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Pubbl. Lun, 21 Dic 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Autonomia ed indipendenza dei giudici: una travagliata conquista

Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il presente contributo analizza le principali riforme sull´ordinamento giudiziario, ponendo in luce come il legislatore italiano si sia rivelato incurante in tema di autonomia ed indipendenza della magistratura. Di fronte ad un quadro normativo frastagliato, i passi in avanti compiuti dalla giurisprudenza costituzionale non possono essere ritenuti sufficienti: emergono, infatti, questioni irrisolte e gravi lacune. Tali vuoti potrebbero essere colmati solo tenendo fede alla volontà del Costituente.


Sommario: 1. L’ordinamento giudiziario in epoca fascista; 2. L’ordinamento giudiziario in crisi: la c.d. legge sulle guarentigie della magistratura; 3. I princìpi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura; 4. Verso la meta: l’entrata in funzione della Corte Costituzionale; 4.1. La fine del c.d. carrierismo: un “sospiro di sollievo” per i giudici costituzionali; 4.2 L’entrata in scena del CSM ed il riconoscimento del pluralismo politico-culturale; 5. La metamorfosi dell’ordinamento giudiziario: i disordini della legge n. 150/2005; 6. L’intervento “riparatore” della legge n. 269/2006; 7. La legge n. 111/2007: verso una riconsiderazione della “carriera”? 8. Conclusioni: “verba volant scripta manent”.

Sommario: 1. L’ordinamento giudiziario in epoca fascista; 2. L’ordinamento giudiziario in crisi: la c.d. legge sulle guarentigie della magistratura; 3. I princìpi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura; 4. Verso la meta: l’entrata in funzione della Corte Costituzionale; 4.1. La fine del c.d. carrierismo: un “sospiro di sollievo” per i giudici costituzionali; 4.2 L’entrata in scena del CSM ed il riconoscimento del pluralismo politico-culturale; 5. La metamorfosi dell’ordinamento giudiziario: i disordini della legge n. 150/2005; 6. L’intervento “riparatore” della legge n. 269/2006; 7. La legge n. 111/2007: verso una riconsiderazione della “carriera”? 8. Conclusioni: “verba volant scripta manent”.

 

1. L’ordinamento giudiziario in epoca fascista

L’ordinamento giudiziario introdotto con il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, si incentrava su due principi collegati tra di loro: quello gerarchico, con una distinzione per gradi all’interno della magistratura, diretta da un esiguo gruppo situato nelle posizioni più alte della scala gerarchica, e quello dell’“eterogoverno”, con il conferimento all’Esecutivo di vasti poteri di direzione e controllo sulla magistratura. Con riguardo al primo, vi era una sorta di gerarchia di carriera, che interessava tutti i magistrati ordinari[1], mentre per i magistrati requirenti vi era una gerarchia funzionale, dal momento che il Pubblico Ministero era organizzato in uffici gerarchicamente ordinati tra loro (la Procura Generale presso la Corte di cassazione, le Procure Generali presso le Corti d’Appello e le Procure della Repubblica presso i Tribunali) e al loro interno. Da tale quadro ne discende come l’ordinamento giudiziario del 1941 assumeva una forma “piramidale”. Al vertice di quest’ultima si poneva la Corte di Cassazione, avente una netta predominanza sul corpo giudiziario e dalla quale dipendeva l’avanzamento in carriera. Per quanto concerne il secondo, al Ministro della Giustizia spettava una serie di funzioni: l’alta sorveglianza su tutti i magistrati, la direzione del pubblico ministero, l’influenza sulle promozioni nelle sfere più elevate della magistratura, la proposta sulle nomine degli uffici direttivi di Presidente e di Procuratore generale presso le Corti d’Appello e la Corte di Cassazione, ed infine, la titolarità dell’azione disciplinare. La netta superiorità dell’Esecutivo indeboliva il CSM, introdotto nel 1907 dalla legge Orlando[2], quale organo di garanzia dell’indipendenza dei giudici. La funzione principale di detto organo era quella di esprimere dei pareri rispetto alle nomine delle cariche di rilievo all’interno della magistratura. In origine, esso era composto da due membri di diritto – il Primo Presidente della Corte di Cassazione, che lo presiedeva, ed il Procuratore generale della medesima Corte di Cassazione – e da diciotto membri eletti: sei Consiglieri e tre Sostituti Procuratori generali di Corte di Cassazione, designati da magistrati delle cinque Cassazioni, e nove magistrati di grado non inferiore a quello di Primo Presidente della Corte d’Appello, nominati con decreto reale su proposta del Ministro di grazia e giustizia e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. Con l’entrata in vigore della legge n. 1311/1912, il CSM assunse una configurazione differente: tutti i membri del Consiglio dovevano essere di nomina regia, su proposta del Ministro competente. Dato il carattere piramidale della magistratura, il regime fascista non dovette varare specifiche riforme finalizzate a consentire allo stesso di esercitare i propri poteri autoritari. La c.d. legge Grandi del 1941[3] introdusse lievi modifiche, in quanto il sistema a quei tempi in vigore si conformava perfettamente alle esigenze della magistratura. Tale sistema, nel concedere un potere assoluto all’Esecutivo, risultava in netto contrasto con il principio dell’autogoverno della magistratura. Tuttavia, appare necessario evidenziare come l’ordinamento Grandi si allineasse alle precedenti visioni giudiziarie. Esso, infatti, traeva spunto dal modello napoleonico[4] adottato dal Regno d’Italia nel 1865, nel quale la magistratura era compressa dall’Esecutivo. L’ordinamento Grandi, poi, si agganciava all’ordinamento Oviglio approvato negli anni venti del XX secolo[5], che aveva limitato i poteri del CSM e intensificato la gerarchia interna dell’organizzazione giudiziaria. In tal contesto, merita senz’altro un cenno il progetto di legge[6], sviluppato, in epoca liberale, da Lodovico Mortara nel 1919, sulla garanzia di indipendenza della magistratura. Esso intendeva riconsiderare taluni capisaldi dell’ordinamento giudiziario, come ad esempio l’organizzazione burocratica, la dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo e il carrierismo[7]

 

2. L’ordinamento giudiziario in crisi: la c.d. legge sulle guarentigie della magistratura

A seguito della caduta del fascismo[8], la prima alterazione dell’ordinamento giudiziario avviene con il r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, recante “Guarentigie sulla magistratura”. Tale legge, di iniziativa del Ministro della giustizia Palmiro Togliatti[9], sopprimeva quasi tutte le disposizioni più soffocanti dell’ordinamento del 1941 e ristabiliva le garanzie precedentemente revocate, estendendole anche ai magistrati del Pubblico Ministero. Il Ministro della Giustizia iniziava a subire dei rigidi contraccolpi: egli, infatti, non disponeva più di un potere di direzione del Pubblico Ministero, non era più il titolare del potere disciplinare[10] e non poteva più trasferire i magistrati come accadeva un tempo, giacchè l’inamovibilità dalla sede viene estesa anche ai magistrati requirenti[11]. Contestualmente, egli conserva il potere di “alta sorveglianza su tutti gli uffici giudiziari, su tutti i giudici e su tutti i magistrati del pubblico ministero”, la nomina dei membri delle commissioni di concorso, la designazione dei titolari di taluni uffici direttivi e l’esercizio dell’azione disciplinare[12]. Il CSM, privato delle sue funzioni in età fascista, ritorna ad essere un organo elettivo[13]. Occorre marcare come alla garanzia formale dell’indipendenza esterna non corrispondesse l’indipendenza sostanziale della magistratura dal Governo[14]. Tale dato trova riscontro nella permanenza della rigida struttura interna dell’ordine giudiziario: i magistrati di cassazione vengono scelti tra la borghesia medio-alta, in perfetta armonia con il potere politico[15]. Oltre all’art. 2 della legge in questione relativo l’inamovibilità dei magistrati, meritano cenno gli artt. 1 (Disposizione generale)[16] e 3 (Dispensa dal servizio o collocamento in aspettativa di ufficio per debolezza di mente od infermità). Con riguardo a quest’ultimo, le situazioni patologiche possono essere permanenti o temporanee. Nel caso in cui l’infermità presenti carattere temporaneo, il magistrato può, su conforme parere del Consiglio superiore, essere collocato di ufficio in aspettativa fino al termine massimo consentito dalla legge. Ove la situazione d’infermità o la sopravvenuta inettitudine lo permetta, è consentito assolvere attività amministrative presso il Ministero della Giustizia. Il parere sulla dispensa incombe al Consiglio superiore della Magistratura[17]. Tale legge, poi, istituì presso il Consiglio un organo giurisdizionale deputato alla repressione degli illeciti disciplinari. A detta legge si deve anche l’adozione del Consiglio giudiziario presso la Corte di Appello[18], diretto dal primo Presidente della Corte di Appello e composto dal Procuratore generale e da otto membri, di cui tre con funzioni di supplenti, eletti ogni due anni da tutti i magistrati degli uffici giudiziari del distretto con voto personale e segreto[19]

 

