Il contenuto dispositivo del provvedimento amministrativo e le sue classificazioni alla luce del principio di legalità
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Vincenzo Visone
L’articolo affronta e disserta della polisemia del provvedimento amministrativo, inquadrato nelle differenti vesti che esso assume; a tal proposito, è stata proposta, nel presente scritto, un’analisi delle varie fattispecie di provvedimento amministrativo, in base alle classificazioni elaborate nel corso del tempo dalla dottrina nazionale. Sono stati richiamati contributi della giurisprudenza nazionale ed europea, i quali hanno segnato l’evoluzione della nozione di provvedimento amministrativo. In via ulteriore, non sono stati trascurati i punti di distonia con il fenomeno giuridico europeo, sia relativamente al diritto dell’Unione europea nonché al diritto convenzionale correlato all’attuazione della Carta dei Diritti dell’Uomo nel nostro ordinamento.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il problema definitorio concernente il provvedimento amministrativo; 2.1. Le diverse teorie susseguitesi nel tempo; 2.2. La tesi funzionale-procedimentale; 3. Il contenuto e le classificazioni del provvedimento amministrativo in combinato disposto con la disamina del principio di legalità; 3.1. Classificazione dei provvedimenti amministrativi in base all’efficacia; 4. Il principio di legalità; 5. La rilevanza della matrice discrezionale o vincolata del potere esercitato dalla P.A: analisi dell’istituto delle autorizzazioni; 5.1. Le differenti tipologie di autorizzazioni; 6. Il distinguo tra concessioni e autorizzazioni; 6.1. La prospettiva europea in relazione al discernimento tra autorizzazioni e concessioni; 7. I provvedimenti amministrativi a carattere ablatorio e sanzionatorio; 7.1. La fattispecie delle ordinanze; 7.2. Gli atti ablatori reali; 8. I provvedimenti sanzionatori; 8.1. Il caso controverso delle interdittive antimafia; 8.2. I provvedimenti sanzionatori in senso stretto; 9. Brevi riflessioni finali.
1. Introduzione
Il contenuto è un elemento essenziale del provvedimento amministrativo e deve essere, ex art. 1346 del codice civile, lecito, possibile, determinato o determinabile.
Gli studiosi di diritto amministrativo hanno ricostruito in modo differente, e talora divergente, la sua nozione.
Secondo la definizione tradizionale che ne è stata offerta e ripresa da autorevole dottrina, il contenuto del provvedimento amministrativo si ritrova nella parte dispositiva dell’atto e consiste “in ciò che con esso l’autorità intende disporre, ordinare, permettere, sanzionare, attestare, certificare” [1].
Per una diversa opinione, il contenuto del provvedimento amministrativo è la vicenda giuridica prodotta dall’atto, ossia la costituzione, la modificazione o l’estinzione di una determinata situazione giuridica soggettiva[2].
Ancora, il contenuto del provvedimento amministrativo è stato descritto come la disposizione o le disposizioni contenute nella parte precettiva dell’atto[3].
In definitiva, per contenuto deve intendersi la misura determinata attraverso l’atto o il provvedimento amministrativo.
Dalle definizioni appena accennate si evince la stretta correlazione tra il provvedimento amministrativo e i suoi caratteri ed elementi essenziali, tra determinazione dell’autorità amministrativa ed effetti che è destinato a produrre, nonché tra la delibazione della pubblica amministrazione e l’insieme di regole nazionali e sovranazionali che la conformano e consentono di stabilirne la validità e il vigore giuridico, nelle maglie del quale assume rilevanza dirimente il principio di legalità.
In altri termini, l’analisi del contenuto del provvedimento amministrativo abbisogna di alcuni necessari riferimenti circa i principi e le regole che governano l’azione delle pubbliche amministrazioni.
La presente disamina presuppone una definizione di provvedimento amministrativo, che in assenza di una disposizione legislativa emanata a tale precipuo fine, è stato oggetto di un lungo e tormentato iter interpretativo.
2. Il problema definitorio concernente il provvedimento amministrativo
La predetta lacuna, invero, non interessa soltanto il nostro ordinamento e la nozione di cui si discorre ha dato la stura a molteplici tentativi definitori.
Essa era sconosciuta prima della rivoluzione francese del 1789 e ha ottenuto una prima base normativa con la legge del 16 fruttidoro III del 3 settembre 1975, nonché una prima elaborazione dottrinale in Francia, per cui “la décision exècutive” è “la declaration de volontè en vue de produire un effet des droit, èmise par une autoritè administrative” (una dichiarazione di volontà destinata a produrre effetti giuridici emessa da una autorità amministrativa in forma esecutoria, ossia tale da comportare l’esecuzione d’ufficio.)
In Germania, viceversa, O. Mayer[4] definiva il Verwaltung come “la pretesa sovrana propria dell’amministrazione in base alla quale si determina nel caso concreto che cosa deve essere giusto per il cittadino”[5].
In merito, si riportano le osservazioni di autorevole dottrina secondo cui “a questa celebre definizione mayeriana corrisponde l’autonomo giuridicizzarsi della volontà dello Stato ogni qual volta essa interviene nell’ambito dei rapporti sociali ossia nella sfera dell’individuo. E’ importante osservare che si attenua così, nella rielaborazione di Otto Mayer, il rapporto tra azione amministrativa e legge come presupposto dell’amministrazione imperativa e carattere della specialità e dell’eccezionalità del diritto amministrativo, e, di conseguenza, si afferma, invertendo la natura normalmente fiscale dell’azione amministrativa nella tradizione tedesca, l’eccezionalità dell’amministrazione attraverso il diritto comune e la normalità del ricorso alla categoria formale dell’atto amministrativo e alla sua specifica grammatica ogni volta che “i sudditi entrino in contatto con lo Stato nell’atto di amministrare”.
L’atto amministrativo in quanto forma giuridica di ogni rapporto tra lo Stato amministrante e il suddito si sovrappone al criterio delimitativo della legalità dell’atto imperativo e contribuisce così a dilatare i confini del diritto amministrativo avvicinandoli a quelli del sistema francese”[6].
2.1. Le diverse teorie susseguitesi nel tempo
La dottrina italiana, ad inizio Novecento, assimilava il provvedimento amministrativo al negozio giuridico di diritto privato, di cui la volontà manifestata dal privato nel primo caso e dalla pubblica amministrazione nel secondo rappresentava il perno della determinazione dei consociati o dell’autorità amministrativa[7].
Una siffatta ricostruzione, tuttavia, è andata incontro ad una pluralità di obiezioni insuperabili e insuperate[8].
Infatti, già nella prima fase del secolo scorso, la concezione soggettiva del negozio giuridico aveva ceduto il passo alla concezione oggettiva, tesa a valorizzare l’assetto di interessi definito dalle parti così come cristallizzato nella dichiarazione di volontà emanata dalle medesime.
In secondo luogo, poi, provvedimento amministrativo e negozio giuridico di diritto privato sono categorie giuridiche ontologicamente diverse tra loro.
Il primo, in ossequio al principio di legalità, deve perseguire gli scopi indicati dalla legge e rispettare le garanzie previste dal legislatore; il secondo incontra il solo limite della meritevolezza degli interessi che s’intendono realizzare di cui all’art. 1322 del codice civile[9].
Pertanto, altra e diversa esegesi ermeneutica si è incaricata di fornire una definizione di provvedimento amministrativo elaborata mediante l’individuazione dei suoi caratteri essenziali.
Il provvedimento amministrativo è stato descritto quale atto unilaterale adottato all’esito di un procedimento amministrativo, contrassegnato dalla cd. imperatività, cioè dalla idoneità dello stesso a produrre effetti negativi o positivi nella sfera giuridica dei propri destinatari, indipendentemente dalla loro cooperazione. Per stabilire se un provvedimento abbia natura autoritativa o meno non sarebbe necessario accertare che la determinazione della pubblica amministrazione abbia effetti svantaggiosi quanto verificare la rilevanza o l’irrilevanza del consenso degli interessati[10].
Siffatta impostazione dogmatica nel tempo non ha ricevuto unanime accoglimento tra gli interpreti e gli studiosi del diritto pubblico sulla scorta di un diverso ordine di argomentazioni[11].
In primo luogo, è stato rilevato che alla nozione di provvedimento amministrativo si attribuisce la stessa importanza che viene accordata, in altri rami del diritto, a quella di legge, di sentenza e di contratto. Se, tuttavia, l’art. 1321 del codice civile definisce il contratto come l’accordo tra due o più parti volto a costituire, modificare, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, e gli artt .70 della Costituzione e 131 c.p.c. e ss. approntano criteri identificativi certi per la legge o per la sentenza, ciò non accade per il provvedimento amministrativo.
La legge 241 del 1990, che pure sul punto ha previsto una disciplina organica, non si preoccupa di delimitare l’oggetto né di fornire una nozione di provvedimento amministrativo, la quale non “è posta ma presupposta”, e la individuazione dei caratteri e dei confini del medesimo è compito demandato all’interprete.
La principale conseguenza di una simile constatazione sarebbe di immediata evidenza: il regime giuridico delle determinazioni volitive della pubblica amministrazione è il frutto di un insieme di regole che tiene conto della tipologia di attività espletata e della natura del soggetto da cui promana, da cui si evincerebbe che elementi indefettibili del provvedimento amministrativo non sarebbero né la tipicità, né l’imperatività, né la discrezionalità.
In realtà avrebbe poco senso parlare dell’istituto de qua soltanto in assenza di due caratteri: l’emanazione a seguito di un procedimento amministrativo e l’impugnabilità dinanzi ad un giudice.
La tesi interpretativa di cui si discorre affonda le sue radici in un dato storico e trova riscontro in diversi dati normativi presenti nel nostro ordinamento.
La nozione di provvedimento amministrativo, infatti, sarebbe sorta per rispondere ad esigenze emerse in contesti differenti e in tempi diversi.
Innanzitutto, la suddetta definizione è legata alla necessità di stabilire quando è possibile adire l’autorità giurisdizionale, operando un distinguo tra atti preparatori, strumentali e definitivi. Quest’ultimi, di regola, sono gli unici a presentare una attitudine lesiva per la sfera giuridica dei privati, pertanto bisognosi di strumenti idonei a garantire il loro diritto di difesa. Dopo l’approvazione della legge 241 del 1990, invece, s’impone l’individuazione dell’atto conclusivo del procedimento. La disposizione legislativa menzionata, l’art. 113 della Costituzione e gli artt. 7 e 34 del codice del processo amministrativo costituiscono i referenti normativi della teorica esaminanda: i due caratteri talvolta non sono compresenti, ma l’eccezione non infirma la regola.
2.2. La tesi funzionale-procedimentale
La teoria ad oggi prevalente è quella funzionale procedimentale: essa guarda al ruolo che ha l’atto all’interno del procedimento amministrativo, inteso quale forma della funzione amministrativa ed estrinsecazione del “differenziarsi del potere”, del “farsi dell’atto” e “momento della concretizzazione del potere in un atto”[12].
Il criterio distintivo perciò, in assenza di un precipuo addentellato legislativo, tra provvedimento e atto amministrativo è individuato tenendo conto che la pubblica amministrazione tendenzialmente per il perseguimento dei propri fini utilizza una serie di atti concatenati e coordinati tra loro, diretti all’emanazione del provvedimento finale, che manifesta all’esterno la volontà della pubblica amministrazione ed è idoneo ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei terzi.
Sulla stessa falsariga sembra porsi la giurisprudenza amministrativa secondo cui “la teoria del provvedimento amministrativo, quale manifestazione dell'esercizio del potere amministrativo si costruisce attorno a tre distinti fattori: a) quello processuale, essendo necessario individuare cosa si intendesse per atto impugnabile; b) quello pandettistico, che tenta di rimodellare le forme dell'azione amministrativa sulla falsa riga della tesi del negozio giuridico; c) quello procedimentale, ossia del processo decisorio a monte del provvedimento. A livello normativo l’architettura della nozione di provvedimento amministrativo non trova un riscontro sul piano definitorio da parte del legislatore, che nella legge generale sul procedimento amministrativo come novellata nel 2005, detta, invece, una disciplina del provvedimento.
Sicché solo in via induttiva da quest'ultima si possono individuare i caratteri tipici del provvedimento, quali: l'unilateralità, la tipicità, la motivazione, l'emanazione a seguito di un procedimento, l'immediata produzione di effetti, l'impugnabilità dinanzi al g.a. et similia. Si tratta, peraltro, di elementi che non consentono di fissare con precisione la nozione di provvedimento amministrativo, sia perché non essendo presente per alcuni di questi una definizione normativa, si tratta di concetti essi stessi imprecisi, sia perché alcuni atti presentano non tutti i suddetti caratteri (ad es. gli atti normativi di secondo grado e gli atti generali non contengono la motivazione)”[13] .
3. Il contenuto e le classificazioni del provvedimento amministrativo in combinato disposto con la disamina del principio di legalità
Tanto premesso sulla definizione di provvedimento amministrativo, è possibile procedere alla disamina del suo contenuto e delle sue classificazioni alla luce del principio di legalità.
