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Pubbl. Mer, 19 Ago 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Il moto non rettilineo e non uniforme del diritto di asilo davanti al giudice civile

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Mario Corso
Avvocato



Dopo avere brevemente ricostruito la storia dei rapporti tra diritto costituzionale di asilo e protezione internazionale, si analizzeranno le ultime pronunce della Cassazione sull’ampiezza dei poteri del giudice in ordine alle domande di protezione internazionale, che hanno creato tensioni tra il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e la normativa in materia di protezione internazionale, offendo un nuovo spunto ricostruttivo per conciliare il diritto di asilo previsto dalla Costituzione e le norme in materia di protezione internazionale


ENG This paper, after providing a brief history of the relationship between the constitutional right of asylum and refugees status, analizes how a few pronunciation of italian Court of Cassazione, about the wide of the judicial power to qualificate a request of protection, is growing discord with the non ultra petita rule, and offers a new thesis to reconcile the right of the asylum with refugees protection

Sommario: 1. Premessa; 2. Storia, breve, del diritto d'asilo e delle forme di protezione internazionale; 3. La vicenda processuale; 4. Ampiezza dei poteri del giudice in ordine alla qualificazione della domanda e possibili tensioni con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato;  5. Conclusioni.

1. Premessa

La tematica dei diritti umani è protagonista di una lunga e articolata evoluzione che secondo i proclami delle Dichiarazioni Universali, delle Costituzioni e delle convenzioni internazionali che ne hanno più volte affermato l'esistenza, ha, o dovrebbe avere, un unico obiettivo: la protezione della persona[1].

Come, ha osservato Isabel Trujillo «Un modo molto sintetico di esplicitare la finalità immanente della pratica dei diritti è quello di riconoscere che in essa è in gioco la protezione della persona umana, senza discriminazione, nella sua singolarità e nella sua specificità»[2].

Tale obiettivo nelle Costituzioni del secondo dopoguerra viene perseguito in termini differenti rispetto a quelli delle costituzioni liberali del XIX secolo.

Infatti, mentre  l’Ottocento  è  stato  il  secolo dell’affermazione  del  principio  di uguaglianza  formale e dei diritti assoluti di libertà, intese nel senso lockiano di libertà negative che  contrapponevano l’autonomia del soggetto privato all’autorità dello Stato, dalla quale egli mirava a difendersi, invece le Costituzioni democratiche contemporanee integrano  e  superano  la visione del pensiero liberale, individuando nei diritti un momento di affermazione e sviluppo della personalità.

In un recente saggio è stato scritto che il diritto di asilo è un “diritto di confine”[3].

La metafora è calzante non solo perché, come afferma l'Autrice, il diritto d'asilo è istituto proprio e naturalmente incline nel suo concreto dispiegarsi a evocare i confini degli Stati e degli ordinamenti, ma perché correla quasi necessariamente con il carattere dell'universalità dei diritti e cioè quell'aspetto dei diritti fondamentali che oggi è fortemente messo in discussione da fenomeni quali globalizzazione, multiculturalismo e dalla narrazione dei diritti che riguarda i migranti e i richiedenti asilo.

La riflessione sui confini, reali o apparenti, dei diritti ed in particolare del diritto d'asilo, per il giurista diventa quindi occasione per riflettere su questioni assai dibattute e discusse come quella della dimensione reale o apparente dell'universalismo dei diritti (an del confine dei diritti), dei confini e dell'esistenza, del confine, tra diritto d'asilo e protezione internazionale (quomodo del confine dei diritti).

Come si vede già da queste prime parole, una narrazione neutra del diritto d'asilo però si presenta difficile se non impossibile, per la necessità di correlare il diritto d'asilo al contesto, internazionale o costituzionale, nel quale lo si voglia desumere.

E così pur nella costante capacità di identificazione del lemma “diritto d'asilo”, è necessario sin da subito premettere se si tratti del diritto di asilo internazionale o del diritto di asilo costituzionale, che la Carta fondamentale del nostro ordinamento riconosce all'art. 10 comma 3, collocandolo subito dopo il riconoscimento dell'apertura conformativa dell'ordinamento italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.

