• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 18 Nov 2020

Il ruolo delle regole probatorie nel sistema canonico

Modifica pagina

Andrea Giovita
Dottore di ricerca



L´articolo prende in considerazione il tema delle Prove, nell´ambito processuale, e propone una verifica delle regole sulla proposizione, l´ammissione, l´acquisizione e la valutazione delle Prove nel sistema canonico. Poichè in esso, rispetto ad altri sistemi, tali regole corrono il rischio di assumere un ruolo contro epistemico, creando cioè un deficit che condiziona o limita l’accertamento della verità.


ENG This paper takes into consideration the theme of the evidence, in the context of the trial, and proposes a verification of the rules on the proposition, admission, acquisition and evaluation of the Trials in the canonical system. Since in it, compared to other systems, such rules run the risk of assuming a role against epistemic, that is, creating a deficit that conditions or limits the ascertainment of the truth.

Sommario1. Il ruolo veritativo delle regole probatorie nel sistema canonico; 2. Regole sull’ammissione delle Prove; 3. Regole sull’acquisizione delle Prove; 4. Regole sulla valutazione delle prove; 5. La valutazione delle prove: coerenza e congruenza della narrazione. 

1. Il ruolo veritativo delle regole probatorie nel sistema canonico 

Le regole probatorie partecipano al complesso delle regole procedurali che vanno osservate e custodite nella loro qualità di unica via percorribile per giungere alla decisione[1].

Oltre a ciò non si può dimenticare che il prudente apprezzamento del giudice nell’acquisire e valutare le prove e nel determinare i fatti provati della controversia è sempre limitato dalle regole generali della razionalità e della logica[2].

Provare, infatti, in quanto attività pubblica, ha senso solo entro una pratica cognitiva comune, tale che i partecipanti orientino verso essa le proprie aspettative accettandone i criteri di razionalità[3]. Il prudente apprezzamento, quindi, non rimanda ad una discrezionalità[4] senza regole equiparabile all’arbitrio. La discrezionalità del giudice implica piuttosto razionalità[5], e questa a sua volta implica un apprezzamento analitico e completo di tutti gli elementi che incidono sul valore conoscitivo di cui la prova è portatrice, al fine della determinazione giudiziale dei fatti.

Il prudente apprezzamento fa riferimento all’obbedienza che si deve alle regole probatorie e alla razionalità comune, poiché si prova solo entro lo spazio pubblico della comunicazione e del confronto intersoggettivi[6], e si giudica presupponendo la presenza degli altri e il rendere conto ad essi.

In altre parole, la prova in diritto vive nella tensione tra costruzione giuridica e razionalità comunicativa ed argomentativa[7].

Inoltre, il grado di conferma di un segmento narrativo deriva dalla quantità e dalla qualità delle prove disponibili, dal loro grado di attendibilità[8] (se si tratta di testimoni, dalla loro sincerità, competenza ed esattezza), di coerenza e di convergenza[9]. Elementi tutti che emergono nella fase del contraddittorio[10], configurando il processo come luogo di cooperazione e confronto interpretativo, come contesto interattivo in cui prende forma il reale giuridicamente compreso. La comunità processuale, costituita da tutti coloro che partecipano al processo, si struttura attorno alla costruzione di una storia, quella che è chiamata a definire il fatto giuridico su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi[11].

A questo punto si viene a porre il problema, quale istanza di maggiore attinenza, se ci siano regole sulla proposizione, l'ammissione, l'acquisizione e la valutazione delle Prove nel sistema canonico che, rispetto ad altri sistemi, corrano il rischio di assumere un ruolo contro epistemico, creando cioè un deficit che condiziona o limita l’accertamento della verità[12]

2. Regole sulla proposizione delle Prove

Focalizzando ora l’attenzione sulla ricerca di regole riguardo alla proposizione delle prove in ambito canonico rispetto ad altri sistemi, si cercherà di capire se tali regole corrano il rischio di assumere un ruolo contro-epistemico, andando cioè a condizionare negativamente o anche solo a limitare il raggiungimento della verità[13]. 

