilevanti anche in termini contabili, difatti, secondo quanto previsto dal principio contabile IFRS 9, posizioni attualmente rientrati nello Stage 1 o nello Stage 2, dovrebbero essere classificate, in seguito all’adozione dei nuovi e più stringenti criteri, nello Stage 3, determinando l’emergere di costi di natura finanziaria, costituiti da rettifiche di valore (accantonamenti) da iscrivere a conto economico e conseguenti al peggioramento del merito creditizio. L’effetto netto è una riduzione dell’utile, quindi, una contrazione della redditività. A tali costi dovranno affiancarsi, inoltre, costi di natura amministrativa e operativa connessi alla gestione delle posizioni a default. Sulla base dell’impianto prudenziale previsto da Basilea, un incremento delle insolvenze determinerà, in aggiunta, un maggiore assorbimento di capitale regolamentare, riducendo le possibilità per la banca di ampliare i propri attivi tramite, ad esempio, l’esercizio del credito. A fronte di tali evidenze si rende necessario per gli istituiti di credito implementare i processi di monitoraggio e di early warning al fine di intercettare tempestivamente segnali sintomatici di difficoltà finanziarie e, in questo modo, prevenire o contenere gli effetti del deterioramento del merito creditizio. Proprio in tal senso occorre leggere la recentissima scelta compiuta dalla Banca Nazionale del Lavoro, parte del gruppo BnpParibas, di adottare una linea rigorosa circa l’applicazione delle normativa in esame al punto che, dallo scorso 7 dicembre, i clienti del gruppo francese non possono più andare in rosso sul conto corrente pena il diniego degli addebiti automatici in assenza di adeguata liquidità sul conto. Nella comunicazione inviata dall’istituto alla clientela si precisa che il giorno della scadenza del pagamento via addebito la banca verificherà la presenza dei fondi necessari alla copertura dell’importo e, laddove, registrerà un’incapienza invierà una notifica al cliente il quale entro le 15 dello stesso giorno dovrà depositare i fondi necessari per la copertura del fabbisogno, diversamente il pagamento verrà bloccato e il consumatore risulterà moroso nei confronti del proprio creditore. Il severo meccanismo previsto da BNL, che consente di prevenire la formazione di crediti deteriorati, è solo il primo di una serie di stravolgimenti nel rapporto Banca-Cliente che la nuova definizione di default porterà con sé.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Il Trading book identifica la parte di portafoglio destinato all’attività di negoziazione. Con tale termine ci si riferisce in particolare ai titoli e agli strumenti finanziari in genere detenuti per tempi brevi.

[2] Il Banking book include tutte le attività che non sono incluse nel Trading Book. Sono incluse in esso gran parte delle attività (prestiti, depositi) detenute fino alla scadenza o comunque in un’ottica di lungo termine.

[3] L’attività di pricing attiene alla procedura di determinazione del tasso da applicare ai prestiti che si attua in varie fasi: nella valutazione del rischio, nella successiva determinazione del costo ed infine nella determinazione del prezzo.

[4] La Bankhaus Herstatt era un istituto di medie dimensioni molto attivo sui mercati valutari. In data 26 giugno 1974 venne avviata la procedura di liquidazione da parte delle autorità dell’ex Repubblica Federale tedesca a causa delle operazioni poco trasparenti in cui era coinvolta la banca.

[5] Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Olanda, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Usa.

[6] Il Comitato di Basilea prende il nome dalla città di Basilea in cui ha sede la Banca dei Regolamenti Internazionali che ospita il Comitato.

[7] In Italia la disciplina introdotta da Basilea II è stata recepita con il decreto n.297 del 27 dicembre 2006.

[8] Con l’emendamento del 1996 dell’Accordo sul capitale il Comitato di Basilea ha incorporato i rischi di mercato.

[9] Si segnala in particolare la facoltà per le Banche Centrali nazionali di richiedere, qualora lo ritengano necessario, una copertura patrimoniale superiore a quella minima.

[10] Le Agenzie esterne di valutazione del merito di credito sono istituzioni specializzate in possesso di determinati requisiti quali credibilità e indipendenza nonché oggettività e trasparenza nel giudizio circa il merito creditizio della clientela di istituzioni finanziarie che si avvalgono del metodo standardizzato per il calcolo del requisito patrimoniale.

[11] Banca d’Italia, Luglio 2006, “Metodo dei Rating interni per il calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito”.

[12] La crisi del 2008 è scoppiata negli Stati Uniti nel 2006 in seguito alla crisi dei Subprime e del mercato immobiliare.