Le ricostruzioni teoriche elaborate dalla dottrina assumono quale proprio parametro di riferimento i destinatari dell’attività espletata dalla pubblica amministrazione o la sua efficacia.
Quanto alla prima classificazione, la dottrina[14] opera un distinguo tra atti generali, atti collettivi e atti plurimi.
I primi si differenziano dagli atti particolari perché si rivolgono non a singoli destinatari bensì a classi omogenee più o meno ampie di soggetti, determinabili in concreto solo in un momento successivo all’emanazione dell’atto.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[15], invero, ha tratteggiato anche la differenza tra atto generale e atto normativo; i giudici amministrativi hanno affermato che un atto può qualificarsi normativo anche se non si indirizza, indistintamente, a tutti i consociati, perché generalità e astrattezza sono due qualità che non debbono intendersi alla stregua di una applicabilità indiscriminata a qualsiasi soggetto dell’ordinamento bensì come idoneità all’applicazione ripetuta e alla capacità di disciplinare una serie indefinita di casi. La delimitazione applicativa soltanto ad un settore, (nel caso di specie si trattava dei titolari di un impianto per la produzione di energia da fonte solare), non basta ad escludere che un atto abbia valenza normativa ma occorre verificare se è connotato dai requisiti della generalità e della astrattezza.
Altro criterio dirimente per discriminare un atto normativo da un atto amministrativo generale è l’indeterminabilità dei destinatari, che nel primo caso rimane sempre tale, mentre nella seconda ipotesi essa viene meno ex post in quanto la regola è diretta a disciplinare un singolo caso e/o una determinata vicenda. Detti principi sono stati accolti dalla giurisprudenza amministrativa prevalente ed utilizzati per escludere la natura normativa dei bandi di gara[16].
La peculiarità della parte precettiva dei provvedimenti di cui si discorre ha degli inevitabili riverberi anche sul piano sostanziale e processuale.
In ordine al primo aspetto, gli atti amministrativi generali sono sottratti all’applicazione degli istituti di partecipazione procedimentale, cosi come si evince, ad esempio, dall’art. 13 della legge 241 del 1990.
In secondo luogo, non soggiacciono all’obbligo di motivazione imposto dall’art 3 della menzionata disposizione legislativa in ragione della loro natura altamente discrezionale e della libertà nella scelta dei motivi che danno luogo alla loro emanazione[17].
In merito al secondo profilo, è esclusa la loro immediata impugnabilità poiché, se non concretizzati con specifici atti applicativi, di regola mancano della necessaria attitudine lesiva per la sfera giuridica dei destinatari.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, confermando un suo precedente orientamento, ha asserito che le clausole del bando di gara nono sono immediatamente impugnabili, salvo che le stesse non impongano, ai fini della partecipazione, oneri manifestamente incomprensibili, regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa, disposizioni che precludano il calcolo di convenienza economica e tecnica, prescrivano obblighi contra ius o contengano gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta[18].
Gli atti collettivi si differenziano dagli atti generali perché si indirizzano a categorie generalmente circoscritte di individui, considerati in modo unitario, però essi sono individuati già prima e al momento dell’emanazione dell’atto. Paradigmatico è l’esempio dello scioglimento dei consigli comunali[19] per le ragioni di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, il quale produce effetti nei confronti dei singoli individui del suddetto organo assembleare.
Gli atti a contenuto plurimo, viceversa, hanno quale loro referente passivo una pluralità di soggetti ma presentano una notevole differenza rispetto agli atti collettivi, essendo i loro effetti scindibili rispetto ai loro destinatari; in proposito, a titolo esemplificativo, è possibile menzionare l’approvazione di una graduatoria di vincitori di concorso.
La classificazione sopra esposta è gravida di conseguenze applicative in punto di tutela giurisdizionale e con riferimento alla portata del giudicato amministrativo.
La sentenza del giudice amministrativo, come noto, ha valore di giudicato soltanto tra le parti che hanno preso parte al processo o che comunque, siano state poste in condizione di parteciparvi; il principio del contraddittorio, infatti, è garantito dall’art. 111 della Costituzione ed è disciplinato dall’art. 27 del codice del processo amministrativo. Inoltre, il giudice è tenuto al rispetto del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 del codice di procedura civile[20].
Quanto appena esposto è espressione della regola dell’efficacia inter partes del giudicato e dei suoi limiti soggettivi, sussunta nell’antico brocardo latino res inter alios acta tertiis neque nocet neque prodest; essa tuttavia soffre di due eccezioni.
La prima concerne gli effetti di una sentenza di annullamento inerenti atti indivisibili, che producono effetti nei confronti di più soggetti considerati indistintamente. La seconda attiene ai regolamenti. In queste ipotesi la pronuncia della autorità giurisdizionale non può che spiegare efficacia erga omnes.
In realtà, come osservato da autorevole dottrina[21] la sentenza del giudice amministrativo determina solo la caducazione delle situazioni giuridiche soggettive che presuppongono l’efficacia del provvedimento venuto meno.
I terzi, dunque, seppure in via indiretta subiscono i riverberi delle delibazioni giudiziali ma non perdono la loro qualità di soggetti estranei al processo legittimati pertanto a proporre opposizione; la giurisprudenza sul punto ritiene ammissibile l’efficacia erga omnes della sentenza del giudice amministrativo tenendo conto, però, dei limiti oggettivi in cui il giudicato si è formato, deducibile dal dispositivo, dalla motivazione e dall’oggetto del giudizio[22].
Per gli atti contestuali plurimi, proprio perché scindibili quanto agli effetti sui loro destinatari, vale la regola generale della efficacia inter partes del giudicato.
Secondo parte della giurisprudenza[23], tuttavia, la pubblica amministrazione ha la facoltà di ampliare la portata del giudicato, estendendo i suoi effetti a soggetti che non hanno preso parte al giudizio ma si trovano in una posizione analoga a quella del ricorrente. Tale potere discrezionale incontra il solo limite del principio della parità di trattamento, violato allorché gli organi pubblici assumano una delibazione vantaggiosa solo per alcuni, trascurando la situazione di chi si trova in una posizione assimilabile a quella di chi ha adito l’autorità giurisdizionale[24]. Il riconoscimento di una siffatta attribuzione, invero, si spiega alla luce dei rapporti sussistenti tra il contenuto degli atti esaminandi, i poteri del giudice e principio di legalità.
Gli atti generali, gli atti collettivi e gli atti plurimi, invero, sono atti dal contenuto ampiamente discrezionale con i quali la pubblica amministrazione concretizza l’interesse pubblico la cui cura gli è stata demandata dalla legge, all’esito di un procedimento e una valutazione comparativa tra interesse pubblico primario, interessi pubblici secondari e interessi dei privati.
Il principio della separazione dei poteri, corollario del principio di legalità di matrice illuministica recepito dalla nostra Carta Costituzionale, impedisce all’autorità giurisdizionale di travalicare i confini del sindacato di legittimità, atteso che il legislatore affida il merito del governo della cosa pubblica solo ed esclusivamente alla pubblica amministrazione.
La discrezionalità della pubblica amministrazione, però, non è illimitata[25]: ogni atto, provvedimento e azione della pubblica amministrazione deve essere retto da una fonte di rango primario (la legge o disposizione ad essa equipollente) che ne indica lo scopo e talvolta il contenuto, come a breve si dirà con riguardo al distinguo da effettuarsi rispetto all’attività vincolata e all’attività discrezionale. L’art. 83, comma II del decreto legislativo n. 50 del 2016, ad esempio, impone alla pubblica amministrazione di rispettare i principi di proporzionalità e ragionevolezza, prevede l’obbligo di ammettere il soccorso istruttorio e il divieto di cause di esclusione atipiche, cioè diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge[26].
Alla luce di quanto affermato risulta evidente che le tesi dottrinali e le pronunce giurisprudenziali richiamate, delineato il contenuto dei provvedimenti amministrativi summenzionati, individuano i limiti della tutela giurisdizionale[27] e la portata del giudicato amministrativo, nonché i poteri esercitabili dalla pubblica amministrazione a seguito del medesimo in base al principio di legalità, nelle sue diverse e interdipendenti articolazioni della tassatività e delle nominatività.
Se il potere è attribuito dalla legge all’amministrazione, solo essa può esercitarlo e il giudice può determinarne la caducazione nella misura in cui sussista un vizio di legittimità.
L’estensione erga omnes della determinazione della autorità giurisdizionale ha ragion d’essere solo se e nella misura in cui i suoi effetti si producano nei confronti di tutti i suoi destinatari e in virtù del peculiare contenuto degli atti generali e degli atti collettivi, intrinsecamente diversi dagli atti particolari e conformati dall’esterno dai limiti imposti dalla legge, la cui violazione rende contrario all’ordinamento i suddetti provvedimenti complessivamente considerati.
La scindibilità delle conseguenze di un atto contestuale plurimo spiega, di conseguenza, il ritorno all’applicazione delle regole di carattere generale, salvo diversa decisione della pubblica amministrazione.
3.1. Classificazione dei provvedimenti amministrativi in base all’efficacia
Il riferimento all’attività discrezionale e al principio di legalità consente di introdurre il secondo tipo di classificazione proposta dalla dottrina circa le diverse tipologie di provvedimenti amministrativi basata sull’efficacia; in proposito si distinguono provvedimenti ad efficacia dichiarativa o costitutiva, provvedimenti concessori e autorizzatori, ablatori e sanzionatori, la cui analisi non può prescindere dalla trattazione del principio di legalità, dai suoi riverberi sull’azione amministrativa e dal differente campo di libertà di cui gode la pubblica amministrazione.
Il principio di legalità è uno dei principi fondamentali del diritto amministrativo, sancito dall’art. 23, dall’art. 42 e dall’art. 97 della Costituzione, nonché in via indiretta dall’art. 113, atteso che la giustiziabilità di un provvedimento postula l’esistenza di principio e di un parametro normativo sulla scorta del quale verificarne la legittimità.
Per la dottrina[28], in primo luogo, il medesimo può essere svolgere diverse funzioni.
Essendo posto a tutela della libertà individuale dei consociati, infatti, la necessità di un fondamento legislativo è legata all’esigenza di stabilire con quali mezzi e con quali modalità la pubblica amministrazione deve espletare la propria attività, discorrendosi sul punto di legalità garanzia.
Il legislatore, poi, nel rispetto della tripartizione dei poteri delineata dalla Costituzione, deve indicare anche lo scopo verso il quale deve tendere ciò che viene posto in essere dagli organi pubblici: gli interpreti in tal senso parlano di legalità indirizzo.
In secondo luogo, il principio di legalità può essere declinato secondo diverse accezioni.
Esso, innanzitutto, può coincidere con il principio di preferenza della legge; da ciò discende che gli atti della pubblica amministrazione non possono porsi in contrasto con la legge, giacché la fonte di rango primario rappresenterebbe un limite negativo delle attribuzioni riconosciute dalla pubblica amministrazione.
Siffatta teorica, in realtà, è storicamente superata in quanto legata ad una concezione dualistica della sovranità, divisa tra un parlamento elettivo, democraticamente legittimato, ed il re, il cui potere era fondato sul principio dinastico; ciononostante, dei riverberi di tale concezione si rinvengono ancora nell’art. 4, comma primo, delle disposizioni preliminari al codice civile, nonché nell’art. 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
Ad oggi, però, il principio di legalità viene inteso soprattutto quale necessaria attribuzione del potere amministrativo ad opera del legislatore, in virtù di una concezione monistica della sovranità, la cui titolarità è riconosciuta al popolo dall’art.1 della nostra Carta Costituzionale: in seno a detta accezione, il principio esaminando può assumere una diversa intensità.
La legge, infatti, può limitarsi ad indicare l’organo titolare di un potere pubblicistico e lo scopo che deve perseguire, senza alcuna altra specificazione; d’altronde, il principio di legalità può imporre anche al legislatore di prevedere e dettagliare una disciplina precipua per l’esercizio del potere amministrativo, che ne definisca i presupposti, i contenuti e le caratteristiche[29].
4. Il principio di legalità
Parte della dottrina[30], correlando le funzioni del principio di legalità con i significati che esso può assumere, asserisce che la legalità-indirizzo impone solo l’attribuzione e la funzionalizzazione dell’attività della pubblica amministrazione verso scopi pubblici, mentre la legalità-garanzia esige la predeterminazione dei contenuti dell’azione amministrativa.
Sul punto si opera un distinguo tra legalità formale-procedimentale e legalità sostanziale[31], a seconda che la fonte di rango primario definisca il tipo di procedimento da seguire e i suoi contenuti o sancisca l’assetto di interessi al quale deve pervenire l’attività degli organi pubblici.
Invero, il grado di analiticità con il quale il legislatore regolamenta l’azione della pubblica amministrazione ne può rendere il carattere vincolato o discrezionale[32]: allorché la pubblica amministrazione è libera di determinarne l’an, il quid, il quando o il quomodo l’attività è da reputarsi discrezionale. Una simile scelta è correlata all’impossibilità di anticipare e antivedere in via generale ed astratta la soluzione preferibile per i diversi interessi in gioco, alla luce della loro complessità e della consequenziale natura composita del provvedimento da emanare.