In cima al tema della proposizione delle prove, si collocano i temi del soggetto e dell’oggetto[14], con le integrazioni che impongono la relazione tra gli oneri probatori e l’orientamento dispositivo o inquisitorio del processo canonico[15], nonché l’incidenza delle presunzioni legali come motivo d’inversione dell’onere della prova o come eventuale delimitazione dei fatti oggetto dell’indagine[16].

La semplice lettura delle Norme canoniche, poste in relazione con le Norme di altri ordinamenti processuali[17], mostra a chiare lettere che non ci sono ostacoli reali alla ricerca della verità che derivino dall’accettazione nel sistema canonico di due regole probatorie tradizionali, anche se formatesi in altri contesti giudiziali: l’assegnazione dell’onere della prova a chi afferma e l’esclusione dall’obbligo di fornire prova dei fatti presunti dalla Legge o ammessi concordemente dalle parti[18].

Queste regole, comuni alla maggioranza degli Ordinamenti, comportano rischi per accertare la verità solo se alle medesime, per imprecisione sui concetti, si aggiungono altre conseguenze dal più marcato valore contro-epistemico.

Sono quattro le più significative conseguenze unite in apparenza alle Norme sul soggetto e l'oggetto della prova:

  • le negazioni non richiedano prova[19];
  • la combinazione tra allegazioni e contestazioni delle parti prevalga sulla rilevanza dei fatti da indagare[20], escludendone alcuni;
  • non vi sia un’indebita automaticità tra massime di esperienza e la realtà oggettiva di ogni caso concreto;
  • ciò di cui solo la parte può riferire non possieda la categoria di prova ma di mera allegazione, all’estremo opposto, possa avere valore di prova sufficiente.

Secondo alcuni autori autorevoli, nessuna di queste conseguenze possiede fondamento sufficiente nelle Leggi processuali canoniche[21].

Nello stabilire i fatti da accertare va ribadita l’inalterata vigenza del principio nemo Iudex sine actore, malgrado le facoltà inquisitorie del giudice[22]. Va puntualizzato che l’onere della prova riguarda i fatti storici alla base della pretesa affermata, mentre il principio dispositivo riguarda solo la riconduzione di tali fatti a una fattispecie legale, risultando fatti costitutivi solo quelli con i quali si qualifica in termini giuridici una data situazione.

Detta qualificazione è preclusa al Giudice, nonostante spetti a lui dare il nomen Iuris. Tale operazione non è riconducibile, quindi, ad una sua scelta discrezionale su quali fatti debbano essere considerati costitutivi e quali secondari.

Viceversa, non è dato stabilire preclusioni per il giudice su quali siano i fatti storici da accertare, tenendo presente, inoltre, che la prova dei fatti principali dipende spesso dalla certezza raggiunta sull’esistenza di un insieme di fatti storici secondari[23].

In tal senso, il protagonismo del Giudice nella raccolta delle prove, si fonda sulla differenza tra l’onere di provare i fatti allegati e l’onere di provare altri fatti che una parte dovrebbe allegare per ottenere i propri scopi[24].

Si richiede però molta attenzione per non privare l’indagine della sua storicità, imprigionandola nelle reti giuridizzate del sillogismo probatorio, e per non far dipendere l’onere della prova dei fatti dalla posizione assunta dalle parti sul Diritto sostanziale controverso, anziché sui fatti storici affermati o contraddetti[25].

3. Regole sull’ammissione delle Prove

Nel sistema canonico, sono pochi i limiti alla possibilità di produrre ogni mezzo di prova rilevante. Al contrario, la tesi secondo la quale il principio di rilevanza è l’unico criterio epistemico che dovrebbe regolare l’ammissibilità delle prove, pur sostenuto dalla dottrina extra- canonica più convincente, si scontra col fatto che certi mezzi di prova, rispetto a determinate materie, siano qualificati dalle Leggi processuali come Prove inammissibili[26].

La disciplina canonica generale è stabilita al Can. 1527.

In esso, rispetto al Codice precedente, fu introdotta una significativa formula nuova, cioè che in ogni Processo sono ammesse probationes cuius libet generis. Tale formula esprime l’obiettivo di massimizzare la ricerca della verità ammettendo le prove atipiche ed evitando di configurare limiti sul mezzo di prova che possano derivare dalla sua qualità estrinseca o dalla materia oggetto di Giudizio, sicché si pongono come uniche condizioni la liceità e l'utilità[27] della Prova la cui ammissione sia stata richiesta[28].

