Attività sanitaria e rischio penale ai tempi dell´emergenza pandemica: molto rumore per nulla?
Modifica paginaIl contributo analizza il tema della responsabilità sanitaria in relazione all´emergenza pandemica da COVID-19, sviluppando un focus sul delitto di epidemia colposa e sulla rilevanza delle scelte di triage nel caso di insufficienza delle risorse per il trattamento dei pazienti affetti dal virus.
Sommario: 1. Premesse. - 2. Ubiquità del virus e carenza di cure specifiche e risolutive per il COVID-19. - 3. La questione delle infezioni nosocomiali. I delitti di lesioni e omicidio colposo. - 4. Diffusione del Coronavirus e delitto di epidemia colposa. - 5. Scelte di triage e “shortage”. - 6. Conclusioni.
1. Premesse.
L’attività sanitaria negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione del legislatore che, su sollecitazione della classe medica, ha innovato il sistema nel 2012 con il “decreto Balduzzi”[1] e successivamente - fallito il tentativo della “colpa grave”, a causa dell’impalpabilità di tale concetto e dell’incapacità delle guide lines di fornire un punto di riferimento certo nella pratica sanitaria – attraverso la legge “Gelli-Bianco”[2], con l’introduzione del nuovo art. 590-sexies c.p., ruotante attorno al perno della validazione pubblica di linee guida e norme di buona pratica clinico-assistenziale.
Si è al cospetto, però, di novelle non impeccabili nella prospettiva della tecnica legislativa adottata, al di là della ben chiara finalità politico-criminale ad esse sottesa, in termini di riduzione dell’area del penalmente rilevante in relazione a condotte connotate da un minimo coefficiente di colpevolezza, individuata come controspinta rispetto ad atteggiamenti di self defence e all’abbandono da parte dei professionisti di quelle attività specialistiche maggiormente esposte a rischio di contestazione da parte del paziente o dei suoi familiari, in caso di esito infausto del trattamento[3].
Il quadro di riferimento mostra allora chiaramente che nel contesto della responsabilità sanitaria si fronteggiano senza sosta da un lato l’esigenza di tutela della salute del paziente e dall’altro quella di evitare forme di addebito in contrasto con i principi cardine della materia, che si sono registrate nel tempo e che ancor oggi affiorano nella casistica.
Una parte della dottrina da tempo segnala allora, de lege ferenda, l’opportunità dell’esclusione in questo settore, così come in altri (ed in particolare in quello degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali), della responsabilità penale per colpa lieve, o comunque per forme diverse da quella grave, guardando con nostalgico ricordo alla soluzione operata dal legislatore in questa prospettiva con la (seppur maldestra) riforma “Balduzzi”; detto argomento è ritornato ora alla ribalta in occasione dell’emergenza pandemica, atteso che il nuovo Coronavirus ha generato nuovi rischi per la salute del paziente all’interno delle strutture sanitarie, e conseguentemente ha esteso per il personale medico “l’area di rischio penale”, e che la carenza di linee guida e norme di buona pratica (per lo meno in relazione alle prime fasi dell’emergenza) renderebbe di fatto, per quanto rilevato da alcuni studiosi della materia, inoperativa la previsione escludente la responsabilità compendiata nell’art. 590-sexies c.p.[4]
Vi è tuttavia che le prospettive apocalittiche tratteggiate da alcuni, in ordine agli sviluppi di un contenzioso che appare all’orizzonte di vaste dimensioni, per quanto si esporrà, si rivelano in effetti in larga parte prive di fondamento.
2. Ubiquità del virus e carenza di cure specifiche e risolutive per il COVID-19.
Quanto al SARS-CoV-2 occorre anzitutto premettere che i “Coronavirus” (famiglia alla quale appartiene il nuovo virus, e che devono il loro nome al caratteristico aspetto, apprezzabile al microscopio elettronico, che presenta delle proiezioni superficiali formate dalla glicoproteina S “spike”, dall’inglese “punta”, “spuntone”, che restituiscono un’immagine che ricorda, per l’appunto, una corona) sono germi che possono provocare nell’essere umano diverse patologie, ed in particolare infezioni del tratto respiratorio superiore, la gravità delle quali può spaziare da comuni sindromi da raffreddamento a patologie respiratorie di particolare severità, come la SARS (Severe acute respiratory syndrome - Sindrome Respiratoria Acuta Grave).
Per quanto specificamente attiene al SARS-CoV-2, si osserva che, in base ai dati disponibili, il principale meccanismo di trasmissione interumana del nuovo Coronavirus è rappresentato dalla saliva e dalle secrezioni respiratorie generate da un soggetto infetto, anche se asintomatico, espulse con la tosse, gli starnuti o la respirazione che, per nebulizzazione a breve distanza (inferiore ad un metro) possono veicolare in altro soggetto tale agente patogeno attraverso il naso, la bocca e gli occhi; il contagio può quindi avvenire per inalazione di tali goccioline (droplets), ovvero per mezzo di un contatto personale diretto con la persona infetta, o ancora toccando superfici contaminate (c.d. “fomiti”) e portando poi le mani a contatto con le mucose.
A seguito della trasmissione del virus con conseguente contagio, COVID-19, che è la malattia respiratoria provocata dal SARS-CoV-2 (spesso associata ad altre disfunzioni), presenta sintomi iniziali piuttosto aspecifici, quali febbre, tosse spesso secca, malessere generale, alterazioni della respirazione per ritmo e frequenza (dispnea), cefalea, mal di gola, dolore muscolare (mialgia), disturbi gastrointestinali (anche se meno comuni), nonché perdita dell’olfatto e del gusto (anosmia e ageusia).
La sintomatologia si sviluppa, di regola, gradualmente, e può arrestarsi a manifestazioni di carattere lieve, che non necessitano talora di terapie; tuttavia, può accadere che la malattia evolva verso un quadro clinico ingravescente, determinando l’insorgenza di complicanze di particolare importanza che, soprattutto se associate a preesistenti e rilevanti comorbidità, potrebbero, come ormai è noto, addirittura condurre al decesso del soggetto infettato.
