Non c’è un mercato del venture capital forense a Bruxelles. La Corte di Giustizia si pronuncia sui soci investitori nelle società tra avvocati
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Umberto Nizza
Con la sentenza Halmer UG c. Rechtsanwaltskammer München (caso C-295/23), la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il diritto europeo consente agli Stati membri di escludere investitori puramente finanziari dalle società tra avvocati. Le ragioni adotte a giustificazione di tali restrizioni risiedono nella necessità di tutelare l’indipendenza professionale e la fiducia di cittadini. La decisione solleva dubbi sulla proporzionalità e coerenza della restrizione, non avendo considerato alternative meno invasive. Ciò pone interrogativi sull’impatto della sentenza sulla frammentazione del mercato europeo del venture capital, evidenziando il conflitto tra libertà economiche e autonomia normativa
There is no forensic venture capital market in Brussels. The Court of Justice rules on investor partners in law firms.
With the judgment Halmer UG v. Rechtsanwaltskammer München, the Grand Section of the Court of Justice of the European Union ruled that European law allows Member States to exclude purely financial investors from law firms. The reasons given to justify these restrictions lie in the need to protect professional independence and public trust. While these justifications may be acceptable in principle, the decision raises concerns about the proportionality and consistency of the restriction, as it did not consider less intrusive alternatives. This raises questions about the impact of the ruling on the fragmentation of the European venture capital market, highlighting the conflict between economic freedoms and national regulatory autonomy.Sommario: 1. Introduzione; 2. Il parere dell’Avvocato Generale: Tra idiosincrasie della professione, tutela di interessi generali ed alcune “sviste” argomentative; 3. Indipendenza degli avvocati e capitali esterni: Una relazione pericolosa agli occhi dei giudici lussemburghesi; 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Con la decisione del 19 dicembre 2024 (caso C-295/23), la Grande Sezione (Chambre) della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa nel senso di permettere agli Stati membri di limitare la libertà di investimento e di venture capital nel mercato forense. La Grande Sezione (Chambre) ha infatti sancito che il diritto europeo non osta ad “una normativa nazionale che, a pena di cancellazione dall’ordine forense della società di avvocati interessata, vieti che quote sociali di tale società siano trasferite a un investitore puramente finanziario che non intenda esercitare in detta società un’attività professionale prevista da tale normativa”1. Nel bilanciamento tra margine di discrezionalità degli Stati membri e libera circolazione dei capitali e di stabilimento, la Corte di Giustizia ha sancito che il primo prevale sui secondi, in ragione di rilevanti interessi pubblici in tema di indipendenza dei difensori e di salvaguardia di obblighi professionali e deontologici.
La controversia traeva origine dalla revoca di autorizzazione all’esercizio della professione forense, da parte del Consiglio dell’ordine monacense, il Rechtsanwaltskammer München (nel prosieguo, “il Consiglio”), alla Halmer Rechtsanwaltsgesellschaft UG (di seguito “Halmer”), una società tra avvocati che era costituita nella forma di Unternehmergesellschaft (UG), ovvero di società di capitali soggetta alle norme sulla responsabilità limitata. Quest’ultima, nel marzo 2021, aveva ceduto il 51% delle proprie quote alla SIVE Beratung und Beteiligung GmbH(“SIVE”), una società a responsabilità limitata di diritto austriaco. Tale impresa non apparteneva a una delle professioni regolamentate previste dalla normativa tedesca, la Bundesrechtsanwaltsordnung (BRAO). La domanda di pronuncia pregiudiziale veniva proposta dal Bayerischer Anwaltsgerichtshof (Consiglio di disciplina degli avvocati della Baviera), la quale sollevava dubbi sulla compatibilità della BRAO all’art. 63 del TFUE, per restrizione del diritto alla libera circolazione dei capitali, all’art. 15 paragrafo 3, lettere da a) a c), della direttiva 2006/123/CE (1) del 12 dicembre 2006 (anche nota come “Direttiva servizi”) o, in subordine, all’art. 49 TFUE sulla libertà di stabilimento.
Il caso della Halmer rappresenta un esempio emblematico di tensione tra incentivi economici e tutela di valori collettivi. La Corte è stata chiamata, in primis, a valutare se il caso potesse cadere nell’ambito di applicazione della libertà di stabilimento o di circolazione di capitali. Su tale aspetto i giudici lussemburghesi consideravano che il procedimento andasse inquadrato nell’ambito delle “restrizioni alla libera circolazione dei capitali”, quale conseguenza diretta del fatto che la BRAO privava, di fatto, “le società di avvocati dell’accesso a capitali che potrebbero contribuire alla loro creazione o al loro sviluppo” 2.
In secundis, la Grande Sezione (Chambre) è stata chiamata a contemperare se le restrizioni imposte dalla BRAO fossero non discriminatorie, necessarie e proporzionate. Su questi aspetti, la Corte ha stabilito che, “in assenza di armonizzazione, a livello dell’Unione, delle norme professionali e deontologiche applicabili alla professione forense, ciascuno Stato membro resta libero, in linea di principio, di disciplinare l’esercizio di tale professione sul proprio territorio”3 ma, come si vedrà nel prosieguo, restano alcune perplessità sugli argomenti posti alla base del terzo elemento, ovvero della proporzionalità delle restrizioni agli investimenti.