La questione è complicata dal fatto che sebbene il diritto internazionale conosca da lungo tempo, sia pure in forme diverse da quelle affermatesi nel corso dell'ultimo secolo, il diritto di asilo nell'applicazione concreta davanti alle corti interne dei singoli stati, quel diritto è stato spesso confuso, ridotto o sovrapposto alla nozione di protezione internazionale, ed in tale veste ha vissuto nel diritto delle corti interne.

Ciò almeno fino al verificarsi di due fenomeni che hanno imposto nuovamente la questione del confine tra i due istituti.

Il primo elemento, per così dire “esogeno” è rappresentato dal mutamento dei flussi migratori.

Tale mutamento ha riguardato sia la direzione dei flussi migratori, che le motivazioni delle migrazioni.

Da un lato, infatti, l’Italia è passata dall’essere un Paese a forte connotazione emigratoria a Paese di arrivo di ingenti flussi di migranti che dall’Africa Subsahariana puntano alle coste dell’Italia come primo Paese Europeo sul quale sbarcare[4].

La seconda mutazione riguarda invece le motivazioni dei migranti, che si sono ampliate sino a ricomprendere anche i cc.dd. migranti climatici, cioè coloro che abbandonano il loro paese di origine a causa di mutamenti climatici quali la desertificazione[5].

Questo mutarsi dei fenomeni migratori ha acutizzato una tensione mai effettivamente sopita tra il dovere di apertura e protezione, almeno formalmente ampio, nascente dal riconoscimento del diritto di asilo come positivizzato nelle costituzioni del XX secolo e una nozione di protezione internazionale come sancita dalla Convenzione internazionale di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato, della quale si è appropriata il diritto di matrice eurounitario, asservendole alle logiche della Unione Europea.

Con il risultato che da un lato è rimasto l'ampio sistema del diritto di asilo previsto dalla Costituzione italiana e dall'altro vi è il “polo" delle varie forme di protezione codificate dalle convenzioni internazionali e dagli atti normativi dell'Unione Europea.

Le due nozioni sono state descritte come «i due fuochi di un ellisse[6] che circoscrive l’area di operatività del diritto dello straniero che cerca di protezione, in Italia e nella Ue, a causa delle minacce al nucleo essenziale dei propri diritti fondamentali, quei diritti che fondano la sua dignità[7]».

Pertanto, propongo di affrontare il tema del perimetro di efficacia tra il diritto di asilo e la normativa multilivello in materia di protezione internazionale, in cui il confine si è rivelato mutevole e incerto, quantomeno nella produzione giurisprudenziale italiana,  soprattutto dal punto di vista dell’effetto conformativo dei due fuochi dell’ellisse sulle regole del processo innanzi al giudice chiamato a pronunciarsi sulle istanze di protezione internazionale.

L'occasione è fornita da una recente pronuncia della S.C. di Cassazione, l’ordinanza n. 8819 del 12 maggio 2020 emessa a seguito del rigetto da parte del Tribunale di primo grado di un’istanza di riconoscimento della protezione sussidiaria.

La pronuncia che oggi si commenta si segnala per il fatto che la S.C. di Cassazione affronta due importanti problematiche relative al giudizio che si svolge innanzi alle sezioni specializzate in materia di protezione internazionale, entrambe attinenti alla particolare connotazione della funzione che il giudice è chiamato a svolgere in materia di riconoscimento di diritto costituzionale di asilo e della protezione internazionale.

La prima, relativa all’articolazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e la seconda del rapporto tra valutazione di credibilità delle allegazioni del ricorrente con il potere officioso di cooperazione istruttoria del giudice.

2. Storia, breve, del diritto d'asilo e delle forme di protezione internazionale

La Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 dopo il secondo conflitto mondiale e all'indomani delle discriminazioni e delle persecuzioni poste in essere dagli Stati nazionali, contiene un elenco e garantisce una serie di diritti fondamentali, tra i quali  all’art. 10, comma terzo, il diritto di asilo.