Accertamenti condotti su diversi casi di contagio hanno peraltro mostrato che il nuovo Coronavirus potrebbe intaccare anche organi diversi da quelli che regolano la respirazione, provocando gravi affezioni che hanno dunque indotto a definire COVID-19, all’esito dei riscontri autoptici condotti, una malattia “sistemica” (ovvero una patologia che colpisce più apparati od organi).
Per quanto invece attiene alla terapia farmacologica dei pazienti COVID-19, a tutt’oggi non sono ancora disponibili vaccini volti a neutralizzare l’infezione da SARS-CoV-2, sebbene sia in corso un’intensa attività di ricerca a tal fine, che ha condotto ad individuare diverse possibilità in fase di approfondimento, con varie metodiche per lo sviluppo della risposta immunitaria; ad oggi non sussiste neppure un trattamento farmacologico specifico contro l’infezione da SARS-CoV-2, che viene curata con terapie di supporto, mirate, in particolare, al controllo della febbre, alla reidratazione e al sostegno della funzionalità respiratoria nei casi di maggiore gravità; per alcuni medicinali sono ad oggi in corso test clinici in vista di un loro possibile utilizzo, mentre a diversi pazienti COVID-19 sono stati somministrati farmaci già in uso per la cura di altre patologie, con modalità “off label”.
Sicchè le descritte peculiarità dell’emergenza pandemica si riverberano, giocoforza, come appresso si mostrerà, soprattutto sull’accertamento di eventuali responsabilità sanitarie per eventi infausti occorsi ai pazienti all’interno delle strutture ospedaliere, tra i quali le infezioni nosocomiali[5].
3. La questione delle infezioni nosocomiali. I delitti di lesioni e omicidio colposo.
Quanto all’infezione nosocomiale da SARS-COV-2 si può ora osservare che l’ubiquità del virus rappresenta un fattore che, diversamente da altre forme di infezione intraospedaliere registratesi in passato, è sostanzialmente preclusiva della possibilità di un’effettiva ricostruzione del nesso eziologico in termini di certezza o di “quasi certezza”, secondo il paradigma “Franzese”. In altri termini, pur a fronte di accertate violazioni da parte del personale sanitario, o più a monte delle strutture (e dei soggetti con funzioni amministrative, organizzative e gestionali), di regole cautelari scritte (previste generalmente per il contenimento delle infezioni intraospedaliere) o di comune esperienza ben difficilmente potrebbe essere ricostruita la fonte del contagio, e quindi individuata la condotta produttiva dell’evento infettivo, rispetto alla quale dovrebbe poi essere declinata la colpa[6].
Sicchè – al netto delle questioni relative all’esigibilità, sollevate dall’emergenza – lo strumentario già a disposizione sembra certamente idoneo, se “maneggiato con cautela”, ad evitare soluzioni inique su casi concreti, nella prospettiva della responsabilità medico-sanitaria per fatti di omicidio o lesioni colpose derivanti da infezioni nosocomiali da Coronavirus a carico dei pazienti; ad analoghe conclusioni deve peraltro giungersi anche rispetto alle infezioni contratte dal personale sanitario, nell’ottica della responsabilità del datore di lavoro[7].
4. Diffusione del Coronavirus e delitto di epidemia colposa.
Volendosi soffermare l’attenzione anche sulla configurabilità, in relazione al contagio da Coronavirus, del delitto di epidemia colposa, si può osservare che l’art. 452 c.p. (attraverso il richiamo all’art. 438 c.p., che regola l’ipotesi dolosa) prevede, come condotta tipica, la provocazione di una epidemia «mediante la diffusione di germi patogeni»; trattasi, dunque, di espressione ampia, certamente idonea ad attrarre, per lo meno in astratto, anche il caso della diffusione del SARS-COV-2, che è indubbiamente qualificabile, per quanto si è dianzi osservato, come germe patogeno.
Si è al cospetto, allora, di una figura criminosa che, nel complesso, ha fatto registrare sinora una scarsa casistica[8]; quanto all’ipotesi colposa, in particolare, c’è da rammentare che in passato essa è stata contestata in relazione alla diffusione della salmonella in alcuni giudizi che si sono però conclusi con la soluzione assolutoria per carenza di caratteristiche di ampia diffusività del germe patogeno, e quindi in ragione della non riconducibilità degli eventi infettivi nel concetto stesso di epidemia; ad analoghe conclusioni, peraltro, la giurisprudenza è successivamente giunta anche in relazione alla trasmissione del virus HIV, attraverso la somministrazione terapeutica di emoderivati infetti[9] e, più di recente, in ordine alla figura dolosa, per rapporti sessuali non protetti[10].
Le fattispecie in disamina, che tutelano l’incolumità pubblica, sembrano infatti operare il riferimento ad una sorta di “disastro sanitario”, realizzabile mediante la propagazione di germi patogeni che abbiano caratteri di diffusività rapida, estesa ed incontrollabile, e quindi “macroeventi” lesivi non sovrapponibili, in effetti, alle infezioni provocate dai microorganismi oggetto dei casi giudiziari appena menzionati.
In ordine, ancora, alla condotta tipica, e alla «diffusione di germi patogeni», questa può realizzarsi tanto attraverso lo spargimento di organismi infettanti nell’ambiente, quanto attraverso l’inoculazione individuale, mentre quell’orientamento secondo il quale la disponibilità “extracorporea” dei germi da parte del reo, il loro “possesso”, costituirebbe requisito implicito di fattispecie, in passato espresso da alcune pronunce giurisprudenziali, senza tuttavia alcun reale addentellato nella struttura delle disposizioni di riferimento, è stato (condivisibilmente) superato dalla Cassazione con il recente arresto sul caso “Talluto”.
A fronte di disposizioni scarsamente definite dal legislatore, la dottrina peraltro si è interrogata se i delitti di epidemia siano di danno oppure di pericolo; in estrema sintesi, secondo un’accezione, in particolare, l’epidemia rappresenterebbe tanto l’evento quanto il danno disciplinato dalle fattispecie, mentre secondo un’altra linea esegetica le figure in disamina si fonderebbero sul pericolo di diffusione nei soggetti non ancora infetti[11].
