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Pubbl. Gio, 8 Ott 2020

Decreto legge agosto: aperture normative al divieto sui licenziamenti e riflessi costituzionali

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Salvatore Caputo



Il D.L. 14 agosto 2020, n. 104, disciplina, tra le altre cose, anche la questione sui licenziamenti, elencando una serie di eccezioni volte ad oltrepassare il divieto imposto in seguito all’esplosione della pandemia. Tuttavia, la norma presenta delle criticità che si rifletteranno senz’altro in fase applicativa, in attesa di nuovi sviluppi giurisprudenziali e chiarificatori.


Sommario1. I limiti del decreto "cura Italia"; 2. Decreto "agosto": primi segnali di apertura; 3. Il ruolo del sindacato; 4. Riflessioni conclusive.

1. I limiti del decreto "cura Italia"

Il presente articolo vuole illustrare, in relazione alle imprese che continueranno a far uso della cassa integrazione o dell’esonero contributivo, le novità del D.L. 14 agosto 2020, n. 104, che proroga i limiti ai licenziamenti disposti nel mese di marzo, con l'art. 46 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 e successive modificazioni, che per primo ha fissato la sospensione delle procedure di riduzione collettiva del personale di cui alla L. 223/1991. Più specificamente, si fa riferimento al divieto di licenziamento – individuale, ovvero collettivo – per giustificato motivo oggettivo.

Il Governo, per l’appunto, con il c.d decreto “cura Italia” (D.L. 17 marzo 2020, n. 18) ha prescritto da un lato la sospensione delle procedure sindacali rivolte al licenziamento collettivo avviate a partire dal 23 febbraio 2020, dall’altro il divieto di licenziamento motivato da ragioni economiche ed organizzative, indipendentemente dalle dimensioni occupazionali dell’impresa. Il periodo inizialmente individuato dal legislatore era 60 giorni, poi portato a 5 mesi (fino, infatti, al c.d. decreto "agosto"). Restano però salve alcune ipotesi, tutte accomunate dalla necessità di non comprimere oltremodo la libertà dell’imprenditore: si fa riferimento al licenziamento per giusta causa, a quello per superamento del periodo di comporto, al mancato superamento del periodo di prova, ovvero al raggiungimento dell’età pensionabile (1).

Cionondimeno, sembra evidente che il carattere generale della norma rientrasse tra le intenzioni del governo, teso – forse sospinto dal comma secondo dell’art. 41 Cost., rivolto a direzionare la libertà di impresa, di cui al comma primo, all’utilità sociale – ad estendere quanto maggiormente possibile la tutela del lavoratore. Pertanto, andrebbero certamente ricomprese nell’alveo della norma in esame tutte le ipotesi di licenziamento oggettivo di cui all’art. 3 della L. n. 604/1966. Infatti, a titolo esemplificativo, la stessa giurisprudenza ha ascritto alla fattispecie in esame un caso di inidoneità sopravvenuta alla mansione, in quanto impositiva nei confronti del datore di lavoro alla verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell’organizzazione aziendale (2)(3).

Ancora, la stessa dimensione dell’oggettività legata alla motivazione del licenziamento, nonostante configuri, secondo autorevole dottrina (4), una norma a fattispecie aperta, sembra sia stata terra d’approdo soltanto per la recente giurisprudenza, tesa a comprendere, tra le motivazioni in oggetto, anche le “mere” decisioni organizzative dettate dal conseguimento di un maggior profitto, dovendosi invece escludere la necessaria ricorrenza di situazioni di crisi aziendale (5).

2. Decreto "agosto": primi segnali di apertura

Ponendo ora l’attenzione ai limiti di cui sopra (D.L. 14 agosto 2020, n. 104), in relazione ad imprenditori che, nuovamente, non abbiano integralmente utilizzato i trattamenti di integrazione salariale (riconducibili all'emergenza da COVID-19) né l'esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all'articolo 3 del decreto in oggetto, non si applicano in caso di licenziamenti motivati da:

- cessazione definitiva dell'attività dell'impresa;

- messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'articolo 2112 c.c.;

- accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro (limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo). A detti lavoratori è, comunque, riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22;

- licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.