3. I princìpi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura

La Costituzione Repubblicana del 1948 riconosce i principi di autonomia ed indipendenza della magistratura[20], espressi dall’art. 104, comma 1, Cost., in ordine al quale “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” e dall’art. 101, comma 2, Cost., il quale prevede che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge[21]. La formulazione del Titolo IV della parte II, dedicato a “La magistratura” viene elaborata con l’intento di garantire ai magistrati e alla magistratura ordinaria come organo unitario la piena indipendenza[22] da qualunque altro potere e, in particolare, dal potere esecutivo. In realtà, l’entità della disposizione contenuta nell’art. 101, comma 2, Cost. è duplice. La posizione dei magistrati è tutelata sia cercando di prevenire influenze all’interno dello stesso potere giudiziario (c.d. indipendenza interna), sia escludendo interferenze di ulteriori poteri dello Stato (c.d. indipendenza esterna). La prima concerne, da una parte, l’organizzazione della magistratura e, dall’altra, il funzionamento della stessa. Per quanto riguarda il primo profilo, nell’organizzazione della magistratura è escluso il principio gerarchico: non sussiste alcun vincolo di assoggettamento dei magistrati rispetto ad altri giudici superiori[23]. Il secondo aspetto, invece, pone in luce la titolarità del giudice, in via diretta e definitiva, della funzione giurisdizionale: la pronuncia del magistrato, in assenza di impugnazione, pone fine alla controversia[24]. Da ciò ne deriva che la competenza a tradurre la volontà dell’organo giudiziario non compete ad un unico organo, ma è concessa a ciascun giudice (per tale motivo, la magistratura è considerata un organo diffuso)[25]. L’indipendenza esterna, invece, attiene ai rapporti tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato[26]. Sotto tale profilo, la Costituzione italiana prevede, con riferimento ai giudici ordinari, l’istituzione di un organo ad hoc, il Consiglio Superiore della Magistratura, espressivo delle varie componenti incluse all’interno del corpo dei giudici ordinari, al quale sono state attribuite varie funzioni di natura amministrativa (in relazione alle assunzioni, alle assegnazioni, alle promozioni, ai trasferimenti di sede) e di natura giurisdizionale (procedimenti giurisdizionali) in precedenza incombenti al Ministro della Giustizia[27]. Con riguardo alla posizione del pubblico ministero, la dottrina è divisa tra quanti ritengono[28] che l’art. 101, comma 2, Cost. attenga solo ai giudici e quanti, invece, a fronte dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, sostengono[29] che esso valga anche per i magistrati requirenti. A tal proposito, appare opportuno non trascurare il fatto che l’autonomia del PM rappresenti una condizione fondamentale dell’indipendenza del potere giudiziario[30]. Secondo la giurisprudenza costituzionale, l’indipendenza istituzionale è una prerogativa ordinaria non solo quando il magistrato agisce nella sua qualità di giudice, ma anche nella sua veste di pubblico ministero, la cui funzione non è quella di amministrare la giustizia, bensì di partecipare alle varie fasi dell’amministrazione stessa[31]. Qualche dubbio proviene dall’art. 107, comma 4, Cost., in base al quale il PM “gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (dunque, dalla legge ordinaria) e potrebbe portare a pensare che a livello costituzionale non sussista una tutela della sua indipendenza. In detto contesto, si colloca l’art. 112 Cost. dedicato esclusivamente alla figura del pubblico ministero, il quale prevede che: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Tale espressione presenta un duplice significato. In primo luogo, garantisce l’indipendenza funzionale del PM da altri poteri, specialmente dall’esecutivo, obbligando il primo ad agire indipendentemente da qualsiasi influenza interna o esterna. In secondo luogo, preclude qualsiasi discrezionalità da parte del PM, ai fini di un procedimento penale, laddove emergano prove sufficienti per dimostrare l’esistenza di una fattispecie penale. Il fatto che il PM abbia l’obbligo di esercitare l’azione penale potrebbe indurre ad escludere un margine di discrezionalità nel suo operare. In una risalente pronuncia[32], il Giudice delle Leggi ha puntualizzato che l’art. 112 Cost. non attribuisce il monopolio dell’azione penale al PM, ma implica l’illegittimità delle disposizioni che prevedono la titolarità esclusiva dell’azione penale in capo a organi differenti dalla figura in discussione. Al contempo, la Consulta ha affermato che l’art. 112 Cost. è stato introdotto con l’intento di “garantire da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione, e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”. Una riflessione è opportuna circa l’art. 108, comma 2, Cost., in virtù del quale “la legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia”. Sotto il profilo delle garanzie costituzionali, si sono sviluppati due orientamenti opposti[33]. Il primo sostiene che lo statuto dei giudici speciali debba essere accostato a quello del giudice ordinario. Il secondo, invece, prevede uno statuto di garanzie differenziato, come inevitabile conseguenza di un pluralismo organizzativo tra le diverse magistrature. Sul punto, la giurisprudenza costituzionale è stata mutevole. In taluni casi, la Consulta ha permesso che i giudici speciali fossero di nomina governativa[34], a condizione che la loro indipendenza fosse garantita mediante strumenti come l’inamovibilità, che troncano ogni legame con l’Esecutivo. In altri casi, invece, il Giudice delle Leggi è intervenuto immediatamente, data la sussistenza di un rapporto di dipendenza tra i giudici ed altri poteri[35]. Alla luce del quadro delineato, appare evidente la distanza tra l’ordinamento Grandi e la nuova realtà costituzionale. Per tale motivo, il Costituente ha programmato la sostituzione dell’ordinamento allora esistente con un nuovo ordinamento, nell’ambito delle “Disposizioni transitorie e finali della Costituzione[36].

 

4. Verso la meta: l’entrata in funzione della Corte Costituzionale

A causa della mancata attuazione della legge sull’ordinamento giudiziario, si assistette ad una graduale configurazione della nuova magistratura. Tale riassetto ebbe inizio con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale, nel 1956. Sebbene non si trattasse di una vera e propria novità in materia[37], si registrarono varie conseguenze. La VII disposizione transitoria e finale, comma 2, della Costituzione presentava il seguente tenore: “Fino a quando non entri in funzione la Corte Costituzionale, la decisione delle controversie indicate nell'articolo 134 ha luogo nelle forme e nei limiti delle norme preesistenti all'entrata in vigore della Costituzione”. Per ben otto anni, il sindacato di legittimità costituzionale venne riservato ai giudici comuni, ai quali incombeva accertare l’abrogazione implicita delle norme preesistenti alla Costituzione del 1948 e provvedere alla disapplicazione delle norme di legge entrate in vigore dopo di esse ritenute in contrasto con la Costituzione. Tuttavia, i giudici comuni avevano attuato il controllo di costituzionalità con scarso entusiasmo. Data la vaghezza della formulazione della VII disp. trans., comma 2 della Costituzione, si era acceso un dibattito circa il fatto se il controllo di costituzionalità potesse essere esercitato direttamente dai giudici ovvero se essi avessero dovuto limitarsi a sollevare la questione, sospendendo i loro giudizi in attesa dell’entrata in funzione del predetto organo e se il loro controllo dovesse essere limitato meramente ai vizi procedurali o di forma ovvero estendersi anche a quelli di merito. In tal senso, prevalse la prospettiva orientata al giudizio immediato ed esteso al merito[38]. Appare opportuno segnalare che, l’attività di controllo delle leggi divenne critica per i giudici anche per il semplice fatto di porsi come una competenza nuova, agganciata ad un “documento”[39] fino ad allora ignoto che vincolava tutte le altre fonti: la Costituzione. Una prima questione ostile riguardava la scelta tra l’effetto di abrogazione e l’effetto di costituzionalità, ossia tra ritenere la Legge Fondamentale al livello di ius superveniens che, nell’ipotesi di contrasto con le fonti vigenti antecedentemente approvate, doveva avere priorità in virtù del principio temporale ovvero promuovere la superiorità della Costituzione a fronte della dichiarazione di incostituzionalità. Come marcato da una parte[40] della dottrina, la scelta tra abrogazione e incostituzionalità determinava rilevanti conseguenze sul controllo delle leggi da parte del giudice. In primo luogo, accogliere la tesi dell’abrogazione portava a presumere che, una volta entrata in funzione la Corte Costituzionale, questa avrebbe dovuto dedicarsi esclusivamente della costituzionalità delle leggi conseguenti alla Costituzione e non di quelle antecedenti[41]. In secondo luogo, la scelta in favore dell’abrogazione avrebbe indotto a ritenere la Costituzione alla stregua di una lex posterior, al posto di una lex superior, ponendo così fine alla sostanziale distinzione tra Costituzione rigida e Costituzione flessibile. In terzo luogo, il richiamo all’abrogazione (specialmente all’abrogazione per incompatibilità) portava ad ammettere tale effetto solo a quelle disposizioni costituzionali immediatamente applicabili e puntuali, relegando tutte quelle disposizioni recanti principi. In base a dette considerazioni, si perviene alla storica distinzione tra disposizioni costituzionali programmatiche e precettive. Le norme contenute nella Costituzione erano considerate prevalentemente programmatiche: per tale motivo, numerosi principi innovati non avevano potuto produrre effetti tempestivi sulla vigenza della vecchia legislazione in contrasto con essi[42]. Fino al 1956, l’interpretazione era una prerogativa esclusiva della Corte di Cassazione, avente il compito di garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”. Con l’entrata in funzione della Consulta, la funzione di nomofilachia veniva “strappata” alla sua storica detentrice e consegnata ad un organo collocato fuori del sistema giudiziario[43]. Alla luce di tali fattori, l’attività interpretativa dei giudici comuni si rivelò profondamente negativa. Un elemento peculiare è rappresentato dalla nascita dell’Associazione nazionale magistrati nel 1961, la quale prevedeva al suo interno tre aggregazioni politico-ideali, miranti a superare la tradizionale distinzione per categorie[44]

 