In realtà, partendo dal dato normativo, si può rilevare che il concetto stesso di “epidemia” dovrebbe indurre l’interprete a ritenere irrilevanti condotte che provocassero, sincronicamente o diacronicamente, la mera trasmissione di infezioni e patologie in alcuni soggetti, seppur in un numero consistente, poiché caratteristica dell’evento che connota le suddette figure, l’elemento qualificante, sembra dover essere individuato nella trasmissione di agenti infettivi che – al netto di contromisure eventualmente attuabili, come ad esempio la somministrazione di medicinali o vaccini – aggredendo più individui (e qui risiede il danno), siano idonei ad espandersi nella popolazione con una certa facilità, in modo tendenzialmente incontrollabile, generando anche un pericolo per l’incolumità pubblica.
In altri termini, le figure di epidemia sembrano mostrare una natura plurioffensiva, una duplice radice, rappresentata dal danno prodotto a più persone, determinato dall’infezione e dalla malattia che ne consegue[12], e dal pericolo per la collettività che muove dall’infezione medesima, nel contesto di una dinamica svincolata da ulteriori comportamenti da parte del soggetto che abbia diffuso i germi patogeni; si è al cospetto, peraltro, di un pericolo concreto, poiché ciò che connota le figure delittuose, ed il concetto stesso di epidemia, è, invero, il pericolo effettivo di diffusione dell’infezione in un numero indeterminato, sufficientemente ampio di soggetti[13].
Sicchè sembra doversi ritenere che lo “schema logico” delle figure di epidemia sia rappresentato dall’infezione provocata ad una o più persone e che, attraverso la trasmissione “secondaria”, abbia interessato un numero consistente (non completamente determinato) di altri soggetti che, a loro volta, possono costituire il veicolo per la trasmissione della patologia ad una serie ancor più vasta ed indeterminata di terzi; in altri termini, si potrebbe sostenere che le fattispecie di epidemia si integrino attraverso quattro step logicamente e cronologicamente distinguibili: 1) la diffusione di germi patogeni; 2) la trasmissione ad uno o più soggetti, attraverso l’infezione “primaria”, con la conseguente malattia; 3) la trasmissione ad altri soggetti, mediante l’infezione “secondaria”; 4) l’ingenerarsi di un pericolo effettivo e diffuso per la collettività di contrarre l’infezione e le patologie ad essa correlate.
Deve per l’effetto recisamente escludersi, come accennato, la rilevanza di meri “focolai epidemici”, e cioè dell’infezione provocata ad un numero ristretto di soggetti, poiché in questi casi si è al di fuori del concetto di epidemia, che per l’appunto implica che la diffusione dei germi abbia colpito un numero assai rilevante di individui, non riconducibili ad un definito cluster, generando proprio in tal modo il rischio di un’incontrollabile diffusione ulteriore[14].
In dottrina si discute, infine, se la condotta incriminata possa realizzarsi anche attraverso l’omissione; sul punto occorre allora rimarcare che mentre per quanto riguarda l’ipotesi dolosa a tale soluzione non sembra validamente frapporsi un invero assai flebile “vincolo di rubrica” (atteso l’inserimento della figura nell’ambito dei delitti di comune pericolo mediante “frode”), alcun ostacolo sembra rinvenibile per l’ipotesi colposa[15].
Volgendo adesso l’attenzione al problema della diffusione del Coronavirus che, come osservatosi, provoca il COVID-19, si può rimarcare allora che i meccanismi di trasmissione del nuovo virus, che denotano un’ampia diffusività di tale agente patogeno, e gli effetti dell’infezione a carico dell’organismo in termini di vera e propria malattia (come evento evolutivo che comporta alterazioni di natura funzionale), rappresentano elementi certamente compatibili con la struttura del delitto di epidemia, nei termini già esposti.
Vi è, tuttavia, che anche in ordine alla figura delittuosa in disamina si pone il problema relativo all’accertamento del nesso eziologico, atteso che la norma incriminatrice di riferimento, attraverso il richiamo all’ipotesi dolosa, mette ben in chiaro la necessità di un nesso causale tra la diffusione dei germi patogeni e la dinamica epidemica.
Il problema, in questo senso, non è allora soltanto quello della dimostrazione del nesso eziologico rispetto all’infezione “primaria”, cioè alla trasmissione del virus in un cluster iniziale[16], ma anche quello della dimostrazione dell’evento “secondario”, del passaggio dell’infezione da un “focolaio epidemico” (ad esempio, un nucleo familiare, o di un reparto di un ospedale, o un’intera struttura nosocomiale) ad un numero consistente, potenzialmente indeterminato di altri soggetti, poiché è solo in tal caso, come si è rilevato, che si può integrare, anche in senso giuridico, l’epidemia.
Sebbene allora, sul punto, alcuni studiosi abbiano mostrato una certa apertura rispetto all’ipotesi di utilizzo della prova epidemiologica[17], si deve sottolineare che si tratta, in realtà, di uno strumento euristico scarsamente fruibile, sol che si consideri che esso non potrebbe affatto comprovare, stante l’ampia diffusività del virus, il collegamento certo tra la violazione di una regola cautelare da parte di singoli soggetti facenti parte del personale delle strutture sanitarie e l’infezione contratta da singoli individui presenti all’interno delle strutture stesse, nè tantomeno l’infezione “secondaria”[18].
5. Scelte di triage e “shortage”.‹
Come ben noto, uno dei problemi sollevati dalla gestione ospedaliera dell’epidemia da Coronavirus è stato rappresentato dalla carenza di risorse in dotazione al servizio sanitario per fronteggiare l’emergenza: risorse strumentali, farmacologiche, ma anche “umane”, di personale, specie nei momenti in cui si sono registrati gli ormai ben noti “picchi”.
A fronte di tale quadro, i soggetti pubblici competenti hanno cercato di sopperire alle carenze strutturali facendo ricorso a soluzioni di carattere straordinario, attraverso l’allestimento di nuovi reparti, l’apertura di nuove strutture dedicate agli infetti, con organizzazioni da “ospedali da campo”, mediante una più razionale ridistribuzione degli spazi disponibili al fine di consentire l’aumento dei posti letto per le terapie intensive ed in pneumologia, sopprimendone altri, ridistribuendo il personale.
Nonostante gli sforzi, progressivamente sostenuti nel corso delle fasi di maggiore emergenza sanitaria, l’enorme diffusione del virus ha comunque importato, in alcuni momenti, la necessità di scelte di triage, opzioni drammatiche in ordine a quali pazienti destinare le attenzioni ed i mezzi curativi disponibili[19]; così, in data 6 marzo 2020 sono state pubblicate le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva).