In tal senso, l’unica puntualizzazione da fare riguarda il bisogno di evitare che la selezione di prove utili impedisca di acquisire informazioni necessarie; non ci sono ragioni di tipo economico o di celerità temporale che possano prevalere sulla completezza dei dati conoscitivi da acquisire[29].

4. Regole sull’acquisizione delle Prove

Le possibilità di controllo e direzione da parte del giudice sono invece abbondanti in tema di acquisizione delle Prove, sia rispetto alla produzione di prove documentali precostituite e di prove peritali extra-giudiziali, sia rispetto alla formazione delle prove semplici, tanto orali, quanto tecniche.

Si può anzi affermare che nel sistema canonico sono presenti con maggiore chiarezza e da più tempo Norme corrispondenti alle linee di tendenza verso le quali si stanno evolvendo gli altri sistemi processuali moderni, inclusi quelli appartenenti alla famiglia del adversarial system, prevedendo cioè poteri istruttori autonomi in capo al giudice.

Sul punto, nonostante ci siano regole prive della sufficiente determinatezza e, pertanto, esposte al rischio di applicazioni controproducenti, risulta esagerato sostenere che le Norme canoniche in sé siano incoerenti con la funzione epistemica del processo[30]

L’esercizio dei poteri istruttori affidati al giudice obbliga questi ad agire in modo tale da consentire alle parti di controllare quelle sue iniziative potenzialmente più esposte al rischio di abuso[31].

Rispetto alle prove tecniche ordinate d’Ufficio, oltre all'esame equilibrato di Eccezioni e Ricusazioni, il miglior controllo da assicurare alle parti è l'ammissione di eventuali Perizie extragiudiziali fatte per loro iniziativa, nonché l’accoglienza generosa delle loro richieste di ottenere l'ausilio di un Perito privato.

Infine, per ogni tipo di prova acquisita di Ufficio è necessario assicurare che le parti possano discutere l’esito, per cui la pubblicazione delle medesime è imprescindibile, e rende davvero eccezionale la facoltà di disporre il segreto di cui al Can. 1598.

4. Regole sulla valutazione delle prove

L’attenzione principale ricade sulle prove legali, che caratterizzarono per molto tempo i sistemi processuali dell’Europa continentale, fino all’espansione del principio del libero convincimento[32]. Come è noto, per prove legali si intendono quelle il cui valore viene stabilito a priori dalla Legge, con efficacia quindi vincolante[33].

Malgrado ciò, permangono tuttora alcune tracce di prove legali[34], tra le quali si includono, come regole positive comuni a più sistemi, l'efficacia probatoria della Confessione giudiziale e dei documenti pubblici. Non mancano anche alcuni casi di regole di prova legale negativa, tra le quali la più frequente è il divieto incluso nel tradizionale principio Testis unus Testis nullus[35].

I tre casi indicati, uniti al divieto di ritenere veri i fatti dichiarati da una parte indotta da violenza, timore o errore[36], costituiscono le uniche Prove legali esistenti nel Processo giudiziale canonico.

Tali regole però non comportano vincoli assoluti. Così, i documenti pubblici fanno fede piena solo su ciò che costituisce il loro contenuto diretto e principale; su certi documenti, si è sentito l’esigenza di puntualizzare ciò che possiede natura pubblica, distinguendo tra l’autenticazione ad opera di un pubblico ufficiale e il contenuto, la cui natura rimane sempre privata.

Sulle Confessioni giudiziali non si prevede in modo espresso che facciano prova piena, ma solo indirettamente, in quanto liberano dall’onere della prova del fatto confessato, tra l’altro soltanto nelle Cause in cui sia in gioco un bene privato[37]. Il divieto di ritenere per vero quanto detto da un unico Teste prevede le eccezioni: quando si tratta di Teste qualificato o quando le circostanze della persona o del caso inducano a valutare diversamente[38].