4.1. La fine del c.d. carrierismo: un “sospiro di sollievo” per i giudici costituzionali 

Inizialmente, l’avanzamento in carriera dei magistrati aveva luogo attraverso concorsi (per titoli, per esami, per titoli ed esami) che permettevano il transito di grado ad un numero di soggetti corrispondente a quello dei posti disponibili negli uffici giudiziari[45]. Tale meccanismo pregiudicava l’indipendenza del giudici costituzionali, in quanto le commissioni di concorso, nominate prima dal Ministro della giustizia e poi dal CSM, erano costituite dai magistrati di Cassazione, in sintonia con il potere politico. Il c.d. carrierismo, conforme all’assetto verticale e gerarchico della magistratura dell’epoca fascista, era incompatibile[46] con i principi contenuti nella Costituzione del 1948. Un vero e proprio adattamento alla nuova realtà costituzionale si ebbe con legge 25 luglio 1966, n. 570, recante “Disposizioni sulla nomina a magistrato di Corte di appello”, conosciuta come “legge Breganze”[47]. Essa prescriveva che “i magistrati di tribunale, compiuti undici anni dalla promozione a tale qualifica, sono sottoposti alla valutazione dei Consigli giudiziari ai fini della nomina a magistrati di Corte d’Appello” (art. 1). Il CSM provvedeva alla nomina, previo esame del motivato parere del Consiglio giudiziario, “sulle capacità del magistrato e sull’attività svolta nell’ultimo quinquennio” (art. 2); posizione che deve “tener conto particolarmente della laboriosità del magistrato, delle capacità, diligenza e preparazione dimostrate nell’espletamento delle funzioni”, sebbene il CSM avesse l’opportunità “di assumere, nelle forme e con le modalità ritenute più idonee, ogni ulteriore elemento di giudizio che reputi necessario per la migliore valutazione del magistrato” (art. 3). Tale sistema – a giudizio di chi scrive – appare poco attento, poiché piuttosto eccezionali erano i casi di valutazioni negative, dovute alle condanne disciplinari del magistrato[48]. Occorre precisare che la nomina a magistrato di appello non implicava il passaggio alle funzioni di secondo grado, ma consentiva di accedere a funzioni ben più elevate rispetto a quelle espletate[49], mediante la presentazione di una domanda al CSM. Tale promozione produceva due effetti: la variazione della qualifica professionale e l’incremento dello stipendio. L’iter di abolizione della carriera giunse a compimento con la legge 20 dicembre 1973 n. 831, recante “Modifiche dell’ordinamento giudiziario per la nomina a magistrato di Cassazione e per il conferimento degli uffici direttivi superiori” (c.d. “legge Breganzone”). Tale legge permetteva a tutti i magistrati di appello, trascorsi sette anni dal conseguimento della qualifica, di ottenere la qualifica di magistrato di Cassazione in ordine ad uno schema analogo a quello prescritto dalla legge Breganze. Il fine perseguito dal legislatore era duplice: da un lato, abolire i concorsi, e di conseguenza la gerarchia; dall’altra, introdurre modalità più opportune di valutazione dei giudici. Tuttavia, soltanto il primo dei due fini è stato conseguito, poiché sia i Consigli giudiziari sia lo stesso CSM interpretavano la valutazione dei giudici con estremo “laissez-faire”, senza alcun riconoscimento del merito, determinando una progressione automatica ed omogenea per tutti i magistrati, ben tradotta con l’espressione “carriera per anzianità, senza demerito”[50]. Sebbene le due leggi menzionate non siano riuscite a raggiungere entrambi gli obiettivi prefissati, appare opportuno esaltarne anche gli effetti favorevoli. Oltre all’instaurazione di un clima più pacifico, si pervenne ad un miglioramento del funzionamento della giustizia. Il c.d. “carrierismo” non compromise più il percorso professionale dei giudici. Si assistette ad un’indiscutibile inversione di tendenza: mentre prima delle leggi Breganze e Breganzone ogni magistrato era vincolato indirettamente all’Esecutivo, in seguito la situazione mutò profondamente. Con gli interventi riformatori[51], si intese sia restituire dignità alle funzioni giudiziarie, sia riconoscere maggiore autonomia alla giurisdizione. Il quadro appena delineato potrebbe indurre a pensare che il reale interesse del legislatore fosse quello di liberarsi del problema del merito[52]. In realtà, l’unica preoccupazione dell’epoca era quella di portare a termine il progetto di una magistratura egualitaria, conforme al precetto costituzionale di distinzione soltanto per funzioni.

 

4.2 L’entrata in scena del CSM ed il riconoscimento del pluralismo politico-culturale

Il Consiglio superiore della Magistratura, previsto dalla Costituzione Repubblicana del 1948 per garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura ordinaria, prese avvio soltanto nel 1959. L’attuazione del CSM nel 1958 fu caratterizzata, oltre che da un animato dibattito parlamentare[53], da una gamma di interventi dottrinali, di disegni di legge e di raffronti in seno alle associazioni dei magistrati, tutti riservati all’organo di “autogoverno” della magistratura. In particolare, si temeva la costituzione di un soggetto estraneo all’apparato statale, volto ad indebolire il sistema di potere che controllava la magistratura. Il dibattito era imperniato sui rapporti tra CSM e Ministro. A tal riguardo, si formarono due diversi approcci[54], aventi come parametro di riferimento l’art. 110 Cost. Secondo una prima prospettiva, l’art. 110 Cost., nel conferire al Ministro “l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, avrebbe senz’altro imputato a quest’ultimo la responsabilità del buon funzionamento di tutta l’amministrazione della giustizia. Un secondo indirizzo, invece, riteneva che l’individuazione di un “responsabile” innanzi al Parlamento era inadatta, in virtù dell’inevitabile interferenza governativa sull’operato del CSM[55]. Quest’ultimo indirizzo evidenzia il problema delle forme di sindacato sulla legittimità degli atti al Consiglio, questione spinosa a causa della sussistenza di differenti visioni sulla natura[56] del CSM. Per taluni[57], il CSM era un organo amministrativo, sebbene dotato di attribuzioni ed autonomia definite nella Costituzione, al quale dovevano essere estesi tutti i principi ispiratori della Pubblica amministrazione, tra cui l’emanazione dei suoi atti con la forma ordinaria di quelli derivanti dall’Esecutivo. Vi era chi, invece, riteneva che il CSM fosse un organo sovrano, corrispondente al Potere giudiziario, ovvero per nulla inquadrabile secondo gli schemi standard, data la rilevante posizione assunta dallo stesso nella Costituzione. Stando a tale visione, la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi avrebbe dovuto essere affidata o alla Corte di Cassazione, o alle Sezioni Unite del Consiglio, o al massimo alla Corte Costituzionale. A prescindere dalla discussione sulla natura del CSM, al fine di evitare la costituzione di innovative giurisdizioni speciali, si decise di introdurre il ricorso al Consiglio di Stato per motivi di legittimità, in modo tale da garantire attuazione alla previsione dell’art. 111 Cost. La confusione intorno al CSM si riservò sulla legge istitutiva di tale organo, la quale ottenne una serie infinita di dissensi. L’attuazione costituzionale, infatti, avvenne solo apparentemente. La legge 24 marzo 1958, n. 195, recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura”, limitava fortemente il ruolo del CSM. Nel sistema di elezione dei membri togati, la ripartizione dei seggi tra le diverse “categorie” agevolava i magistrati di Cassazione, ai quali venivano riconosciuti ben sei posti su quattordici destinati ai togati. Occorre tenere presente che, la Costituzione accordava altri due posti alla medesima categoria: oltre al Presidente della Repubblica, il primo Presidente ed il Procuratore Generale della Corte di Cassazione erano considerati membri di “diritto”. Quest’ultimi, altresì, erano componenti del Comitato di Presidenza, un organo non previsto dalla Costituzione[58], al quale spettavano funzioni rilevanti[59]. L’intenzione della maggioranza governativa di influire sull’operato del CSM affiora dalle norme che regolano i rapporti tra il Ministro della Giustizia ed il Consiglio[60]. In particolare, si pensi alla norma (art. 11 comma 1) che, in palese contrasto con i principi costituzionali, assoggettava l’adozione dei provvedimenti consiliari alla richiesta del Ministro della Giustizia[61]. Dallo scenario delineato, emerge l’insensibilità dimostrata dalla giurisprudenza costituzionale nei confronti dell’indipendenza interna del CSM. Essa, infatti, non ha provveduto a censurare la normativa sulla ripartizione dei posti nel CSM fra le varie “categorie”, rivelandosi così poco attenta a salvaguardare l’indipendenza interna dei magistrati. La legge 18 dicembre 1967 n. 1198 recante “Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, sulla costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” attutiva l’impatto governativo sull’operato del CSM, consentendo ai magistrati di grado inferiore di eleggere quelli di grado superiore. Tale legge, oltre a ridurre il peso dei magistrati di Cassazione all’interno del CSM, concedeva ai magistrati delle categorie inferiori l’opportunità di selezionare i magistrati della Cassazione più vicini al proprio orientamento[62]. Tuttavia, soltanto con la legge 22 dicembre 1975, n. 695, recante “Riforma della composizione e del sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura”, si ebbe un’inversione di tendenza. Essa provvide ad apportare delle variazioni al sistema di elezione dei membri togati, introducendo il voto di lista. Si passava così dal voto alla “persona”, che si traduceva con una preferenza per uno o più candidati, al voto di lista, che si esprimeva con l’inclinazione a favore di un gruppo contraddistinto da un nominativo e un simbolo[63]. Tale legge, dunque, sancisce la soppressione della rappresentanza categoriale e il riconoscimento delle tre aggregazioni in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati. Se agli inizi degli anni Settanta, si faceva sempre più insistente il pericolo di essere esclusi dal Consiglio, il nuovo sistema di voto introdotto nel 1975 consentiva a tutte le componenti della magistratura di influire sulle decisioni di un organo dotato di un potere immane nella politica giudiziaria. Il CSM diviene così un organo “democratico”, nel quale trova spazio il pluralismo politico-culturale[64] presente nell’ordine giudiziario, che costituisce una garanzia fondamentale per l’indipendenza interna dei magistrati.

