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Pubbl. Gio, 10 Set 2020

Il ne bis in idem tra punti fermi ed aspetti ancora irrisolti

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Annamaria Di Clemente



Con recente sentenza del 24 luglio 2020, la Corte di Cassazione ha riaffermato il principio secondo cui, a i fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l´identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona a condizione che, nell´applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l´evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all´azione o all´omissione dell´agente


ENG With a recent judgment of July 24, 2020, the Court of Cassation reaffirmed the principle that for the purposes of preclusion connected to the ne bis in idem principle, the identity of the fact exists when there is historical-naturalistic correspondence in the configuration of the crime, considered in all its constituent elements (conduct, event, causal link) and with regard to the circumstances of time, place and person provided that, in practical application, all the elements of the crime are assumed in their empirical dimension, so that even the event can not be relevant in legal terms, but will only assume meaning as a modification of the material reality resulting from the action or commission of the agent.

Sommario: 1. Introduzione e profili normativi; 2. L’irrevocabilità della "sentenza  o decreto" e la nozione di “medesimo fatto” nell’evoluzione giurisprudenziale interna ed europea; 3. Nota di commento a sentenza Cassazione 24 luglio 2020, n. 22486   

1. Introduzione e profili normativi

Per una migliore lettura della nota di commento a sentenza Cassazione 24 luglio 2020, n. 22486, giova svolgere alcune precisazioni ed osservazioni preliminari sul principio del ne bis in idem.

La prima fondamentale riflessione è nel senso di ritenere contrario ai più basilari principi democratici e di civiltà giuridica un ordinamento che legittimi la possibilità per una persona di subire due volte l’azione punitiva dello Stato per lo stesso fatto.

Il ne bis in idem, invero, sottende principi fondamentali degli ordinamenti democratici, quali l’interesse alla certezza del diritto, la garanzia dei diritti della persona sottoposta a procedimento penale di non vedersi illimitatamente esposta per il medesimo fatto alla pretesa punitiva dello Stato e, per altro aspetto, evidenti esigenze di economia processuale[1].

La dottrina ha distinto il ne bis in idem sostanziale da quello processuale.

Mentre il ne bis in idem sostanziale esprime un criterio di giustizia materiale, tale da non consentire l’addebito plurimo di un medesimo fatto allo stesso soggetto, in tutti i casi in cui l’applicazione di una sola delle norme esaurisca l’intero contenuto di disvalore sul terreno oggettivo e soggettivo del fatto[2], per converso, il ne bis in idem processuale, oltre ad assicurare la certezza del giudicato quale risultato dell'accertamento giudiziale, è teso ad evitare che un soggetto, condannato o prosciolto, si trovi esposto per un tempo indefinito ad una possibile reiterazione di procedimenti penali per lo stesso fatto e, quindi, all’arbitrio dell’autorità penale[3].

I due concetti sono, quindi, ispirati a rationes diverse, per essere il ne bis in idem processuale finalizzato a garantire la certezza e l’economia processuale, mentre quello sostanziale trova il suo fondamento in ragioni di equità[4].

Sotto il profilo normativo, il principio è previsto sia in ambito europeo che nazionale.
Ai sensi dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».

Ancora in ambito europeo, la Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica Federale di Germania e della Repubblica francese, relativa all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, firmata a Schengen il 19 giugno del 1990, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 30 settembre 1993, n. 388, all’art. 54 sancisce il principio secondo cui «una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente, non possa più essere eseguita».

Anche l’art. 4 del VII Protocollo alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sancisce che «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».
L’art. 14 Paragrafo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e ratificato in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, sancisce, inoltre, che «nessuno può essere sottoposto a nuovo giudizio o a nuova pena, per un reato per il quale sia stato già assolto o condannato con sentenza definitiva in conformità al diritto e alla procedura penale di ciascun paese».