Quando, invece, la legge stabilisce modalità e contenuto della attività della pubblica amministrazione, vincolando l’azione della medesima in tutti i suoi aspetti, essa è da definirsi vincolata; il contenuto del provvedimento amministrativo è stabilito dalla legge e solo i suoi effetti dipendono dalla determinazione della pubblica amministrazione, chiamata a svolgere una funzione di mero accertamento dei presupposti che ne consentono l’emanazione.
Come rilevato da autorevole dottrina, la semplicità delle problematiche da risolvere e degli interessi da comporre fa sì che “ogni valutazione relativa all’interesse pubblico risulta assorbita dalle norme che disciplinano l’attività, di modo che rispettare il dettato normativo significa anche perseguire l’interesse pubblico da esso definito e in esso incorporato”[33] .
L’esistenza e/o l’ampiezza della discrezionalità della pubblica amministrazione e il principio di legalità nelle sue diverse declinazioni, come accennato, determinano, dall’esterno, il contenuto e l’efficacia di un atto.
In primo luogo, una parte della dottrina opera un distinguo tra provvedimenti ad efficacia dichiarativa e provvedimenti ad efficacia costitutiva. Tale differenziazione, per il principale autore di tale tesi, sarebbe dovuta all’incapacità di taluni provvedimenti di apportare modificazione esterne alle situazioni giuridiche soggettive; i provvedimenti aventi natura dichiarativa si limiterebbero ad acclarare l’esistenza di un rapporto a loro preesistente, mentre quelli costitutivi ne determinerebbero l’istituzione o la modificazione[34].
Per tale dottrina ogni situazione giuridica rappresenta uno schema generale e astratto, teso al futuro, il cui campo applicativo sussume potenzialmente una serie illimitata di fattispecie.
Il mutamento interno della situazione giuridica, dovuto proprio alla sua generalità, potrebbe dare luogo ad un accadimento, che ne muta i caratteri sostanziali, sia da un punto di vista soggettivo sia da un punto di vista oggettivo. Può darsi, tuttavia, che detto evento sia compatibile con la situazione originariamente considerata, la quale rimane identica a sé stessa; il provvedimento della pubblica amministrazione fungerebbe solo da condizione per la produzione di effetti già stabiliti in altra sede: detta efficacia sarebbe ascritta, in particolare, agli atti aventi natura vincolata.
La suesposta esegesi ermeneutica ha incontrato nel tempo molteplici voci dissonanti.
È stato osservato, infatti, che quando alla pubblica amministrazione è riconosciuto un determinato potere, questo consiste nella capacità di emanare un provvedimento destinato a produrre effetti e a modificare la realtà giuridica. In altri termini, non potrebbe discorrersi di attribuzione alcuna riconosciuta ad un organo pubblico se quest’ultima non può avere in misura più o meno ampia una portata innovativa, indipendentemente dalla natura vincolata o discrezionale della determinazione della pubblica amministrazione.
Ai fini che qui ci occupano appare decisivo il rilievo per il quale il “contenuto del provvedimento amministrativo” dipende dal tipo di potere esercitato, che proprio sulla scorta di detta circostanza può essere eterogeneo e consistere nell’autorizzazione ad espletare una determinata attività, nell’attribuzione di una somma di danaro ad un privato, nell’irrogazione di una sanzione, nella qualificazione di un bene giuridico, nel suo acquisto o nella sua alienazione e così via[35].
Il riferimento al contenuto del provvedimento permette di capovolgere i termini della questione.
Preliminarmente è da precisarsi che la locuzione contenuto del provvedimento amministrativo deve essere intesa in senso restrittivo, in quanto con essa si allude solamente alla disciplina posta dalla determinazione volitiva della pubblica amministrazione in ordine al rapporto che sussiste con il privato e non alla regolamentazione complessiva dello stesso.
Inoltre, la necessità di una volontà della pubblica amministrazione cui sia imputabile la parte precettiva della delibazione amministrativa non è esclusa dal carattere vincolato del potere. Allorché, ad esempio, si decida di erogare una determinata somma di danaro perché sono stati accertati i presupposti richiesti dalla legge a tal fine, il contenuto, la volontà e l’efficacia del provvedimento sono da ricondursi a tale aspetto, mentre l’eventuale sottoposizione ad un’attività di sorveglianza non è un effetto ascrivibile allo stesso, ma dipende dalla legge che mira a salvaguardare un interesse che non è nella disponibilità degli organi pubblici[36] .
Si può affermare, dunque, nel tentativo di sintetizzare in poche battute quanto esposto, che l’attività di mediazione della pubblica amministrazione in ordine alle attività vincolate assume un peso specifico minore rispetto a quanto accade con l’attività discrezionale.
5. La rilevanza della matrice discrezionale o vincolata del potere esercitato dalla P.A: analisi dell’istituto delle autorizzazioni
Proprio muovendo dall’analisi del contenuto del provvedimento amministrativo, allora, si può tenere conto della rilevanza dell’attività discrezionale e vincolata, della diatriba sorta in ordine ai provvedimenti ad efficacia dichiarativa, la quale ha degli inevitabili riverberi su tutto ciò che si dirà in seguito, e procedere pertanto alla disamina delle posizioni emerse nel tempo in dottrina e in giurisprudenza concernenti autorizzazioni e concessioni[37].
L’autorizzazione amministrativa è indubbiamente un provvedimento dagli effetti vantaggiosi: ciò che ha dato luogo ad opinioni differenti e divergenti in dottrina è, in primis, la sua definizione.
L’opinione tradizionale e a lungo prevalente tra gli interpreti la considerava come il provvedimento con il quale la pubblica amministrazione rimuove un limite posto dalla legge per la tutela di uno o più interessi pubblici al fine di consentire l’esercizio di un diritto di cui il privato è già titolare[38].
L’impostazione dogmatica de qua è stata contestata vibratamente.
Il principale rilievo che le è stato avanzato prende le mosse dalla funzione e dal risultato cui sono preposte titolarità ed esercitabilità di un diritto; le situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i privati, infatti, servono a qualificare determinati comportamenti e atti in termini di liceità o illiceità, di riprovazione o di apprezzamento. Non è possibile disgiungere, quindi, titolarità ed esercitabilità di un diritto, perché hanno il medesimo fine, ovvero stabilire se un determinato contegno posto in essere da un cittadino sia a lui ascrivibile senza che per tale ragione venga assoggettato ad una misura punitiva.
La tesi criticata, peraltro, sarebbe strettamente correlata al periodo storico nel quale è stata concepita. Essa, in effetti, si fondava su un rapporto autorità-individuo proprio delle concezioni liberali dello Stato, per cui la libertà è la regola e la sua limitazione rappresenta l’eccezione; da tale prodromo, si rendeva ammissibile, per i giuristi dell’epoca, solo l’estinzione della libertà ex post ad opera del legislatore.
Con l’avvento dello Stato sociale di diritto, invece, lo Stato ha assunto compiti di gestione e regolazione dell’economia nazionale, facendosi carico di una pluralità di scopi e ponendo, per la tutela di interessi di primario rilievo, tra cui è possibile menzionare a titolo esemplificativo la sicurezza pubblica, divieti generali all’esercizio di libertà anche costituzionalmente garantite, “restituibili” solo a seguito di un espresso atto di assenso della pubblica amministrazione[39] .
Si è fatto strada, consequenzialmente, un diverso orientamento interpretativo, il quale asserisce che l’autorizzazione postula l’esistenza di un potere in capo al privato, la sua qualificazione ad opera di una fonte di rango primario e la gestione del potere stesso in base alle prescrizioni contenute nella determinazione dell’autorità amministrativa, come accade allorché un cittadino intenda esercitare un’attività economica sottoposta al controllo della pubblica amministrazione.
Tanto premesso, l’autore[40] della suddetta opinione individua diverse tipologie di autorizzazione[41].
In primo luogo, vi sarebbero le autorizzazioni costitutive di diritti di impresa[42]. Il privato, in detta ipotesi, richiederebbe l’assenso della pubblica amministrazione per l’espletamento di una determinata attività, che una volta accordato implica la sottoposizione di chi esercita la propria libertà di iniziativa economica ai controlli degli organi pubblici.
In secondo luogo, l’autorizzazione potrebbe inerire il diritto di proprietà e, più in generale, i diritti reali; tali autorizzazioni riguardano soprattutto beni privati d’interesse collettivo.
In terzo luogo, le autorizzazioni avrebbero una funzione permissiva o ricognitiva. Nel primo caso consentirebbero l’esercizio di un diritto o ne negherebbero l’esercitabilità, mentre nella seconda ipotesi il provvedimento della pubblica amministrazione avrebbe natura vincolata e la stessa si limiterebbe a verificare la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per porre in essere una delibazione dagli effetti ampliativi della sfera giuridica del cittadino.
L’illustrata proposta esplicativa perplime nella misura in cui ripropone, quanto alle autorizzazioni permissive, una disgiunzione tra titolarità ed esercitabilità del diritto, inammissibile per i motivi sopra esposti; inoltre la categoria delle autorizzazioni ricognitive, aventi natura meramente dichiarativa, è oggetto di molteplici dubbi. In particolare, si asserisce che l’attitudine a compiere atti giuridicamente rilevanti capaci di incidere sulla realtà giuridica implica un riconoscimento a livello normativo.
Tale attribuzione, tuttavia, consentirebbe soltanto l’esplicitazione di un giudizio di accertamento sull’esistenza storica di un determinato atto, poiché la sua qualificazione necessiterebbe di una attività di regolamentazione, innovatrice, la quale assumerebbe a suo contenuto situazioni di libertà o doverosità e permetterebbe al contempo di valutare positivamente o negativamente il contegno realizzato dal cittadino in base ai canoni e ai principi generali dell’ordinamento giuridico[43].
La posizione interpretativa attualmente dominante, perciò, è quella secondo cui tutte le autorizzazioni avrebbero natura costitutiva[44] .
5.1. Le differenti tipologie di autorizzazioni
Atteso quanto innanzi, si opera un distinguo tra autorizzazioni con funzioni di verifica di presupposti e requisiti legali e autorizzazioni con funzioni conformative[45] o ablatorie.
Le prime si suddividerebbero in due sottocategorie: esse potrebbero essere catalogate quali autorizzazioni con funzione di verifica a risultato certo, nel qual caso l’accertamento positivo della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge “impone” la determinazione favorevole della pubblica amministrazione. A titolo esemplificativo si menziona il rilascio del passaporto, disciplinato dalla legge 1185 del 1967, spettante a tutti coloro che hanno compiuto il decimo anno di età, salvo sussista una delle cause ostative indicate tassativamente dalla disposizione legislativa appena cennata.
Vi sono, poi, le autorizzazioni di verifica a risultato non certo, come le abilitazioni o gli accreditamenti, il cui compito è quello di consentire una verifica preventiva del possesso di determinate qualità e caratteristiche indefettibili per l’esercizio di una determinata professione o per l’espletamento di una certa attività.
Le autorizzazioni conformative, viceversa, sono l’espressione di un potere attribuito dalla legge alla pubblica amministrazione mediante cui quest’ultima riconosce in capo al privato la possibilità di realizzare un proprio diritto e una propria libertà purché ciò avvenga nel rispetto di talune modalità e limiti sanciti dall’organo pubblico: paradigmatica in proposito è la valutazione di impatto ambientale di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006.
Le autorizzazioni ablatorie, infine, sono quelle che approvano o negano lo svolgimento di determinate attività all’esito di una valutazione comparativa dei diversi interessi pubblici e privati che vengono in rilievo. Ad esempio, con il previgente istituto della licenza edilizia, era riconosciuto alla pubblica amministrazione il potere di determinare l’uso che si poteva fare di un determinato bene, limitando notevolmente la facoltà di godimento del proprietario riconosciuta dall’art. 832 del codice civile; gli effetti di una simile limitazione erano assimilati a quelli di un vincolo espropriativo[46] .
6. Il distinguo tra concessioni e autorizzazioni
L’indefettibile valenza costitutiva delle autorizzazioni amministrative ha reso inevitabilmente più complicato scorgere il discrimen con l’istituto delle concessioni.
Sul punto, in via preliminare s’intende anticipare che per stabilire se la determinazione della pubblica amministrazione sia una autorizzazione o una concessione ad oggi si ritiene necessario fare riferimento al contenuto del provvedimento amministrativo per le ragioni che di seguito si esporranno.
La difficoltà che s’incontra nell’operare un distinguo tra i predetti istituti è dovuta alla indiscussa valenza costitutiva delle concessioni.
In termini dogmatici, invero, nel tempo sono emerse diverse ricostruzioni.
In primo luogo, venivano individuate due tipi di concessioni: le concessioni traslative e le concessioni costitutive[47].
Con le prime la pubblica amministrazione trasferiva al privato facoltà e poteri che le erano proprie, mentre nelle seconde il diritto era costituito ex novo in capo al cittadino; inoltre, veniva effettuata una ulteriore differenziazione sulla scorta dell’oggetto, che poteva riguardare beni, servizi o lavori.
