Pubbl. Mar, 22 Set 2020
Il crocifisso nelle aule scolastiche: tra laicità e tradizione
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Donato Lo Russo
Il contributo prospetta un quadro articolato della questione relativa all´esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici. Il fenomeno è esaminato alla luce della giurisprudenza costituzionale sul principio di laicità dello Stato, degli orientamenti giurisprudenziali amministrativi e della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell´Uomo del 18 marzo 2011 - Lautsi e altri contro Italia.
Sommario: 1. Il principio di laicità in Italia; - 2. La regolamentazione del crocifisso nell'ordinamento italiano; - 3. La giurisprudenza italiana in materia; - 4. Le valutazioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel caso Lautsi e altri contro Italia; - 5. Conclusioni.
1. Il principio di laicità in Italia
Nel corso dei decenni la questione religiosa -in particolar misura la questione dell'esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici come le aule giudiziarie o le aule scolastiche- si è più volte ripresentata con la formazione di due veri e propri schieramenti ideologici. Su fronti antagonisti, si presentano, da una parte, i sostenitori della compatibilità di questo fenomeno col principio di laicità dello Stato e, dall'altra, coloro che interpretano il suddetto principio con maggior rigore, sulla falsa riga del modello francese.
In Italia, il cui rapporto con la Chiesa è regolato dai Patti Lateranensi del 1929[1], riconosciuti anche dall'art. 7 della Costituzione che legittima pienamente il regime concordatario, il concetto di laicità dello Stato è frutto soprattutto di una profonda elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte costituzionale[2]. Un passo fondamentale in tal senso è fornito dalla sent. n. 203/1989, secondo la quale l'attività religiosa non è soltanto un fenomeno strettamente privato ed estraneo a qualsiasi forma di interventismo statale ma, al contrario, presuppone una valutazione positiva da parte dell'ordinamento che si traduce in interventi a sostegno dell'attività religiosa. Secondo la Corte, quindi, "il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale".
La Corte non ha mancato di sottolineare, anche in altre occasioni, il forte legame esistente tra il principio di laicità dello Stato e il divieto di discriminazione tra le diverse confessioni religiose. Questo divieto si ritrova nella sent. 440/1995 che, in riferimento all'art. 724 del codice penale che puniva penalmente la bestemmia[3], lo dichiarò incostituzionale nella parte in cui discriminava le confessioni religiose diverse da quella cattolica, in quanto "differenzia la tutela personale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata", con la conseguenza che si passò dalla bestemmia contro la religione di Stato alla bestemmia contro la Divinità, anche perché "la nozione di religione di Stato è incompatibile col principio costituzionale fondamentale di laicità dello Stato."[4]
Un ulteriore e fondamentale aspetto del principio di laicità si ravvisa nella tutela riconosciuta alla libertà di coscienza. Questa tutela viene fortemente sottolineata nella giurisprudenza costituzionale relativa all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole e, in particolar misura, nella sentenza n. 13 del 1991, nella quale si evince l'ammissibilità di tale insegnamento nei limiti in cui questo non leda la volontà degli studenti di non frequentarlo in quanto contrario alla loro credenza e alla loro coscienza religiosa.
In altre parole, lo Stato italiano accoglie il principio di laicità, ma lo accoglie in un modo peculiare alla sua storia millenaria, una storia che ha visto l'Italia essere la casa del papato e la culla di grandi Padri della Chiesa, da Ambrogio, vescovo di Milano, a Papa Gregorio I; un modo diverso rispetto a quello adottato in Francia, figlio della Rivoluzione francese che ha portato ad una esclusione totale e rigida del fenomeno religioso dall'alveo statale, con la conseguenza che se in Italia il principio di laicità implica la "non indifferenza" dello Stato nei confronti del fenomeno religioso, in Francia vige il modus agendi per cui qualsiasi rilievo dato a qualsiasi religione determinerebbe una violazione del principio di eguaglianza.