Al contrario della Costituzione francese del 1946[8] alla quale il nostro testo costituzionale è fortemente ispirato, nel caso del nostro art. 10 comma terzo della Costituzione il diritto di asilo è riconosciuto, senza condizioni ed eccezioni, né vincolo di reciprocità, allo «straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

Come prima notazione, mi sembra opportuno ricordare però che in una prima fase della sua vita, il diritto costituzionale di asilo è rimasto per lo più silente dall’entra in vigore della Costituzione nel gennaio 1948 almeno sino al 1997.

In un sistema fisico lo si potrebbe paragonare ad un punto, in uno stato di quiete.

Tornando alla storia del diritto di asilo, tra l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 e la sentenza delle Sezioni Unite del 1997 l’asilo, nel diritto internazionale generalmente riconosciuto,   secondo   la   definizione proveniente dall’Institut  de  droit  international nella  sessione  di  Bath del  1950,  viene  definito  come  la  protezione  accordata  da  uno  Stato,  all’interno  della  propria  sfera territoriale (asilo territoriale) o in altro luogo (asilo extraterritoriale nelle missioni diplomatiche, a bordo di navi o aeromobili) ad uno straniero che ne faccia richiesta.

Proprio in quel periodo l’Italia aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951, scilicet: quel trattato multilaterale delle Nazioni Unite (ONU) che costituisce l’atto giuridico fondamentale per mezzo del quale il diritto internazionale convenzionale definisce chi è rifugiato e chi non lo è, i diritti dei rifugiati e gli obblighi giuridici degli Stati nei loro confronti.

La Convenzione di Ginevra si ascrive ad un contesto storico che seppure caratterizzato dalla contrapposizione politica dei due blocchi, occidentale e socialista, registra la nascita di atti internazionali che diventano un riferimento costante, anche solo a livello teorico, della storia dei diritti fondamentali: senza pretesa di esaustività si pensi alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (approvata dall'assemblea delle Nazioni unite il 10 dicembre del 1948), alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (come modificata dal Protocollo 11 e 14), alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata ufficialmente a Nizza nel dicembre 2000 dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione, divenuta giuridicamente vincolante nell’Ue con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, a dicembre 2009, ed ora ha lo stesso effetto giuridico dei trattati dell’Unione, alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10.12.1984, al Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, adottato dall’Onu a New York il 18.12.2002.

Nonostante la produzione di testi normativi aventi incidenza diretta o indiretta sul diritto di asilo, il passaggio dallo stato di “quiete” allo stato di moto del diritto costituzionale di asilo comincia a manifestarsi non nell’attività del legislatore, ma in quello dei giudici, e ciò sino  a quando, con le sentenze n. 4674/1997 e n. 907/1999, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite stabilisce che l’asilo costituzionale è un diritto soggettivo perfetto, il cui riconoscimento può essere richiesto direttamente al giudice ordinario, seppure in assenza di una normativa che ne definisca i contenuti.

Tuttavia, nella prima delle due indicate pronuncia la Suprema Corte si affretta a ribadire che, «in mancanza di una legge di attuazione del precetto di cui all’art. 10, terzo comma, Cost. allo straniero il quale chiede il diritto di asilo null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato, mentre il rifugiato politico, ove riconosciuto tale, viene a godere, in base alla Convenzione di Ginevra, di uno status di particolare favore».

Le due pronunce indicate hanno vari effetti.

Il primo è quello di imprimere finalmente vitalità al diritto costituzionale di asilo, che come abbiamo detto era rimasto immoto, o quantomeno in stato di accelerazione di scarsa intensità, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, in assenza di una legge ordinaria che ne disciplinasse contenuto e attuazione.

Il secondo è quello di tracciare e demarcare un confine, una differenziazione tra il diritto costituzionale di asilo e lo status di rifugiato.

Sembra dunque potersi affermare che la giurisprudenza aveva conferito un moto evolutivo al diritto di asilo costituzionale, ma in direzione opposta a quello della c.d. protezione internazionale, avendo separato le due forme di tutela in due distinte posizioni giuridiche soggettive, attribuendo a ciascuna diversa consistenza, diversi titoli di ingresso nel nostro ordinamento (rango costituzionale al diritto d’asilo, internazionale pattizio alla protezione internazionale), differenti presupposti e diversa ampiezza di contenuto e di tutela.