Ad ogni modo, la nuova disciplina sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, nelle intenzioni di ammorbidire le barriere del decreto “cura Italia” ha previsto una sorta di termine mutevole legato alla sospensione degli stessi. Si tratta di un sistema che contempla, in seno al limite finale del 31 dicembre 2020, la variabilità dei termini, condizionata, come specificato sopra, alla fruizione delle ulteriori 18 settimane o, in alternativa, all’esenzione contributiva quadrimestrale per chi rinuncia agli ammortizzatori COVID-19. A tenore dell’art. 3 del decreto di cui si discute, infatti, tale esonero è pari al doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno (6).

Ad ogni modo, considerati i confini rimarcati dal decreto, non stupiscono i dubbi sollevati da coloro tesi a difendere la libertà imprenditoriale, a tenore dei quali questa sarebbe, per l’appunto, ostacolata dal freno ai licenziamenti, seppur in parte scagionato dall’entità della pandemia. Quest’ultima infatti, poste le dimensioni globali, ha generato l’innegabile esigenza di far fronte all’impatto negativo sul mercato del lavoro e, più in generale, sull’economia.

Infatti, sebbene sia necessario rimarcare l’importanza del diritto in oggetto, quest’ultimo dovrà necessariamente convivere con altri interessi e non si esclude, come in questo caso, che debba essere compresso a favore di un altro diritto, o interesse, seppur nel pieno rispetto del principio di proporzionalità (7). Lo stesso comma secondo dell’art. 41 Cost., richiamato sopra, sostiene tale necessità, nel porre l’utilità sociale come guida alla libertà di cui si discute, richiamando in un certo qual modo quelle misure di cui deve farsi carico l’impresa nel che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (8).

3. Il ruolo del sindacato

Ad ogni modo, tra le ipotesi più interessanti, merita senz’altro una menzione particolare la possibilità relativa all’accordo collettivo, in riferimento al quale sorgono la maggior parte dei dubbi, perlopiù di natura ermeneutica ed applicativa. L’impiego concreto di tale norma, di fatto, si rende indiscutibilmente ostico, a causa della poca chiarezza del legislatore in merito alla natura ed alle dimensioni dell’accordo (9).

In prima analisi, infatti, questa eccezione potrebbe alleviare le critiche di cui sopra, di coloro che difendono il principio di cui all’art. 41 Cost., teso a preservare la libera iniziativa economica, a salvaguardia della libertà imprenditoriale (peraltro, il dipendente che dovesse uscire in seguito alla risoluzione richiamata dall’accordo sindacale di cui si discute, contrariamente a quanto accadrebbe al di  fuori dello scenario legislativo attuale, avrebbe persino il diritto a percepire la c.d. Naspi).

Altre criticità deriverebbero dal sostanziale potere indirettamente affidato alle organizzazioni sindacali, la controparte necessaria di un ipotetico accordo definito dalla norma in esame. A prescindere dall’indiscutibile vantaggio che ne deriverebbe per l’impresa, per una ragione o per l’altra, non è escluso che il suddetto accordo non venga raggiunto. Nulla vieta che la consultazione sia destinata ad un nonnulla, trascinando l’impresa al punto di partenza, nella condizione di non poter avviare le procedure ex artt. 4 e 5, L. 223/1991 (10)(11):

"Art 4 – L'impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all'articolo 1 ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare la procedura di licenziamento collettivo ai sensi del presente articolo.

Art 5 – L'individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all'articolo 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative."

Per dirla in altri termini, l’art 14, D.L. 104/2020, conferisce una sorta di veto sostanziale alle OO. SS., dando nuovamente vigore ai dubbi inerenti al confinamento della libertà d’impresa di cui all’art. 41 Cost.