Rimangono aperti, su questi aspetti, alcuni interrogativi, di più ampio respiro, sulle conseguenze relative a questa ulteriore devoluzione di competenze agli Stati membri, non tanto sulle professioni forensi in sé, quanto piuttosto sugli effetti che tale decisione potrà avere sulla competitività di un mercato dei capitali e di venture capital europeo che è stato già pesantemente criticato nelle sue forme attuali in termini di frammentazione, scarsa liquidità, basso livello di capitalizzazione ed ostacoli normativi esistenti4.
2. Il parere dell’Avvocato Generale: Tra idiosincrasie della professione, tutela di interessi generali ed alcune “sviste” argomentative
Prima di procedere con una analisi più di dettaglio della sentenza, può essere interessante notare che l’Avvocato Generale (AG), nel suo parere alla Corte, sottolinea numerosi aspetti e questioni, in fatto e in diritto5, che sono poi state, nella fattispecie, accolte dalla Corte. Il parere dell’AG approfondisce i dettagli della questione posta all’attenzione della Corte, ovvero se sia ammissibile che “una società austriaca, non autorizzata a fornire servizi di consulenza legale, possa acquistare una quota del capitale sociale di una società professionale tra avvocati operante in Germania”, ovvero se sia ammissibile, ai sensi del diritto europeo, “una normativa nazionale che limita la partecipazione nelle società tra avvocati agli stessi avvocati e ad alcuni esercenti di professioni regolamentate (escludendo tutti gli altri), e riserva agli avvocati la maggioranza del capitale e dei voti”6.
La prima questione affrontata dall’AG riguarda l’inquadramento della questione di diritto in seno ad una possibile violazione, come suggerito dal giudice del rinvio, delle norme europee poste a tutela della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali. La soluzione a questo quesito va individuata, a parere dell’AG, in “un ostacolo alla libertà di stabilimento (articolo 49 TFUE), pregiudicata in via principale”. È interessante notare che, per quanto concerne l’art. 63 TFUE, “un eventuale pregiudizio alla libera circolazione dei capitali costituirebbe soltanto un effetto collaterale e secondario”, per cui la Corte si sarebbe dovuta concentrare solo sul primo aspetto7.
L’AG, nel proprio parere, tenuto conto delle osservazioni pervenute dai governi tedesco, spagnolo, austriaco e francese, intervenuti nella causa, sanciva la liceità nella scelta dei legislatori nazionali di ritenere inopportuno che investitori esterni alla professione legale (ad eccezione per alcuni membri di professioni regolamentate assimilabili) possano esercitare qualunque tipo di influenza, anche non dominante, sulla gestione di una società tra avvocati8. La ratio del divieto andrebbe quindi cercata non tanto nella volontarietà di comprimere un diritto, quanto nella protezione di interessi generali al buon funzionamento della professione forense.
Di questo parere sembra essere l’AG, il quale ritiene che “nulla impedisca a uno Stato membro di limitare l’esercizio in comune della professione legale alle società di persone, escludendo le società di capitali”, giacché ogni Stato membro rimane libero di accettare o rifiutare, secondo le proprie convenienze, la presenza di società di capitali nella professione forense9. Le restrizioni imposte dagli Stati membri, a giudizio dell’Avvocato Generale, trovano giustificazione nella tutela dell’indipendenza professionale e nel diritto dei cittadini di potersi rivolgere liberamente a un difensore10.
Pur nel riconoscimento della possibilità per gli Stati di agire autonomamente, è interessante notare che l’AG suggeriva alla Corte, in contrasto con le spinte nazionalistiche prima evidenziate, che le norme controverse “mancano della necessaria coerenza affinché la restrizione sia giustificata da motivi imperativi di interesse generale”11. La mancanza di coerenza della BRAO, a parere dell’AG, può individuarsi nel fatto che la normativa escluda dalla qualità di soci alcune professioni, nonostante soddisfino i criteri previsti dalla Direttiva 2006/123/CE, e consente invece a professionisti non avvocati - ivi incluse, come sottolineato dal giudice a quo, figure del tutto scollegate dal mondo giuridico come gli artisti o gli scrittori - di detenere quote rilevanti del capitale e dei diritti di voto, potenzialmente influenzando le decisioni societarie in modo significativo12.
Nonostante l’AG propenda per suggerire alla Corte di perseguire una politica di laissez faire, vi sono alcuni aspetti che avrebbero dovuto sollevare dubbi di natura sostanziale e accendere dei campanelli di allarme. In primis, la forte contraddizione tra risultato sperato (i.e., mantenimento dell’indipendenza degli avvocati) e restrizione di capitali non sembra superare il vaglio della valutazione del principio di proporzionalità.
Lo stesso AG solleva più di un dubbio sulla possibile coerenza tra la BRAO ed i principi di indipendenza che andrebbe a tutelare. In aggiunta, la totale incertezza sui limiti della discrezionalità nazionale rischia di generare, e di questo l’AG sembra esserne consapevole13, interpretazioni divergenti tra aree diverse dell’Unione, con la possibile apertura di conflitti tra l’autonomia normativa degli Stati membri e necessità di armonizzazione europea14, specie alla luce degli obblighi di uniformazione imposti dalla Direttiva servizi.
In secundis, pur riconoscendo dei limiti nella proporzionalità della BRAO rispetto agli obiettivi di mantenimento del buon funzionamento della giustizia e dell’indipendenza dei suoi operatori, l’AG tace su uno dei criteri più importanti sanciti dalla giurisprudenza della Corte medesima sulla Direttiva servizi. Il riferimento è, in particolare, alla valutazione di possibili misure alternative alle restrizioni in questione15. Come giustamente sottolineato dal giudice rimettente, infatti, la Halmer aveva posto in essere tutta una serie di salvaguardie statutarie all’indipendenza tra gestione economica e gestione forense dell’impresa, separando gestione operativa e contabilità finanziaria in maniera netta e precisa.