Sancendone l’autonomia e la differenza, ma anche un contenuto minimo, che significa incomprimibile, costituito dal diritto di ingresso nel territorio dello Stato.

Questa che sembra una piccola conquista assume oggi un valore di estremo interesse per il giurista.

Infatti, l’avvenuta regolamentazione della protezione internazionale da parte del diritto eurounitario, comporta l’attrazione delle controversie sull’applicazione della relativa normativa all’interno della tutela multilivello e del dialogo tra le corti interne e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Se ne ricava che, come di recente statuito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[9] mentre oggi al richiedente protezione internazionale secondo sistema europeo di asilo può essere negato il diritto di richiesta di accesso se non si trova già all’interno del territorio dello Stato al quale viene rivolta la richiesta di protezione (si pensi al richiedente protezione che si trovi in uno dei c.d. Stati di transito, cioè già al di fuori del Paese di origine, ma fuori dal territorio italiano) perché tale richiesta nel sistema del Regolamento di Dublino è prerogativa dello stato di prima accoglienza, nulla osta a che la richiesta di applicazione del diritto costituzionale di asilo venga presa in carico ed esaminata anche senza che il potenziale asilante si trovi sul territorio della Repubblica Italiana[10].

Tornando alla pronuncia delle SS.UU. del 1997 si osserva come l’affermata differenza tra il diritto di asilo costituzionale e la protezione internazionale di cui alla Convenzione di Ginevra del 1951 comporta l’inapplicabilità al diritto di asilo costituzionale della disciplina relativa allo status di rifugiato internazionale, che a quel tempo era contenuta negli artt. 1 e ss. D.L. n. 416 del 30 dicembre 1989 convertito con modifiche nella L. 28 febbraio 1990, n. 39 (cd. legge Martelli).

Il riconoscimento del diritto di asilo quale diritto soggettivo differente rispetto alla pretesa al riconoscimento dello status di rifugiato era evidente anche in punto di giurisdizione.

Infatti, la normativa a quel tempo vigente fondava la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento solo al diritto di asilo, anche perché per il riconoscimento dello status di rifugiato l’art. 5, co. 2, della Legge n. 39/1990, attribuiva la giurisdizione a quella del giudice amministrativo.

Successivamente, il legislatore opera l’abrogazione delle norme che differenziavano il riparto di giurisdizione tra i due istituti del diritto d’asilo e del riconoscimento dello status di rifugiato e la Corte di Cassazione perviene a qualificare anche lo status di rifugiato internazionale quale «diritto soggettivo»[11].

Dall’avvenuta indicata omologazione pretoria della struttura della relativa posizione giuridica soggettiva tra diritto d’asilo e pretesa al riconoscimento dello status di rifugiato, discendono alcune conseguenze di rilievo per lo stesso diritto di asilo costituzionale.

Infatti, dopo poco tempo, la Cassazione afferma che, «pur non avendo trovato attuazione l’art. 10, terzo comma, Cost., nella legislazione nazionale non mancano formulazioni normative tali da indurre a ritenere che la domanda di asilo debba essere assistita dalle medesime formalità previste per la richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato»[12]; e ciò fa sì di doversi «accomunare i due istituti sotto il profilo procedimentale, pur lasciando inalterati i connotati sostanziali che li differenziano»[13].

In quello stesso periodo l’istituto della c.d. protezione internazionale vive un momento di rigenerazione regolatoria con l’approvazione delle due Direttive adottate in base all’art. 63, par. 1, lett. c) e d), TCE1 - rispettivamente la 2004/83/CE del Consiglio relativa all’«attribuzione della qualifica di rifugiato a cittadini di Paesi terzi» (c.d. Direttiva qualifiche) e la 2005/85/CE del Consiglio relativa alle «procedure applicabili negli Stati membri per la concessione o la revoca dello status di rifugiato» (c.d. Direttiva procedure).