Si discuteva, poi, in ordine alla loro natura.
Secondo un primo orientamento[48] , infatti, le concessioni constano di due atti, unilaterali e distinti, dei quali solo uno è espressione della volontà della pubblica amministrazione, avendo la manifestazione di volontà del privato il ruolo di condizione e/o di presupposto del rapporto concessorio, a seconda del momento in cui interviene.
La Corte di Cassazione successivamente, nei primi anni del secolo scorso, per l’inquadramento del rapporto concessorio ha elaborato la figura della cd. concessione contratto: la concessione avrebbe la sua origine in un provvedimento amministrativo cui accede un contratto di natura privatistica, fonte di obblighi e diritti reciproci per il concedente e il concessionario[49] .
La posizione dei giudici di legittimità rispose all’avvertita esigenza di tutelare adeguatamente la posizione del privato, evitando di relegare il suo consenso a mero presupposto o condizione di efficacia del provvedimento amministrativo; inoltre si reputava una vera e propria contraddizione in termini un contratto conformato dal perseguimento di un interesse pubblico[50] .
L’approdo ermeneutico registratosi negli ultimi anni, divenuto largamente dominante in dottrina e giurisprudenza, qualifica le concessioni come contratti di diritto pubblico, categoria ritenuta pacificamente ammissibile a seguito della approvazione della legge 241 del 1990, disposizione legislativa che ha riconosciuto cittadinanza nel nostro ordinamento a contratti ed accordi aventi ad oggetto l’esercizio del potere amministrativo[51].
6.1. La prospettiva europea in relazione al discernimento tra autorizzazioni e concessioni
In questo senso sembra deporre anche il diritto dell’Unione Europea[52], in particolare la direttiva n. 23 del 2014 il cui articolo 1 ricorre esplicitamente alla locuzione “contratti di concessione”, reputati moduli sinallagmatici equiparabili agli appalti, la cui titolarità è ascrivibile alle amministrazioni aggiudicatrici[53] .
Il diritto europeo, di fatto, risulta determinante per il corretto inquadramento giuridico delle concessioni e costituisce, al contempo, una delle ragioni per cui il contenuto del provvedimento amministrativo è l’elemento da reputarsi dirimente per discriminare le autorizzazioni dalle concessioni. La valenza costitutiva delle concessioni non può più assurgere a criterio risolutivo della tematica dal momento in cui la medesima è stata riconosciuta a tutti i provvedimenti autorizzatori.
Giova non pretermettere che prima dell’avvento e al di là delle disposizioni comunitarie era stata la giurisprudenza amministrativa a pervenire ad un tale risultato interpretativo.
Il Consiglio di Stato già nel 2003 ebbe ad affermare “che gli atti amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato, cosicché occorre prescindere dal nomen iuris adottato ai fini dell'inquadramento degli stessi”[54]. Peraltro, la quinta sezione ribadiva un principio ormai consolidato, come dimostrato dalle affermazioni rese dall’Adunanza Plenaria, secondo la quale “l’atto amministrativo va qualificato per il suo effettivo contenuto, per quanto effettivamente dispone, non già per la sola qualificazione che l'autorità, nell'emanarlo, eventualmente ed espressamente gli conferisca”[55].
Codesta risultanza interpretativa, alla stregua di quanto sopra si diceva, pare avallata e avvalorata dal diritto comunitario e da una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea concernente le concessioni demaniali marittime[56].
Quest’ultima, infatti, ha escluso che le medesime possano qualificarsi come una concessione di servizi, “la quale è caratterizzata, in particolare, da una situazione in cui un diritto di gestire un servizio determinato viene trasferito da una autorità aggiudicatrice ad un concessionario e che questi dispone, nell’ambito del contratto concluso, di una certa libertà economica per determinare le condizioni di gestione del diritto, restando parallelamente in larga misura esposto ai rischi connessi a detta gestione. Le concessioni demaniali marittime, viceversa, vertono non su una prestazione di servizi, bensì sull’autorizzazione ad esercitare una attività economica in una area demaniale”[57] .
La pronuncia dei giudici comunitari si rivela di particolare importanza poiché, ai fini che ci occupano, permette di marcare il legame tra la medesima, il contenuto del provvedimento amministrativo e il principio di legalità.
La natura di concessione di servizi pubblici è stata negata alla concessione demaniale marittima proprio muovendo dalla differenziazione contenutistica delle autorizzazioni e delle concessioni, delineata nel modo sopra esposto.
Le conseguenze non sono di poco momento, atteso che il principale corollario di una simile asserzione è l’inapplicabilità della direttiva comunitaria 23 del 2014, fortemente vincolante per le pubbliche amministrazioni, con la conseguente operatività delle regole previste dalla direttiva 123 del 2006, sulla scorta della quale solo se e nella misura in cui vi sia scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili è necessario espletare una gara ad evidenza pubblica e rilasciare al suo esito un titolo abilitativo, teso ad attestare l’idoneità del privato ad esercitare una determinata attività imprenditoriale.
La sentenza de qua, dunque, conferma la natura contrattuale delle concessioni e impone una analisi della parte precettiva delle determinazioni della pubblica amministrazione per stabilire se un determinato atto sia una autorizzazione o una concessione.
Il provvedimento giurisdizionale di cui si discorre, però, assume una rilevanza notevole ove si consideri la sua capacità di orientare l’azione amministrativa e di conformare l’attività del giudice comune.
A partire dalla sentenza Granital n.170 del 1984, la Corte Costituzionale ha ammesso la facoltà di esercitare un sindacato diffuso in ordine alla compatibilità delle norme interne con il diritto comunitario, ricorrendo allo strumento della disapplicazione per risolvere eventuali antinomie tra le stesse e le regole europee; all’indomani della riforma del titolo V della Costituzione, il legislatore costituente ha assoggettato l’esercizio della potestà legislativa ai vincoli derivanti dal diritto comunitario.
L’azione della pubblica amministrazione, pertanto, tenendo conto del principio di legalità e delle sue diverse sfaccettature, è retta da un sistema di fonti infra-sistemico, di cui i Trattati e il diritto europeo direttamente applicabile, come le direttive 32 del 2014 e 123 del 2006, costituiscono il livello gerarchico più elevato. I giudici comunitari, la Corte Costituzionale e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di stato, facendo leva sul disposto dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea attribuiscono alle sentenze interpretative della Corte di Giustizia valenza normativa, il cui mancato rispetto può dare luogo all’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti di uno Stato membro[58].
Allorquando la pubblica amministrazione dovrà stabilire quale delle due fonti di diritto derivato menzionate è tenuta ad applicare e comprendere, più in generale, se il provvedimento che sta emanando è una autorizzazione o una concessione, nonché ove dovesse essere eventualmente chiamata a pronunciarsi l’autorità giurisdizionale in merito, le qualificazioni formali operate dalla pubblica amministrazione e dagli interpreti dovranno cedere il passo al criterio sostanziale del contenuto del provvedimento amministrativo che ne permetterà un corretto inquadramento, preferito dal diritto comunitario, applicabile in virtù della sua natura di fonte gerarchicamente posta al vertice delle altre.
7. I provvedimenti amministrativi a carattere ablatorio e sanzionatorio
Tanto premesso, occorre rilevare che il diritto europeo e il principio di legalità hanno dato luogo a vicende ancora più interessanti in riferimento ai provvedimenti ablatori e ai provvedimenti sanzionatori.
I primi sono provvedimenti specularmente opposti alle autorizzazioni e alle concessioni, poiché constano di un contenuto negativo rispetto alla situazione giuridica del loro destinatario, il quale viene privato di un diritto o di una facoltà per la realizzazione e la tutela di un interesse pubblico.
La dottrina opera un distinguo tra provvedimenti ablatori personali e reali[59] .
Tra i primi rientrano gli ordini amministrativi e i provvedimenti che impongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare.
Gli ordini amministrativi sono le manifestazioni di volontà con le quali gli organi pubblici prescrivono in modo puntuale il comportamento da tenersi ad un soggetto determinato che si trovi in una specifica situazione. Essi presuppongo un rapporto di gerarchia tra il loro autore e il relativo destinatario, una relazione di continenza tra le competenze degli organi sovraordinati e subordinati e sono disciplinati in modo organico dal Testo unico degli impiegati civili; talvolta, l’ordine può essere impartito dalla pubblica amministrazione anche nei confronti di un privato.
Paradigmatico sul punto è il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che ne prevede diverse tipologie, quali l’invito a comparire, l’ordine di sciogliere un assembramento, il divieto di svolgimento di riunioni o di detenzione di armi e così via. L’imposizione di obblighi comportamentali, invero, è una facoltà riconosciuta sempre più spesso dalle leggi settoriali: si pensi all’art. 128 ter del decreto legislativo n. 385 del 1993, disposizione che consente alla Banca d’Italia di porre in essere misure inibitorie allorché emergano delle irregolarità a seguito dei controlli effettuati dall’autorità di sorveglianza oppure all’art. 27 del decreto legislativo n. 205 del 2006 sulla scorta di cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può vietare, d’ufficio o su istanza di chi abbia interesse, la continuazione di pratiche commerciali scorrette.
Nelle ipotesi che si stanno esaminando, la legge indica gli scopi e le modalità mediante le quali l’azione amministrativa deve essere espletata e determina il contenuto dei provvedimenti. Tanto è dimostrato da una piana lettura delle norme sopramenzionate.
7.1. La fattispecie delle ordinanze
Diverso è il caso delle ordinanze, definite come “provvedimenti autoritativi che impongono o vietano o regolano, esprimenti tuttavia un comando più articolato del semplice ordine, poiché a differenza di questi ultimi sono frutto di una valutazione discrezionale compiuta dalla pubblica amministrazione sulla scorta di una facoltà derivante dalla legge o, comunque dai principi generali dell’ordinamento”[60] .
In proposito, necessita di una indagine più approfondita il rapporto tra legge, esercizio del potere e contenuto del provvedimento amministrativo.
Primieramente è stato osservato che il “nomen juris ordinanza senz’altra precisazione non indica una precisa classe di atti amministrativi cui ricondurre una determinata disciplina, ma permane utile come richiamo alle ragioni di un tempo segnate da un particolare rapporto con la fonte legislativa di tale ampia categoria di atti, che in situazioni d’eccezione consente a determinati organi della pubblica amministrazione di provvedere affinché venga superata l’attuale situazione di pericolo per determinati interessi pubblici” [61].
Si evince che in ragione della loro aggettivazione dalle mere ordinanze si distinguono le “ordinanze di necessità urgenza” -art.2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza- e le ordinanze contingibili e urgenti di cui è stata controversa, innanzitutto, la natura.
Secondo un primo orientamento le stesse assurgerebbero a fonte del diritto; si rileva, infatti, che la generalità propria degli atti normativi non verrebbe meno in virtù dell’efficacia limitata nel tempo e nello spazio. Inoltre, sebbene le dette ordinanze comportino la mera disapplicazione di fonti di rango primario o sub-primario l’istituto appena richiamato spiega comunque efficacia innovativa[62].
La Corte costituzionale ha ribadito a più riprese, viceversa, che le suddette ordinanze hanno natura amministrativa.
In realtà con la sentenza n. 26 del 1961 i giudici costituzionali operarono un distinguo tra i casi “in cui la Costituzione stabilisce che la legge provveda direttamente a disciplinare una determinata materia (per esempio, art. 13, terzo comma), in cui non può concepirsi che nella materia stessa l'art. 2 permetta la emanazione di atti amministrativi che dispongano in difformità alla legge prevista dalla Costituzione” e le ipotesi in cui la “ Carta costituzionale ha stabilito una riserva adoperando la formula "in base alla legge" o altra di eguale significato, che rende ammissibile una disposizione legislativa volta conferire il potere all'Autorità amministrativa di emanare atti anche normativi, purché la legge indichi i criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell'organo a cui il potere è stato attribuito” [63] .
Orbene, pur riconoscendosi natura amministrativa alle ordinanze di necessità e urgenza e a quelle contingibili e urgenti, la Costituzione non ne preclude, nelle materie coperte da riserva di legge relativa, il riconoscimento della natura normativa, purché esse rispettino i principi generali dell’ordinamento giuridico e non travalichino i confini sanciti dal legislatore.
La riserva di legge, ovvero il principale corollario del principio di legalità, in questo caso rileva già in merito alla qualificazione giuridica delle ordinanze esaminande; la stessa, inoltre, vieta “l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione”[64] .
I suddetti provvedimenti presentano un momento di tensione anche con un secondo corollario del richiamato principio di legalità, cioè la tipicità degli atti amministrativi; l’ampia discrezionalità riconosciuta alla pubblica amministrazione e “l’atipicità contenutistica” delle ordinanze de qua, infatti, giustificano la rigorosa delimitazione dei loro presupposti, delle condizioni e dei limiti che ne permettono l’emanazione.