Lo statuto inoltre conteneva precise misure volte a garantire la riservatezza delle informazioni filtrate nello studio legale, garantendo, in maniera trasparente, il mantenimento degli obblighi di segretezza che venivano sollevati come bisognosi di tutela. Il ragionamento dell’AG non menziona, in ultima istanza, le possibili conseguenze positive di investimenti esterni per gli studi legali, tralasciando del tutto possibili considerazioni economiche in termini di efficienza ed innovazione16, incentrando tutto il parere sulla mera tutela di una indipendenza che, come sottolineava lo stesso giudice del rinvio – organismo peraltro composto anch’esso da avvocati e, pertanto, avente gli stessi interessi di tutela primaria dell’indipendenza della professione – risultava, nei fatti, tutelata da misure di protezione più che sufficienti17. Come si vedrà di qui a poco nel prosieguo, infatti, la mancata esplorazione di alternative e di giustificazioni concrete alle asserite ingerenze dei capitali sulle attività dei difensori nella società tra avvocati, vizia il ragionamento complessivo della sentenza, risultando parziale e, infine, paralogistico.
3. Indipendenza degli avvocati e capitali esterni: Una relazione pericolosa agli occhi dei giudici lussemburghesi
Nella sentenza in commento, la Grande Sezione (Chambre) della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come anticipato supra, ha risolto la domanda di pronuncia pregiudiziale, sollevata dal Bayerischer Anwaltsgerichtshof, l’Ordine degli avvocati bavarese, stabilendo che il diritto dell’Unione non osta a una normativa nazionale che preveda il divieto, per soggetti non appartenenti a specifiche professioni regolamentate, di detenere quote di maggioranza in società di avvocati. La sentenza si inserisce in un contesto crescente di preoccupazione europea per la mancanza di un mercato sviluppato di venture capital europeo18, a cavallo tra questioni di libertà economica e protezione di interessi pubblici di rilievo. La Corte, contrariamente al parere espresso dall’Avvocato Generale, ha optato per adottare una lettura estensiva del caso e delle questioni in gioco, vagliando la conformità della normativa tedesca al diritto europeo alla luce degli articoli 49 e 63 TFUE, giacché nessuna delle libertà fondamentali coinvolte – libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali – poteva considerarsi, nella lettura dei giudici lussemburghesi, secondaria rispetto all’altra19.
Analizzando innanzitutto la applicabilità ratione materiae della Direttiva Servizi, la Corte ha osservato che “i servizi di consulenza legale, che includono i servizi legali prestati dagli avvocati, rientrano nell’ambito di applicazione” della medesima, giacché le limitazioni imposte dalla BRAO “riguardano, in sostanza, la detenzione del capitale di una società e rientrano quindi nell’ambito di applicazione dell’articolo 15, paragrafo 2, lettera c), della medesima direttiva”20. Le condizioni imposte da quest’ultima disposizione – che devono coesistere cumulativamente – riguardano, in prima istanza, il “carattere non discriminatorio dei requisiti in questione, che non possono essere direttamente o indirettamente discriminatori in funzione della cittadinanza o, per quanto riguarda le società, dell’ubicazione della sede legale”21. In secondo luogo, le restrizioni devono assumere un carattere di necessarietà, in quanto devono “essere giustificate da un motivo imperativo di interesse generale” e, in ultima istanza, debbono essere proporzionate, ovvero “tali da garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non devono eccedere quanto necessario per conseguire tale obiettivo”22. Inoltre, la Corte, richiamando la propria giurisprudenza, ribadisce che, affinché tale proporzionalità possa essere considerata sussistente, “non dev’essere possibile sostituire tali requisiti con altre misure meno restrittive che permettano di conseguire lo stesso risultato”23.
Sul carattere discriminatorio, la Corte liquida la questione sancendo che “nessuno di essi presenta carattere discriminatorio, cosicché essi soddisfano tale condizione”24. Negli effetti, su questo punto, non sembra potersi sostenere che ci possano essere discriminazioni di “sesso, razza, origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale”25 nelle restrizioni imposte dalla BRAO, anche se si potrebbe obiettare, in prospettiva, che problemi di discriminazione si potrebbero sollevare proprio per l’applicazione di un regime differente nella procedura di costituzione di una società di capitale con capitale estero, rispetto ad altre realtà nazionali26. Sulla necessità delle norme in questione, la Corte osserva che “essi hanno lo scopo di garantire l’indipendenza e l’integrità della professione di avvocato, nonché il rispetto del principio di trasparenza e dell’obbligo del segreto professionale degli avvocati”, ricordando che “la funzione di rappresentanza dell’avvocato, che si esercita nell’interesse di una sana amministrazione della giustizia, consiste principalmente nel tutelare e difendere al meglio gli interessi del mandante, in piena indipendenza e nel rispetto della legge e delle regole professionali e deontologiche”27.
Infine, per quanto concerne la proporzionalità dei requisiti, la Grande Sezione (Chambre) osserva che questi ultimi devono essere “idonei a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito” e che “non eccedano quanto è necessario per raggiungerlo”, ovvero che “altre misure meno restrittive non consentano di conseguire lo stesso risultato”28. Nel caso in esame, le restrizioni previste dalla BRAO, mirando a tutelare l'indipendenza dell'avvocato e prevenire conflitti di interesse, impedendo che investitori esclusivamente finanziari possano influenzare le decisioni e le attività della società di avvocati, “appaiono idonei a garantire la realizzazione dell’obiettivo di tutela della sana amministrazione della giustizia e dell’integrità della professione forense”29.