2. La regolamentazione del crocifisso nell'ordinamento italiano
Per quanto riguarda l'esposizione di simboli religiosi, dal momento in cui essa è disciplinata da fonti secondarie, il ruolo principale è giocato dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Suprema Corte di Cassazione. Da un punto di vista normativo, l'esposizione del crocifisso negli uffici pubblici è prevista dall’ordinanza ministeriale n. 250 dell'11 novembre 1923, nelle aule giudiziarie invece da una circolare del Ministro Rocco del 29 maggio 1926, la quale recita:
"prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia".
Parimenti, anche per le aule scolastiche, il riferimento normativo risale all’epoca fascista. In particolare, è l’art 118 del Regio Decreto n. 965 del 1924, assieme all’allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 a stabilire l’obbligatorietà del crocifisso nelle scuole primarie e secondarie di primo grado: quelle che all’epoca erano erano definite con l'appellativo di scuole elementari e medie. Un’ulteriore circolare del 1967, emanata dal Ministero dell’Istruzione, conferma questa impostazione e la successiva modifica dei Patti Lateranensi nulla dice circa la presenza del crocifisso nel novero dell’arredamento scolastico. Per questo, il Consiglio di Stato, col parere n. 63 del 1988, ha sostenuto che le norme regolamentari del ’24 e del ’28 non possono considerarsi implicitamente abrogate. Ha continuato affermando che
“il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa”,
e che
“le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”.
Anni più tardi, nel 1994, è stato approvato il d.lgs n. 297, che ha disciplinato in modo complessivo e organico la materia dell’arredamento scolastico. In particolare, l’art. 159 stabilisce che “spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. Insomma, nessuna traccia del crocifisso, e questo ha indotto qualcuno a ritenere implicitamente abrogate le precedenti norme regolamentari in quanto una nuova norma aveva regolamentato per intero la materia. Tuttavia, anche questa volta la tesi dell’abrogazione non ha retto, in quanto il medesimo decreto legislativo all’art. 676, intitolato “norme di abrogazione”, stabilisce che sono abrogate tutte le disposizioni incompatibili con quanto contenuto nel dispositivo, mentre tutte le altre restano in vigore. Di fatto, non potendo ravvisare nessuna incompatibilità nell’associare al crocifisso una caratteristica di arredo, le disposizioni regolamentari sull’esposizione del simbolo religioso nelle aule scolastiche continuano ad essere legittimamente operanti.
3. La giurisprudenza italiana in materia
Gli orientamenti giurisprudenziali in materia sono molto contrastanti, come è inevitabile che accada quando la Magistratura è chiamata ad intervenire su una questione che non è e non può essere esclusivamente giuridica.
Esistono decisioni, come quella rappresentata dall'ordinanza del Tribunale dell’Aquila del 22 ottobre 2003, che in nome della neutralità delle istituzioni pubbliche, doverosa in ragione del principio di laicità, impongono la rimozione del crocifisso dalle pareti delle aule scolastiche, in quanto la sua presenza testimonierebbe una volontà da parte dello Stato di imporre all'interno di una dimensione pubblica il culto cattolico, cosa palesemente contrastante con il pluralismo religioso. Inoltre il giudice abruzzese ha individuato la necessità giuridica di rimuovere i crocifissi anche nella revisione dei patti Lateranensi del 1984, che nulla dicono sulla presenza dei crocifissi negli ambienti scolastici e che ha determinato la rimozione della nozione di religione di Stato: proprio questi due fatti convincono la Corte, in contrasto con il succitato parere del Consiglio di Stato, della necessaria abrogazione delle disposizioni regolamentari in materia, in quanto intimamente legate al concetto di religione di Stato.
"Le giustificazioni addotte per ritenere non in contrasto con libertà di religione l’esposizione del crocifisso nelle scuole (e negli uffici pubblici) così come di ogni altra forma di confessionalismo statale, sono divenute ormai giuridicamente inconsistenti, storicamente e socialmente anacronistiche, addirittura contrapposte alla trasformazione culturale dell’Italia e, soprattutto, ai principi costituzionali che impongono il rispetto per le convinzioni degli altri e la neutralità delle strutture pubbliche di fronte ai contenuti ideologici."
[...]"