 

5. La metamorfosi dell’ordinamento giudiziario: i disordini della legge n. 150/2005

L’approvazione della legge 25 luglio 2005, n. 150[65], volta ad introdurre importanti modifiche in materia di ordinamento giudiziario, si è rivelata pericolosa per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Tale legge veniva alla luce in un periodo storico caratterizzato da un’ampia ostilità nei confronti dei magistrati. Essa venne adottata a seguito di un lungo iter legislativo durato circa tre anni, avviato nel marzo del 2002 e conclusosi con l’approvazione definitiva alla Camera il 1° dicembre 2004. Poco dopo, l’allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, rinviò la legge alle Camere[66], visto il riscontro di quattro rilievi di “palese incostituzionalità”, imputabili ad un fondamentale aspetto critico: l’irrazionale accentuazione del Ministro della Giustizia e l’incomprensibile ridimensionamento del CSM. I rilievi mossi dal Capo dello Stato vennero esaminati con determinazione e superati, malgrado la struttura complessiva non subì alcuna modifica. La legge venne così promulgata il 25 luglio del 2005, provocando una serie di polemiche. In generale, la legge n. 150/2015 si contraddistinse per la modifica di taluni aspetti cruciali: il sistema di avanzamento in carriera, l’organizzazione del pubblico ministero ed il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelli requirenti e viceversa. Per quanto riguarda il primo, la suddetta legge modifica il precedente regime della progressione “a ruoli aperti” per introdurre un sistema di avanzamento previo concorso. In particolare, i magistrati potevano accedere alle funzioni di secondo grado dopo otto anni dall’ingresso in magistratura, previo concorso per titoli ed esami, ovvero decorsi tredici anni dall’inizio del percorso professionale, previo concorso per soli titoli, e alle funzioni di legittimità dopo aver adempiuto per almeno tre anni le funzioni di secondo grado e superato un concorso ad hoc per titoli, ovvero trascorsi diciotto anni dall’ammissione nell’apparato giudiziario e previo concorso per titoli ed esami.   Si assisteva – a parere di chi scrive – ad un evidente ritorno al passato, mediante la definizione di una “carriera”, volta a favorire il ripristino dello schema gerarchico. Stando alla relazione introduttiva[67] al disegno di legge governativo da cui emerse la legge n. 150/2005, il proposito della riforma era quello di migliorare il funzionamento del “servizio” giustizia. In realtà, dalla riforma del 2005 ne scaturiva un inasprimento dei disservizi, giacchè i magistrati tendevano ad esercitare la propria attività non con il fine di procurare un servizio alla collettività, bensì con l’intento di pervenire ad una conquista personale. Tale sistema, altresì, avrebbe indotto i magistrati più abili a ricercare, previo concorso, una postazione “più alta”, con conseguente indebolimento della magistratura. La legge n. 150/2005 apportava rilevanti modifiche anche all’organizzazione delle procure. Il Procuratore della Repubblica veniva investito di una serie di compiti significativi: egli diventava titolare “esclusivo” dell’azione penale (esercitata sotto la sua responsabilità), stabiliva i criteri per l’organizzazione dell’ufficio e per l’assegnazione della trattazione dei procedimenti e manteneva i rapporti con tutti gli organi di informazione. Un compito peculiare consisteva nella possibilità di “delegare un procuratore aggiunto alla funzione del vicario, nonchè uno o più procuratori aggiunti ovvero uno o più magistrati del proprio ufficio perché lo coadiuvino nella gestione per il compimento di singoli atti, per la trattazione di uno o più procedimenti o nella gestione dell'attività di un settore di affari[68]. Sotto quest’ultimo profilo, la posizione di predominio del capo dell’ufficio affiorava dalla previsione che gli atti influenti sulla libertà personale o sui diritti reali non potevano essere adottati singolarmente, essendo previsto il “previo assenso” del Procuratore della Repubblica[69]. In ultima analisi, la legge Castelli introduceva una marcata separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti. In primo luogo, venne sancito l’obbligo per il candidato di riportare nella domanda di partecipazione al concorso per quale posto intendeva concorrere. In secondo luogo, il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa, era possibile solo entro il terzo anno di esercizio delle funzioni, previo corso di formazione presso la Scuola superiore della magistratura e dopo aver ottenuto una valutazione finale positiva, con conseguente dislocazione in un ulteriore distretto giudiziario.  Con riguardo alla separazione delle carriere, occorre tener conto che la diversità delle funzioni espletate[70] e l’apertura a divergenti modalità di garanzia dell’indipendenza, consolidate in due differenti titoli, permette al legislatore di delineare iter professionali ad hoc a seconda del tipo di magistrato[71]. A prescindere dalla discutibilità degli interventi legislativi delineati, la riforma del 2005, a detta di una parte della dottrina, presentava taluni apporti positivi. Essa sembrava dare attuazione, a distanza di un consistente lasso di tempo, a due previsioni costituzionali: l’art. 108 Cost., in virtù del quale “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni altra magistratura sono stabilite con legge” e la VII disposizione transitoria e finale, ai sensi della quale “fino a quando non sia emanata una nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell’ordinamento vigente”[72]

 

6. L’intervento “riparatore” della legge n. 269/2006

La legge 24 ottobre 2006, n. 269, recante “Sospensione dell’efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario” ha affrontato due aspetti[73]. Il primo riguarda la disciplina delle carriere dei magistrati. Tale legge, con la disposizione racchiusa nell’art. 1, ha sospeso fino al 31 luglio 2007 l’efficacia delle norme previste nel d.lgs. n. 160/2006 recante “Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati”, sulla base dell’art. 1, comma 1, lett. a) della legge n. 150/2005. Il legislatore italiano ha provveduto immediatamente a interrompere l’attuazione della riforma dell’ordinamento giudiziario nella parte in cui ripristinava la struttura “piramidale”. Il secondo aspetto, invece, concerne il d.lgs. n. 106/2006, recante “Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero”. La legge 269/2006 ha apportato due variazioni a codesto decreto: l’abrogazione, ove si parla dell’esercizio dell’azione penale da parte del Procuratore della Repubblica, dell’espressione “sotto la propria responsabilità” ed il “rimpiazzo” della norma che permetteva al Procuratore di esercitare l’azione penale delegando uno o più magistrati addetti all’ufficio con un’altra norma che introduce l’istituto dell’assegnazione. Da tale quadro ne discende che, a prescindere dalle modifiche apportate dalla legge in oggetto circa la riorganizzazione[74] degli uffici delle procure, il Procuratore della Repubblica non appare per nulla “spogliato” della capacità di esercitare un’influenza verso i sostituti o i procuratori aggiunti. Tale incidenza discende sia dai principi ed i criteri previsti in via generale, sia dai principi e dai criteri determinati circa l’assegnazione. A tal proposito, appare opportuno precisare che, laddove il magistrato non si attenga a detti parametri, l’assegnazione viene revocata[75]. Una novità risiede nella soppressione dell’obbligo, per il Procuratore della Repubblica, di trasmettere il provvedimento di revoca e le eventuali osservazioni al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. Al massimo, si potrebbe ravvisare nelle variazioni sopraindicate un intento del legislatore a difesa dei singoli magistrati incardinati nelle procure, nonché quello di mitigare la posizione di dominio del Procuratore della Repubblica[76]. La volontà di prendere le distanze dal passato si ricava dalle modifiche al d.lgs. n. 109/2006, nella parte avente ad oggetto gli illeciti disciplinari[77]. Tali correzioni hanno riguardato sia gli illeciti funzionali, sia gli illeciti extrafunzionali. Per quanto concerne i primi, relativi all’attività interpretativa, sono state introdotte due importanti novità. In primo luogo, il legislatore ha abrogato l’art. 2, comma 2, d. lgs. n. 109/2006, il quale delineava come illecito funzionale l’interpretazione non conforme ai criteri prescritti in tale articolo. Una fattispecie particolarmente problematica, dato che l’interpretazione non implica “la scoperta del significato esatto delle proposizioni normative, ma l’attribuzione ad esse di uno dei significati possibili”[78]. In secondo luogo, si è assistiti alla soppressione dell’art. 2, comma 1, lett. ff, d. lgs. n. 109/2006, il quale prevedeva implicitamente il divieto di sentenze “fantasiose”, nel presupposto che in passato taluni giudici abbiano abusato del potere ermeneutico, al punto tale da mettere a punto nuove norme giuridiche. In ordine agli illeciti funzionali esterni all’attività interpretativa, si segnala l’eliminazione di talune fattispecie, prescritte dal d.lgs. 109/2006, di discutibile applicazione[79]. Con riguardo agli illeciti extrafunzionali, la legge n. 26/2006 ha provveduto a contenere l’area dell’illiceità. In seguito all’abrogazione dell’art. 1, commi 2 e 3, sono venute meno le ipotesi di illecito, di cui all’art. 3 lett. d), attinenti all’esecuzione di attività non rivelate che sarebbero tali da pregiudicare la credibilità personale, il prestigio ed il decoro del magistrato o il prestigio dell’autorità giudiziaria. In ragione dell’abrogazione dell’art. 3 lett. l), è stata abolita la clausola che avrebbe permesso di conseguire “ogni altro comportamento” suscettibile di minacciare l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato. Infine, vista l’abrogazione dell’art. 3 lett. f), è stato rimosso l’illecito inerente alla pubblica manifestazione di consenso o dissenso, nel corso di un procedimento giudiziario, volto ad influire sulla libertà di scelta nel medesimo procedimento. Fatta salva l’illiceità dell’iscrizione ai partiti politici, non viene più giudicata[80] come illecita la semplice presenza all’attività dei partiti, bensì la partecipazione sistematica e continuativa[81] al partito. In tale quadro, si inserisce l’eliminazione dell’illecito consistente nella partecipazione alle attività di centri politici o affaristici, tali da “sporcare” la figura del giudice. In sintesi, le uniche condotte punibili sono quelle tipiche riportate nell’elenco contenuto nella legge n. 269/2006, che rispecchiano le fattispecie rilevate dalla giurisprudenza della Sezione disciplinare del CSM. Sotto tale profilo, si ricorda la previsione contemplata nell’art. 3 lett. i), che identifica come illeciti i comportamenti dei magistrati intenzionati ad incidere sull’ambito costituzionalmente assegnato agli organi di indirizzo politico. La suddetta norma si presenta particolarmente impegnativa, in quanto la condotta che potrebbe violarla dovrebbe tradursi in una libera manifestazione del pensiero, nonché in un diritto costituzionalmente garantito a tutti. I magistrati, infatti, possono subire delle limitazioni solo per il semplice fatto di essere soggetti deputati all’esercizio di pubbliche funzioni. In qualità di cittadini, su di essi ricade la possibilità di attuare la libertà di critica[82].