«Nella valutazione delle Prove quindi, l’Ordinamento processuale canonico è ispirato al principio del libero convincimento, con il corrispettivo sistema di Prove libere che, pur rischiando di separarmi dalle definizioni normalmente utilizzate dai processualisti, ho sempre preferito definire non già come quelle Prove sulle quali la Legge affida al Giudice il compito di attribuire ad esse il loro valore, ma piuttosto come quelle in cui la Legge si limita ad indicare i criteri che il Giudice deve seguire per assolvere tale compito. Ho avuto modo di spiegare perché, nonostante siano indicati in relazione alla Prova testimoniale, i criteri di valutazione del Can. 1572 e dell'Art. 201 della Dignitas Connubii possono essere ritenuti validi per la valutazione di ogni altra Prova libera».[39]

In tal senso, la principale puntualizzazione riguarda proprio la differenza tra il libero convincimento e il convincimento arbitrario, quello che interpreta il primo come un assoluto esonero in capo al giudice di qualsivoglia criterio o vincolo razionale nella valutazione delle prove. Che le disposizioni del Can. 1572 siano regole di natura razionale e logica non significa che non siano giuridicamente vincolanti rispetto al cammino che il giudice deve seguire per formarsi la sua libera convinzione sui fatti di Causa, da accertare nel processo[40].

Inoltre, nessuna Logica, intesa come tecnica del ragionamento, può fornire in assoluto un modello esaustivo dell’attività espletata dall’Organo giudicante nell’accertamento dei fatti nel processo canonico.

Ciò in quanto non tutti i procedimenti cognitivi sono ad essa riconducibili e perché la Logica non è in grado di sostituire la funzione del giudice, espressa attraverso il suo equilibrio personale, nelle doti estimative, in quella speciale sensibilità cristiana ed empatia richiesti per esercitare il munus iudicandi, in particolar modo nei casi concreti di ricorso all’equità[41], ossia nei casi che vedono al centro la soggettività della persona.

Ma allo stesso tempo non si può verosimilmente eluderne l’articolata applicazione funzionale, che ricopre una porzione significativa dell’accertamento, tale da informarne, pur solo in modo inconsapevole, la metodologia e da garantirne gli esiti più validi[42].

5. La valutazione delle prove: coerenza e congruenza della narrazione

Sempre in un ambito di riflessione in filosofia del diritto si deve verificare, come in precedenza, il valore epistemico anche nelle regole della valutazione delle prove.I criteri che giustificano l’adozione di una ipotesi circa un possibile decorso della vicenda oggetto di causa sono l’aderenza ad un piano di realtà[43], la inerenza alla situazione[44] e la compatibilità con i dati a disposizione[45].

Ci si potrebbe chiedere, alla luce di quanto esposto riguardo alla prova, quali siano i criteri che devono essere soddisfatti per legittimare la scelta di una narrazione processuale rispetto ad altre pure possibili. focalizziamo due criteri: 

  • coerenza narrativa: è da preferire la narrazione che più delle altre riesce a dare senso unitario al molteplice eterogeneo, organizzandolo in una storia sensata e coerente.
  • congruenza narrativa che la narrazione deve avere rispetto agli elementi di prova: è perciò da preferire la narrazione che più delle altre è in grado di essere provata nei segmenti narrativi in cui è scomponibile.

Non sono pertanto da contrapporre una visione olistica (primo criterio) e una visione atomistica (secondo criterio) delle narrazioni processuali[46], poiché, almeno in linea di principio, l’una sorregge l’altra e viceversa.

Ciò che interessa ai fini della decisione giudiziaria è stabilire quale versione dei fatti appare più attendibile sulla base degli elementi di conferma forniti dalle prove. Ma se da ciò deriva una narrazione sgangherata e incoerente, il giudice ne deve trarre le dovute conseguenze. D’altra parte, se ci si attenesse solo al criterio della coerenza della narrazione, senza valutarne l’attendibilità, ci troveremmo nella impossibilità di distinguere la realtà dalla finzione.

Sia il criterio analitico dell’attendibilità dei singoli segmenti narrativi, preferito per esempio da Taruffo[47], sia il criterio olistico della coerenza della narrazione processuale, preferito da MacCormick[48], concorrono e devono concorrere ad una decisione razionale da parte del giudice, in un circolo ermeneutico tra l’intero e le sue parti. Solo un racconto che sia coerente e congruente ad un tempo può assurgere a essere qualificato come una narrazione adeguata dei fatti oggetto di giudizio.