A ciò si aggiunga che ritenere il crocifisso sia solo un "simbolo passivo", oltre a svilire la forte valenza religiosa per la fede cristiana di tale simbolo, costituisce una forzatura. Il crocifisso assume, infatti, nella sua sinteticità evocativa una particolarmente complessa polivalenza significante"[5]
La maggior parte della giurisprudenza, tuttavia, è giunta a conclusioni opposte, più affini, se non addirittura coincidenti, con il parere del Consiglio di Stato del 1988. Alcune di queste pronunce sottolineano che il crocifisso non è semplicemente un simbolo della religione cattolica, ma è il simbolo di un insieme di valori di libertà, uguaglianza e dignità umani sui quali si fondano le moderne democrazie occidentali e quindi finisce addirittura per rappresentare il principio di laicità stesso[6]. In altre pronunce, ancora si legge che il crocifisso è espressione della civiltà cristiana nella sua radice storica, e pertanto patrimonio universale dell'umanità, oltre ad essere un simbolo dell'identità nazionale e un patrimonio tradizionale dell'Italia[7]. In particolare, una ulteriore pronuncia del Consiglio di Stato ribadisce la legittima esposizione del crocifisso in luoghi pubblici in quanto
"è atto ad esprimere l'origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale di fronte all'autorità, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana"[8].
4. Le valutazioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel caso Lautsi e altri contro Italia
La questione è giunta sino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale in prima battuta si era pronunciata a favore del ricorrente, prevedendo l’incompatibilità dell’esposizione del crocifisso con la Convenzione europea per la salvaguardia del diritto dell’Uomo, per poi ribaltare il verdetto in appello.
All'origine della controversia vi è un ricorso - rubricato al numero 30814/06 - diretto contro la Repubblica italiana mercè del quale, nel 27 luglio 2006, la ricorrente Soile Lautsi ha adito la Corte in relazione alla presenza del crocifisso all’interno delle aule scolastiche frequentate dai suoi figli, adesso maggiorenni ed anch’essi ricorrenti.
I ricorrenti individuano nella presenza dei crocifissi una violazione del diritto all'istruzione, che l'articolo 2 del Protocollo n. 1 della Convenzione tutela in questi termini:
«il diritto all'istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell'esercizio delle funzioni che assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche. »
Da questi fatti essi deducono anche una violazione del loro diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione sancito dall'articolo 9 della Convenzione, così formulato:
« 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell'ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.»
La Grande Chambre, dopo aver minuziosamente analizzato le tesi delle parti, con particolare riferimento al Governo, il quale faceva leva sulla pluralità dei significati del crocifisso, nel senso che potrebbe essere interpretato non solo come simbolo religioso, ma anche come simbolo culturale e identitario, di tutti quei valori che costituiscono oggi le fondamenta di una democrazia occidentale e che comunque, essendo un simbolo passivo, ha un impatto sulle persone non paragonabile ad un comportamento attivo; dopo aver analizzato le tesi dei terzi intervenienti, tra i quali si ricordano i governi di Romania, Bulgaria, Malta, Cipro, Grecia, Lituania, Principato di Monaco, numerose organizzazioni non governative e 33 parlamentari europei, i quali sottolinearono che la Corte non è una Corte costituzionale e che, quindi, deve riconoscere il principio di sussidiarietà e riconoscere agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità nell’applicazione della materia, procede alle sue valutazioni.
In primo luogo, la Corte rigetta la tesi del Governo per la quale l'obbligo per gli Stati di garantire il rispetto delle convinzioni religiose dei genitori valga solo nell'ambito dei programmi scolastici.
La Grande Chambre, infatti, sottolinea che quest'obbligo si impone in tutti i compiti che gli Stati compiono in materia di educazione e di insegnamento, compreso l'arredamento delle aule scolastiche.
In secondo luogo evidenzia che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, e che alla luce di ciò non è rilevante che esso abbia anche ulteriori significati diversi da questo. Ad oggi non ci sono evidenze circa l'influenza che l'esposizione di un simbolo religioso potrebbe avere sui ragazzi. Ciò non fa venir meno la percezione, comprensibilmente, avvertita dal ricorrente che possa interpretare la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche come una mancanza di rispetto nei confronti del suo diritto a educare i figli secondo le sue convinzioni religiose, aggiungendo però che la sola percezione soggettiva della ricorrente non è sufficiente per giustificare una violazione dell'articolo 2 del Paragrafo n. 1.