 

7.  La legge n. 111/2007: verso una riconsiderazione della “carriera”?

La normativa sulla carriera, con l’entrata in vigore della legge 30 luglio 2007, n. 111[83], subisce una radicale revisione. Una prima novità attiene alla valutazione di professionalità introdotta con un duplice proposito: eliminare il meccanismo della progressione nelle funzioni mediante concorso per titoli ed esami e oltrepassare il sistema di avanzamento in carriera subordinato al criterio negativo della mancanza di “gravi demeriti”[84]. In particolare, tale legge ha previsto un apparato ripartito in sette fasce di anzianità, ciascuna di durata quadriennale, alla quale si accede previa valutazione. Essa consiste in un giudizio emesso dal CSM, con provvedimento motivato e trasmesso al Ministro della Giustizia[85]. La valutazione di professionalità avviene sulla base della capacità, della laboriosità, della diligenza e dell’impegno[86]. Dal giudizio emesso dal CSM potrebbe derivare uno dei seguenti esiti: positivo, non positivo, negativo[87]. Se l’esito è positivo, ne consegue il cambiamento di fascia e l’incremento di stipendio[88]. Se il giudizio, invece, è “non positivo”, il CSM, sentito il Consiglio giudiziario[89], provvede ad un’ulteriore valutazione di professionalità dopo un anno[90]. Infine, se il giudizio è negativo, il magistrato è sottoposto ad una nuova valutazione di professionalità dopo un biennio. In quest’ultimo caso, un secondo giudizio negativo determina la dispensa dal servizio[91]. L’attribuzione delle funzioni avviene, su domanda del candidato, attraverso una procedura concorsuale, alla quale possono prendere parte soltanto coloro che hanno ottenuto la valutazione di professionalità necessaria. Alla luce di tale scenario, sono necessarie talune riflessioni. L’introduzione di un sistema suddiviso in fasce se, da un lato garantisce un miglior controllo della professionalità all’interno dell’ordine giudiziario, dall’altro, richiede un impegno enorme da parte del CSM e del corpo giudiziario. Tale circostanza trova conferma nel rilascio di valutazioni meramente positive; tale situazione sembra non giustificare l’introduzione di un sistema così farraginoso. Una pecca si ravvisa nell’estensione della valutazione della professionalità anche ai magistrati c.d. “fuori ruolo”. In tale caso, il giudizio è pronunciato dal CSM, previo parere del Consiglio giudiziario presso la Corte di Appello di Roma, predisposto “sulla base della relazione dell’autorità presso cui gli stessi svolgono servizio, illustrativa dell’attività svolta”. Oltre ad avanzare forti dubbi sulla partecipazione “fuori luogo” del Consiglio giudiziario di Roma, appare irragionevole fondare una valutazione di professionalità in assenza di esercizio delle funzioni giurisdizionali da parte del magistrato. Tenuto conto che, le valutazioni sono quasi sempre positive, l’avanzamento nella carriera avverrebbe in maniera del tutto slegata dall’operato del magistrato, al quale poi spetterebbe un guadagno maggiore e immeritato. Una seconda novità concerne il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa: il candidato non deve più riportare in via preventiva la preferenza tra il ruolo di giudice e quello di pubblico ministero. La legge n. 111/2007 stabilisce che il passaggio[92] debba essere richiesto dall’interessato solo dopo aver compiuto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata. Con l’intento di scongiurare che il magistrato possa risultare sprovvisto di un’idonea preparazione in vista dell’esercizio di una nuova funzione, è prevista la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale. In tale scenario, si inquadra il cambiamento di Regione, diretto ad escludere la possibilità che l’attività attuata in precedenza in una veste possa influire su quella esercitata in un’altra veste[93]. L’esperienza più che decennale di applicazione di tale legge dimostra che, prevalentemente, i percorsi professionali si realizzano all’interno della medesima funzione[94].

 

8. Conclusioni: “verba volant scripta manent”

Come già accennato, la Costituzione ha inteso garantire ai magistrati ordinari una posizione di autonomia e di indipendenza nei confronti degli altri poteri dello Stato, svincolando così i giudici dalla figura del Ministro della giustizia. Sul piano dell’indipendenza interna, la legge n. 111/2017 ha impedito l’attuazione della parte più pericolosa della riforma dell’ordinamento giudiziario prevista dalla legge delega n. 150/2015, la quale presagiva il ripristino della temuta struttura “piramidale”, suscettibile di contenere l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. Dal quadro appena delineato, i problemi legati all’indipendenza esterna ed interna sarebbero stati attenuati nel corso del tempo. In realtà, tali questioni sono state apparentemente risolte. Mentre l’indipendenza interna continua ad essere minacciata dalla sussistenza nel CSM delle correnti della magistratura, l’indipendenza esterna risulta lesa dai c.d. incarichi extragiudiziari di natura politica. Quest’ultimo profilo merita una particolare attenzione. La Costituzione del 1948 riconosce a tutti i cittadini il diritto di accedere “agli uffici pubblici e alle cariche elettive secondo i requisiti stabiliti dalla legge” (art. 51). I magistrati, in qualità di cittadini, possono candidarsi alle elezioni politiche, nazionali ed europee. Tuttavia, si è visto che, ad essi è vietata “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici” (art. 3, comma 1, lett. h) d.lgs. 109/2006 come modificato dall’art. 1.3 lett. d) n. 2 l. 269/2006), in attuazione del dato costituzionale in relazione al quale “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati…” (art. 98). In codesto quadro, si colloca la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla sezione disciplinare del CSM e respinta dal “Giudice delle Leggi” con sentenza n. 170/2018. Nel suddetto caso, la Corte – a parere di chi scrive – incorre in contraddizione con sé stessa, nella parte in cui ritiene che l’indipendenza del magistrato venga compromessa nel caso di iscrizione ad un partito e non nel momento in cui ottempera un incarico elettivo tramite il supporto del proprio partito[95]. La Consulta – sempre a parere di chi scrive – avrebbe dovuto, non soltanto mantenere fermo il divieto di iscrizione e di partecipazione sistematica e continuativa alla vita dei partiti politici nei confronti dei magistrati, ma arrestare un rientro degli stessi all’esercizio delle funzioni, una volta conclusasi l’esperienza politica[96]. Allo stato attuale sembra che, quell’indipendenza sancita in Costituzione, rimanga soltanto sulla “carta” senza trovare pieno riconoscimento. Sebbene non si possano mettere in discussione[97] gli enormi passi compiuti dalla giurisprudenza costituzionale circa l’indipendenza della magistratura, allo stesso tempo appare evidente una mancata coerenza al riguardo, frutto di una serie di riforme sull’ordinamento giudiziario incomplete e sterili.     


Note e riferimenti bibliografici

[1] Come ben delineato da A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Torino, 1990, p. 46, “l’ordinamento giudiziario prevedeva l’inquadramento dei  magistrati nei gradi di uditore giudiziario (grado VIII), aggiunto giudiziario (grado VII), giudice, sostituto procuratore del re e pretore (grado VI), consigliere di corte d’appello, sostituto procuratore generale di corte d’appello (grado V), consigliere di cassazione (grado IV), presidente di sezione della Corte di cassazione e avvocato generale della Corte di cassazione (grado III), procuratore generale presso la Corte di cassazione (grado II) e presidente della Corte di cassazione (grado I)”.

[2] Il guardasigilli siciliano era convinto del fatto che “alla magistratura fosse necessaria la più ampia e insospettabile indipendenza nell’esercizio delle sue funzioni, affinché la giustizia fosse e apparisse estranea e superiore alla ragion politica e ai conflitti dei partiti” (in Atti parlamentari della Camera dei Deputati, Leg. XXII, sess. 1904-1907, Documenti, C. n. 855).

[3] Nella relazione di accompagnamento del testo si puntualizza che lo scopo del decreto era quello di superare la separazione dei poteri in modo tale che la funzione giudicante fosse conformata “alle direttive generali segnate dal Governo per l’esercizio di ogni funzione pubblica” (D. Grandi, La nuova legge sull’ordinamento giudiziario. Relazione del Guardasigilli al Duce, 1°marzo 1941, Roma, 1940). 

[4] In particolare, il r.d. n. 2626/1965 recepiva le linee fondamentali dell’ordinamento napoleonico del 1810. Esso attribuiva al Ministro la facoltà di trasferire i giudici dalla loro sede, anche senza il loro consenso, per motivi imputabili all’utilità di servizio.

[5] In particolare, il r.d. n. 1921/1923 eliminò l’elettività del CSM e ridusse il numero dei componenti togati dell’organo a cinque, tutti di nomina ministeriale. Una novità è data dalla c.d. Commissione per l’epurazione della magistratura, formata da alti magistrati, con il compito di dispensare dal servizio i magistrati “sgradevoli” per motivi politici. Inoltre, vennero soppresse le Cassazioni regionali e la Cassazione di Roma divenne Cassazione del Regno. Dal 1926, i membri del CSM furono portati a dieci: il Presidente della Corte di Cassazione, che lo presiedeva, il Procuratore generale presso la stessa Corte di Cassazione, sei magistrati giudicanti e due requirenti, aventi tutti il grado di consigliere di Cassazione e nominati dal Ministro.    