Attraverso detto atto, ed in relazione alla sproporzione tra le esigenze cliniche e le risorse disponibili proprio nei reparti di terapia intensiva, sono stati formulati, in particolare, criteri per l’allocazione delle cure, a carattere emergenziale, ispirati ai principi diffusi nell’ambito della “medicina delle catastrofi”, complessivamente finalizzati a privilegiare “la maggior speranza di vita”, determinabile attraverso valutazioni di idoneità clinica alla terapia intensiva, derogando al criterio ordinario “first come, first served”.
Tra le varie raccomandazioni vi è stata, dunque, quella della valutazione dell’opportunità di porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva, o di escludere l’accesso alle cure per pazienti con co-morbilità severe, nel caso di “sovraffollamento”, al fine di favorire i soggetti con maggiore possibilità di sopravvivenza, a costo del sacrificio delle minori speranze di successo di terapie attuabili nei confronti di altri.
Successivamente, in data 8 aprile 2020, sul tema della distribuzione delle “risorse scarse” si è soffermato anche il Comitato Nazionale per la Bioetica con il documento “COVID-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del triage in emergenza pandemica”, con il quale si è affermato: «quando ci si trova in una situazione, come quella attuale, di grave carenza di risorse, il CNB valuta il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento per l’allocazione delle risorse medesime: ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età anagrafica, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, è ritenuto dal Comitato eticamente inaccettabile».
La risoluzione del CNB si è allora basata su tre direttrici: la predisposizione di strategie d’azione trasparenti, la necessità di una corretta valutazione clinica di ogni paziente, l’indispensabilità di una visione d’insieme dell’utenza, a carattere dinamico, atta al superamento di un’ottica limitata al singolo paziente, e a consentire la più equilibrata e razionale utilizzazione delle risorse disponibili laddove inadeguate, in singoli contesti, a soddisfare l’esigenza di cura di tutti i malati.
Ovviamente si è al cospetto di criteri, assai poco stringenti, non vincolanti per gli operatori sanitari, con l’effetto che in caso di violazione alcuna conseguenza, per ciò solo, potrebbe derivarne per il personale medico in sede penale; l’intervento della SIAARTI e del CNB ha gettato un’ulteriore luce sul dramma dell’emergenza, che ha generato l’esigenza di opzioni necessitate dalla situazione contingente, non operabili sulla base di un bilanciamento tra valori, evidentemente, incommensurabili: la vita di un individuo anziano, e magari anche affetto da diverse patologie, non ha un valore diverso da quella di un giovane sano, colpito dal COVID-19, né un criterio dirimente, oggettivamente valido, potrebbe essere raggiunto attraverso l’individuazione di qualsivoglia peculiarità del caso.
Qui opera, allora, l’art. 54 c.p. nella sua componente scusante, anziché in quella giustificante[20]: il medico potrebbe materialmente operare una scelta diversa da quella del sacrificio di un paziente che mostra un quadro patologico compromesso, con scarse prospettive di guarigione in caso di idonee terapie, utilizzando in favore di questi le uniche risorse disponibili, omettendo di curare un altro malato rispetto al quale l’intervento idoneo mostri probabilità di successo assai più incoraggianti. Forse una scelta simile potrebbe essere ritenuta assai poco razionale, ma comunque risulterebbe penalmente irrilevante, poiché i valori contrapposti – le vite di due diversi individui – non solo collocabili in una scala, che consenta di distinguere il più alto dal più basso[21].
E ciò al netto della circostanza che, per quanto sopra esposto, non essendovi mezzi curativi di certa efficacia, giammai il ragionamento per controfattuale potrebbe condurre, più in generale, all’accertamento di responsabilità per l’omissione di interventi salvifici secondo il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio; ecco, dunque, emergere, per l’effetto dell’incommensurabilità dei valori in gioco in una potenziale ottica di bilanciamento, un ulteriore elemento che dovrebbe indurre a ritenere, in conclusione, del tutto inutili eventuali interventi normativi, sollecitati dalla classe medica e da alcuni studiosi della materia[22], tesi a esimere da responsabilità il personale sanitario per fatti di omicidio o lesioni verificatisi nel contesto dell’emergenza COVID-19.
6. Conclusioni.
Volendo ora trarre delle conclusioni sulle potenziali evoluzioni del contenzioso in sede penale correlato all’attività sanitaria nel corso dell’emergenza pandemica, si può osservare che sebbene questo si prospetti all’orizzonte come di vaste dimensioni, il rischio dell’individuazione di “capri espiatori”[23], di soluzioni giustizialiste potrebbe soltanto risiedere in uno scorretto approccio alle categorie di riferimento, e in una deformazione dei criteri di accertamento del nesso causale[24], ancor prima che della colpa (in termini di prevedibilità e soprattutto evitabilità della situazione di rischio e dell’evento lesivo a carico dei pazienti)[25].
Per quanto concerne eventi infausti che potrebbero essere occorsi durante l’emergenza pandemica ma che avessero interessato pazienti non affetti dal virus, e quindi gli errori nella gestione clinica dei malati che sarebbe stata “ordinaria” in mancanza dell’epidemia, invece, è chiaro che si potrebbero prospettare delle responsabilità, anche derivanti da deficit organizzativi, che potrebbero involgere soggetti non direttamente impegnati nell’attività di diagnosi e cura, oltre ovviamente a quest’ultimi.
Certo, anche in questo caso la situazione di eccentricità determinata dall’emergenza dovrebbe essere adeguatamente ponderata, e se non possono (e non dovrebbero) essere escluse responsabilità in relazione a singoli episodi, le previsioni del volume del contenzioso che potrebbe originarsi a valle dell’epidemia probabilmente dovrebbero essere assai ridimensionate rispetto alla visione catastrofica restituita da alcuni commentatori, e dai medici. E ciò anche in ragione delle potenzialità dell’art. 2236 c.c. che, sotto le mentite spoglie del “canone d’esperienza”[26], richiamato anche dalla pronuncia “Mariotti” [27], si rivela invece uno strumento che – indipendentemente dalla sua qualificazione giuridica – potrebbe essere d’ausilio per limitare aberrazioni pratiche, essendo chiaro che la pandemia possa aver creato, all’interno di determinate strutture o reparti, situazioni di speciale e momentanea difficoltà operativa, che potrebbero giustificare, in taluni casi, l’errore.