Tale stato di cose dura sino a fino a quando la Cassazione con la sentenza n. 25028/2005[14] non impone al moto evolutivo del diritto costituzionale di asilo una brusca parabola discendente, o come si dice un revirement.

Con l’indicata pronuncia n. 25028/2005 la Corte di legittimità ritiene e afferma come «non […] dubitabile che il legislatore nazionale, nel recepire la suindicata Convenzione, abbia considerato la domanda di asilo come (esclusivamente) finalizzata al riconoscimento dello status di rifugiato».

Ne discende, secondo i giudici della nomofilachia, una «strutturale funzionalizzazione della domanda di asilo al riconoscimento dello status di rifugiato», giacché «i due istituti di asilo e rifugio sono associati da una comunanza di ordine funzionale che potrebbe renderne difficile un’assoluta separazione»[15].

Sino a quando nel 2012[16] la medesima Corte perviene ad un ulteriore ripensamento, inducendo, per proseguire nella nostra metafora, una deviazione al moto dell’evoluzione del diritto di asilo costituzionale, stavolta non nel senso di mutamento di direzione, ma decelerandone l’evoluzione sino a una situazione di stasi (apparente).

Infatti, da un lato, la Corte proclama di voler «superare la giurisprudenza di cui a Cass. n. 18940 del 2006, per la quale il diritto di cui all’art. 10 comma terzi Cost., degraderebbe a mera posizione processuale o strumentale (propria di chi ha diritto all’esame della sua domanda alla stregua delle vigenti norme sulla protezione) [17]».

D’altro canto, però, essa afferma definitivamente la ritenuta sovrapposizione tra le situazioni giuridiche soggettive del diritto di asilo e della protezione internazionale, ritenendo, per quanto può qui rilevare, che il diritto di asilo costituzionale sia «oggi … interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione»[18] e, cioè, nello status di rifugiato, nella protezione sussidiaria e nella protezione umanitaria[19].

Ai fini che qui ci interessano la Corte conclude enunciando la seguente statuizione che verrà tramandata tralaticiamente in numerose sentenze sia di merito che di legittimità successive: «le tre misure di protezione internazionale ed umanitaria contenute nel nostro ordinamento costituiscono esplicazione piena del diritto d’asilo costituzionale» e che esse «hanno finalmente determinato l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale previsto nell’art. 10, terzo comma, Cost.».

Tale conclusione viene criticata da chi ritiene espressamente insoddisfacente il risultato a cui la giurisprudenza ordinaria è giunta oggi «sulla scorta di un sincretismo estemporaneo e cangiante tra forme di protezione politico-umanitaria ontologicamente diverse, se non quanto alla loro funzione, certamente quanto alla loro struttura, che sulla prima indubitabilmente ridonda[20]».

Provando a sintetizzare[21], c’è almeno un argomento che, quantomeno dal punto di vista concettuale, è stato messo da tempo in evidenza[22] e che viene ribadito anche nelle riflessioni più recenti[23], che porta a non condividere la posizione assunta dalla giurisprudenza.

Nella formulazione del testo costituzionale il diritto di asilo ha portata più ampia, presupposti applicativi differenti e contenuti incomprimibili rispetto alla tutela del riconoscimento dello status di rifugiato e della c.d. protezione sussidiaria.

C’è quindi un’evidente asimmetria di dimensione tra il diritto di asilo come codificato all’art. 10 comma Cost e la disciplina dello status di rifugiato.

L’evoluzione dei due fuochi dell’ellisse non si ferma.

Da un lato, lo status di rifugiato viene fatto oggetto di intervento regolatorio con l’entrata in vigore di nuovi strumenti di diritto di matrice europea, che affiancano all’istituto della protezione internazionale quello della c.d. protezione sussidiaria.

I presupposti per il riconoscimento di queste forme di protezione e i rispettivi contenuti sono disciplinati dalla dir. 2011/95/UE del 13.12.2011 – cui è stata data attuazione nell’ordinamento italiano con d.lgs. 21.2.2014, n. 18 – che, come rilevato nel I° considerando, apporta una serie di modifiche sostanziali alla dir. 2004/83/CE del 29.4.20041 attuata nell’ordinamento interno con d.lgs. 19.11.2007, n. 251 (per come modificato dal d.lgs. 21.2.2014, n. 18, e dalla l. 6.8.2013, n. 97) – c.d. Decreto Qualifiche.