Più in generale, infine, il principio del ne bis in idem tra Stati diversi trova la sua espressione massima, come osservato dal Giudice delle leggi, in sede esecutiva «dove prevale su ogni altra valutazione la considerazione della persona del condannato ed opera il ne bis in idem in fase di espiazione della pena: ripugna ai principî che sorreggono il nostro ordinamento l’idea stessa che una persona, per un medesimo fatto, possa espiare la pena due volte, seppure in Stati diversi. L’art. 138 cod. pen. dispone infatti che quando il giudizio celebrato all’estero è rinnovato nello Stato la pena scontata all’estero è sempre computata tenendo conto della specie di essa»[5].

In ambito nazionale, il principio in esame, previsto in modo espresso nel codice di procedura penale all’art. 649, se pur privo di espressa consacrazione nella Costituzione, è da ritenersi implicitamente contenuto in essa.

La giurisprudenza costituzionale ha da tempo individuato nell’art. 24 Cost., che consacra il fondamentale diritto di difesa, nonché nell’art. 111 Cost. sul giusto processo, i valori che sovrintendono alla scelta normativa del ne bis in idem, affermandone particolare pregnanza in materia penale.
Nel riaffermare, invero, come sia connaturale al sistema delle impugnazioni ordinarie una pronuncia finale, identificabile con quella di Cassazione, che definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta o deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso, la Corte Costituzionale ha osservato, altresì, come «tale esigenza di definitività e certezza costituisce un valore costituzionalmente protetto, in quanto ricollegabile sia al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 della Costituzione), la cui effettività risulterebbe gravemente compromessa se fosse sempre possibile discutere sulla legittimità delle pronunce di cassazione (sentenza n. 224 del 1996); sia al principio della ragionevole durata del processo, ora assunto a rango di precetto costituzionale alla luce del secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, come modificato dall’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2»[6].

Anche in dottrina è stato più volte affermato come il principio del ne bis in idem sia insito nella Costituzione[7].

Più precisamente, non si è mancato di osservare come la garanzia del ne bis in idem potrebbe fondatamente desumersi, ancor prima della riforma dell’art. 111 Cost., dalla nozione di giusto processo per essere di intrinseca irragionevolezza una disposizione volta a consentire indefinitamente la ripresa del processo nei confronti dell’imputato assolto o condannato con sentenza definitiva[8].
Se, come sin qui illustrato, il principio in esame è da ritenersi implicitamente consacrato costituzionalmente, a livello di fonte ordinaria lo stesso, come innanzi anticipato, è previsto, invece, espressamente dall’art. 649 c.p.p. che così sancisce: «l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato un procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo».

2. L’irrevocabilità della “sentenza o decreto” e la nozione di “medesimo fatto” nell’evoluzione giurisprudenziale interna ed europea

Ai fini dell’indagine in ordine alla violazione del divieto del ne bis in idem, l’art. 649 cit. prevede, come visto innanzi, la ricorrenza di una sentenza o decreto divenuti irrevocabili nonché del “medesimo fatto” per la cui valutazione rilevanza alcuna è riconosciuta al titolo, al grado ed alle circostanze del reato.

Il primo quesito a porsi, quindi, è relativo alla possibilità, in mancanza del carattere di irrevocabilità del provvedimento, di promuovere l’azione penale per il medesimo fatto nei confronti della stessa persona. 
Sempre ai fini della ricorrenza del divieto del principio del ne bis in idem, altro quesito a porsi è relativo alla nozione di stesso fatto, atteso il suo duplice profilo come fatto giuridico, nei suoi elementi normativi e come fatto storico, inteso in senso naturalistico.

Ebbene, in ordine al primo quesito sono, già da tempo, intervenute le Sezioni Unite formulando il seguente principio di diritto: «le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’improponibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, sempreché i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria»[9].

Con tale intervento le Sezioni Unite hanno anche elaborato alcuni criteri per definire la nozione di “medesimo fatto” di cui alla previsione normativa ex art. 649 c.p.p., statuendo il seguente principio di diritto: «ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona».