A tal proposito si può rimarcare che la giurisprudenza, attraverso alcuni recenti arresti, prendendo le mosse dalla tensione con i principi cardine della materia di soluzioni, interpretative e legislative, che intendessero esentare da responsabilità il personale sanitario in ipotesi diverse dall’imperizia in “casi difficili” (cfr. Corte cost., Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166, intervenuta sul tema dell’applicabilità dell’art. 2236 c.c. in ambito penalistico), si è mostrata consapevole delle difficoltà che sottendono, nella prassi, all’inquadramento della condotta del medico nelle categorie di colpa generica, atteso che i confini tra imprudenza, negligenza ed imperizia risultano assai labili, specie nel contesto di trattamenti complessi, prolungati, realizzati attraverso l’intervento di diversi professionisti, e che spesso si assommano a forme di colpa specifica (per violazione di norme prevenzionali scritte).
La Cassazione, sul medesimo solco, ha rilevato inoltre che quasi sempre l’errore in fase diagnostica e terapeutica muove, in qualche misura, da imperizia, e che il bilanciamento tra le varie fenomenologie di colpa, finalizzato a individuare quale di esse debba ritenersi prevalente, in situazioni particolarmente articolate, si potrebbe rivelare arbitrario; il tutto giungendo alla conclusione che, in tali ipotesi, in ossequio al principio del favor rei, si dovrebbe finire con il ricondurre l’errore medico all’imperizia[28].
Si tratta di un ragionamento logico e quindi condivisibile, e che potrebbe allora aprire nuovi scenari per la disposizione civilistica, in termini di esenzione, a determinate condizioni, del personale sanitario da responsabilità penali determinate da coefficienti di colpa particolarmente bassi, anche nel contesto dell’emergenza pandemica.
Di contro, se la dottrina ha ben evidenziato in passato che eventuali esclusioni da responsabilità penale limitate alla classe medica per casi di malpractice derivanti da colpa lieve (o non grave) potrebbero rivelarsi espressive di un inammissibile trattamento “di favore”[29], attraverso considerazioni riproposte con vigore anche in relazione all’emergenza da SARS-COV-2[30], un’estensione generalizzata del criterio della “colpa grave” (che consentirebbe ad un’eventuale riforma di evitare la censura per violazione del principio di ragionevolezza/uguaglianza, e che rappresenterebbe probabilmente il frutto di un’opzione discrezionale da parte del legislatore ed incensurabile dalla Consulta[31]), nella direzione dell’edificazione di un diritto penale “mite”, informato sull’idea dell’extrema ratio, presterebbe il fianco ad ineliminabili criticità.
In particolare, anche analizzando la proposta di riforma dell’art. 590-sexies c.p. autorevolmente formulata dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto penale (reperibile sul sito web dell’Associazione stessa), emerge con particolare evidenza che il tentativo di definizione del concetto di “colpa grave”, alla quale si intenderebbe limitare la responsabilità medica (e più in generale quella penale), si rivela una proverbiale “quadratura del cerchio”, attesa l’ineluttabile «fisionomia multifattoriale dell’evento lesivo»[32].
Del resto, a valle del “decreto Balduzzi”, la giurisprudenza, tentando meritoriamente di colmare il vuoto lasciato dal legislatore a causa della mancata definizione del concetto di “colpa lieve”, attraverso l’elaborazione di “indici di contesto”[33], di carattere “quantitativo” (in termini di discostamento del trattamento sanitario dalle regole comportamentali applicabili) e “qualitativo” (in relazione alle cause, endogene o esogene, di tale divaricazione)[34], ha comunque posto in luce che ogni tentativo di pre-definizione del grado della colpa, atto a garantire una maggiore certezza del diritto ed una “controllabilità” delle decisioni giudiziarie, si rivela pressoché vano.
Talché, la re-introduzione di un simile sistema finirebbe soltanto con l’accentuare il potere dell’organo giudicante, senza contropartite effettive, con la conseguenza che appare certamente preferibile, al momento, prima di porre addirittura in cantiere una “terza riforma”, fruire di un periodo di osservazione, per analizzare gli sviluppi del contenzioso che è all’alba, e che imporrà certamente alla magistratura particolare responsabilità, cautela ed attenzione alle indicazioni provenienti dal diritto vigente, per evitare soluzioni inique, da “capro espiatorio”, per l’appunto.
[1] D.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. l. 8 novembre 2012, n. 189.
[2] L. 8 marzo 2017, n. 24. Sul tema, nella sterminata letteratura, vd. anche De Francesco, Un ulteriore sviluppo normativo in tema di responsabilità penale del sanitario, in Riv. It. Med. Leg., 2017, pp. 1525 ss; Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017 e, volendo, De Lia, Lineamenti della responsabilità penale del medico nell’attività diagnostica e terapeutica, Roma, 2017.
[3] Sul tema vd. Manna, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014.
[4] Risicato, La metamorfosi della colpa medica nell’era della pandemia, 25 maggio 2020, in www.discrimen.it.
[5] Per infezioni nosocomiali, in termini generali, si intendono quelle contratte dal paziente a seguito del ricovero nella struttura ospedaliera, che si distinguono da quelle c.d. “comunitarie”, cioè acquisite e manifestate in antecedenza al ricovero, o in quel momento per lo meno in stato di incubazione. Le infezioni c.d. “esogene”, come quelle da Coronavirus, sono provocate dalla contaminazione da parte di microrganismi patogeni provenienti da sorgenti esterne al paziente, e dalla loro successiva proliferazione, e derivano quindi dall’ambiente ospedaliero, dal contatto coi medici, con i visitatori, con superfici contaminate, e dalla strumentazione diagnostica e terapeutica utilizzata (la trasmissione può essere così da contatto, airborne, droplet, da inoculazione, o da contaminazione di medicinali, alimenti e bevande).