[6] Tale progetto non fu neppure preso in esame. Una conferma di ciò discende dal fatto che la relazione ed il disegno di legge non si rinvengono nella raccolta degli atti parlamentari della XXV Legislatura. Il testo è conosciuto grazie alla pubblicazione sul n. 72 del 1920 della rivista giuridica “Giurisprudenza italiana”.

[7] Si ricordi che, in precedenza erano state accantonate anche le proposte di Luigi Lucchini, ritenute rivoluzionarie dell’assetto vigente. Sul punto, si veda D. Marafioti, Metamorfosi del giudice: riflessioni su giustizia e potere, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2004, pp. 13-14. 

[8] Con la fine del fascismo, si avvio la fase della c.d. epurazione. Sul punto, G. Melis, Note sull’epurazione dei ministeri, 1944-1946, in “Ventunesimo secolo”, n. 4, 2003, 17-52, afferma che la vicenda dell’epurazione fu caratterizzata da una fase “ascendente” (tra l’estate del 1944 e la prima metà del 1945) e da una seconda fase “discendente o di ripiegamento”, avviata con la crisi del governo Parri e la sostituzione con l’esecutivo De Gasperi e sfociata con l’amnistia Togliatti del 1946. Sul tema dell’epurazione, si veda M. Giannetto, Defascistizzazione: legislazione e prassi della liquidazione del sistema fascista e dei suoi responsabili (1943-1945), Rubbettino, Vol. 2, n. 4, 2004, pp. 53-90; A. Meniconi, La magistratura nella storia costituzionale repubblicana, in Nomos-Le attualità del diritto, n. 1, 2017, pp. 2-7.  

[9] G. Neppi Modona, Togliatti guardasigilli, in Togliatti e la fondazione dello Stato democratico (a cura di A. Agosti), Milano 1986, p. 289.

[10] Il giudizio spettava al Tribunale disciplinare ovvero alla Corte disciplinare, a seconda del grado del magistrato sottoposto a procedimento. Un aspetto peculiare consisteva nel fatto che codesti organi godevano di giurisdizione piena e le sentenze adottate non erano soggette ad alcun gravame da parte del Ministro della Giustizia. 

[11] Ai sensi dell’art. 69 dello Statuto Albertino: “I Giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento, sono inamovibili dopo tre anni di esercizio”. L’art. 2 della legge sulle guarentigie della magistratura, invece, prevede che “i magistrati di grado non inferiore a giudice, sostituto Procuratore della Repubblica o pretore, non possono essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, se non col loro consenso”. M. Arcuri, L'inamovibilità dei magistrati: Il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale, Egea, Milano, 2014, sottolinea che “la fisionomia del principio dell’inamovibilità in un assetto istituzionale quale quello precedente all’avvento della forma repubblicana, caratterizzato dalla subordinazione del potere giudiziario a quello esecutivo, presentava fattezze diverse da quelle attuali non avendo tanto la funzione di tutelare l’indipendenza e l’autonomia del magistrato quanto quella di assicurarne la “condizione di lavoro”, intesa quale “prerogativa meramente burocratica del giudice funzionario”.   

[12]Ai sensi dell’art. 27 della legge sulle guarentigie della magistratura: “L'azione disciplinare è promossa, su richiesta del Ministro per la grazia e giustizia, dal pubblico ministero presso il Tribunale disciplinare competente”. Si ricordi che, tale articolo verrà poi abrogato dall’articolo 31, comma 1, del D.lgs. 23 febbraio 2006, n. 10.

[13] Si ricordi, tuttavia, che del CSM potevano farne parte soltanto magistrati di quarta grado. Ad esso spettava esprimere un parere vincolante sui trasferimenti d’ufficio di giudici inamovibili e nei casi di dispensa per infermità, debolezza di mente, mentre restava obbligatorio il parere nell’ipotesi di trasferimento di ufficio di pubblici ministeri.

[14] In particolare, G. Ferri, Autonomia e indipendenza della Magistratura tra vecchio e nuovo ordinamento giudiziario, in rivistaaic.it, n. 4, 2017, p. 6, evidenzia come l’Esecutivo, dopo l’estromissione della destra nella primavera del 1947, “utilizzerà gli strumenti a sua disposizione per influenzarla attraverso un’alleanza con i magistrati di grado più elevato”.

[15] Sul rapporto tra magistratura e ceto politico di governo, si veda G.  Neppi Modona, La magistratura dalla Liberazione agli anni cinquanta. Il difficile cammino verso l’indipendenza, in AA. VV., Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, Tomo 2, Istituzioni, politiche, culture, Torino 1997, p. 81.

[16] Ai sensi dell’art. 1 della legge sulle guarentigie della magistratura: “I magistrati non possono essere privati delle funzioni e dello stipendio, collocati in aspettativa, indisponibilità o a riposo, oppure essere destinati ad altra sede o ad altre funzioni, se non nei casi e nelle forme previsti dal presente decreto”.

[17] Occorre precisare che, la dispensa veniva accordata nel momento in cui emergeva il timore che la carente condizione psico-fisica del magistrato potesse incidere sull’indipendenza ed imparzialità dello stesso.  

[18] G. Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Giuffré, Milano, 2004, p. 88.

[19] In seguito, essi hanno assunto una configurazione simile a quella degli organismi attuali. Con le leggi nn. 825/1966 e 214/1967, i Consigli erano costituiti dal Primo Presidente della Corte di Appello, dal Procuratore generale presso la stessa Corte, da cinque membri effettivi e tre supplenti eletti ogni due anni da tutti gli uffici giudiziari del distretto.  

[20] Si ricordi che, autonomia ed indipendenza, interna ed esterna, dei giudici costituiscono i presupposti costituzionali del principio del giusto processo. 

[21] Occorre riflettere sul fatto che, mentre l’art. 104, comma 1, Cost. fa riferimento alla “magistratura”, l’applicazione dell’art. 101 Cost. sembrerebbe essere limitata ai singoli giudici. In realtà, l’Assemblea Costituente intendeva riferirsi anche nell’art. 101 alla magistratura nel suo complesso. È bene, però, precisare che le due disposizioni affermano concetti diversi tra di loro. Come evidenziato da L. Pomodoro, I. Castiglioni, D. Pretti, Manuale di ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2013, p. 16, “l’art. 101 si riferisce all’indipendenza del giudice persona fisica nell’esercizio concreto della propria funzione, mentre l’art. 104 garantisce l’autonomia ordinamentale, che attiene invece alla struttura organizzativa della magistratura nel suo complesso”.   

[22] Per un approfondimento sull’origine dell’indipendenza, si veda V. Zagrebelsky, Nozione e portata dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario e dei giudici. Ruolo del Consiglio superiore della magistratura, in rivistaaic.it, Fasc. 6, 2019, pp. 83-86. 

[23] Ai sensi dell’art. 104, comma 7, Cost.: “I magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzione”.

[24] A fronte dell’indipendenza interna, è opportuno precisare che l’ordinamento italiano non potrebbe adottare un sistema come quello anglosassone dello stare decisis ovvero del precedente giudiziario vincolante. 

[25] Ogni giudice, nel momento in cui ritiene che la propria opera sia menomata da altri poteri, può invocare le garanzie di autonomia ed indipendenza che la Costituzione riconosce all’ordine giudiziario nel suo complesso. Ovviamente, come precisato da F. Modugno, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2012, p. 649, “il potere attribuito ai giudici non è un potere assimilabile a quello dei poteri politici, nel senso che gli atti attraverso i quali si esprimono i giudici nell’esercizio della propria funzione non rappresentano esercizio di un indirizzo politico, ma non vi è dubbio che la sua struttura e la sua attività, come definiti dal complesso dei principi costituzionali, identifichino un potere che concorre con gli altri a comporre un’articolazione essenziale dello Stato”. In senso critico, si veda C. V. Marino, La Giustizia e i suoi nemici, Cacucci, Bari, 2010, pp. 95-96, il quale evidenzia taluni aspetti che tendono a sminuire il carattere di potere diffuso dell’ordine giudiziario.

[26] In particolare, M. Scaparone, L'ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2012, p. 20, pone in luce un aspetto di indubbia rilevanza: “l’indipendenza esterna è l’equivalente della separazione dei poteri e specificatamente della separazione, essenziale allo Stato di diritto, tra gli organi giurisdizionali e gli organi politici”.  

[27] P. Caretti, U. De Siervo, Diritto costituzionale e pubblico, Giappichelli, Torino, 2017, p. 460.

[28] N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2014, p. 231.

[29] F. Spagna Musso, Problemi costituzionali del pubblico ministero, in Studi di diritto costituzionale, Morano, Napoli, 1966, p. 410.

[30] Infatti, come riportato da E. Bruti Liberati, A. Ceretti, A. Giansanti, Governo dei giudici: la magistratura tra diritto e politica, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 215, “il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, il principio di legalità, il principio di soggezione alla legge e al diritto sono posti in crisi quando il Pm non è autonomo rispetto al potere politico. È proprio perché i magistrati del Pm assicurano l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge che essi debbono poter esercitare le loro funzioni in maniera indipendente rispetto al potere politico”.

[31] Corte Cost. 16 giugno 1994, n. 43.

[32] Corte Cost. 26 luglio 1979, n. 84.

[33] N. Zanon, L’autonomia e l’indipendenza delle magistrature speciali nella Costituzione, in Indipendenza, imparzialità e responsabilità dei giudici speciali, G. Campanelli (a cura di), Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 17.  

[34] Corte Cost. 27 maggio 1968, n. 49. 

[35] Corte Cost. 22 marzo 1967, n. 30

[36] Si ricordi che, la VII disp. trans. fin., comma 1, non è stata attuata dal legislatore italiano, bloccando così per un certo periodo di tempo il titolo IV della parte II della Costituzione.