Su questo ultimo aspetto, la Corte sottolinea che l’investitore puramente finanziario potrebbe influire attivamente sull'organizzazione e sulle attività di una società di avvocati, perché “potrebbe essere tentato di chiedere una riduzione dei costi o l'acquisizione di determinati clienti, minacciando eventualmente di ritirare il suo investimento”, con una minaccia che risulterebbe “sufficiente a evidenziare la capacità di influenza dell'investitore, anche se indiretta”30. Questa affermazione, alquanto apodittica, si scontra con la realtà esistente dei grandi studi legali, nei quali i partners di studio sono i primi a voler una riduzione di costi e la ricerca di una clientela capiente e particolarmente prestigiosa, proprio con il fine di massimizzare il profitto nel breve periodo31. Anzi, come osservato da attenta dottrina, l’attuale assetto societario forense e la sua chiusura al cambiamento riflettono le tensioni esistenti tra la stratificazione sociale di ampie disuguaglianze ed amplificano le rendite di posizione esistenti tra le realtà forensi più grandi e meglio strutturate rispetto ai giovani professionisti, ai quali viene impedito di far leva sul capitale esterno necessario per la creazione di un proprio studio legale con cui servire la collettività32. Inoltre, a ben vedere, la Corte non fa proprio un ragionamento di teoria economica molto spiccia: se l’investitore vuole massimizzare il proprio profitto, quest’ultimo sarà intenzionato a farlo sulla base delle regole e degli standard etici che sono propri di quel settore di mercato33, evitando che il proprio investimento sia colpito da eventuali scandali e danni reputazionali che metterebbero a serio rischio il proprio investimento34.
Nel caso degli studi legali, peraltro, si è notato che gli investitori esterni sono perfettamente consapevoli del fatto che la loro reputazione ed il valore del loro investimento siano strettamente legati alla professionalità – specie e soprattutto in termini di credibilità degli avvocati parte dello studio, anche in termini etici – e all'immagine dello studio legale in cui hanno riposto i propri capitali, evitando così di danneggiare l’immagine pubblica del loro investimento e degli stessi investitori35.
La Corte esprime poi una serie di ipotesi e dubbi riguardo alla possibilità che eventuali legami tra un investitore puramente finanziario e un cliente possano influire sul rapporto tra l'avvocato e il cliente stesso, al punto da non escludere un conflitto con le norme professionali o deontologiche36.
Sulla base di tali incertezze e tenuto conto del margine di discrezionalità di ciascuno Stato membro, la Grande Sezione (Chambre) conclude sancendo che questi ultimi hanno “il diritto di ritenere che l’avvocato non sia in grado di esercitare la sua professione in modo indipendente e nel rispetto dei suoi obblighi professionali e deontologici qualora divenga parte di una società i cui soci siano persone che, da un lato, non esercitino la professione di avvocato né nessun’altra professione soggetta a elementi di moderazione derivanti da norme professionali e deontologiche e, dall’altro, agiscano esclusivamente in quanto investitori puramente finanziari, senza alcuna intenzione di esercitare un’attività rientrante in una siffatta professione in seno a tale società”37. La conclusione della Corte, come anticipato supra, non tiene conto, nonostante ne faccia espressa menzione prima di concludere il proprio ragionamento, della necessità di vagliare, sempre ai fini del rispetto del principio di proporzionalità, della possibilità di adottare “altre misure meno restrittive” in grado di perseguire gli stessi obiettivi.
Sebbene la Corte abbia riconosciuto l’esistenza di validi motivi per limitare gli investimenti esterni nelle società tra avvocati – quali la protezione dell’indipendenza, l’imparzialità e il segreto professionale – essa ha apoditticamente assunto che il divieto di capitali esterni sia l’unica soluzione possibile, senza considerare alternative meno gravose. Stupisce, infatti, che la Grande Sezione (Chambre) sottolinei, sul finire del proprio ragionamento, che “tale normativa nazionale” – la BRAO – “priva le società di avvocati dell'accesso a capitali che potrebbero favorire la loro creazione o sviluppo” e “costituisce, di conseguenza, una restrizione alla libera circolazione dei capitali”38. Sorprende perché la giustificazione dei motivi imperativi di interesse generale – ovvero la salvaguardia di indipendenza, imparzialità e segreto professionale in ambito forense – si regge sulla mera ipotesi che non vi siano interferenze con le restrizioni in vigore. La stessa Corte, tuttavia, già dava conto del fatto che, in Germania, la “consulenza giuridica può essere fornita da società di esercizio liberale” alle quali possono partecipare “altri soggetti che esercitano le professioni elencate nell’articolo 1, paragrafo 2, della legge in materia di società di persone tra professionisti, vale a dire gli ingegneri, gli architetti, i chimici professionisti, i piloti portuali, i giornalisti, gli artisti o anche gli scrittori” 39. Si tratta, a ben vedere, di figure professionali eterogenee delle quali si dubita fortemente del possibile rispetto delle regole professionali forensi, non essendo queste applicabili a professionisti fuori del settore. Anche nella ipotesi in cui si voglia, per estensione, sancire che il segreto professionale possa essere rispettato da questi attori, si ritorna comunque alla necessità di rivedere per intero la normativa o includere alternative meno rigorose e restringenti, che abbraccino regolamentazioni interne più severe sui conflitti di interesse, modelli di governance ibridi, meccanismi di supervisione esterna, in modo tale da conciliare gli eventuali investimenti esterni con l’autonomia delle decisioni professionali dei professionisti del diritto che operano all’interno della società.