[6] Così anche Bartoli, La responsabilità colposa medica e organizzativa al tempo del coronavirus, 10 luglio 2020, in www.sistemapenale.it, secondo il quale: «infine, sempre sul piano probatorio, si potrà porre il problema della esclusione dei decorsi causali alternativi: se da un lato l’accusa potrà affermare che il contagio è avvenuto in una certa maniera risalendo fino a una condotta, dall’altro lato, la difesa tenderà ad affermare che il contagio è avvenuto secondo altro decorso che esclude la riferibilità a una condotta. E trattandosi di contagio oltretutto dovuto a rapporti relazionali tra persone – per così dire - piuttosto generici e indeterminati (non, ad esempio, il contatto ematico come nelle ipotesi di HIV), vi sono ampi spazi per insinuare il dubbio che esso possa essere avvenuto secondo una catena diversa da quella prospettata dall’accusa. C’è da ritenere che le ipotesi in cui sarà possibile escludere i decorsi causali alternativi saranno comunque rarissime».
[7] In questi termini, sotto il profilo causale, vd. Di Giovine, Coronavirus, diritto penale e responsabilità datoriali, 22 giugno 2020, in www.sistemapenale.it; analogamente Blaiotta, Diritto penale e sicurezza del lavoro, Torino, 2020, pp. 110 ss. Si è soffermato con attenzione sul profilo dell’esigibilità, invece, Accinni, La pericolosa mistificazione mediatica in tema di responsabilità penale e infortunio da COVID-19. Ritorno al futuro del diritto penale, 26 giugno 2020, in www.sistemapenale.it.
[8] Quelle di epidemia, peraltro, rappresentano fattispecie inserite nel Codice Rocco come autentica novità rispetto al passato, e che, per quanto desumibile dai lavori preparatori, vennero introdotte in ragione della previsione dell’impiego bellico di germi patogeni, e quindi nella prospettiva di eventi di “guerra batteriologica”.
[9] Vd. Trib. Trento, 12 luglio 2002, in Cass. Pen., 2003, pp. 3940 ss; Trib. Trento, 16 luglio 2014, in Riv. Pen., 2004, pp. 1231 ss.
[10] Cass., 30 ottobre 2019, n. 48014, nel caso “Talluto”, secondo la quale: «in tema di epidemia, l’evento tipico del reato consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, si presenta in grado di infettare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, una moltitudine di destinatari, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e di agevole propagazione, il pericolo di contaminare una porzione ancor più vasta di popolazione; ne consegue che le forme di contagio per contatto fisico tra agente e vittima, sebbene di per sé non estranee alla nozione di “diffusione di agenti patogeni” di cui all’art. 438 c.p., non costituiscono, di regola, antecedenti causali di detto fenomeno» (sicché si è escluso che integrasse gli estremi del delitto in parola la condotta dell’imputato che aveva consapevolmente trasmesso il virus dell’HIV, da cui era affetto, a decine di donne con le quali avuto rapporti sessuali non protetti nel corso di un periodo di nove anni, rilevando come il numero cospicuo, ma non ingente, delle stesse e l’ampiezza dell’arco temporale in cui si era verificato il contagio, unitamente al numero altrettanto cospicuo di donne che, pur congiuntesi senza protezione con l’imputato, non era rimasto infettato, deponesse per il difetto della connotazione fondamentale del fenomeno epidemico della facile trasmissibilità della malattia ad un numero potenzialmente sempre più elevato di persone).
[11] Per una ricostruzione del dibattito vd. Gargani, Reati contro l’incolumità pubblica. Reati di comune pericolo mediante frode, in Trattato di diritto penale diretto da Grosso, Padovani e Pagliaro, vol. IX, tomo II, Milano, 2013, pp. 203 ss.
[12] Le disposizioni incriminatrici, infatti, facendo riferimento all’epidemia, che per la scienza medica è considerata come la diffusione di una malattia in una popolazione con caratteri di ampia espansione, sembrano necessariamente implicare che detta diffusione degli agenti patogeni abbia provocato effettivamente, in una moltitudine di soggetti, ed a monte, per l’appunto, delle malattie. Da notare in proposito è che secondo la definizione accolta dall’Istituto Superiore della Sanità (reperibile sul sito web dell’ente) è “epidemia” «la manifestazione collettiva di una malattia (colera, tifo, vaiolo, influenza, ecc.) che rapidamente si diffonde, per contagio diretto o indiretto, fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto, e si estingue dopo una durata più o meno lunga».
[13] Vd. anche Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576 che, intervenuta in un contenzioso relativo al risarcimento danni da prodotti emoderivati infetti da HIV ha statuito: «elementi connotanti il reato di epidemia sono: la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti; l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, … il carattere contagioso e diffuso del morbo».
[14] In tal senso vd. anche Gargani, Reati contro l’incolumità pubblica, op. cit., p. 217; Raffaele, Delitto di epidemia: l’affaire Coronavirus, 3 giugno 2020, in www.dirittopenaleuomo.org.
[15] In tal senso vd. anche Piras, Sulla configurabilità dell’epidemia colposa omissiva, 8 luglio 2020, in www.sistemapenale.it. Contra Cass., 12 dicembre 2017, n. 9133, “Giacomelli”, secondo la quale «in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera». Il punto però è che è revocabile in dubbio che si sia effettivamente al cospetto di una figura commissiva a forma vincolata.
[16] Né quello della colpevolezza, trattandosi di ipotesi colposa, per la quale dunque valgono gli ordinari criteri di imputazione. Per quanto riguarda la questione delle regole cautelari, vi è poi che i provvedimenti normativi, di grado primario e secondario, che si sono avvicendati nel tempo lasciano effettivamente poco spazio alla colpa generica. Vd. in proposito, Agostini, Pandemia e “penademia”: sull’applicabilità della fattispecie di epidemia colposa alla diffusione del COVID-19 da parte degli infetti, 30 aprile 2020, in www.sistemapenale.it). Per quanto attiene alle norme comportamentali in ambito nosocomiale vd. ad esempio la Circolare del Ministero della Salute del 29 febbraio 2020, reperibile sul sito web dell’ente.