In tal senso, nella ricostruzione di un fatto molte possono essere le versioni che lo riferiscono in maniera veritiera, ma non tutte in maniera adeguata[49].

La narrazione processuale da scegliere deve obbedire al principio di non contraddizione e/o di coerenza (primo criterio) e al principio di ragion sufficiente (secondo criterio). E tuttavia, se si accetta l’idea che quanto più le prove copriranno la totalità delle circostanze del fatto, tanto più il racconto sarà credibile, allora si deve dire che in caso di conflitto tra coerenza e congruenza, un qualche primato spetti alla congruenza.

In tal caso il giudice dovrà prendere una decisione che si basi sui soli fatti provati, anche se formassero un puzzle non riducibile a coerenza[50]. Sarà questo il massimo di adeguatezza possibile.

Le prove nel loro complesso quindi garantiscono[51], nello spazio logico e pubblico delle ragioni, che la traslazione di senso dal vissuto al narrato sia stata fedele, e l’ascrizione di senso che il racconto propone sia giustificata (o anche il contrario).

La narrazione processuale cui si atterrà il giudice risulterà così provata, nel senso che essa viene legittimamente ritenuta in grado di riferirsi in modo adeguato alla verità.


Note e riferimenti bibliografici

[1] B. Pastore, Giudizio, prova, ragion pratica, cit., p. 165.

[2] J. Ferrer Beltràn, Prova e verità nel diritto, cit., p. 48.

[3] B. Pastore, Giudizio, prova, ragion pratica, cit., p. 142.

[4] Con discrezionalità intendo «il potere, conferito ad una persona dotata di autorità [il giudice nel nostro caso] di scegliere tra due o più alternative, ciascuna legittima», A. Barak, La discrezionalità del giudice 1989, Milano 1995, p.16.

[5] Cfr. C. Minelli, Rationabilitas e codificazione canonica, Torino 2015.

[6] B. Pastore, Giudizio, prova, ragion pratica, cit., p. 154.

[7] Ivi, p. 171.

[8] Cfr. le note critiche in C. Bona, Sentenze imperfette. Gli errori cognitivi nei giudizi civili, Bologna 2010.

[9] Cfr. M. Taruffo, La semplice verità, cit., p. 220.

[10] B. Pastore, Giudizio, prova, ragion pratica, cit., p. 220 ss.; cfr. L. Lombardo, La prova giudiziale, cit., cap. IV.

[11] A. Iaccarino, Il processo quale locus dialogico, cit.

[12] Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale, cit.

[13] Cfr. ibid.; Cfr. M.J. Arroba Conde, Verità e principio della doppia Sentenza conforme, in AA.Vv., Verità e definitività della Sentenza canonica, Città del Vaticano 1997, pp. 59-77.

[14] Cfr. il Can. 1526 CIC’83.

[15] Cfr. il Can. 1452 CIC’83.

[16] Cfr. il Can. 1585 CIC’83.

[17] Cfr. E. Di Bernardo, Modelli processuali e diritto probatorio civile, cit., p.85.

[18] Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale, cit.

[19] Più delicata è la questione sull’incidenza della combinazione tra allegazioni e contestazioni in ordine a determinare i fatti oggetto di prova. Negli Ordinamenti civili non mancano Norme che, in ossequio all’economia processuale, stabiliscono l’onere del convenuto di contestare tempestivamente i fatti affermati dall’attore, al punto di aver provocato, seppur solo per via giurisprudenziale, la formazione del concetto di fatto pacifico, che sarebbe escluso dalla prova e dalla decisione. Tale deriva è oggetto di critica acuta da parte dei processualisti più convincenti, i quali avvertono che se il fatto allegato è falso non diventa vero per effetto della non contestazione tempestiva; agli stessi autori non sfugge il paradosso che implica escludere dalla prova un fatto rilevante, perché non contestato in tempo, e che una Prova vincolante dimostri poi la sua falsità. Cfr. M. Taruffo, La semplice verità, cit.