Tale impostazione ermeneutica è stata condivisa più di recente, dalla Corte Costituzionale[10] con articolata motivazione in cui è stato a chiare lettere affermato come il contrapposto e minoritario orientamento della giurisprudenza di legittimità celi «un criterio di giudizio legato all’idem legale, che non è compatibile, né con la Costituzione, né con la CEDU, sicché è necessario che esso sia definitivamente abbandonato».

Con la superiore pronuncia la Corte Costituzionale ha precisato come l’identità del fatto sussiste, sì, qualora vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato nei suoi elementi costitutivi e, quindi, nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico, a condizione, tuttavia, che «tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla dimensione empirica, si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella sua astrattezza, sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea».

Tale principio sull’idem factum, se pur scomposto nella suddetta triade di elementi, prescindendo, quindi, dall’idem legale, è stato costantemente seguito dalla giurisprudenza successiva[11] sino a quella attuale in cui si inserisce anche la recente pronuncia della Cassazione 24 luglio 2020, n. 22486, oggetto del presente articolo. 

Le ragioni dell'importanza della decisione in esame pronunciata dal Giudice delle leggi, risiedono, altresì, nell’esito della decisione finale rappresentata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui «esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale» con l’effetto, pertanto, di offrire, sulla stessa linea indicata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, un’interpretazione dell’art. 649 c.p.p. che consenta di ritenere ricorrente “il medesimo fatto” anche in ipotesi di concorso formale così declinato.
Come appena anticipato, invero, i principi sin qui esaminati sono stati espressi anche in ambito europeo ove si registrano numerose sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in tal senso[12].
Per concludere, tuttavia, non va sottaciuto che pur nella ricorrenza dei più volte affermati principi sui criteri ermeneutici del fondamentale principio del ne bis in idem in ambito interno ed europeo, permangono alcuni aspetti ancora irrisolti evidenziati recentemente con nuovo intervento del Giudice delle leggi[13] in ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto, «sia in ambito di illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali».

Su tale rappresentata esigenza, la Corte Costituzionale ha evidenziato, con la pronuncia in esame, come resti attuale “l’invito al legislatore a «stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni» che il sistema del cosiddetto doppio binario «genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU (sentenza n. 102 del 2016)».

Da segnalare, infine, una più recente pronuncia della Corte Costituzionale[14] che rafforza l’attualità di tale tema, di cui è stata più volte investita pur dichiarando «la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale sollevate in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE)».

3. Nota di commento a sentenza Cassazione 24 luglio 2020, n. 22486

Svolte le superiori premesse ed osservazioni, anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale interna ed europea, si procede alla disamina della sentenza.

La decisione trae origine dalla sentenza di primo grado, confermata in sede di appello, di condanna emessa nei confronti di due imputati all’esito di giudizio abbreviato per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, in relazione al fallimento della società a responsabilità limitata di cui gli stessi risultarono essere amministratori di fatto.

Più precisamente, come si legge in sentenza, i due imputati, amministratori di fatto della fallita, distrassero beni sociali di ingente valore e sottrassero o occultarono le scritture sociali «per impedire l'accertamento delle loro malefatte, poste in essere in un contesto associativo rivolto a frodare - essenzialmente - il fisco».

Avverso la sentenza di conferma emessa dalla Corte territoriale gli imputati hanno proposto rispettivi ricorsi introduttivi di giudizio per cassazione al cui esito la Suprema Corte, pronunciando la recente decisione in commento, ha dichiarato la rispettiva inammissibilità con condanna al pagamento delle spese processuali a favore della Cassa delle ammende.

Per quanto qui rileva, uno dei due imputati, con il primo motivo di ricorso ha lamentato la violazione del principio del ne bis in idem, per essere già stato giudicato e condannato, per i medesimi fatti, nell'ambito di altro procedimento avente ad oggetto il reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di una serie indeterminata di reati finanziari, di cui agli artt. 2, 5, 8 del d.lgs. n. 74 del 10 marzo 2000, attuati mediante la creazione di società, tra cui anche quella successivamente fallita, deputate ad emettere fatture false e mediante la creazione e l'occultamento di una contabilità parallela. 
Per di più, sempre nell’ambito di tale altro procedimento, il ricorrente era stato  già giudicato e condannato per il reato di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74/2000 per avere, quale amministratore di fatto della società a responsabilità limitata, successivamente  dichiarata fallita,  «al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occultato in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari».