Il principio di legalità si lega al contenuto del provvedimento amministrativo, essendo incaricata la legge di puntualizzare le circostanze di diritto e di fatto in base alle quali lo Stato o gli enti territorialmente competenti possono derogare al principio di tipicità in virtù di cui l’amministrazione dovrebbe indicare il tipo di atto emanabile dalla pubblica amministrazione, dal contenuto predeterminato, in maniera più o meno intensa, da una fonte di rango primario e/o dai principi generali dell’ordinamento.
L’assunto trova conferma nella giurisprudenza costituzionale la quale ha affermato in più occasioni che deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza, sono consentite solo se temporalmente delimitate, in assenza di altri poteri di natura ordinaria e nei limiti della “concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare”[65].
7.2. Gli atti ablatori reali
Tanto chiarito in ordine ai provvedimenti ablatori personali, si può soffermare l’attenzione sui provvedimenti ablatori reali definiti tali perché, appunto, incidono sui diritti reali: imprescindibile è la trattazione delle vicende inerenti all’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità[66]. È in riferimento a quest’ultimo, infatti, che il nostro ordinamento ha conosciuto un’evoluzione profonda in ordine alla portata del principio di legalità e ha subito mutamenti notevoli alla luce dell’influsso esercitato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di Strasburgo ha asserito l’illegittimità della cd. occupazione acquisitiva[67], figura elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, in ossequio alla quale la pubblica amministrazione poteva conseguire la proprietà di un bene in assenza di una formale procedura d’esproprio, con consequenziale estinzione del diritto in capo al privato, ove il bene oggetto del possesso e dell’attività amministrativa avesse subito una trasformazione irreversibile[68].
In siffatto modo, la prassi della pubblica amministrazione italiana, avallata dalla Corte di Cassazione, dava luogo alla violazione dell’art.1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU, atteso che determinava un sacrificio della proprietà privata a vantaggio degli organi pubblici, in seguito ad un loro comportamento illecito, privo di addentellati normativi; la Corte europea[69] è pervenuta alle suddette conclusioni sulla base di un diverso ordine di ragioni.
In primo luogo, ha rilevato la mancanza di qualità imprescindibili per una fonte di diritto secondo gli art. 6 e 7 della CEDU, ovvero l’accessibilità e la prevedibilità della norma; l’occupazione acquisitiva, difatti, rappresentava il frutto di una elaborazione giurisprudenziale contraddittoria.
In secondo luogo, la riparazione per la per privazione della proprietà non era automaticamente riconosciuta al suo titolare leso dal comportamento illecito della pubblica amministrazione, circostanza che poteva rendere la tutela a lui approntata inadeguata.
Infine, si censurava la corresponsione di una somma a titolo risarcitorio svincolata dal valore venale del bene[70] .
Parte della dottrina ha osservato che probabilmente non era nemmeno necessario ricorrere alla Corte di Strasburgo, ostando ad un istituto come l’occupazione acquisitiva già il disposto dell’art. 42 della Costituzione[71].
In ossequio al principio di legalità, dunque, ogni provvedimento ablatorio reale deve essere previsto dalla legge e rispondere ad un’esigenza di interesse pubblico: la discrezionalità della pubblica amministrazione, pur sussistendo, è circoscritta in modo rigoroso dal legislatore.
In proposito, ad oggi assume valenza antonomastica l’art. 42 bis del DPR 327 del 200, introdotto nel menzionato corpus normativo tenendo conto delle ricadute nel nostro ordinamento dei principi enunciati dalla Corte di Strasburgo. L’articolo appena citato, infatti, indica i presupposti (attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico), le misure riparatrici (indennizzo comprensivo di danno patrimoniale e danno non patrimoniale commisurato al valore venale del bene) e il contenuto (l’acquisizione con efficacia ex nunc del bene debitamente motivata) che l’istituto dell’utilizzazione senza titolo deve possedere affinché sia legittima. Peraltro, proprio dall’analisi del tenore letterale dell’art. 42 bis i giudici costituzionali[72] ne hanno sancito la conformità a Costituzione.
L’iter interpretativo e normativo esposto dà la stura ad una serie di riflessioni di ampio respiro sistematico.
Dal punto di vista storico, innanzitutto, è interessante notare che è stata proprio la disciplina contenuta nel DPR 327 del 2001, inerente all’espropriazione per pubblica utilità, a rappresentare l’occasione in cui la Corte Costituzionale[73] ha avuto modo di chiarire i rapporti tra il nostro ordinamento e Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Le norme convenzionali, in particolare, in virtù del vincolo sancito dall’art. 117, comma primo, della Costituzione, imporrebbero al giudice comune un duplice obbligo.
Innanzitutto, quest’ultimo è tenuto ad espletare una interpretazione delle norme interne convenzionalmente orientate: allorché quest’ultima dovesse risultare impossibile, poiché le regole previste da detta fonte sovranazionale non hanno efficacia diretta nel nostro ordinamento e costituiscono al contempo parametri interposti di costituzionalità, è d’obbligo sollevare questione di legittimità costituzionale affinché la disposizione non estrometta ed espunga, di fatto e in sostanza, la CEDU dall’ordinamento.
In secondo luogo, è da notarsi che per il diritto europeo la norma attributiva del potere pubblico, indicante il suo scopo e il suo contenuto, può rinvenire la propria fonte anche nella giurisprudenza. Tale circostanza si spiega guardando agli Stati che hanno aderito alla CEDU, alcuni dei quali constano di un ordinamento fondato su un sistema di common law, ove le questioni controverse vengono decise in ragione dei precedenti giurisprudenziali vincolanti per l’autorità giurisdizionale.
Infine, per i giudici di Strasburgo in presenza di una misura volta ad incidere in modo autoritativo sulla sfera giuridica dei destinatari, è necessaria non solo la sussistenza di una fonte di rango primario che consenta alla pubblica amministrazione di emanare provvedimenti imperativi bensì la stessa deve essere contrassegnata da talune qualità che ne rendano chiara la portata e le ricadute applicative.
Di recente si è espressa in suddetti termini pure l’Adunanza Plenaria[74] in ordine all’istituto della rinuncia abdicativa, cui è stata negata cittadinanza nel diritto pubblico perché si tratta di atto ascrivibile al privato, inidoneo a trasferire la proprietà in capo all’autorità espropriante in assenza di un addentellato normativo, indefettibile ai sensi dell’art. 42 della Costituzione.
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha asserito che l’inammissibilità dell’istituto in esame deriva dall’art. 42 del testo unico in materia edilizia, il quale, alla luce dei canoni convenzionali e della giurisprudenza della Corte EDU, ha disciplinato in modo esaustivo e intellegibile la cd. utilizzazione senza titolo, non facendo nessun riferimento e non lasciando spazio alcuno ad ipotesi di acquisito della proprietà diverse da quelle da essa prevista, specie se scaturenti da una interpretazione giurisprudenziale.
L’interferenza della pubblica autorità nella vita privata dei cittadini, diritto tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, rende necessaria una maggiore predeterminazione del contenuto del provvedimento amministrativo e una sufficiente specificazione dei suoi presupposti legittimanti.
8. I provvedimenti sanzionatori
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo rappresenta il punto di partenza anche per l’ultima categoria di provvedimenti enucleabile in base al principio di legalità, ovvero i provvedimenti sanzionatori[75].
La giurisprudenza amministrativa, innanzitutto, discerne tra sanzioni in senso lato e sanzioni in senso stretto: “le sanzioni in senso lato hanno quale loro scopo precipuo il ripristino dell’interesse pubblico leso dal contegno ribelle ai canoni dell’ordinamento da parte del cittadino o l’interdizione dall’esercizio di determinati diritto o attività al fine di salvaguardare il corretto governo della cosa pubblica. Esse costituiscono una manifestazione tipica di un potere amministrativo autoritativo, in relazione al quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo; alle predette sanzioni si applicano i principi dell'attività amministrativa tradizionale, dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo, pure quando esse abbiamo carattere marcatamente punitivo”[76] .
Particolarmente significativa sul punto è l’evoluzione giurisprudenziale registratasi in ordine alla natura giuridica riguardante la natura giuridica dei decreti di scioglimento dei consigli comunali[77]; da essa si evincono le conclusioni cui si è pervenuti nella materia de qua circa i nessi tra sanzioni in senso lato, garanzie procedimentali, regole del processo e sindacato giurisdizionale.
La Corte costituzionale ebbe ad affermare che “si è in presenza di una misura di carattere sanzionatorio, che ha come diretti destinatari gli organi elettivi, anche se caratterizzata da rilevanti aspetti di prevenzione sociale per la sua ricaduta sulle comunità locali che la legge intende sottrarre, nel loro complesso, all'influenza della criminalità organizzata. Una misura di carattere straordinario, dunque, rigorosamente ancorata alle finalità enunciate nel titolo della legge 22 luglio 1991, n. 221, di conversione del D.L. 31 maggio 1991, n. 164 che la qualifica come "misura urgente conseguente ai fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso". Tale qualificazione, collegando la misura ad una emergenza straordinaria, attribuisce a quell'emergenza il valore di limite e di misura del potere, esercitabile perciò solo nei luoghi e fino a quando si manifesti tale straordinario fenomeno eversivo” [78].
La natura sanzionatoria del decreto di scioglimento e la specificità del suo destinatario sono stati gli elementi ritenuti assorbenti dai giudici costituzionali per ritenere legittimo lo stesso, la cui disciplina era stata tacciata di incostituzionalità da una parte della dottrina e della giurisprudenza in ragione dell’assenza della garanzia procedimentale del contraddittorio.
La giurisprudenza amministrativa successivamente si è discostata dall’esito interpretativo avallato dalla Corte costituzionale.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, con un indirizzo consolidatosi a partire dall’inizio degli anni duemila, la “ratio che è sottesa allo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni della criminalità organizzata è collegata con un istituto di natura preventiva e cautelare, inteso ad evitare appunto che gli indizi raccolti in ordine all'esistenza di una infiltrazione della suddetta criminalità organizzata possano compromettere il regolare e legittimo andamento della gestione della cosa pubblica.
Essa non risponde, quindi, alle regole ordinamentali tendenti a stroncare la commissione di illeciti (per cui sono predisposte altre regole), ma si inquadra piuttosto nel sistema preventivo del controllo generale riservato allo Stato in ordine a fatti che, per la loro consistenza ed effettività, si reputano idonei a determinare uno sviamento dall'interesse pubblico, che necessariamente deve essere perseguito dall'ente locale, titolare esponenziale degli interessi della propria collettività”[79] .
In proposito mette conto evidenziare che sarebbe venuto a mancare uno dei due presupposti (la natura sanzionatoria del provvedimento) in base ai quali il decreto di scioglimento ha superato il vaglio di legittimità costituzionale.
Il rimedio individuato dalla dottrina per superare una siffatta distonia sistematica sarebbe il recupero delle garanzie del contraddittorio quantomeno in sede giurisdizionale. Dal canto suo, la giurisprudenza amministrativa asserisce che “la comunicazione dell’avvio del procedimento non è necessaria tenuto conto della natura preventiva e cautelare del decreto di scioglimento e della circostanza che gli interessi coinvolti non concernono, se non indirettamente, persone, riguardando piuttosto la complessiva operatività dell’ente locale e, quindi, in ultima analisi, gli interessi dell’intera collettività comunale” Sul punto, poi, occorre tenere conto anche delle esigenze di celerità del procedimento e della difficile ipotizzabilità di una collaborazione procedimentale che è preclusa anche dalla riservatezza degli elementi documentali (e prettamente indiziari) su cui si basa il procedimento” [80].
La volontà della pubblica amministrazione, la quale confluisce nella parte precettiva del provvedimento amministrativo, solo indirettamente e latamente sanzionatoria, è da ritenersi legittima per due ragioni. La prima è strettamente correlata a quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale, e cioè inerisce la specificità del destinatario della misura, costituito dall’organo elettivo dell’ente comunale; la seconda, invece, è la natura cautelare del decreto di scioglimento.
8.1. Il caso controverso delle interdittive antimafia
Le posizioni del Consiglio di Stato si mostrano molto più vulnerabili e prestano il fianco a molteplici obiezioni allorquando ad essere attinti dalla misura interdittiva[81] sono in via diretta e immediata i diritti e le libertà fondamentali della persona.
L’oggetto delle censure, in particolare, è costituito dalla cd. interdittive antimafia generiche.
La Corte costituzionale, a dire del Consiglio di Stato[82] ne avrebbe dichiarato la conformità con la Costituzione, asserendo che “il fenomeno mafioso rappresenta un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare - e in primo luogo - per la sua pericolosità La forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell'attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana. Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché esse manifestano una grande "adattabilità alle circostanze": variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse.
Ciò che si richiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell'autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento. È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, è riconosciuta dalla giurisprudenza natura "cautelare e preventiva", comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa”.
I giudici costituzionali, peraltro, avrebbero ritenuto compatibile l’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), del d.lgs. n. 159/2011 con il canone della determinatezza in ragione della lettura tassativizzante che ne ha fornito la giurisprudenza amministrativa in ordine alle situazioni indiziarie che possono dare luogo alle misure interdittive de qua. Le conseguenze di una siffatta impostazione in punto di accertamento giurisdizionale non sono di poco momento, atteso che il Consiglio di Stato con un orientamento che può dirsi costante, ritiene che gli ampi margini di apprezzamento riconosciuti all’organo amministrativo, implicano la “sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento”[83] .