La procedura per il riconoscimento della protezione internazionale è disciplinata dalla Direttiva 2013/32/UE del 26.6.2013 – cui è stata data attuazione nell’ordinamento italiano con d.lgs. 18.8.2015, n. 142 – che, come rilevato nel 1° considerando, apporta una serie di modifiche sostanziali alla dir. 2005/85/CE del 1.12.20052 attuata nell’ordinamento interno con d.lgs. 28.1.2008, n. 25 (per come modificato dal d.lgs. 3.10.2008, n. 159; l. 24.7.2008, n. 125; l. 15.7.2009, n. 94; d.lgs. 1.9.2011, n. 150; d.lgs. 4.3.2014, n. 24; d.lgs. 18.8.2015, n. 142; l. 13.4.2017, n. 46; l. 1.12.2018, n. 132) – c.d. Decreto Procedure.

Come è facile notare, il legislatore europeo e quello interno intervengono si sulla disciplina sostanziale che su quella processuale.

Mutando il contesto normativo europeo anche il legislatore interno non può rimanere inerme e interviene in più occasioni sulla disciplina del rito processuale che assiste le controversie in materia di protezione internazionale.

Solo per ricordare gli ultimi ricordiamo il D.lgs. n. 150/2011 (art. 19), noto come decreto di semplificazione dei riti, che aveva assoggettato la materia della protezione internazionale ad un modello modificato del rito sommario di cognizione di cui all’art. 702bis c.p.c[24].

In seguito il rito processuale della protezione internazionale è stato riscritto dal d.l. 13/2017, espiantato dall'art. 19 d.lgs. 150/2011 e trapiantato all'art. 35-bis d.lgs. n. 25/2008.

Il Legislatore opta per il ritorno al rito camerale al fine, come sempre dichiarato, di ridurre i tempi di definizione delle procedure[25].

Da ultimo, si ricorda che a seguito della conversione in L. 132/2018 del D.L. 113/2018 è stato abrogata la c.d. protezione umanitaria, sostituita da un elenco di casi in cui il Questore può rilasciare un permesso temporaneo di soggiorno per esigenze di carattere umanitario e che la Cassazione con la sentenza delle SS.UU. n. 29459/2019[26] ha però affermato che la previgente disciplina continua ad applicarsi alle domande.

3. La vicenda processuale

Nella pronuncia che abbiamo indicato in epigrafe, i giudici di legittimità si soffermano in primo luogo sulla legittimità dell’operato del Tribunale di primo grado che aveva preso in esame la possibilità di attribuire al richiedente protezione sussidiaria una protezione diversa, maggiore, da quella espressamente richiesta con il ricorso introduttivo del procedimento.

Da quello che può evincersi dalla, scarsa, narrazione dei fatti di causa, sembrerebbe che il ricorrente, cittadino di un paese africano la cui indicazione viene oscurata, avesse raccontato di essere andato a vivere con uno zio a seguito della morte dei genitori per malattia da virus Ebola  e di essere stato successivamente catturato e condotto in un bosco per essere sottoposto al rito d’iniziazione al fine di far parte di una setta, della quale era componente anche lo zio.

Sarebbe quindi riuscito a fuggire e di aver lasciato il suo paese per non essere costretto all’affiliazione; di non essersi rivolto alla polizia, perché sconsigliato dallo zio.

Dopo l'esito negativo della fase innanzi alla Commissione Territoriale, il  ricorrente ha quindi chiesto in primo grado al Tribunale competente il riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria ed in subordine di quella umanitaria.

Si evince dall’ordinanza della Cassazione che, dopo avere richiesto alla Commissione Territoriale la protezione internazionale (compreso il rifugio ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951) nel ricorso innanzi al Tribunale il petitum sia limitato alla protezione sussidiaria e in subordine il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (c.d. protezione umanitaria).