[20] Così, che le negazioni non abbiano necessità di essere provate è un’idea di origine piuttosto dottrinale, oggetto quindi di ulteriori approfondimenti‘. In proposito sono utili i concetti di contestazione, intesa come negazione esplicita, e di allegazione di fatti incompatibili con quelli allegati dall’altra parte. Il punto da sottolineare, dalla mano dei processualisti più moderni è che, sia le contestazioni esplicite sia le allegazioni che negano in modo implicito i fatti adotti dall’altro, hanno valore epistemico neutro, la cui veridicità è sempre vincolata alla capacità di provare i loro contenuti. In tal senso, in ambito canonico, è da tempo che mi è sembrato utile avvertire sul bisogno di aiutare il convenuto a capire che proferire mere negazioni apodittiche sui fatti adotti dall’attore non incrina la forza probatoria della dichiarazione attorea né impedisce che tale dichiarazione sia base principale dell’accertamento dei medesimi fatti. Cfr. M.J. Arroba Conde, Giusto processo cit.

[21] Cfr. ibid.; E. Di Bernardo, Il ruolo della Logica, cit.

[22] Cfr. A. Iaccarino, Il processo quale locus dialogico, cit.

[23] Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale, cit.

[24] Cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, Torino 2004.

[25] E. Di Bernardo, Il sillogismo giudiziale. Prerogative e limiti di applicabilità nel processo canonico, in «Apollinaris» vol. LXXVII (2004), pp.415-453.

[26] Non mancano autori che mettono in discussione anche alcune delle principali conseguenze derivanti dall’assunzione del principio di rilevanza, come per es. la possibilità di ammettere Prove atipiche, non contemplate cioè dalla Legge, ma dalle quali, spesso grazie ai progressi scientifici, si ricavano dati conoscitivi importanti per l’accertamento della verità. Cfr. M.J. Arroba Conde, Giusto processo, cit.

[27] L'utilità è solitamente interpretata in termini di economia processuale, valore molto importante ma che, se correttamente applicato, non può costituire un vero limite contro-epistemico. Cfr. ibid.

[28] In effetti, nei vari Ordinamenti processuali il riferito criterio di economia permette la selezione delle Prove in forza della loro rilevanza, escludendo quindi solo quelle meramente cumulative o ridondanti. Cfr. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino 2003.

[29] Nella disciplina canonica particolare sui singoli mezzi di prova non ci sono limiti assoluti eccetto sulle Dichiarazioni e Testimonianze in cui si possa infrangere il sigillo sacramentale; il segreto professionale e segreti analoghi si riconoscono come ragione di cui l'interessato si può avvalere per chiedere la Dispensa dal dichiarare; i limiti sull’eventuale Testimonianza di un minore o di un debole di mente non sono assoluti. il problema pratico, nel sistema canonico, deriva dall’inesistente possibilità di controllo, da parte del Giudice, circa la reale legittimazione del Teste ad avvalersi della facoltà di non rendere Dichiarazione. Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale, cit.

[30] M.J. Arroba Conde, Giusto processo, cit., p.128.

[31] Tra queste meritano menzione, rispetto alle Prove orali, oltre all’eventuale raccolta anticipata di una Dichiarazione, senza quindi il dovuto contraddittorio, le modalità di conduzione degli Interrogatori (evitando l’esclusione dei Patroni delle parti dalle Udienze), di porre e selezionare i quesiti, di sindacare le integrazioni richieste dagli Avvocati e di verbalizzare le risposte dei vari dichiaranti.