La motivazione a sostegno della decisione in esame, ai fini della individuazione dei canoni ermeneutici sul divieto del ne bis in idem, muovendo dai «principi che regolano la materia, elaborati dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale affermatasi nell'ultimo ventennio» si articola in tre punti fondamentali da esaminare.

Evidente, quindi, che il richiamo sia innanzitutto alla sentenza pronunciata a Sezioni Unite, 28 giugno 2005, n. 34655, nonché alla sentenza della Corte Costituzionale, 31 maggio 2016, n. 200, esaminate nel precedente paragrafo.

Pertanto, come si legge nella parte motiva della sentenza, «ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass, SU, n. 34655 del 28/6/2005, n. 231799-01)».

A tale impostazione fa seguito la precisazione offerta dalla Corte Costituzionale, con la pronuncia innanzi citata, nel senso che la correttezza della stessa è condizionata, nell’applicazione pratica, all’assunzione di tutti gli elementi del reato «nella loro dimensione empirica, sicché anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell’agente».

Altro principio richiamato in motivazione è quello statuito dalla Corte Costituzionale con la medesima pronuncia di cui innanzi, cosicché «manipolando l'art. 649, “il fatto” è il medesimo anche quando sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale».

Sotto il profilo processuale, la Corte di Cassazione ha riaffermato, inoltre, come la violazione del divieto del ne bis in idem, si risolve in un error in procedendo a condizione che la decisione della relativa questione non comporti la necessità di accertamenti di fatto, nel qual caso la stessa deve essere proposta al giudice dell’esecuzione[15].

Ebbene, facendo applicazione dei suddetti principi, come richiamati nella parte motiva della sentenza, la Suprema Corte ha affermato la manifesta infondatezza delle doglianze del ricorrente sulla identità del fatto tra il reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di reati finanziari e tributari ex artt. 2-5-8-10 del d.lgs., n. 74 del 2000, di cui alla sentenza già emessa e divenuta definitiva, ed il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, oggetto del procedimento de quo
Nel caso di specie sottoposto al suo esame, invero, la Corte ha evidenziato come il reato di frode fiscale, con attività imprenditoriale e con meccanismi, tra l’altro, tali da evadere totalmente il fisco, presenti una condotta totalmente diversa dal reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale con la consequenziale esclusione di qualsivoglia possibilità di riconduzione degli stessi all’idem factum, secondo l’impostazione offerta dalle Sezioni Unite con la richiamata sentenza. 
Sul punto, osserva la Suprema Corte, «la societas sceleris è integrata da un elemento materiale (l'organizzazione di mezzi) e da un elemento soggettivo (l'affectio societatis) che si distinguono totalmente dagli elementi della bancarotta patrimoniale, consistente nella destinazione dei mezzi dell'impresa a fini a questa estranei».

Alle medesime conclusioni, precisa, altresì, la Suprema Corte, si perviene per i reati tributari di cui agli artt. 2, 5, 8 e 10 del d.lgs. 74/2000 per non avere gli stessi elementi in comune con la bancarotta patrimoniale in cui, diversamente, rileva la distrazione delle risorse societarie ed il consequenziale depauperamento della garanzia dei creditori.