Pertanto, se la rappresentanza sindacale venisse meno all’onere di adottare una soluzione concordataria, come disciplinato dalla norma richiamata, la ratio della stessa – diretta alla tutela del lavoro – perderebbe valore, a nulla rilevando l’etica sottesa alla finalità perseguita dal legislatore. Dopotutto, non sarebbe innaturale che il sindacato proponga con vigore condizioni intollerabili dall’impresa; si pensi, ad esempio, ad uno schema di accordo che preveda degli incentivi all’esodo troppo onerosi per l’imprenditore (12).

L’art 14 sopra richiamato, inoltre, non fa menzione della tipologia di sindacato; sebbene sia ragionevole pensare che non possa ritenersi sufficiente il coinvolgimento delle sole RSU/RSA, non si fa riferimento neppure alla possibilità che l’accordo venga trovato o meno con una sola sigla sindacale – per quanto quest’ultima sia una soluzione opinabile, la poca chiarezza normativa alimenta scenari di dubbia applicabilità.

Si auspica pertanto che in sede di conversione vengano chiarite le intenzioni del legislatore, laddove sorge inevitabile il dubbio inerente al coinvolgimento delle articolazioni territoriali delle organizzazioni sindacali (v. D. Lgs. 81/2015, art. 51), fermo restando che nulla impedirebbe che tale potere venga invece esteso alle rappresentanze aziendali – nonostante, come chiarito sopra, sembri ragionevole disattendere tale ipotesi. Inoltre, l’accordo in oggetto, ai fini ai quali è preposto, dovrebbe inevitabilmente essere proceduralmente definito in relazione ad ogni singolo dipendente, in sede protetta, così come prescritto dagli artt. 410 e 411 c.p.c., relativi al tentativo obbligatorio di conciliazione.

Non meno rilevante, infine, il fatto che la norma non preveda limiti temporali volti a confinare la negoziazione. L’impresa, per l’appunto, potrebbe trovarsi a sostenere costi elevati per l’intera durata della procedura.

4. Riflessioni conclusive

Non resta che attendere l’intervento chiarificatore della giurisprudenza e del legislatore, a fronte delle innumerevoli criticità che ben presto si faranno senz’altro strada tra le difficoltà di una pandemia inarrestabile e la pressante necessità di preservare il mercato e le imprese. Ad entrambe è infatti affidato l’ardua impresa di bilanciare gli interessi in atto. Nonostante l’ineluttabile esigenza di tutelare la posizione del lavoratore, coerentemente con lo scopo primario del legislatore, fin dal decreto “cura Italia”, l’applicazione, ovvero l’interpretazione eccessivamente sbilanciata a favore di tale tutela, comporterebbe senz’altro un pericolo per la salute economica del paese, che richiede, per l’appunto, in relazione alle imprese, anch’essa tutela a favore dello sviluppo e la sopravvivenza delle stesse.


Note e riferimenti bibliografici

(1) D. L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 46

(2) Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 27243 del 26 ottobre 2018

(3) Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 13649 del 21 maggio 2019

(4) S. BELLOMO, Autonomia collettiva e clausole generali, in Giorn. dir. lav. e rel. ind., 2015

(5) Cass. Civ., sez. lav., sent. n. 4015 del 15 febbraio 2017

(6) D.L. 14 agosto 2020, n.104, art. 14

(7) BUTTARELLI, Diritti fondamentali e libertà di iniziativa economica, Conferenza internazionale sulla privacy, Roma 5-6 dicembre 2002

(8) Art. 2087, c.c.

(9) FUSANI, Divieto di licenziamento nel D.L. Agosto. Tra le eccezioni prevista la risoluzione consensuale tramite accordo sindacale, 07/09/2020, Il sole 24 ore

(10) STAIANO, COVID-19: le novità sul lavoro, 2020, Maggioli Editore

(11) L. 23 luglio 1991, n. 223, artt. 4, 5, 24

(12) BORDOGNA, PERDESINI, Relazioni industriali. L'esperienza italiana nel contesto internazionale, 2019, Il Mulino