In conclusione, emergono perplessità sulla logicità dei ragionamenti portati avanti dai giudici della Grande Sezione (Chambre) che – sebbene tuteli principi fondamentali dell’ordinamento quali l’indipendenza forense e il buon andamento della giustizia – non considera in alcun modo la possibilità di favorire o suggerire soluzioni alternative che bilanciano indipendenza e apertura al capitale esterno. La lettura restrittiva dell’impianto normativo europeo – che non impedirebbe al diritto degli Stati membri di limitare il venture capital forense – ostacola, di fatto, la possibilità di garantire un rinnovamento degli studi legali, favorendo la frammentarietà del mercato unico ed accentuando i già esistenti squilibri tra grandi studi legali e piccole realtà. Il tradizionale modello di partnership degli studi legali, pur garantendo – sulla carta40 – una totale indipendenza tra professionisti, non rimane comunque esente da critiche per la visione a breve termine dei membri che ne compongono il management41. La conseguenza diretta di questo vulnus al ragionamento sviluppato dalla Corte è che i caratteri di necessità e, soprattutto, di proporzionalità degli stringenti requisiti, imposti dal legislatore tedesco agli investimenti nelle società tra avvocati, non sembrano affatto rispettati, sollevando più di un dubbio sul fatto che le norme europee – che dovrebbero puntare all’uniformazione del mercato dei servizi – possano sopportare una illogicità e frammentarietà di tale portata.
4. Conclusioni
Si è inteso, con questo scritto, fornire alcuni spunti di lettura ed una possibile analisi delle implicazioni che la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea – nel caso Halmer Rechtsanwaltsgesellschaft UG c. Rechtsanwaltskammer München – potrà avere sul mercato unico europeo e sulle possibilità di investimento di capitale in ambito forense. Nel seppur difficile contemperamento tra principi di libertà economica ed autonomia degli Stati membri, la Corte ha stabilito che il secondo principio debba prevalere. La Grande Sezione (Chambre) ha, infatti, sancito che gli Stati membri ben possono vietare agli investitori puramente finanziari di partecipare con capitale nelle società tra avvocati, motivando tale restrizione con “motivi imperativi di interesse generale”, ovvero con l'esigenza di proteggere
l'indipendenza dei professionisti del diritto e garantire la fiducia del pubblico nell'amministrazione della giustizia.
Tali giustificazioni, perfettamente nobili e condivisibili in astratto, si scontrano con la logica del ragionamento della Corte che, da un lato, riconosce che la normativa nazionale in questione, nei fatti, limita l'accesso delle società di avvocati ai capitali esterni, incidendo sulla loro capacità di crescita e sviluppo. In tal senso, la Corte riconosce pienamente l’esistenza di una restrizione alla libera circolazione dei capitali – ex articolo 63 TFUE, che garantisce la libertà di movimento dei capitali tra gli Stati membri – compromettendone la competitività e, più in generale, impedendo lo sviluppo di innovazione in termini di governance e capitale42. Dall’altro lato, il vizio di fondo del ragionamento della Corte può individuarsi nel fatto che, pur ammettendo che la normativa limiti la libertà economica delle società tra avvocati, se ne giustifica la validità sulla base della mera indipendenza professionale degli avvocati – in particolare in termini di confidenzialità e di integrità della professione forense, specie alla luce di possibili conflitti di interesse – da fattori esterni, specie se motivati dal solo profitto, che potrebbero compromettere il corretto esercizio della professione.
In questo senso, il giudizio della Corte non è privo di contraddizioni. In primis, la Grande Sezione (Chambre) sancisce che “in assenza di armonizzazione […] ciascuno Stato membro resta libero, in linea di principio, di disciplinare l’esercizio di tale professione sul proprio territorio”43 ma, al contempo, riconosce che la normativa nazionale tedesca – consentendo a soggetti che non sono avvocati, e che quindi non sono vincolati agli stessi principi etici e professionali, di acquisire partecipazioni nelle società tra avvocati – solleva numerosi interrogativi sulla coerenza – e di riflesso sulla proporzionalità – della normativa in questione. Se la finalità principale della BRAO era di proteggere l'indipendenza della professione forense, perché permettere l'accesso al capitale da parte di artisti, giornalisti, o scrittori, che non appartengono alla professione e non sono, pertanto, soggetti alle richiamate norme professionali e deontologiche applicabili alla professione forense?
In secundis, anche nella ipotesi in cui lo studio legale riceva capitali esterni, la deontologia professionale dei membri dello studio medesimo offre garanzie forti contro potenziali conflitti di interesse. Gli avvocati, infatti, devono astenersi dal prestare attività professionale ogni volta che vi sia un rischio che tale attività – che sia questa una singola consulenza, una causa avviata presso un tribunale o una attività di supporto in mergers and acquisitions44 – possa determinare un conflitto con gli interessi del cliente. Di conseguenza, anche nella ipotesi di ingresso di investitori esterni, l’avvocato deve comunque garantire che il suo lavoro non venga influenzato da fattori esterni che possano compromettere l’obiettività e la lealtà nei confronti del cliente, per cui, nella ipotesi in cui dovessero emergere situazioni in cui questo percepisca che il suo interesse, o quello degli investitori esterni, possano interferire con la difesa imparziale del cliente, l’avvocato è obbligato a astenersi dal proseguire l’incarico45. La protezione della fiducia del cliente e la riservatezza delle informazioni rimangono, ad ogni buon conto, pilastri fondamentali della professione forense e rimangono intatti, indipendentemente dalla presenza di eventuali investitori esterni nello studio legale.