[17] Vd. Castronuovo, I limiti sostanziali del potere punitivo nell’emergenza pandemica: modelli causali vs. modelli precauzionali, 10 maggio 2020, in www.legislazionepenale.eu [secondo il quale «ovvio che anche in relazione al delitto di epidemia resteranno problemi di accertamento della causalità, che richiede pur sempre l’esclusione di decorsi etiologici alternativi. Trattandosi però di un evento di pericolo a dimensione collettiva potrebbe aprirsi, sebbene problematicamente, la possibilità di un accertamento della causalità su base epidemiologica. Ad esempio: molti operatori e pazienti od ospiti di quella data struttura sanitaria o assistenziale (o di quell’istituto penitenziario) si sono ammalati o sono morti per essersi ammalati di COVID-19; molti dipendenti di quell’impresa hanno subito la stessa sorte; in tutti i casi, le misure di prevenzione o riduzione del rischio non erano state osservate, almeno in una certa fase cronologicamente significativa (e in presenza di un indice di trasmissibilità ancora elevato). Forse, in tali ipotesi di macro-evento collettivo, l’accertamento della causalità dell’evento epidemico (rilevante ex art. 452 c.p.) potrebbe svolgersi mediante l’accertamento alternativo ottenuto sulla base del notevole incremento dei casi di mortalità/morbilità da COVID-19 nel contesto considerato»].
[18] Analogamente Gargani, Delitti di pericolo personale e individuale. Osservazioni in prospettiva di riforma, 9 settembre 2020, in www.legislazionepenale.eu.
[19] Sul punto vd. Losappio, Responsabilità penale del medico, epidemia da COVID-19 e “scelte tragiche” (nel prisma degli emendamenti alla legge di conversione del d.l. “Cura Italia”), 14 aprile 2020, in www.giurisprudenzapenale.it.
[20] Nel senso proposto già in passato da Mezzetti, Necessitas non habet legem? Sui confini tra “impossibile” ed “inesigibile” nella struttura dello stato di necessità, Torino, 2000, passim, che ha evidenziato una “doppia radice teleologica disgiunta” nella disciplina dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.
[21] Talchè sembra venire in gioco lo stato di necessità piuttosto che la causa di forza maggiore. Sulla differenza tra forza maggiore e stato di necessità, in caso di disponibilità da parte dell’agente di un margine di scelta vd. Fiandaca – Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, p. 188; Fiandaca, voce Caso fortuito e forza maggiore nel diritto penale, in Dig. Disc. Pen., vol. II, Torino, 1988, p. 111; Padovani, Diritto penale, Milano, 2012, p. 123. In precedenza Fedele, voce Caso fortuito (Diritto penale), in Enc. Dir., vol. VI, Milano, 1960, p. 401; Santoro, voce Caso fortuito e forza maggiore (Diritto penale), in Nov. Dig. It., vol. II, Torino, 1964, p. 1001. Di contro, la forza maggiore sembra evocabile nell’ipotesi di assoluta indisponibilità di risorse e possibilità per porre in essere tentativi salvifici, che, nel contesto dell’omissione, attesa l’impraticabilità dell’atto dovuto, esclude la tipicità del fatto (cfr. De Francesco, Diritto penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Torino, 2018, p. 232).
[22] Vd. ad esempio Cupelli, Emergenza Covid-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, 30 marzo 2020, in www.sistemapenale.it. L’A. ha individuato nella tutela degli operatori sanitari una “nuova emergenza” che il legislatore sarebbe chiamato ad affrontare, in considerazione del rischio dell’elevato contenzioso nei confronti della classe medica, pur a fronte di carenza di linee-guida certificate, di buone pratiche assistenziali consolidate o di senso univoco, e della carenza di evidenze terapeutiche; talché l’introduzione di una previsione esimente ad hoc, con efficacia temporale limitata, rappresenterebbe, per lo studioso, una “via obbligata” per evitare derive in termini di over criminalization. Ed in quest’ottica si è proposta l’introduzione di una previsione di esclusione di responsabilità per forme diverse dalla colpa grave, estesa anche all’ipotesi criminosa di epidemia colposa. Così anche Roiati, Esercizio della professione sanitaria e gestione dell’emergenza COVID-19: note minime per un ampliamento delle fattispecie di esclusione della responsabilità penale, 19 maggio 2020, in www.legislazionepenale.eu (l’A., in ordine all’ipotesi di uno “scudo” penale, per ipotesi diverse dalla colpa grave, ha rilevato che non si tratterebbe di una scelta priva di giustificazione); Caletti, Emergenza pandemica e responsabilità penale in ambito sanitario: riflessioni a cavaliere tra “scelte tragiche” e colpa del medico, in Sist. Pen., 5, 2020, 1 ss (che, pur escludendo l’ipotesi di una sorta di “amnistia” per l’emergenza pandemica, ha sostenuto l’esigenza dell’introduzione di una generalizzata esclusione della responsabilità per colpa grave in ambito sanitario); Picotti – Flor, Emergenza COVID-19 e responsabilità del personale medico-sanitario, 6 aprile 2020, in www.univr.it; Così anche Caputo, Logiche e modi dell’esenzione da responsabilità penale per chi decide e opera in contesti di emergenza sanitaria, 22 giugno 2020, in www.legislazionepenale.eu. Anche il Comitato Nazionale di Bioetica, segnalando il rischio del contenzioso nei confronti del personale sanitario ha caldeggiato l’intervento del legislatore al fine di limitare la responsabilità di tali soggetti.
[23] Evocato da Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, 26 aprile 2020, in www.sistemapenale.it.
[24] Valentini, Profili penali della veicolazione virale: una prima mappatura, 8 aprile 2020, in www.archiviopenale.it. Vd. anche Bernardi, Il diritto penale alla prova del COVID-19, in Dir. Pen. Proc., 2020, 441 ss: «quanto all’evento lesivo rappresentato dalla trasmissione del SARS-CoV-2, l’estrema contagiosità di questo virus e i non brevi tempi di incubazione rendono oltremodo difficile l’esclusione di serie causali alternative a quelle ascrivibili alle violazioni delle norme cautelari. Quanto invece alle ulteriori lesioni o alla morte causata da qualsivoglia condotta negligente (per esempio, il non aver tempestivamente applicato al malato in crisi di ossigeno un ventilatore disponibile), la tendenziale imprevedibilità del decorso di questa malattia fa sì che persino la persona meglio accudita possa aggravarsi e anche morire e la persona più trascurata guarire abbastanza celermente. Ancora una volta, quindi, rispetto ai malati di COVID-19, risulta nella massima parte dei casi davvero ostico stabilire una inattaccabile relazione causa-effetto tra le condotte colpose di un dato soggetto e gli eventi sfavorevoli a carico di uno o più contagiati».