[37] Si ricordi che, il più importante predecessore della Corte Costituzionale in Italia è rappresentato dall’Alta Corte per la Regione siciliana. Essa istituita dallo Statuto regionale del 1946 disponeva di funzioni di giustizia politica e di legittimità costituzionale. Tale organo cessò di operare nel 1955, finché la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità delle disposizioni dello Statuto regionale relative all’Alta Corte. Sul tema, si veda E. Balocchi, La giurisdizione dell'Alta corte per la Regione siciliana (intorno all'ordinanza del 5 luglio 1955), in Il Foro Italiano, Vol. 79, 1956, pp. 163/164-181/182.

[38] Sul tema, si veda P. Costanzo, Aspetti tecnici dell’esperienza storica di controllo di costituzionalità “diffuso” nell’ordinamento italiano, in Studi in onore di M. Mazziotti di Celso, Padova, 1990, p. 250.

[39] Tuttavia, E. Lamarque, La Costituzione interpretata dall’autorità giudiziaria, Fasc. 2, 2018, p. 70, sostiene che “non si può addebitare ai giudici una particolare lentezza o ritrosia nel fare uso delle nuove norme costituzionali. Era infatti prevedibile che la penetrazione delle nuove norme costituzionali sarebbe stata graduale, e che tutta la novità costituzionale in tema di diritti e di eguaglianza non potesse essere colta subito in ogni sua potenzialità da nessuno dei soggetti dell’ordinamento”.

[40] R. Romboli, I rapporti tra giudici comuni e Corte Costituzionale nel controllo sulle leggi in via incidentale in Italia: l’esperienza di 50 anni di giurisprudenza costituzionale, in juridicas.unam.mx, 2008, p. 325.

[41] Di conseguenza, per le leggi precedenti alla Costituzione sarebbe rimasto soltanto il giudizio, inter partes, del giudice comune. 

[42] Vi è chi ritiene che, nei primi cinque anni del suo operato, la Corte Costituzionale avrebbe salvato le leggi dell’epoca fascista anche se contrarie alle libertà costituzionali. Sul punto, si veda N. Tranfaglia, Per una storia politica della Corte costituzionale, in Dallo stato liberale al regime fascista, Feltrinelli, Milano 1973. In senso opposto, si veda A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza, in Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari, 1955, pp. 384-396, secondo il quale la distinzione tra norme costituzionali programmatiche venne introdotta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 1 del 1948 non per salvare una norma contraria alle libertà fondamentali, ma al fine di mantenere le sanzioni del 1944 tese alla repressione del fascismo.

[43] Sulla prima pronuncia della Corte Costituzionale, si veda G. Grasso, La sentenza n. 1 del 1956. Sessant'anni dopo, in osservatorioaic.it, Fasc. 1, 2017. 

[44] Si tratta della Magistratura indipendente, del Terzo potere e della Magistratura democratica.

[45] La figura di giudice delineata era quella del giudice c.d. generalista; l’accesso al “vertice” della carriera era strutturato in modo tale da imporre al magistrato uno stile, un linguaggio ed opzioni graditi ai magistrati della Corte di Cassazione (L. Salvato, Funzioni di legittimità, requirenti e giudicanti. Incarichi direttivi di legittimità, in Ordinamento giudiziario: organizzazione e profili processuali, D. Carcano (a cura di), Giuffré, Milano, 2009, p. 98). Sul punto, G. Maranini, Magistrati o funzionari? Atti del Symposium Ordinamento giudiziario e indipendenza della magistratura, Comunità, Milano, 1962, svolge una polemica relazione dal titolo Carriera dei giudici, casta giudiziaria, e potere politico, dove osserva che: “Non credo […] che nelle magistrature “superiori” occorrano maggiori valori morali e tecnici che nelle magistrature “inferiori”. È una mia opinione che potrei difendere con un lungo discorso. Mi limito a riferirmi alla mia esperienza professionale […]. E nella mia forse eccessiva presunzione, sono convinto che saprei essere un mediocre consigliere di cassazione; ma non avrei mai il coraggio di fare il pretore, perché so che non avrei la preparazione necessaria”.

[46] In particolare, con l’art. 107, comma 3, Cost. che prevedeva una distinzione dei magistrati per sole funzioni e non per gradi.

[47] Dal nome del primo firmatario, Uberto Breganze, deputato della Democrazia cristiana.

[48] M. Cicala, L’area moderata tra magistratura, politica e cultura, in Critica penale, III-IV, 2000, p. 229, ricorda che soltanto i giudici più anziani erano contrari alla legge Breganze, interpretata come il trionfo della “poltroneria”.

[49] Un dato rilevante è rappresentato dal fatto che le promozioni potevano avvenire anche in eccedenza rispetto al numero dei posti vacanti nelle funzioni più elevate.

[50] F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2018, p. 151.

[51] In tale quadro, si inserisce anche la legge 25 maggio 1970 n. 357, abolitrice dell’esame pratico per divenire aggiunto giudiziario, livello intermedio tra uditore giudiziario e magistrato di tribunale venuto meno nel 1979.

[52] Al contrario, si tratta di un momento fondamentale in netta rottura con un passato falsamente meritocratico. A tal proposito, L. Pepino, Forti con i deboli, Bur Rizzoli, Milano, 2012, p. 49, sostiene che “la meritocrazia, tesa com’è a dispensare riconoscimenti, economici o di carriera, a chi ne viene ritenuto meritevole, è la proiezione di una magistratura organizzata gerarchicamente che punta sulla selezione”.

[53] Si ricordi che, i lavori parlamentari furono articolati in due fasi. La prima fu rappresentata dalla presentazione del disegno di legge da parte del Ministro De Pietro, disegno che prevedeva un’ampia interpretazione dei poteri ministeriali ex art. 110 Cost. La seconda, invece, si contraddistinse per un drastico cambiamento del disegno di legge ad opera del neo Guardasigilli Gonella e della commissione Tosato, che cercarono di unire le proposte della Magistratura e della dottrina.

[54] S. Franzoni, I giudici del Consiglio superiore della Magistratura, Giappichelli, Torino, 2014, p. 67.

[55] In tale caso, si sarebbe pervenuti anche ad una netta violazione dei principi costituzionali a tutela dell’indipendenza della Magistratura, nonché con gli artt. 104, 105 e 110 Cost.

[56] Secondo G. Zagrebelsky, Editoriale, in Quaderni costituzionali, n. 3, 1989, p. 423, ci si trova innanzi ad “un settore dell’organizzazione pubblica concettualmente sfuggente, l’estensione alla quale delle categorie costituzionali tradizionali è ricca di insidie”.

[57] Si veda F. Redenti, Relazione, in AA. VV, Sul Consiglio superiore della magistratura, in Atti del convegno di Bologna, 3-4 novembre 1952, Milano, Giuffré, 1953, p. 72.

[58] Secondo G. Volpe, voce Consiglio superiore della magistratura, Enc. Dir., IV, Milano, 2000, pur non ravvisando un’assoluta compatibilità di detto organo con la Costituzione, le attribuzioni dello stesso dovevano essere intese come meramente strumentali alla funzionalità del Consiglio. La prospettiva non ha trovato alcun riscontro concreto.  

[59] Ai sensi dell’art. 2 comma 2 della legge 24 marzo 1958, n. 195: “Il Comitato promuove l'attività e l'attuazione delle deliberazioni del Consiglio, e provvede alla gestione dei fondi stanziati in bilancio ai sensi dell'art. 9”. L’art. 8 del Regolamento interno del CSM si limita a ribadire quanto previsto dalla legge istitutiva, aggiungendo al comma 3 che “le deliberazioni del Comitato di Presidenza sono adottate tempestivamente e comunque entro il termine di un mese dall’inizio dell’esame di ciascuna richiesta, ricorso, rapporto o esposto. Entro dieci giorni dalla comunicazione di cui all’art. 7, comma 2, almeno un quarto dei componenti elettivi può avanzare istanza al Comitato di Presidenza affinché provveda al riesame di una o più deliberazioni. Su tale istanza il Comitato delibera con provvedimento motivato”.  

[60] Gli esempi sono vari. Si pensi, all’art. 11 comma 3, secondo il quale “Sul conferimento degli uffici direttivi, esclusi quelli di pretore dirigente nelle preture aventi sede nel capoluogo di circondario e di procuratore della Repubblica presso le stesse preture, il Consiglio delibera su proposta, formulata di concerto col Ministro per la grazia e giustizia, di una commissione formata da sei dei suoi componenti, di cui quattro eletti dai magistrati e due eletti dal Parlamento” e all’art. 17, in relazione al quale “Tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro, ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per la grazia e giustizia”.

[61] Corte Cost. sentenza 23 dicembre 1963, n. 168.

[62] In particolare, si tratta di un sistema di elezione in due fasi: la prima per collegi territoriali, destinata alla designazione di una lista nazionale di eleggibili ripartiti per categorie, e la seconda per l’elezione in collegio unico nazionale sulla base della lista nazionale, con i vincoli di categoria, ma con una limitata facoltà di scelta anche al di fuori della lista (E. B. Liberati, L. Pepino, Giustizia e referendum: separazione delle carriere, Csm, incarichi extragiudiziari, Donzelli, Roma, 2000, pp. 67-68).