L’orientamento dei giudici amministrativi, ad avviso di autorevole dottrina, trascurerebbe di considerare i riverberi negativi delle suddette misure sulle attività espletate dalle imprese, escluse dalla possibilità di partecipare a gare pubbliche quantomeno per un lungo lasso di tempo.
Sul punto, si esplicita una prima osservazione: se la Corte costituzionale ha negato che l’istituto in esame leda la libertà di iniziativa economica privata, in base alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo la determinazione d’imperio degli organi pubblici deve essere valutata alla luce del diritto di proprietà garantito dall’art. 1 del Protocollo aggiuntivo n.1.
In secondo luogo, si rileva che il richiamo alle sentenze 24 e 195 del 2019, nonché alla sentenza n. 57del 2020 sarebbe in parte parziale, in parte non pertinente.
Con riferimento alla sentenza 24 del 2019 si evidenzia che la Consulta ha sì riconosciuto l’esistenza di uno spazio molto più ampio in ambito extra-penale per il diritto giurisprudenziale, capace di contribuire, quando è unanime e consolidato, a rendere prevedibili le misure di prevenzione, ma ha pure precisato che la base legale che ne fissa i presupposti e ne individua i destinatari deve sempre però avere un minimo di determinatezza tale da limitare la discrezionalità degli interpreti e da orientare i consociati. Peraltro, nel caso di specie difetterebbe anche la sussistenza di un orientamento stabile e privo di oscillazioni.
In ordine alla sentenza n. 195 del 2019, la giurisprudenza amministrativa richiamerebbe, al fine di dimostrare la legittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4, lett. d ed e, del d.lgs. n. 159/2011, una pronuncia di accoglimento inerente ad una disposizione legislativa dal carattere molto meno generico dell’articolo appena rammentato. In altri termini, il precedente dei giudici costituzionale deporrebbe, paradossalmente, per l’illegittimità della regola prevista nel codice antimafia.
Ancora, la sentenza n. 57 del 2020 avrebbe dichiarato inammissibile la questione sollevata dal giudice a quo, pertanto non esprimendosi sulla determinatezza o meno delle misure di cui agli artt. 89 bis e 92, commi 3 e 4 del decreto legislativo n. 59 del 2011.
Infine, l’impostazione metodologica seguita dal Consiglio di Stato si rivela erronea sia alla luce del diritto interno sia alla luce del diritto convenzionale.
In primo luogo, perché “nessuna esigenza politico-criminale, anche quella ‘massima’ di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso, può legittimare il ricorso da parte dei poteri pubblici a ‘sanzioni’ capaci di squilibrare il rapporto autorità-libertà nelle dinamiche relazionali Stato-cittadino a netto detrimento delle seconde. Al contrario, ogni provvedimento destinato ad incidere sulla sfera dei diritti dei singoli deve sempre, inderogabilmente, rispettare le condizioni minime per consentire ai potenziali destinatari di prevederne l’applicazione e di difendersi in giudizio dinanzi ad un giudice terzo chiamato a verificarne la legittimità formale ed i presupposti di fatto” [84].
In secondo luogo, la sentenza De Tommaso, così come chiarito anche dalla più volte citata sentenza n. 24 del 2019, non riconosce affatto alla giurisprudenza un ruolo di piena supplenza nella determinazione delle fonti di misure dal carattere afflittivo.
Peraltro, le norme che elidono completamente la discrezionalità nelle valutazioni giurisdizionali o amministrative, o viceversa, non vi pongono limiti, sono da ritenersi costituzionalmente illegittime[85].
Alla luce di quanto esposto, è da reputarsi esistente una diversità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza sui presupposti, sui limiti, sul contenuto delle misure interdittive e in più generale sulle misure di carattere riparatorio e interdittive in virtù di una differente interpretazione del principio di legalità nella sua accezione interna e convenzionale: stante la sua portata maggiormente garantistica, si ritiene preferibile aderire alla seconda delle opinioni interpretative illustrate.
8.2. I provvedimenti sanzionatori in senso stretto
Esaurita l’analisi delle sanzioni in senso lato, bisogna soffermare l’attenzione del presente scritto sui provvedimenti sanzionatori in senso stretto.
Essi rinvengono la loro disciplina generale nella legge 689 del 1981 e costituiscono una reazione dell'ordinamento alla violazione di un precetto cui è estranea qualunque finalità ripristinatoria o risarcitoria e sono emanati nell'esercizio di un potere punitivo avente ad oggetto condotte non consentanee ai canoni dell’ordinamento, come avviene quando decide il giudice penale. In altri termini, mirano a punire il responsabile dell’illecito per realizzare obiettivi politico-criminali di prevenzione generale e speciali.
Quindi, la commisurazione della misura afflittiva avviene attraverso un potere ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa, che presuppone una ponderazione di interessi, atteso che l'ampio margine di apprezzamento lasciato dalla legge all'amministrazione dovrebbe essere esclusivamente utilizzato per adeguare la sanzione alla gravità della violazione commessa ed alle condizioni soggettive dell'autore, restando escluso ogni giudizio di valore sugli interessi amministrativi tutelati dalla norma sanzionatoria. Sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, detto potere si contrappone al diritto soggettivo dell’integrità patrimoniale; quanto alle modalità di esercizio dell’azione amministrativa, per la loro comminazione si segue un procedimento diverso da quello previsto dalla legge 241 del 1990; in punto di giurisdizione è necessario un esame nel merito delle questioni sottoposte all’attenzione dell’autorità giudiziaria[86] .
La Corte Europea dei diritti dell’uomo considera le sanzioni in senso stretto provvedimenti di natura formalmente amministrativa e sostanzialmente penale. Per giungere ad una siffatta conclusione si avvale dei cosiddetti Engel criteria, costituiti dalla qualificazione giuridica dell’illecito; dalla sua natura, desunta dall’ambito di applicazione, di carattere generale, della norma che lo prevede, la quale deve essere rivolta alla generalità dei consociati; dallo scopo perseguito, che deve essere non risarcitorio ma afflittivo e dal grado di severità della sanzione, determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata. L’assimilazione alla pena dei provvedimenti de qua è gravida di conseguenze, implicando l’operatività del principio di legalità e dei suoi specifici corollari[87].
In particolare, ogni misura sanzionatoria deve essere irrogabile in base ad una disposizione di legge già in vigore al momento della commissione dell’illecito e sufficientemente precisa in modo tale da garantire ai consociati la calcolabilità delle conseguenze dei propri contegni[88].
Sul piano sostanziale, in ordine alle implicazioni del principio di legalità convenzionale, in tempi recenti la giurisprudenza costituzionale e la giurisprudenza europea si sono discostate dalle loro opinioni tradizionali.
La Corte costituzionale, in particolare, ha affermato che la garanzia della retroattività della legge che prevede un trattamento sanzionatorio più mite si applica anche al diritto amministrativo punitivo.
Un tale esito interpretativo si desume, innanzitutto, dal principio di uguaglianza che imporrebbe di equiparare le ripercussioni delle condotte poste in essere dai consociati, indipendentemente dalla circostanza che le medesime siano precedenti o successive all’entrata in vigore di una disposizione normativa. Peraltro, detta tutela troverebbe riscontro nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nell’art 15 del Patto internazionale per i diritti politici e civili, nell’art. 7 della CEDU e nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, vincolante per il nostro legislatore ex art. 117, comma primo, della Costituzione.
Secondo i giudici costituzionali sussisterebbe un vero e proprio diritto dell’autore dell’illecito amministrativo a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della sua commissione. In realtà tale regola può soffrire delle eccezioni, ammissibili, purché siano ragionevoli e volte a realizzare un bilanciamento con altri interessi di rango costituzionale. In difetto di tali condizioni, la norma è dichiarata costituzionalmente illegittima e le sanzioni divenute definitive in virtù del passaggio in giudicato di una sentenza dell’autorità giurisdizionale possono venire meno ex art. 30 della legge costituzionale 87 del 1953[89] .
La giurisprudenza europea, comunitaria e convenzionale, invece, si è occupata della problematica derivante dal possibile cumulo di una pena e di una sanzione amministrativa inerenti ad una medesima condotta; l’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU vieta di giudicare o di punire uno stesso soggetto per lo stesso fatto e ciò ha posto notevoli problemi rispetto al nostro sistema sanzionatorio fondato sul cd. doppio binario.
In un primo momento, la Corte di Strasburgo ha sancito l’incompatibilità, a priori, di un insieme di sanzioni fondato su un siffatto modello e cumulo di sanzioni[90] .
Successivamente, la giurisprudenza convenzionale, unitamente alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[91], hanno affermato che la sanzione amministrativa e la pena possono cumularsi purché esse siano irrogate all’esito di un procedimento e di un processo in cui si possa tenere conto delle determinazioni dell’autorità amministrativa o del giudice penale al fine di fornire una risposta punitiva adeguata alla gravità dei fatti commessi, in virtù di un legame temporale e cronologico sufficientemente stretto, conclusione poi avallata dai giudici comunitari.
Il principio del ne bis in idem, dunque, da tutela meramente procedimentale diviene strumento di garanzia sostanziale, governato dal principio di proporzionalità delle pene di cui all’art. 3 della Costituzione, art.7 della CEDU e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Sul piano procedimentale, invece, l’estensione al diritto punitivo amministrativo delle garanzie convenzionali comporta l’applicazione della disciplina del giusto processo previste dall’art. 6 della CEDU: la dottrina, in proposito, ha avuto modo di esplicitare due diversi tipi di considerazioni.
In primis, è stato osservato che molte delle garanzie approntate dalle fonti di diritto internazionale sono già previste a livello nazionale dalla legge 689 del 1981 e dalla legge 241 del 1990.
Si rileva poi, che le garanzie di indipendenza dell’organo decidente, di parità delle parti e di rispetto del contraddittorio, tuttavia, sono estranee al nostro ordinamento, che può dirsi compatibile con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo solo se e nella misura in cui le garanzie non soddisfatte nel procedimento siano realizzate nel processo. Il diritto convenzionale, cioè, imporrebbe il parametro della full jurisidiction, consistente nella possibilità per il giudice di esercitare un sindacato pieno e sostitutivo; l’ipotesi maggiormente problematica in merito è rappresentata dall’ampiezza dei poteri esercitabili dal giudice amministrativo sugli Atti delle autorità amministrative indipendenti[92].
Secondo l’orientamento dominante del Consiglio di Stato, infatti, il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità si svolge soltanto con riguardo ai vizi dell’eccesso di potere, cagionabile dalla illogicità, irragionevolezza, dalla mancanza di motivazione e di proporzionalità del provvedimento amministrativo. Esso può attingere anche l’attendibilità delle operazioni tecniche compiute, seppur giammai l’autorità giurisdizionale può varcare la soglia della relatività delle valutazioni scientifiche e approdare nel campo dell’opinabilità, così sostituendosi alla pubblica amministrazione.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, tuttavia, hanno avuto modo di chiarire che “la non estensione al merito del sindacato giurisdizionale sugli atti dell'Autorità Garante implica che il giudice non possa sostituire con un proprio provvedimento quello adottato da detta Autorità, ma non che il sindacato sia limitato ai profili giuridico-formali dell'atto amministrativo, restandone esclusa ogni eventuale verifica dei presupposti di fatto, in quanto la pienezza della tutela giurisdizionale necessariamente comporta che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano esser risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo che ha inciso su posizioni di diritto soggettivo.
Detta prospettiva è orientata a garantire un corretto bilanciamento fra le esigenze di un organo appositamente costituito per valutare l'incidenza di comportamenti scorretti in ambiti nevralgici della vita socioeconomica del paese, per ciò stesso dotato di qualificate strutture tecniche ed i diritti dei soggetti sottoposti alle attività di verifica e controllo delle Autorità. Essa tende sicuramente a salvaguardare una sfera di valutazione dell'Autorità alla quale il giudice non può sostituirsi integralmente quando essa involge aspetti di natura tecnico-discrezionale, senza che ciò possa tuttavia giustificare la sottrazione dell'Autorità stessa ad un controllo giurisdizionale di natura piena ed effettiva, direttamente conseguente alla pienezza delle posizioni giuridiche soggettive coinvolte” [93].
Sintetizzando in altre parole quanto affermato dai giudici di legittimità, il sindacato del giudice amministrativo è pieno ed effettivo, ma non può essere espletato in assenza di un parametro giuridico in base al quale la determinazione dell’Autorità amministrativa indipendente possa qualificarsi illegittima. Tale conclusione si porrebbe in conformità con il diritto comunitario, in specie con il tenore letterale della direttiva europea n.23 del 2014, recepita pedissequamente dalla legge n.103 del 2017[94].
9. Brevi riflessioni finali
Evidenziate le differenti classificazioni del provvedimento amministrativo, si possono trarre le seguenti conclusioni.