[32] Riguardo la ricostruzione dei fatti, si sostanzia il libero convincimento del giudice, canone che allude ad un metodo di valutazione delle prove in cui la discrezionalità implica la razionalità, e questa implica a sua volta un apprezzamento analitico e completo di tutti gli elementi che, incidendo sul valore conoscitivo che il giudice attribuisce alla prova, sono in ultima analisi determinanti ai fini dell’accertamento giudiziale dei fatti. È il caso di ricordare che il libero convincimento del giudice non è da riferirsi al suo intimo convincimento. Quest’ultimo rimanda ad una questione di carattere psicologico e non logico, che, tra 1’altro, potrebbe essere empiricamente spiegata in base a cause, ma non logicamente giustificata in base a ragioni. Tale non sovrapponibilità diventa evidente allorché si consideri che «le regole sulla prova, in alcuni casi, possono obbligate il giudice ad accettare una premessa nel suo ragionamento probatorio, ma in nessun caso possono obbligarlo a credere in essa. Piuttosto il libero convincimento del giudice fa riferimento al fatto che comunque il giudice deve convincersi secondo quanto emerso nel e dal processo, secondo il diritto e secondo ragione. È questo convincimento razionale che viene poi espresso nella motivazione della sentenza, e reso pubblicamente controllabile in un caso determinato. Cfr. Ch. Perelman- P. Forier (edd.), La preuve en droit, Bruxelles 1981, pp. 331-355; M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., pp. 372-377; G. Giorgio, La via del comprendere, cit.; M. Taruffo, Libero convincimento del giudice. I) diritto processuale civile, in Enciclopedia giuridica, Roma 1990, p. 6. Pertanto il principio del libero convincimento del Giudice non sembra abdicare in toto all’utilizzo della Logica nel contesto probatorio dell’accertamento dei fatti, in quanto l’applicazione di esso non implica in alcun modo che i ragionamenti dell’Organo giudicante possano essere svincolati da criteri logici e razionali. Cfr. E. Di Bernardo, il ruolo della Logica, cit.

[33] Non sfugge alla dottrina extracanonica più attenta la natura contro epistemica delle regole di Prova legale, perché proibire o imporre in modo assoluto di tener per veri determinati fatti, è di ostacolo alla considerazione che meritano le circostanze di ogni caso. Da ciò il declino progressivo, sin dalla Rivoluzione francese, del sistema di Prove legali, sostituito dal sistema di Prova libera, nel quale è prevalente la valutazione discrezionale del Giudice. Cfr. M.J. Arroba Conde, Giusto processo, cit., p.130.

[34] Nel caso di prova legale è evidente che la predeterminazione del risultato probatorio di uno o di vari mezzi di prova vincola il giudice, quand’anche egli si sia formato un diverso convincimento. Nel caso di prova libera, sottoposta al prudente apprezzamento del giudice, rimane comunque da dire che la libertà del giudice deve essere intesa unicamente nel senso che la sua valutazione non è sottoposta a quelle regole giurisdizionali che predeterminano il risultato probatorio. Cfr. M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., pp. 369-370.

[35] M. Taruffo, La semplice verità, cit., p. 165.

[36] Cfr. Can. 1538 CIC’83.

[37] Cfr. Can. 1535 CIC’83.

[38] Cfr. Can. 1573 CIC’83.

[39] M.J. Arroba Conde, Giusto processo, cit., p.131.

[40] Cfr. ibid.

[41] A. Iaccarino, Il principio dell’equità, cit.

[42] Cfr. E. Di Bernardo, Il ruolo della Logica, cit.

[43] la tesi ipotetica deve essere possibile.

[44] la tesi ipotetica deve essere pertinente.

[45] la tesi ipotetica deve essere plausibile.

[46] M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 281 e ss.

[47] M. Taruffo, Prova (in generale), cit., pp. 34-35.

[48] Cfr. N. MacCormick, Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Torino 2001, pp. 110-112. Si chiede esplicitamente MacCormick quale sia la ragione che rende convincente una storia. E risponde: “la risposta è che la storia è plausibile perché è congruente. È come un puzzle i cui pezzi si incastrano fra loro. [. ..] È mia convinzione che l’unico tipo di controllo possibile per verificare asserzioni contrastanti sul passato sia il controllo della ‘congruenza’ (coherence )”, p. 111.

[49] “Adeguato” qui lo intendo nel senso di appropriato al fine della decisione: la narrazione può cioè avere maglie troppo larghe e mantenersi nel generico, oppure avere maglie troppo strette e indugiare in particolari forse trascurabili. L’economia del racconto dovrà cioè essere spesa per una ‘messa a fuoco’ del fatto da giudicare non guardandolo né da troppo lontano, né da troppo vicino: in entrambi i casi sarebbe ‘fuori fuoco’. Una narrazione adeguata sarà quella che sappia rappresentare i fatti in una dimensione appropriata ai fini della decisione. Cfr. G. Giorgio, La via del comprendere, cit,

[50] M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., pp. 290-291.

[51] M. Taruffo, La semplice verità, cit., p. 208.