[63] Precedentemente all’approvazione della suddetta legge, si avverte la necessità di tradurre a livello istituzionale il pluralismo politico-culturale presente nel corpo giudiziario. Tale esigenza affiora in un intervento del leader Nicola Serra, Composizione del Csm e sistema elettorale, Relazione al Convegno nazionale di studi sulla riforma del Csm, Catanzaro, 5-7 giugno 1969, in Il Consiglio superiore della magistratura. I primi tre quadrienni, F. Colitto (a cura di), Casa molisana del libro, Campobasso, 7972, p. 102, “Il sistema che personalmente ritengo migliore è quello proporzionale sulla base di liste concorrenti. Oggi, è un dato obiettivo e positivo, la magistratura italiana prende sempre più coscienza del suo ruolo nella società moderna e concepisce la sua funzione come un servizio reso alla collettività nazionale. Nella sua grande maggioranza si articola per “correnti” o gruppi ideologici, ciascuno dei quali è portatore di una particolare concezione delle funzioni, dei poteri e dei limiti dell’ordine giudiziario”.  

[64] Sulle aggregazioni politico-culturali della magistratura, si veda G. Melis, Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, Fasc. 1, 2020; M. Volpi, Le correnti della magistratura: origini, ragioni ideali, degenerazioni, in rivistaaic.it, n. 2, 2020.

[65] Essa è nota come legge Castelli, in quanto prende il nome dall’allora Ministro della giustizia Roberto Castelli.

[66] L’iniziativa del Capo dello Stato prende avvio in ragione della rilevanza della legge “preordinata a dare attuazione alla VII Disposizione transitoria”, che rende necessario un confronto con i principi costituzionali”.

[67] Si veda, Atti parlamentari, Senato della Repubblica, XIV Legislatura, Disegni di legge e Relazioni, Documenti n. 1296.

[68] Si ricordi che, la delega poteva essere revocata nel caso in divergenza o di inosservanza dei criteri determinati dal Procuratore della Repubblica.

[69] In seguito, spettava al giudice per le indagini preliminari il compito di appurare la fondatezza della richiesta avanzata dal pubblico ministero. Tale circostanza limitava fortemente l’azione dei magistrati che operavano all’interno della procura.

[70] La dottrina prevalente non ravvisa nell’art. 107, comma 3 Cost. un dato rilevante e decisivo contro la separazione delle carriere. In tal senso, M. Olivetti, La nuova organizzazione della giustizia in Italia: un esempio di legislazione postcostituzionale?, in Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Giuffré, Milano, 2007, p. 29, il quale afferma che “la ratio di questa disposizione si riferisce al rapporto fra i magistrati  all’interno della funzione giudicante e di quella requirente (ed acquisisce poi un diverso significato alla  luce delle diverse modalità di garanzia dell’indipendenza costituzionalmente delineate per giudici e pubblici ministeri), non al rapporto fra le due funzioni. La disposizione, inoltre, esclude il rapporto gerarchico fra magistrati, ma non si traduce in una “equivalenza delle funzioni”, che possono essere diverse, con la conseguenza che il legislatore ordinario può prevedere barriere per il passaggio dall’una all’altra”.

[71] A tal riguardo, la Consulta nella sentenza 7 febbraio 2000, n. 37, ha statuito che “la Costituzione pur considerando la Magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti  rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti o che impedisca di limitare o condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.

[72] Al contempo, la stessa corrente di pensiero esalta le pecche della riforma del 2005. Infatti, F. Dal canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2018, p. 41, osserva che l’ordinamento giudiziario del 2005 era ben diverso da quello ereditato nel 1948. Alla luce di ciò, ne discende che “la legge del 2005 non era la legge da tempo attesa. Essa affrontava alcune criticità reali dell’ordinamento giudiziario con soluzioni spesso non condivisibili, sia perché, presa una per una, le stesse non apparivano allineate con i principi costituzionali, sia perché non sempre esse erano rispondenti alla generalizzata richiesta di maggiore efficienza del sistema giustizia”.

[73] Per una panoramica sulla suddetta legge si veda, C. Castelli, Un bilancio del sistema disciplinare a 10 anni dalla riforma, in questionegiustizia.it, Fasc. 4, 2017.

[74] Sul tema, si veda P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in questionegiustizia.it, 2019.

[75] Il magistrato entro dieci giorni può avanzare osservazioni scritte al procuratore, le quali dovranno essere motivate dallo stesso.  

[76] Tuttavia, si ricordi che, le disposizioni di legge devono essere sempre interpretate in conformità ai principali costituzionali. Sul punto, si veda G. Ferri, Autonomia ed indipendenza della magistratura tra “vecchio” e “nuovo” ordinamento giudiziario, in rivistaaic.it, n. 4, 2017, pp. 31-32.  

[77] Si ricorda che, in precedenza, la responsabilità disciplinare dei magistrati era regolata dalla c.d. “legge sulle guarentigie della magistratura”. Ai sensi dell’art. 18 r.d. lgs. n. 511/194: “Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari secondo le disposizioni degli articoli seguenti”. 

[78] M. Dogliani, La formazione dei magistrati, in Magistratura, Csm e principi costituzionali, B. Caravita (a cura di), Roma-Bari, 1994, p. 144.

[79] Si tratta degli illeciti funzionali riportati all’art. 2 lett. bb, i, z) consistenti rispettivamente nel rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura, perseguire fini estranei ai doveri ed alla funzione giudiziaria e tenere rapporti in relazione all'attività del proprio ufficio con gli organi di informazione al di fuori delle modalità previste dal decreto legislativo emanato in attuazione della delega di cui agli articoli 1, comma 1, lettera d) e 2, comma 4, della legge 25 luglio 2005, n. 150.

[80] La Consulta, nella sentenza 17 luglio 2009, n. 224, ha precisato che “i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e che quindi possono, com’è ovvio, non solo condividere un’idea politica, ma anche espressamente manifestare le proprie opzioni al riguardo”.

[81] Sul punto, si veda G. Tarli Barbieri, La partecipazione dei magistrati all’attività politica, in Criminalia, 2009, pp. 74-78. 

[82] Sul tema, si veda N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in questionegiustizia.it, Fasc. 4, 2018; S. De Nardi, La libertà di espressione dei magistrati, Jovene, Napoli, 2009.   

[83] Essa è nota come legge Mastella, dal nome dell’allora Ministro della Giustizia Clemente Mastella.

[84] Secondo A. Patrono, Formazione dei magistrati e valutazione di professionalità, in L’ordinamento giudiziario a dieci anni dalla legge n. 150 del 2005, G. Ferri, A. Tedoldi (a cura di), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016, p. 159, alla suddetta disciplina si imputa il merito di aver introdotto nell’ordinamento giudiziario italiano la “cultura della valutazione”.

[85] Ai sensi dell’art. 11, comma 15, del d. lgs. n. 160/2006, come modificato dalla legge n. 111/2007: “Il giudizio di professionalità, inserito nel fascicolo personale, è valutato ai fini dei tramutamenti, del conferimento di funzioni, comprese quelle di legittimità, del conferimento di incarichi direttivi e ai fini di qualunque altro atto, provvedimento o autorizzazione per incarico extragiudiziario”.

[86] Si veda, l’art. 11, comma 2, del d. lgs. n. 160/2006, come modificato dalla legge n. 111/2007, per una puntuale spiegazione dei criteri di valutazione della professionalità. Occorre segnalare che, il CSM ha provveduto ad integrare tali parametri con degli indicatori.

[87] Ai sensi dell’art. 12, comma 13, del d. lgs. n. 160/2006, come modificato dalla legge n. 111/2007: “Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6, oltre al requisito di cui al comma 5 del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme”.

[88] In tale caso, la valutazione di professionalità risulti sufficiente in ordine ad ogni parametro fissato.

[89] Sull’evoluzione di tale organo, si veda C. Valori, I consigli giudiziari, dieci anni dopo, in questionegiustizia.it, 2017.

[90] In tale ipotesi, sono state rilevate carenze in ordine a uno o più degli elementi che compongono la valutazione di professionalità.

[91] In tale eventualità, vengano constatate carenze gravi in ordine ad uno o più dei criteri che formano la valutazione o comunque permangano una o più carenze in relazione agli stessi elementi sulla base dei quali il precedente giudizio era stato non positivo.

[92] Il passaggio da una funzione all’altra incontra un limite pari a quattro volte.

[93] Tuttavia, l’art. 13, comma 4, del d. lgs. n. 160/2006, come modificato dalla legge n. 111/2007 prevede talune eccezioni. Il tramutamento delle funzioni può avvenire in un “diverso circondario” e in una “diversa provincia” rispetto a quelli di provenienza ove il magistrato che richieda il passaggio alla funzione requirente abbia espletato negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del  lavoro ed il magistrato che richieda il passaggio alla funzione giudicante domandi di esercitare le funzioni “civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro”.

[94] Si passa, dunque, da una tendenziale separazione ad una tendenziale “distinzione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti. Per un approfondimento sul tema, si veda A. Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile, in giustiziainsieme.it, 2017.

[95] Si direbbe, quasi, che alla base di tale distinzione vi sia l’idea per cui l’iscrizione o la partecipazione sistematica al partito, in quanto soggetto per sua natura inevitabilmente di parte, infranga in modo inevitabile e irreparabile con l’imparzialità alla quale il magistrato, nel proprio comportamento, è tenuto, mentre ciò non accade con l’assunzione e lo svolgimento di cariche elettive ed istituzionali perché al servizio di tutti (S. Curreri, Magistrati e politica: un equilibrio quasi impossibile, in lacostituzione.info, 2018).

[96] Le questioni rimaste in sospeso sono varie. Sul punto, si veda G. E. Polizzi, Il “caso Emiliano”. I nodi ancora irrisolti del divieto di iscrizione ai partiti politici dopo la sentenza n. 170 del 2018, in rivistaaic.it, n. 3, 2018, p. 62-64.

[97] A tal proposito, si veda L. Lollo, L’indipendenza interna dei magistrati nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in rivistaaic.it, n. 4, 2012. G. Sobrino, Magistrati “in” politica: dalla Corte Costituzionale un forte richiamo all’indipendenza (ed alla sua immagine esteriore), in Forum di Quaderni costituzionali, 2018.

 

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