Il principio di legalità, nelle sue diverse declinazioni e accezioni, conforma in misura più o meno ampia l’azione della pubblica amministrazione; la legge, infatti, può indicare lo scopo da perseguire e attribuire il potere necessario a tal fine, oppure predeterminare l’assetto di interessi da realizzare attraverso l’intermediazione degli organi pubblici.
La natura vincolata o discrezionale dell’attività amministrativa, tuttavia, conforma solo dall’esterno il contenuto del provvedimento amministrativo, ma non coincide con esso.
Negli atti generali, collettivi e plurimi, ad esempio, la loro peculiarità è rappresentata dalla riferibilità della volontà della pubblica amministrazione, nella veste di suoi destinatari, ad una pluralità di soggetti. Il contenuto del provvedimento amministrativo, poi, con riferimento agli stessi può avere carattere indivisibile o scindibile: le regole che governano la discrezionalità amministrativa costituiscono solo dei suoi limiti, il cui rispetto è necessario affinché se ne possa sancire la legittimità.
Un siffatto discorrere è proponibile anche quanto alle autorizzazioni e alle concessioni, la cui comune valenza costitutiva è ormai indiscussa.
Il contenuto del provvedimento amministrativo può consistere in detta ipotesi nella costituzione di un rapporto con il quale si fa assegnamento su un privato per la gestione di un servizio pubblico, monitorando il suo operato, o nell’assenso all’esercizio di una determinata attività, specie ove quest’ultima insista su beni di interesse pubblico.
In modo ancora più evidente le attribuzioni della pubblica amministrazione sono modellate dal disomogeneo campo di libertà riconosciuto dalle direttive 123 del 2006 e 23 del 2014, nonché dal decreto legislativo n. 50 del 2016.
Infine, con riferimento ai provvedimenti ablatori e ai provvedimenti sanzionatori, la giurisprudenza comunitaria e convenzionale, unitamente alla Corte di Strasburgo, hanno acclarato che le misure volte ad interferire e ad incidere sulla vita privata, sui diritti dei singoli e sui loro beni, necessitano di norme generali e astratte individuate in modo puntuale e definite con sufficiente precisione, affinché la realizzazione dell’interesse pubblico ad opera degli organi pubblici mediante ordini, ordinanze, espropriazioni, sanzioni in senso lato e senso stretto sia contrassegnata dalla delimitazione dei contenuti dei medesimi, oppure, ove ciò non sia possibile, attraverso una demarcazione rigorosa dei loro presupposti.
[1] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna 2017, pag. 174.
[2] E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Bologna 2018, pag. 508 e ss.
[3] G. GUARINO, Atti e poteri amministrativi, Giuffrè, Milano 1994.
[4] O. MAYER, Deutsches Verwaltungsrecht, vol. I, Leipzig 1895, p. 95.
[5] Sul punto, F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Dike editore, Roma 2019, pag. 924.
[6] Così A. SANDRI, Ricognizioni sulle epoche e i nuovi sviluppi del diritto amministrativo in Germania, in I.S.SI.R.F.A., Ottobre 2012.
[7] In tema e più di recente si confrontino le osservazioni di V. CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali (Relazione al convegno di Varenna del 20-22 settembre 2001), in Diritto amministrativo, 2003, fasc. 2 pag. 217 – 276.
[8] Per un raffronto tra le differenti estrinsecazioni e la differente ontologia tra diritto privato e diritto pubblico si rimanda a P. CARPENTIERI, Autorità e consenso nell'azione amministrativa. alcuni spunti di riflessione, in Giustizia Amministrativa, 2005, fasc. 3 pag. 576 – 601. Secondo l’Autore la discussione "diritto pubblico vs diritto privato" nell'agire amministrativo mira a dare una risposta (ed in tanto ha un senso) sull'esigenza di maggiore efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa. Questo risultato non si raggiunge sostituendo al provvedimento autoritativo il negozio giuridico consensuale come modulo di produzione degli effetti giuridici, ma attuando e rendendo sempre più partecipata e controllabile la pratica della razionalità dell'agire amministrativo.
[9] Per la ricostruzione esposta si veda V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli Editore, Torino 2018¸ pag. 526.
[10] Così D. SORACE, Diritto delle pubbliche amministrazioni, Il Mulino, Bologna 2014, pag. 100.
[11] Per tutti si crf. B. G. MATTARELLA, Corso di Diritto amministrativo diretto da S.Cassese, Giuffrè, Milano 2015, pag. 353 e ss.
[12] In proposito, G.CARLOTTI, La partecipazione procedimentale: Feliciano Benvenuti e la riforma della legge n.241 del 1990, in giustizia amministrativa.it, 2008.
[13] Consiglio di Stato, Sez. V, 22 dicembre 2014, sentenza n. 6244.
[14] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 100.
[15] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 9 del 2012.
[16] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 35 del 2003; Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 917 del 2003; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 263 del 2008.
[17] Così, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 2827/2003.
[18] Consiglio di Stato, A. Plenaria n.1 del 2003; Consiglio di Stato, A. Plenaria n. 4 del 2018.
[19] Si rimanda in tema ai contributi di G. TROMBETTA, Lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, in Federalismi.it, n. 26/2020; F. PIEMONTESE, Scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose: prospettive di riforma dell'attuale previsione legislativa, in GiustAmm.it, 2017, 1, pp. 15; D. ROMEI, Lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni o condizionamento mafioso, in Rassegna dell'avvocatura dello stato, 2014, 2, pp. 358-385; M. CERRONI, Uno studio nella prassi delle autonomie locali: lo scioglimento anticipato dei consigli comunali, in federalismi.it, 2011, 20, pp. 27.
[20] Per una completa ricostruzione dei principi europei e nazionali, strutturali e funzionali del processo amministrativo cfr. V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, cit, pag. 1395e ss.
[21] Così R. GAROFOLI- G.FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Neldiritto Editore, Roma 2016, pag. 2112.
[22] Consiglio di Stato, sez. VI, sent.n. 854 del 1996.
[23] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. n.675 del 2005; Consiglio di Stato, sent. n. 2101 del 2004; Consiglio di Stato, sez. V, 2636 del 2001.
[24] Sul punto Cons. Stat., sez. V, sentenza n. 4697 del 2006.
[25] Per i profili di giustiziabilità del provvedimento amministrativo informato da discrezionalità e alla relativa e correlata vexata questio dei limiti di cognizione del giudice amministrativo si rimanda al pregevole contributo di F. LIGUORI, Il sindacato di merito nel giudizio di legittimità, in Diritto e processo amministrativo, 2019, 1, pp. 1-23. L’A. si sofferma sulla distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, tuttora operata dalla giurisprudenza con formule aprioristiche e stereotipate, incentrate sulla presenza/assenza di valutazioni di opportunità e convenienza: essa è resa ancor più problematica dalla introduzione di nuovi strumenti cognitori e di nuove azioni esperibili in sede di legittimità e dalla revisione della nozione di discrezionalità, che porta a riconoscere l’esistenza di criteri giuridici (principi, clausole generali) idonei a sindacare l’operato dell’amministrazione nel suo contenuto intrinseco. La giurisdizione di merito, che non è mai stata una giurisdizione di opportunità e che ha perduto, con le recenti riforme, anche l’esclusiva di un accesso potenzialmente illimitato ai fatti di causa, può ancora essere distinta da quella generale di legittimità solo perché al giudice è riconosciuto, per esigenze di tempestività, il potere di sostituirsi all’amministrazione modificando direttamente in tutto o in parte il provvedimento impugnato, laddove in sede di legittimità non è mai possibile andare oltre una pronuncia di condanna al rilascio del provvedimento. L’esame dei poteri del giudice nella materia di confine dei contratti pubblici porta a ritenere che il rito speciale in vigore dal 2010 non abbia introdotto una giurisdizione di merito, e conferma l’accresciuta intensità del sindacato di legittimità e la validità del criterio di distinzione incentrato unicamente sul potere di piena sostituzione.
[26] F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Dike Editore, Roma 2019, pag.164.
[27] In tema si cfr. A. GUANTARIO, L'eccesso di potere nel sindacato di legittimità ed esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, in GiustAmm.it, 2018, 7, pp. 28; G. PEPE, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale tra atti politici, atti di alta amministrazione e leggi-provvedimento, in federalismi.it, 2017, 22, pp. 30. Per una riflessione sulla differenziazione da farsi in ordine al procedimento e al processo, attraverso l’analisi dei caratteri distintivi e della genetica diversità e rispettivi limiti, si rimanda al saggio di F. APERIO BELLA, Il nuovo parere precontenzioso vincolante Anac: la tutela giustiziale nei confronti della pubblica amministrazione tra procedimento e processo, in Rivista AIC, 2016, 4, pp. 35.
[28] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag.70.
[29] In tal senso, risulta pertinente la dissertazione sull’opportunità e i limiti alla fruizione delle leggi-provvedimento. Sul tema si vedano i contributi di F. GORGERINO, Problemi attuali della "riserva di amministrazione": il caso delle leggi-provvedimento regionali in materia ambientale, in Rivista giuridica dell'edilizia, 2019, fasc. 6 pag. 595 – 623; L. R.PERFETTI., Legge-provvedimento, emergenza e giurisdizione, in Diritto processuale amministrativo, 2019, fasc. 3 pag. 1021 – 1040; P. SCARLATTI, Il regime delle leggi-provvedimento regionali nella trasformazione dell'ordinamento costituzionale italiano, in Giurisprudenza costituzionale, 2019, fasc. 1 pag. 559 – 588; ID, Aggiornamenti in tema di limiti alle leggi-provvedimento regionali: luci e ombre della sentenza n. 28 del 2019 della corte costituzionale (Nota a C. Cost. 28 febbraio 2019 n. 28), in Giurisprudenza costituzionale, 2019, fasc. 1 pag. 355 – 363; F. ZAMMARTINO, Le leggi provvedimento nelle giurisprudenze delle corti nazionali ed europee tra formalismo interpretativo e tutela dei diritti, in Rivista AIC, 2017, fasc. 4; G. BERNABEI, La formula "legge - provvedimento" e i suoi significati, in Rassegna Avvocatura dello Stato, 2015, fasc. 3 pag. 299 – 326; ID., Legge provvedimento e tutela giurisdizionale nell'ordinamento costituzionale italiano, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2015, fasc. 4 pag. 1305 – 1333.
[30] V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli Editore, Torino 2018, pag.6.
[31] In merito, sul concetto di legalità sostanziale e formale, si vedano i contributi di E. AMANTE, Le Sezioni Unite compongono il contrasto sulla nullità formale o sostanziale dell'art. 46, d.p.r. n. 380 del 2001, in Urbanistica e appalti, 2019, 4, 496; G. MANNUCCI, Il regime dei vizi formali-sostanziali alla prova del diritto europeo, in Diritto Amministrativo, fasc.2, 1 giugno 2017, pag. 259; V. CARBONE, Controllo della Corte dei conti sulla giuridicità sostanziale del potere discrezionale, in Corriere Giur., 2013, 4, 575; D. PONTE, Il regime dei vizi formali del provvedimento: l'esperienza europea, l'opinione della giurisprudenza e la novella della 241, in Corriere Merito, 2005, 6. Meno recente, ma di assoluto pregio e attualità il saggio di A. POLICE, L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm., fasc.4, 2003, pag. 735.
[32] Per una rappresentazione ricognitiva della dicotomia discrezionalità-vincolatività dell’atto si rimanda a S. VACCARI, atti vincolati, vizi procedurali e giudicato amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 1 giugno 2019, pag. 481; G. POLI, Autonomia privata e discrezionalità amministrativa a confronto. La prospettiva della ragionevolezza, in Diritto Amministrativo, fasc.4, 1 dicembre 2018, pag. 863; G. TROPEA, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della legge n. 124/2015, in Diritto Amministrativo, fasc.01-02, 2016, pag. 107; L. R. PERFETTI, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società , in Diritto Amministrativo, fasc.3, 2013, pag. 309; G.STIPO, Attività vincolata e attività discrezionale della pubblica amministrazione anche con riferimento alla norma dell'art. 21 octies l. n. 241/1990, in Rassegna Avvocatura dello Stato, 2006, fasc. 2 pag. 307 – 333.
[33] R. VILLATA – M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino 2017, pag. 74.
[34] A. FALZEA, Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano 1965, pag. 492 e ss.
[35] Sul punto cfr. F. VOLPE, Ammissioni e autorizzazioni, Giappichelli Editore, Torino 2018, pag. 6 e ss.
[36] B. G. MATTARELLA, in Corso di diritto amministrativo, diretto da S. Cassese, cit. pag. 370 e ss.
[37] Si cfr. su tale dicotomia M. CLARICH, Autorizzazioni e concessioni: presidi dell'interesse pubblico o barriere all'accesso al mercato?, in Il diritto dell'economia, 2015 fasc. 1, pp. 9 – 21.
[38] O. RANELLETTI, Concetto e natura delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur.it., 1894, pag. 7 e ss.
[39] Così F. VOLPE, Ammissioni e autorizzazioni, Giappichelli Editore, Torino 2018, pag.8.