Infine, sempre in applicazione dei principi innanzi richiamati, la Cassazione, pur senza riscontrarlo nel caso di specie, ha affermato come, invece, possa ritenersi possibile il conflitto, ai fini della ricorrenza della violazione del divieto del ne bis in idem, tra il reato di bancarotta fraudolenta documentale e l’occultamento o la distruzione di documenti contabili, di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74/2000.
Le rispettive condotte materiali potrebbero, infatti, coincidere attesa la previsione di cui all’art. 216 l. fall. che prevede anch’esso l'occultamento o la distruzione delle scritture contabili.
Sulla questione la Corte, tuttavia, non ha mancato di precisare come tale configurazione, offerta, dalla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, sia stata disattesa da alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità[16], secondo cui, diversamente opinando, la bancarotta documentale e il reato di cui all'art. 10 cit., se entrambi contestati nel simultaneus processus, concretano una ipotesi di concorso formale di reati senza, in tal guisa, porre problemi di precedente giudicato, né di preclusione processuale.
Sotto il profilo meramente processuale, infine, la Corte Suprema, pur uniformandosi all’indirizzo già esaminato nel precedente paragrafo, secondo cui non è da ritenersi consentita, nella stessa sede giudiziaria e ad iniziativa dello stesso ufficio del Pubblico Ministero, una nuova azione penale per il medesimo fatto diversamente qualificato, ha disatteso le doglianze del ricorrente sul punto per mancata ricorrenza dell’idem factum tra il reato di bancarotta documentale e reato di cui all’art. 10 d.lgs. 74/2000, avendo proprio la difesa del ricorrente prospettato, nel giudizio di merito, la diversa ipotesi di continuazione dei reati. In conclusione, la sentenza in esame presenta profili di grande rilievo per l’interprete, sia per la ricostruzione ermeneutica offerta muovendo dal richiamo dei principi che regolano la materia, elaborati dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale affermatasi nell'ultimo ventennio, sia per l’aver evidenziato, al tempo stesso, taluni aspetti ancora irrisolti in ordine alla ricorrenza del divieto del ne bis in idem ovvero, diversamente, di concorso formale di reati in rapporto di specialità reciproca.

L’esatta portata del divieto in esame è, come già evidenziato nel paragrafo precedente, all’attenzione del Giudice delle leggi che, più volte chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., ha chiaramente auspicato un intervento legislativo al fine di porre rimedio alle “frizioni” che il sistema del cosiddetto doppio binario genera tra l’ordinamento interno e la CEDU.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per approfondimenti, V. Andrioli, Il principio del ne bis in idem e la dottrina del processo, in Annali triestini di diritto, economia e politica, 1941, 255 ss., ora in Id., Scritti giuridici, vol. I, Teoria generale del Processo. Procedura civile, Giuffrè, 2007, 42 e ss.

[2] In tal senso, M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 2004, 179.

[3] T. Rafaraci, Ne bis in idem, Enc. dir., vol. III, Milano, 2010, 861.

[4] G. Lozzi, Profili di una indagine sui rapporti tra “ne bis in idem” e concorso formale di reati, Milano, 1974, 69.

[5] Corte Costituzionale, sentenza 30 luglio 2003, n. 284.

[6] Corte Costituzionale, ordinanza 17 novembre 2000, n. 501.

[7] In tal senso, fra gli altri, M. Pisani, Il ne bis in idem internazionale e il processo penale italiano, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, vol. I, Milano, 2005, 553 ss.; C. Marinelli, sub art. 649, in G. Conso – G. Illuminati, Commentario breve al Codice di procedura penale, Seconda edizione, Padova, 2015, 2840; per il ne bis in idem come diritto della persona, N. Galantini, Il divieto del doppio processo come diritto della persona, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, 97.

[8] P. Ferrua, Il “giusto processo”, Bologna, 2007, 33.

[9] Cassazione penale, SS.UU., sentenza 28 giugno 2005, n. 34655.

[10] Corte Costituzionale, sentenza 31 maggio 2016, n. 200.

[11] Per tutte, Cassazione, sentenza 4 ottobre 2016, n. 47683.

[12] Ex plurimis, sentenza 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia; sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia.

[13] Corte Costituzionale, sentenza 24 gennaio 2018, n. 43.

[14] Corte Costituzionale, ordinanza 12 giugno 2020, n. 114.

[15] Ex plurimis, Cassazione, sentenza 10 gennaio 2019, n. 57572.

[16] Cfr. per tutte, Cassazione, sentenza 20 giugno 2017, n. 35591.