[25] Così anche Pulitanò, Lezioni dell’emergenza e riflessioni sul dopo, 28 aprile 2020, in www.sistemapenale.it: «sul piano del diritto sostanziale, viene in rilievo il problema della colpa, un istituto particolarmente problematico a fronte del principio di legalità. I problemi specifici della colpa medica sono ben noti e discussi, e oggetto di recenti interventi legislativi, risposte (buone o meno buone) ad esigenze che possiamo definire di scudo, nel senso di protezione da dilatazioni della responsabilità penale. C’è bisogno, per il lavoro svolto in condizioni di emergenza, di scudi ulteriori, in deroga alle regole generali? Sono state proposte formulazioni che appaiono tentativi di specificazione, più o meno felici, di criteri di ragionevole delimitazione di principio della responsabilità, avendo riguardo a condizioni di fatto che restringono il campo di ciò che è esigibile. Sull’opportunità di specificazioni legislative si può discutere; una ragionevole ermeneutica dei contesti di fatto dovrebbe poter condurre comunque a delimitazioni ragionevoli delle responsabilità».
[26] Vd. anche Mezzetti, La colpa grave del medico: dalla prospettiva dell’ultra legem a quella dell’ante litteram, scritto destinato al Liber amicorum dedicato a Adelmo Manna, in corso di pubblicazione (p. 5 del dattiloscritto).
[27] Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 8770. Per un commento vd. Di Landro, Colpa medica, linee guida e buone pratiche. Spunti di riflessione comparatistici Dalle Sezioni Unite “Mariotti” alle esperienze angloamericane, in Arch. pen., 2018, pp. 403 ss.
[28] Vd. tra le più recenti Cass., 11 febbraio 2020, n. 15258.
[29] In tal senso vd. Risicato, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 83.
[30] Radicalmente contrario ad uno “scudo” penale è Gargani, La gestione dell’emergenza COVID-19: il rischio penale in ambito sanitario, in Dir. Pen. Proc., 2020, pp. 447 ss: «si tratta di un’opzione criticabile, nella misura in cui trasmette l’idea che l’ordinamento penale non sia attrezzato a fronteggiare lo stato di emergenza e che si renda necessario garantire immunità rispetto a condotte colpose diffuse (se non seriali). Come è stato osservato, l’ipotetico “scudo” si iscriverebbe, infatti, all’interno di un diritto penale emergenziale di favore che sarebbe percepito dalla collettività come la “deriva verso uno stato di eccezione determinato dal fatto che infermieri e medici stiano in questo momento sistematicamente commettendo degli illeciti e che vadano “coperti”, rispetto a generali colpe professionali rispetto alle quali dovrebbero essere “dichiarati impuniti” con una sorta di “amnistia preventiva”. Di un’indiscriminata e livellante esenzione dalla punibilità finirebbero per beneficiare irragionevolmente anche coloro i quali si siano resi responsabili di gravi omissioni o ritardi, facilmente evitabili nonostante l’emergenza (come potrebbe essere avvenuto in alcuni casi concernenti le R.S.A.)».
[31] Vd. Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, 5 maggio 2013, in www.penalecontemporaneo.it. L’A. ha rimarcato che: «nel merito, restrizioni della responsabilità penale per colpa sono coerenti, in via di principio, con la struttura generale del sistema. La colpa è un legittimo criterio d’imputazione penale, ma non è criterio di applicazione generale. Nell’ambito dei delitti la responsabilità per colpa non è il criterio di base; è una scelta possibile, affidata al legislatore di parte speciale (art. 42, comma 2, c.p.). Certo, è il criterio cui siamo abituati in relazione ai delitti contro la vita e l’integrità fisica. Ma anche in questo campo ciò è il risultato di una valutazione di politica del diritto, di competenza del legislatore; non di un vincolo di tutela penale, nemmeno nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, pur aperta al riconoscimento di obblighi di tutela penale della vita e dell’integrità fisica». Analogamente Forti, Il “quadro in movimento” della colpa penale del medico, tra riforme auspicate e riforme attuate, Dir. Pen. Proc., 2015, pp. 738 ss.
[32] Per prendere in prestito l’efficace espressione di Piergallini, “Civile” e “Penale” a perenne confronto: l’appuntamento di fine millennio, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2012, pp. 1299 ss.
[33] Per il significato di tale locuzione vd. Di Martino, Tipicità di contesto, 15 dicembre 2018, in www.archiviopenale.it.
[34] Vd. ad esempio Cass, 9 ottobre 2014, n. 47289 [«in tema di responsabilità professionale del medico, ai fini dell’applicazione della nuova normativa introdotta, assume rilievo il grado della colpa, nel senso che il legislatore distingue tra colpa lieve e colpa grave, escludendo, nel primo caso, la responsabilità del medico che nello svolgimento della sua attività si sia attenuto a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Per apprezzare se si verta in ipotesi di colpa grave occorre in primo luogo considerare che, poiché la colpa costituisce la violazione di un dovere obiettivo di diligenza, il primo parametro che assume rilievo riguarda il profilo oggettivo della diligenza, ossia la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere. In secondo luogo vi è nel grado della colpa un profilo soggettivo che riguarda l’agente in concreto, occorrendo quindi determinare la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente. Sotto quest’ultimo profilo, il quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari si correla alla professionalità dell’agente, con la conseguenza che l’inosservanza di una norma terapeutica ha un maggior disvalore per un insigne specialista che per un comune medico generico. Per contro, il rimprovero sarà meno forte quando l’agente si sia trovato in una situazione di particolari difficoltà quali, ad esempio, un leggero malessere, uno shock emotivo o un’improvvisa stanchezza. Sempre dal punto di vista soggettivo, assumono rilievo sia la motivazione della condotta (un trattamento terapeutico sbrigativo e non appropriato è meno grave se compiuto per una ragione d’urgenza) sia la complessità e difficoltà dell’atto medico o chirurgico richiesto (pur dovendosi escludere che la normativa di esonero da responsabilità prevista dal citato art. 3 si applichi solo in caso di speciale difficoltà del compito)»].