[40] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II volume, Giuffrè, Milano 1993, pag. 612 e ss.
[41] Si cfr. ORSI BATTAGLINI, Autorizzazione amministrativa, in Dig. disc. pubb., Torino 1987, pag. 58 e ss.
[42] Si cfr. G. RIZZO, Accesso al mercato e concorrenza nelle telecomunicazioni. il ruolo delle autorizzazioni generali nella prospettiva della convergenza, in Dir. comm. internaz., fasc.4, 2001, pag. 907.
[43] Si veda in tal senso F. VOLPE, Norme di relazione, norme d'azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, pag.163 e ss.
[44] Cfr. R. VILLATA, Autorizzazioni amministrative ed iniziativa economica privata, Milano, Giuffrè, 1974.
[45] Si veda E. FREDIANI, Decisione condizionale e tutela integrata di interessi sensibili, in Diritto amministrativo, 2017, 3, pp. 447-527.
[46] Per le differenziazioni esaminate si cfr. D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, il Mulino, Bologna, 2014, pag. 131 e ss.
[47] Sulla distinzione fra le due tipologie di concessioni si veda C.E. GALLO, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1994, 542.
[48] O. RANELLETTI, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative, Parte I: Concetto e natura delle autorizzazioni amministrative, in Giur.it., LVI, 1894, IV, pag. 25.
[49] Cass. Roma, 12 gennaio 1910, in Riv. dir. comm., 1910, 248.
[50] Per una ricostruzione completa, anche dal punto di vista storico, delle concessioni si veda A. GEMMI, Il tramonto della concessione contratto: la svolta pubblicistica della giurisprudenza, in P.A., Persona e Amministrazione, Urbino 2019, pag. 490 e ss.
[51] Si rimanda a R. CHIEPPA-V. LOPILATO, Studi di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2007, pag. 712.
[52] Sul punto si cfr. V. FERRARO, La concessione e il diritto europeo: il complesso equilibrio tra la tutela della concorrenza e la «¿specialità¿» del regime dei contratti della pubblica amministrazione, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc.1, 2016, pag. 259.
[53] Così L. SALTARI, Le concessioni amministrative. Uno strumento antico, capace di rinnovarsi, in Giornale di diritto amministrativo, 4/2020, pag. 409 e ss.
[54] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 6316 del 2003
[55] Adunanza Plenaria, Consiglio di Stato, sentenza n. 3 del 2003.
[56] Il tema delle concessioni demaniali, sia nella prospettiva domestica nonché rispetto alle conseguenze dell’evoluzione euro-unitaria sul profilo della gestione di dette concessioni, è stato abbondantemente affrontato in dottrina. Recentemente si segnalano i contributi di G. CERRINA FERONI, La gestione del demanio costiero. Un'analisi comparata in Europa, in federalismi.it, 2020, 4, pp. 21-44; A. Travi. In tema di concessioni demaniali marittime, in Il Foro italiano, 2020, 2/3, pp. 82-89; P. CHIARAVIGLIO, Effetti espansivi del diritto UE sul penalmente rilevante: il caso delle concessioni marittime, in Rivista giuridica dell'edilizia, 2019, 5/1, pp. 1410-1425; A. LUCARELLI, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni (Nota a C. cost., sentenza n. 1/2019), in Diritti fondamentali, 2019, 1, pp. 16; L. CAIANIELLO, Concessioni demaniali marittime fino al 2035: alcune precisazioni in ordine alle proroghe dei titoli, in Il Foro Amministrativo, 2018, 12, pp. 2309-2333; A. LUCARELLI- L. LONGHI, Le concessioni demaniali marittime e la democratizzazione della regola della concorrenza, in Giurisprudenza costituzionale, 2018, 3, pp. 1251-1257. Sia concesso il rinvio anche a V. VISONE, La concessione demaniale marittima con particolare riferimento alle problematiche che pone il rinnovo o la proroga, in Cammino Diritto, Settembre 2020.
[57] Corte Gius. Un. eur., 14 luglio 2016, C 458 e C 67/15.
[58] Si cfr. C.G. Giust. Ue, 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinove 15 gennaio 2013, causa C-416/10, Križan; CDS, A.P., sent. n. 13 del 2017; CDS, A.P, sent. n. 2 del 2019; Corte Costituzionale sent. n.113/1985.
[59] Sul punto, M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 178 e ss.
[60] Così G. MORBIDELLI, Delle ordinanze libere a natura normativa, in Diritto Amministrativo, fasc.01-02, 2016, pag. 30.
[61] Così R. CAVALLO PERIN, Ordine e ordinanza nel diritto amministrativo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, I agg., 2010.
[62] G. MORBIDELLI, Delle ordinanze libere a natura normativa, cit., pag. 33.
[63] Corte Cost. sent. n. 8 del 1956; Corte Cost. sent. 26/1961; Corte cost. sent. 4/1977; Corte Cost. sent. 284 del 2006.
[64] Corte cost. sent. n. 307 del 2003.
[65] Corte cost. n. 127 del 1995, n. 418 del 1992, n. 32 del 1991, n. 617 del 1987.
[66] Per una visione comparatistica di codesto istituto si rinvia al contributo M. L. MADDALENA, La disciplina della espropriazione per pubblica utilità nei principali paesi europei, alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con particolare riferimento alla questione della c.d. espropriazione di fatto, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc.2, 2014, pag. 0001B.
[67] In merito, si vedano i contributi di F. BOCCHINI, Azione amministrativa "afflittiva" e azione amministrativa "cooperativa" (Il caso della c.d. occupazione acquisitiva), in Foro amm. TAR, fasc.1, 2009, pag. 287; R. LEONARDI, L'espropriazione per p.u. e l'occupazione acquisitiva: i criteri di determinazione dell'indennizzo e la determinazione del risarcimento del danno attraverso le pronunce giurisprudenziali, in Riv. giur. edilizia, fasc.4, 2001, pag. 143; S. BONATTI, Il crepuscolo dell’occupazione acquisitiva, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., fasc.5, 2000, pag. 1077.
[68] Cass. civ. sez. un., 26 febbraio 1983, n. 1463.
[69] Per aver contezza delle difficoltà di aderenza del nostro ordinamento al prisma convenzionale di cui alla CEDU si cfr. S. COLOMBARI, Le espropriazioni indirette e il tortuoso percorso di adeguamento alla Cedu, in Giurisprudenza italiana, 2017, 8-9, pp. 1939-1946.
[70] Corte EDU, 30 maggio 2000, ric. n. 24638 del 1994 e n. 31524 del 1997.
[71] V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 1115.
[72] Corte costituzionale, sent. n. 71 del 2015.
[73] Corte Costituzionale, sent. n. 349 del 2007.
[74] Così Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenze n. 2, 3 e 4/2020. In dottrina, si segnalano i commenti di tale arresto pretorio di E. AMANTE, L'Adunanza Plenaria espunge la rinuncia abdicativa implicita dall'acquisizione sanante, in Urbanistica e appalti, 2020, fasc. 3, pp. 365-375; E. BARILÀ, Nuovi interventi del Consiglio di Stato sulla tutela della proprietà rispetto ad occupazioni illegali dell'amministrazione, in Il Foro italiano, 2020, 3/3, pp. 159-169. In via ulteriore, sempre sul medesimo istituto, si rimanda al recente contributo di A. DI CAGNO, La rinuncia abdicativa in favore dell’amministrazione nell’ambito delle occupazioni illegittime, in Urbanistica e appalti, 2020, 1, pp. 106-113.
[75] In relazione alla nozione generale di provvedimento sanzionatorio, assume centralità l’azione e i relativi provvedimenti aventi carattere sanzionatorio delle Autorità indipendenti. Hanno dissertato in dottrina su tale argomento E. TRAVERSA; Il potere sanzionatorio dell'ANAC [Autorità Nazionale AntiCorruzione] alla prova del principio di legalità, in Giurisprudenza italiana, 2019, 3, pp. 645-650; F. TIRIO, Le garanzie nei procedimenti sanzionatori della Consob dopo la sentenza Grande Stevens e le successive modifiche regolamentari, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc.4, 1 agosto 2018, pag. 554; M. CLARICH, L. ZANETTINI, Le garanzie del contraddittorio nei procedimenti sanzionatori dinanzi alle Autorità indipendenti , in Giur. comm., fasc.2, 2013, pag. 358; G. P. CIRILLO, Il procedimento sanzionatorio delle autorità amministrative indipendenti e la decisione contenziosa alternativa del garante per la protezione dei dati personali, in Foro Amm., fasc.1, 1998, pag. 261. In chiave europea e costituzionale, si segnalano i contributi di G. CANESCHI, "Nemo tenetur se detegere" anche nei procedimenti amministrativi sanzionatori? La parola alla Corte di giustizia, in Cassazione penale, 2020, 2, pp. 578-587; S. ROSSA, Il difficile rapporto fra la “piena giurisdizione” ai fini CEDU, le sanzioni delle amministrazioni indipendenti e il giudizio amministrativo, in Diritto e processo amministrativo, 2020, 1, pp. 287-322; E. BINDI, L’incidenza delle pronunce della corte edu sui procedimenti sanzionatori delle autorità amministrative indipendenti, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc.3, 2014, pag. 3007; G. BRUZZONE, M.BOCCACCIO, A. SAIJA, Le sanzioni delle Autorità indipendenti nella prospettiva europea, in Giur. comm., fasc.2, 2013, pag. 387
[76] Cons. Stato Sez. VI, Sent., n. 5420 del 2017.
[77] In dottrina si veda il recente saggio di M. MAGRI, Lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni della criminalità di tipo mafioso: tra vecchi e nuovi dubbi di costituzionalità, in attesa di una riforma dell'art. 143 del TUEL, in Diritto amministrativo, 2018, 1, pp. 77-139.
[78] Corte cost. n. 103 del 1993.
[79] Cons. Stato Sez. IV, sent. n. 4467/ 2004; Cons. Stato Sez. V, sent. n. 5225/2000.
[80] Consiglio di Stato, Sezione III sent.. 1266 2012; Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. n. 6657/2009.
[81] In tema, si segnalano J. COLAMEDICI, Le interdittive antimafia: tra discrezionalità e arbitrio, in Rassegna dell'Arma dei Carabinieri, 2019, 2, pp. 111-122; V. GRILLO, L'informativa antimafia quale strumento di contrasto alla criminalità organizzata. Il delicato equilibrio tra la tutela preventiva della sicurezza pubblica e la salvaguardia del patrimonio economico privato, in Rassegna Avvocatura dello Stato, 2019, 1, pp. 177-214; A. LONGO, La "massima anticipazione di tutela". Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, in federalismi.it, 2019, 19, pp. 39; D. MINELLI, "White list" e interdittive antimafia, in Urbanistica e appalti, 2019, fasc. 5, pp. 680-688; M. LIPARI, Il sindacato "pieno" del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014/104/EU sul "private enforcement" (decreto legislativo n. 3/2017): le "valutazioni tecniche opinabili" riservate all’AGCM [Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato]., in federalismi.it, 2018, 8, pp. 31.
[82] Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 3641/2020 con riferimento alle sentenze n. 24 e 195 del 2019; 57 del 2020.
[83] Cons. St. n. 4724 del 2001; Cons. St. n. 7260 del 2010.
[84] Così G. AMARELLI, Interdittive antimafia e “valori fondanti della democrazia”: il pericoloso equivoco da evitare, in Giustizia insieme, 2020.
[85] Così F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte Generale – X edizione, pagine 828 e ss.
[86] Così, Cons. Stato Sez. VI, sent., n. 5420/2017; Cass., sez. I, n. 12240/1992; Cass., sez. I, n. 13246/1992.
[87] Si veda in merito Consiglio di Stato, sez. VI, sent. n. 4068/2020.
[88] Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 20 gennaio 2009 - Ricorso n. 75909/01 - Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia.
[89] Sul punto si confronti Corte cost. sent. n.393 e 394 del 2006; Corte cost. sent. n. 236 del 2011; Corte cost. 68 del 2017; Corte cost. 63 del 2019.
[90] Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia.
[91] Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia; Corte giustizia Unione Europea, Grande Sezione, sentenza C 537/16, C-596/16 e 597/16.
[92] F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Dike Editore, Roma 2019, pag.94 e ss.; M. SAVINO, La tutela giurisdizionale nei confronti degli atti delle Autorità indipendenti, Wolters Kluwer, Milano, 2019, pag. 219 e ss.
[93] Cass. civ. Sez. Unite, Ord. n. 11929 del 2019; Cass. Civ., Sez. Unite., Ord. n. 30974/2017; Cass. civ., Sez. Unite, ord. n. 1013/2014.
[94] Per una ampia digressione sul sindacato inerente alle sanzioni irrogate dalle Autorità amministrative indipendenti cfr. C. CONTESSA, Forma e metodi del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Autorità indipendente, 24 luglio 2018, in www. giustizia amministrativa.it; F. CINTIOLI, Il pensiero giuridico di Giuseppe Morbidelli e le autorità amministrative indipendenti, ieri e oggi, 19 giugno 2019, in Federalismi.it.