[13] Una banca non in grado di rispettare questo requisito è assoggettata a vincoli automatici alla distribuzione di utili o al pagamento di bonus, sino a quando non sia ricostruito il cuscinetto di capitale aggiuntivo.

[14] Fenomeno per cui in periodo di espansione economica l’erogazione del credito tende ad aumentare eccessivamente, contraendosi invece nelle fasi di recessione. Ciò causa problemi alle imprese che hanno una parte rilevante dei loro finanziamenti a breve termine, in caso di crisi esse infatti non troveranno finanziamenti per sostenere le loro esigenze di liquidità.

[15] Comunicazione del 26 giugno 2019 – Segnalazioni statistiche di vigilanza e bilancio delle banche: modifiche relative alla “qualità del credito”, Banca d’Italia

[16] EBA/RTS/2016/06 “Nuove tecniche di regolamentazione relative alla soglia di rilevanza delle obbligazioni creditizie in arretrato”.

[17] Metodologia standardizzata o basata su rating interni IRB, di cui al paragrafo 1.4 del Capitolo I. L’applicazione delle Linee Guida e del Regolamento Delegato è prevista per il metodo basato su rating interni alla parte tre, titolo II, capo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013; si applica al metodo standardizzato ai sensi del rinvio all’articolo 178 contenuto nell’articolo 127 del regolamento (UE) n. 575/2013.

[18] EBA/RTS/2016/06 del 28/09/2016 «Final Report: Draft Regulatory Technical Standards on the materiality threshold for credit obligations past due under article 178 of Regulation (EU) n. 575/2013»

[19] La componente assoluta si riferisce all’importo massimo dell’esposizione creditizia in arretrato

[20] Rientrano in questa categoria le esposizioni che riguardano persone fisiche e PMI.

[21] La componente relativa è rappresentata dalla percentuale che esprime il rapporto tra l’importo dell’obbligazione creditizia in arretrato e l’importo complessivo di tutte le esposizioni verso lo stesso debitore iscritte nel bilancio dell’ente.

[22] Le autorità competenti possono individuare una soglia diversa, compresa nell’intervallo da 0 a 2,5%, nel caso ritengano che la soglia di rilevanza dell’1% non corrisponda a un livello ragionevole di rischio.

[23] Tale disposizione si applica sia per le esposizioni al dettaglio che per le esposizioni diverse dalle esposizioni al dettaglio.

[24] Paragrafo 16, Linee Guida EBA

[25] In modo conforme a quanto stabilito dall'articolo 178, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 575/2013 per tali esposizioni.

[26] “Orientamenti sull’applicazione della definizione di default ai sensi dell’art. 178 del regolamento (UE) n.575/2013”, paragrafo 27, EBA/GL/2016/07.

[27]“Orientamenti sull’applicazione della definizione di default ai sensi dell’articolo 178 del regolamento (UE) n.575/2013”, paragrafo 11, EBA/GL/2016/07.

[28]“Orientamenti sull’applicazione della definizione di default ai sensi dell’articolo 178 del regolamento (UE) n.575/2013”, paragrafo 23. Si considera verificata una situazione tecnica di arretrato esclusivamente in uno dei seguenti casi:

  • nel caso in cui un ente stabilisca che lo stato di default si è verificato quale risultato di errore a livello di dati o di sistema dell’ente, compresi errori manuali nelle procedure standardizzate, con esclusione di decisioni errate sul credito;
  • nel caso in cui un ente stabilisca che il default si è verificato in conseguenza della mancata, inesatta o tardiva esecuzione dell’operazione di pagamento disposta dal debitore, o qualora sia comprovato che il pagamento non ha avuto esito positivo a causa del mancato funzionamento del sistema di pagamento;
  • quando a causa della natura dell’operazione intercorra un lasso di tempo tra la ricezione del pagamento da parte di un ente e l’attribuzione di tale pagamento al conto interessato, per cui il pagamento è stato effettuato entro i 90 giorni e l’accredito sul conto del cliente ha avuto luogo dopo 90 giorni di arretrato;
  • nel caso specifico di accordi di factoring e di conseguente registrazione dei crediti commerciali acquistati nel bilancio dell’ente con superamento della soglia di rilevanza indicata dall’autorità competente, in conformità all’articolo 178, paragrafo 2, lettera d), del regolamento (UE) n. 575/2013, ma senza che i crediti commerciali del debitore siano scaduti da oltre 30 giorni.

[29] La leva finanziaria o rapporto d’indebitamento è un indicatore utilizzato per misurare l’indebitamento di un’azienda.

[30] “Orientamenti sull’applicazione della definizione di default ai sensi dell’articolo 178 del regolamento (UE) n.575/2013, paragrafo 96.

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