Alla luce di queste considerazioni, e che la presenza del simbolo religioso viene giustificata anche dal fatto che essa sia ormai una tradizione, la Corte conclude affermando che gli Stati contraenti godono di un margine di valutazione nel conciliare l’esercizio delle funzioni che essi assumono nel campo dell’educazione e dell’insegnamento con il rispetto del diritto dei genitori di assicurare questo insegnamento in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche e che quindi
" la scelta della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche rientra in linea di principio nel margine di valutazione dello Stato convenuto. Inoltre, il fatto che non esista un consenso europeo sulla questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche avvalora tutto sommato questo orientamento."
5. Conclusioni
La disamina, pur breve, della giurisprudenza in materia di esposizione dei simboli religiosi all'interno degli uffici pubblici, con particolare riferimento alle scuole, mette in evidenza con chiarezza che, se è vero che è possibile individuare un orientamento maggioritario, è altrettanto vero che non c'è una certezza e una coerenza piena nell'interpretazione del dettato legislativo: del resto, non potrebbe essere altrimenti in una materia che per definizione è espressione della coscienza e della morale più intima dell'essere umano.
Il realismo giuridico americano aveva sostenuto la necessità di riconoscere, anzichè nascondere, la natura umana dei giudici, che restano vittime delle leggi della psicologia anche quando indossano una toga, per poter meglio resistere all'influsso di queste stesse leggi senza nascondersi dietro un vuoto formalismo di pura logica[9]. William James ricorda che tutti gli esseri umani hanno una propria concezione filosofica della vita, anche chi esecra la nozione di filosofia ed i giudici non fanno eccezione: istinti ereditari, credenze tradizionali e convinzioni danno luogo a un punto di vista che non può non essere presente in qualsiasi atto giudiziario, soprattutto in una materia come questa.
[1] I Patti lateranensi, stipulati l’11 febbraio 1929 fra lo Stato italiano e la Santa Sede, si compongono di due distinte convenzioni: il Trattato, con quattro allegati (I: pianta del territorio dello stato della Città del Vaticano; II: pianta degli immobili con privilegio di extraterritorialità e con esenzione da espropriazione e da tributi; III: piante degli immobili esenti da espropriazioni e da tributi; IV: convenzione finanziaria) e il Concordato. Con il Trattato si è stabilita la posizione della santa Sede quale ente sovrano della Chiesa cattolica in Italia, si è costituito lo Stato della Città del Vaticano e si è definitivamente risolta la “questione romana”; con il Concordato si è disciplinata la posizione giuridica della Chiesa cattolica in Italia.
[2] R.BIN., G. PITRUZZELLA, Diritto Costituzionale,XVIII edizione,Giuffè Editore, 2017, p. 93-94.
[3] Sanzione depenalizzata dall’art. 57 del d. lgs 507/1999.
[4] Con il nuovo Concordato, reso esecutivo dalla legge 121/1985, è stato possibile eliminare tutta una serie di norme palesemente incompatibili con la Carta costituzionale, a partire dalla nozione di religione di Stato.
[5] Tribunale dell’Aquila, Ord. 22 ottobre 2003.
[6] Tar veneto, sez. III, n. 1110/2005.
[7] Trib. Civ. L’Aquila, Ord. 31 marzo 2005.
[8] Cons. St. sez. VI, n. 556/2006
[9] JEROME N. FRANK, Giustizia ed Emozioni - "Non potremo mai, anche se volessimo, sbarazzarci delle emozioni nel processo di amministrazione della giustizia. La cosa migliore cui possiamo aspirare è che le emozioni del giudice siano di natura sensibile, ben equilibrate e soggette al suo intervento. Il giudice onesto e ben istruito, con la consapevolezza più completa possibile dei propri poteri e delle proprie inclinazioni e debolezze personali, costituisce la migliore garanzia per la giustizia. Riconoscendo l’ineluttabile esistenza dell’elemento personale, e agendo di conseguenza, si va nella direzione giusta".