In terziis, la Corte ammette, nelle righe della sentenza, che lo statuto della Halmer era stato modificato proprio per privare i soci di mero capitale “della capacità di influenza che avrebbe potuto ottenere in base al criterio del capitale”46, riconoscendo, nei fatti, l’esistenza di un certo margine flessibilità e di salvaguardia dei principi etici della professione con norme interne alle società di avvocati interessate. Su questo aspetto, in particolare, si potrebbero concentrare le maggiori criticità della decisione, specie in termini di proporzionalità, giacché la Corte non esplora in alcun modo se vi siano alternative che possano raggiungere lo stesso risultato – mantenere la libertà e indipendenza dei professionisti – senza limitare così pesantemente le libertà economiche di investimento. Si potevano, ad esempio, valutare possibili misure meno invasive come la limitazione dei diritti di voto degli investitori non avvocati o l'introduzione di clausole statutarie che assicurino il controllo esclusivo delle decisioni operative agli avvocati, con soluzioni più equilibrate e non frammentate tra ventisette Paesi distinti. In tal senso, la sentenza in commento solleva alcuni interrogativi su come conciliare la protezione delle giuste esigenze di professionalità e di buon andamento della giustizia con le necessità di modernizzare il mercato forense.
La Corte sembra aver privilegiato una visione protezionistica e tradizionale, trascurando il potenziale di apertura del mercato forense agli investimenti esterni che, pur nel rispetto dei principi deontologici, avrebbero potuto favorire l'innovazione e la crescita del settore legale europeo. Su questi aspetti, la Grande Sezione (Chambre) ha perso l'opportunità di fare un passo evolutivo nella sua giurisprudenza. Sembra, al contrario, aver fatto un enorme passo indietro nella valutazione della proporzionalità delle misure restrittive nazionali, trascurando soluzioni alternative, che ben potrebbero conciliare l'indipendenza professionale con l'apertura agli investimenti esterni.
È auspicabile che, alla luce di questa sentenza e delle spinte protezionistiche nazionali dei singoli Stati membri, l'Unione Europea – anche alla luce del fatto che la professione forense si confronta, oggi, con un mercato saturo e con un modello organizzativo che, in molti casi, non è in grado di sostenere gli investimenti necessari per l'innovazione tecnologica e per affrontare le sfide di un contesto globale in continua evoluzione47 – promuova un nuovo modello di società tra avvocati, in grado di bilanciare la tutela dei principi etici e professionali stabiliti dai singoli legislatori nazionali con le esigenze di modernizzazione e di investimento di cui il vecchio continente ha grande bisogno per potersi garantire un futuro sostenibile e competitivo.
1. Il testo integrale della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, del 19 dicembre 2024 (Grande Sezione), causa C-295/23, Halmer Rechtsanwaltsgesellschaft UG contro Rechtsanwaltskammer München, al momento della stesura di questo contributo ancora in versione provvisoria, si può consultare al seguente indirizzo internet: https://curia.europa.eu/juris/.
2. Idem, paragrafo 77.
3. Idem, paragrafo 72.
4. Il riferimento è, in particolare, ai dettagliati rapporti, stilati dai due ex Presidenti del Consiglio Italiani, Enrico Letta e Mario Draghi, sulla competitività del mercato europeo degli investimenti e dei capitali. Cfr. Letta, E. (2024). Much More Than a Market-Speed, Security, Solidarity: Empowering the Single Market to deliver a sustainable future and prosperity for all EU Citizens. Disponibile all’indirizzo internet https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-enrico-letta.pdf. Draghi, M. (2024). The Future of European Competitiveness Part B: In-depth analysis and recommendations.Disponibile all’indirizzo internet https://commission.europa.eu/document/download/ec1409c1-d4b4-4882-8bdd-3519f86bbb92_en?filename=The%20future%20of%20European%20competitiveness_%20In-depth%20analysis%20and%20recommendations_0.pdf.
5. Le conclusioni generali dell’Avvocato Generale, Campos Sánchez-Bordona, presentate alla Corte di Giustizia il 4 luglio 2024, al momento della stesura di questo contributo ancora in versione provvisoria, si possono consultare al seguente indirizzo internet: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62023CC0295.
6. Idem. Si vedano, in particolare, i paragrafi 1 e 3.
7. Idem, paragrafo 43.
8. Idem, paragrafo 40.
9. Idem, paragrafo 22.
10. Idem, cfr. paragrafi 39, 65, 70-71.
11. Idem, cit. paragrafo 100.
12. Idem. I dubbi sulla coerenza della BRAO e di queste aperture a professionisti non del mondo forense sono esplicitati dall’AG nei paragrafi 76-82.
13. Idem. Si vedano, in particolare, le difficoltà interpretative sollevate dall’AG nella nota 47.
14. È curioso notare come questo vada in controtendenza rispetto a quanto suggerito dalla dottrina in tema di razionalizzazione dell’autonomia degli Stati rispetto alle forme di dipendenza dal diritto europeo. Si veda, ex multis, Van Rossem, J. W. (2013). The autonomy of EU law: more is less?. Wessel, R. A., & Blockmans, S. (Eds.). Between autonomy and dependence: The EU legal order under the influence of international organisations, 13-46. TMC Asser Press.
15. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, del 29 luglio 2019 (Quarta Sezione), causa C-209/18, Commissione europea contro Repubblica d’Austria. Vi è, peraltro, copiosa dottrina che aveva, già da tempo, suggerito il principio della “least restrictive alternative”. Cfr., ex multis, Jans, J. H. (2000). Proportionality revisited. Legal Issues of Economic Integration, 27(3), 239-265; Snell, J. (2000). True proportionality and free movement of goods and services. European Business Law Review, 11(1), 50-57; Harbo, T. I. (2010). The function of the proportionality principle in EU law. European Law Journal, 16(2), 158-185; Sauter, W. (2013). Proportionality in EU law: a balancing act?. Cambridge yearbook of European legal studies, 15, 439-466.
16. Si noti che ci sono delle precipue ragioni di efficienza normativa, anche economica, nella valutazione di misure alternative e meno restrittive rispetto alla scelta legislativa di imporre restrizioni al mercato, giacché la proporzionalità è una misura che, dato il costo complessivo sostenuto da una certa misura restrittiva, può generare benefici complessivi che ne superano i costi, solo e soltanto se i benefici netti risultano massimizzati rispetto ad altre possibili alternative. Così, a chiare lettere, Portuese, A. (2013). Principle of proportionality as principle of economic efficiency. European Law Journal, 19(5), 612-635.
17. Si è peraltro obiettato, in dottrina, che l’indipendenza degli operatori forensi non sia raggiungibile nelle società tra avvocati, giacché le spinte di mercato hanno spinto questo modello societario a incentrare il proprio modello organizzativo in un particolare impegno verso i clienti, ben lontano da una vera e propria indipendenza da questi ultimi. In tali termini Eli Rosen, R. (2010). Rejecting the culture of independence: Corporate lawyers as committed to their clients. In Sarat, A. (Ed.). Law Firms, Legal Culture, and Legal Practice (33-71). Emerald Group Publishing Limited.
18. Si tratta, a ben vedere, di un problema non del tutto nuovo rispetto a quanto sollevato nei summenzionati Rapporto Draghi e Rapporto Letta (si veda supra, nota 4), che era già stato sollevato dalla Commissione sul finire degli anni novanta del secolo scorso. Vi sono evidenze empiriche che dimostrano che il venture capitaleuropeo ha impattato significativamente sulla scalabilità delle imprese, offrendo i capitali necessari per una crescita che, viceversa, non sarebbe stata possibile. Si veda, ex multis, Bottazzi, L., & Da Rin, M. (2002). Venture capital in Europe and the financing of innovative companies. Economic policy, 17(34), 229-270.
19. Si veda, in particolare, il paragrafo 57 della sentenza in commento. Il testo della sentenza CGUE del 19 dicembre 2024 (Grande Sezione), causa C-295/23, può essere scaricato al link riportato in nota 1.
20. Idem, cit. paragrafi 59-60.
21. Idem, cit. paragrafo 62.
22. Ibidem.
23. Ibidem.
24. Idem, cit. paragrafo 63.
25. Sul principio di non discriminazione l’Unione Europea ha creato un vero e proprio glossario, che include tutte le caratteristiche menzionate. Si veda, per completezza, il testo rinvenibile all’indirizzo internet https://eur-lex.europa.eu/IT/legal-content/glossary/non-discrimination-the-principle-of.html
26. In tal senso si esprime Tushevska, B. (2015). The Non-Discrimination Principle Through: The Concept of Establishment of Companies in European Union. SEEU Review, 11(1), 111-122. Nel caso della BRAO, la determinazione di restrizioni all’inserimento di meri capitali nelle società tra avvocati, rispetto all’inserimento di capitali di figure professionali locali, che nulla hanno a che vedere con il mercato forense, solleva più di un dubbio sulla proporzionalità di tali requisiti rispetto ad imprese europee che non possono mantenere tali asseriti requisiti di professionalità (criterio che risulta ancora più stridente, rispetto agli avvocati, nel caso degli artisti e gli scrittori).
27. Cit. paragrafi 64 e 66 della sentenza in commento. Stupisce, su questi aspetti, come la Corte dia atto dell’esistenza, nel caso di specie, di disposizioni, contenute nello statuto della Halmer, volte proteggere l’indipendenza dei professionisti, oltre a tutta una serie di norme in tema di revoca degli amministratori, poteri dell'assemblea dei soci e di nullità delle decisioni non conformi, che, tuttavia, non vengono vagliate nell’analisi sulla necessarietà delle norme restrittive imposte dalla BRAO. Come si sottolineava già supra, stupisce che si permetta a portuali, giornalisti, artisti o scrittori – su questi aspetti si veda il paragrafo 42 della sentenza in commento – di essere parte della compagine sociale nelle società di avvocati, negando, invece, tale possibilità ad un mero investitore di capitale.
28. Idem, cit. paragrafo 67.
29. Idem, cit. paragrafo 68.
30. Idem, cit. paragrafo 69.
31. Su questi aspetti si veda Molot, J. T. (2014). What's Wrong with Law Firms: A Corporate Finance Solution to Law Firm Short-Termism. Southern California Law Review, 88, 1-44.
32. Su tutti questi aspetti si è obiettato, altresì, che le richiamate esigenze di indipendenza risultano sollevarsi come scudo per impedire il cambiamento e mantenere determinate rendite di posizione all’interno del mercato forense, con studi legali di grandi dimensioni che operano quasi senza concorrenza rispetto a realtà più giovani e meno strutturate. Si veda, in tal senso, Zer-Gutman, L., & Wald, E. (2021). Is the Legal Profession Too Independent?. Marquette Law Review, 105(2), 341-396.