Sempre dall’ordinanza indicata si evince che nonostante non fosse stata espressamente richiesta con il ricorso il Tribunale, dopo avere scrutinato d’ufficio la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ha rigettato tutte le domande e il ricorrente ha proposto due motivi di ricorso per cassazione, riguardanti le protezioni negate.

Il primo per violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 6, 7 n. 2 e 14 lett. a e b del D.lgs. 251/2007; dell'art. 8 comma 3 del D.lgs. 25/2008 in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.. Con il secondo motivo, egli si duole della violazione dell'art. 5 comma 6 del D.lgs. n. 286/1998 in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.

4. Ampiezza dei poteri del giudice in ordine alla qualificazione della domanda e possibili tensioni con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, insieme al principio dispositivo e al principio della domanda cui è correlato, costituisce uno dei punti nevralgici del processo per, farne emergere le due anime privatistica e pubblicistica che in esso convivono.

Come  è stato messo in evidenza in dottrina[27], «la questione è un topos del dibattito processualcivilistico in Italia (e nel mondo) e non ha una soluzione certa, univoca e definitiva. Sintetizzando, più ci si avvicina ad una visione (pubblicistica) del processo inteso come strumento per dare attuazione al diritto (e, correlativamente, sul piano fattuale, per accertare la verità storica dei fatti, quali che siano le domande ed eccezioni espressamente formulate dalle parti), più si tenderà a considerare ampio il potere del giudice, tanto per quanto riguarda i poteri istruttori, quanto per quanto concerne il rilievo officioso delle eccezioni. Per converso, più ci si avvicina ad una concezione (privatistica) del processo, inteso come strumento per comporre essenzialmente una lite tra privati, più si sarà portati a circoscrivere e delimitare questo potere[28]».

Aggiungiamo che se ciò è vero per le eccezioni[29], ancora di più emerge la natura pubblicistica del modello processuale laddove si attenui il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in favore del potere del giudice di pronunciarsi d’ufficio su domande nuove o diverse.

Ci si potrebbe anche domandare se sia effettivamente giurisdizione, e se sia compatibile con i principi costituzionali del giusto processo regolato dalla legge, un modello processuale che consenta al giudice, richiesto di pronunciare l’inadempimento di un’obbligazione contrattuale, che pronunci d’ufficio la risoluzione del contratto, solo perché, paternalisticamente, ritenuta una soluzione maggiormente in linea con la soddisfazione degli interessi dell’attore.

In questo caso, l’autonomia e la libertà scompaiono e lasciano il posto alla etero-conduzione della sfera giuridica del soggetto di diritto.

E ciò appare in contrasto non solo con il principio del giusto processo ma, quantomeno, anche con atri principi costituzionali, quali quello di libertà di iniziativa economica, considerato il fondamento dell’autonomia privata e della libertà contrattuale.

É pur vero che costituisce circostanza generalmente ammessa in dottrina che la natura pubblicistica del modello processuale e il rilievo officioso delle eccezioni ben si concilino con le esigenze di perseguire finalità meta-individuali, proprie di alcune eccezioni come la nullità.

Ma quando tale potere si espande sino a ritenere che il giudice possa non limitarsi alla mera riqualificazione del nomen juris della domanda sino a ritenersi libero di attribuire un bene della vita totalmente diverso e non richiesto dalla parte, difficilmente si può ritenere che tale modello processuale possa trovare collocazione in un ordinamento costituzionale e democratico.

Al contrario, si ammette che non sia incompatibile con un sistema democratico e costituzionale il potere del giudice di riqualificazione della domanda, a condizione, ritengo, che esso non travalichi il limite della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, perché in questo caso si tratterebbe non di sostituire la volizione del giudice a quella di determinazione della sfera privata del soggetto di diritto, ma di porre un rimedio ad un errore eminentemente processuale della parte, anzi del suo difensore, attribuendo al processo una maggiore aderenza alla determinazione della volontà della parte e alla sua libertà.

Il giusto processo diventa effettivamente giusto quando non rimane avvolto in meri formalismi che non perseguono altra utilità che quella di favorire una veloce pronuncia di inammissibilità[30].