33. Il fenomeno degli investimenti privati non è, infatti, esente da reprimende etiche e da analisi delle implicazioni sociali del venture capital, per cui vi è una sempre maggiore attenzione alla tematica non solo da parte degli stakeholders, ma anche degli stessi investitori. Si veda, sul punto, Cumming, D., & Johan, S. (2007). Socially responsible institutional investment in private equity. Journal of Business Ethics, 75, 395-416.
34. Su tutti questi aspetti reputazionali si veda l’interessante contributo di Walter, I. (2010). Reputational risk. Finance ethics: Critical issues in theory and practice, 10, 103-124.
35. Si è osservato, infatti, che gli investitori esterni tendono a esercitare una certa pressione affinché vengano mantenuti alti standard professionali – e non viceversa! – in modo da evitare rischi reputazionali e ottenere ritorni sostenibili e positivi sul loro investimento. Su questi aspetti, si rinvia a Adams, E. S., & Matheson, J. H. (1998). Law firms on the big board: proposal for nonlawyer investment in law firms, in California Law Review, 86(1), 1-40.
36. Si veda, in particolare, il paragrafo 71 della sentenza in commento.
37. Idem, cit. paragrafo 73.
38. Idem, cit. paragrafo 77.
39. Idem, cit. paragrafo 42.
40. Spiace – anche in ragione delle pregresse esperienze forensi dello scrivente – dover constatare che, specie nel contesto italiano, il mercato forense sia ormai costituito, con percentuali non risibili, da professionisti senza studio o avvocati “dipendenti” da altri professionisti. Si tratta di professionisti che, pur avendo competenze elevate, si trovano in una condizione di instabilità economica e professionale, con un accesso limitato alle opportunità di crescita e sviluppo, e che si trovano nella difficoltà di accedere a finanziamenti esterni o a forme di supporto economico che possano permettergli di svilupparsi o di entrare in competizione con studi legali più grandi e strutturati. Cfr. Bellini, A. (2014). Gli avvocati ei paradossi della regolazione delle professioni: un esercizio autoriflessivo. Sociologia del lavoro: 135, 3, 2014, 91-108, e Scarselli, G. (2011). Il controllo in cassazione del disciplinare forense (con postilla sul d.d.l. di riforma della professione). Il Foro Italiano, 1, 450-454.
41. Si parla, in questi termini, di shortermism degli studi legali. Si veda, oltre al contributo citato in nota 31, anche Roe, M. J. (2013). Corporate short-termism—in the boardroom and in the courtroom. The Business Lawyer, 977-1006.
42. L’ingresso di capitali esterni negli studi legali sarebbe una buona opportunità di investimento per gli investitori – perché potrebbero beneficiare di profitti derivanti da un modello di business diversificato e non tradizionale, diversificando il proprio portafoglio, con l’accesso sinergico a reti di contatti e partnership strategiche che potrebbero non aver esplorato in precedenza – e per gli avvocati – che potrebbero investire in nuove tecnologie, introdurre nuovi modelli di business o nuove specializzazioni nello studio, migliorando la visibilità dello studio legale e la sua reputazione nel mercato, nonché rivedere la propria cultura organizzativa, i processi interni, nonché, lato servizi ed offerta, con una espansione delle competenze e delle aree di pratica, garantendo anche una maggiore attrattività per giovani talenti ed un più ampio accesso a servizi di consulenza socialmente responsabili, quali attività pro bono o in favore della giustizia sociale o della tutela dell’ambiente.
43. Cit. paragrafo 72 della sentenza in commento.
44. Quest’ultimo aspetto è forse il più complesso da gestire per studi legali che non hanno un ampio respiro internazionale, anche a causa della impossibilità di costruire quella rete sociale transnazionale che soltanto uno studio di grandi dimensioni e con sufficienti capitali può portare avanti. Si veda, in tal senso, Jain, A. (2022). Mergers & Acquisitions and Its Impact on the World, Law and Legal Profession. International Journal of Law Management & Humanities, 5(2), 68-76.
45. Si tratta, a ben vedere, di un valore indisponibile, in virtù del quale “neanche l’eventuale autorizzazione della parte assistita, pur resa edotta e, quindi, scientemente consapevole della condizione di conflitto di interessi, può valere ad assolvere il professionista dall’obbligo di astenersi dal prestare la propria attività”. Così Galletti, A. (2024). La disciplina del conflitto d’interessi nell’ordinamento forense. Consiglio Nazionale Forense News (15/01/2024), in https://www.cfnews.it/avvocatura/la-disciplina-del-conflitto-d-interessi-nell-ordinamento-forense/#.
46. Cit. paragrafo 56 della sentenza in commento.
47. Su tutti questi aspetti cfr., inter alia, Bellini, A. (2017). Effetti di stratificazione: professionisti affermati, aspiranti ceto medio e nuovi proletari forensi. In Alacevich, F., Bellini, A., & Tonarelli, A. (Eds.). Una professione plurale: Il caso dell’avvocatura fiorentina, 65-102, Firenze University Press; Pellegrini, S. (2012). La mediazione e le sue tecniche: un diverso metodo di gestione del conflitto tra dover essere ed essere. Sociologia del diritto: 3, 2012, 69-87; Sobbrio, G., D'Agostino, E., & Sironi, E. (2009). Avvocati e cause in Italia. Un'analisi empirica. Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 68(2), 158-197.
Bibliografia
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