Quanto ai criteri per discernere la mera riqualificazione della domanda (ove il giudice ritenga che non vi corrisponda il nomen juris indicato dalla parte), dalla pronuncia contenente una statuizione ultra petita, e come tale vietata ai sensi dell’art. 112 c.p.c., vale richiamare gli approdi ermeneutici fissati recentemente dalla giurisprudenza della Cassazione, dopo un lungo periodo di dibattiti e orientamenti contrastanti, in tema di differenza tra mutatio libelli, e cioè introduzione di una domanda nuova nel processo (la cui determinazione ad esempio è rilevante per verificare che la parte non violi il disposto dell’art. 345 c.p.c. sul divieto di introduzione di nova in appello), e emendatio libelli, e cioè mera modificazione della domanda (consentita alla parte per la prima volta ai sensi dell’art. 183 c.p.c.).

Preciso che già parlare di differenza tra novità della domanda e mera modifica presuppone sul piano logico che si possa individuare cosa è una domanda giudiziale e quali siano i criteri per distinguere una domanda dall’altra[31].

Il che significa avere preso posizione su un altro dei temi risalenti e ancora oggi accesi (non essendovi né in dottrina né in giurisprudenza unanimità di opinioni) del dibattitto giusprocessualistico, che coinvolge non sopite questioni sull’individuazione degli elementi della domanda (causa petendi e petitum) e sulla rispettiva maggiore o minore rilevanza da attribuire all’uno o all’altro al fine di individuare e distinguere una domanda da un’altra.

Tema che qui può essere solo accennato ricordando la polarizzazione della dottrina intorno alle due teorie della titolazione e della sostanziazione, cui è pure collegata la distinzione tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati[32].

Secondo l’opinione della giurisprudenza la  deduzione  dei  diritti  autodeterminati  dipenderebbe  da  un  puro meccanismo  di  designazione  legale  (titolazione,  appunto),  che  consentirebbe  di collegare la pretesa alla norma invocata senza la mediazione dei fatti storici su cui   si   fonda   l'acquisto   del   diritto;   fatti,   al   contrario,   da   cui   i   diritti eterodeterminati traggono senso e contenuto (sostanziazione, appunto) perché solo attraverso essi prende corpo il rapporto giuridico che ne è all'origine.

La Cassazione ha precisato che si ha emendatio libelli quando non si incide sulla causa petendi e sul petitum, ma si verte solo sull’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto o si quantifica meglio l’oggetto della domanda per renderlo idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.

Si ha, invece, una mutatio libelli quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio, oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia.

Inoltre, è opportuno ricordare che la Cassazione con la sentenza delle SS.UU. n. 12310 del 15 giugno 2015[33] ha affermato che «non  ha  alcuna  consistenza  ontologica  prenormativa  la  pretesa  differenza linguistica  tra  “mutamento”  e  “modifica”  da  alcuni  sostenuta  sulla  falsa  riga  del  binomio emendatio-mutatio  libelli[34]».

Successivamente con la sentenza n. 22404 del 13 settembre 2018 la Cassazione ha continuato ad alleggerire la rigidità strutturale e del sistema delle preclusioni del processo elaborando la nozione delle “modificazioni” di cui all’art. 183 comma VI n.1 c.p.c..

Nel ribadire il principio di diritto già affermato dal precedente giurisprudenziale, le Sezioni Unite nel 2018 affermano che la modifica del titolo di domanda (da quella di adempimento a quella di arricchimento senza causa) è ammessa, a norma dell’art.183, sesto comma n.1 c.p.c., e può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi) sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che perciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali[35].

Però, nell'attività di qualificazione o di riqualificazione dei fatti controversi, il giudice incontra il limite, derivante dall'art. 112 c.p.c., di non modificare il petitum e la causa petendi della domanda, vale a dire di non attribuire alla parte un effetto idoneo al  giudicato sostanziale  diverso  da  quello  richiesto. 

Alla luce delle posizioni espresse dalla giurisprudenza e qui sinteticamente riportate, sembrerebbe doversi concludere che non vi potrebbe essere identità strutturale o sostanziale tra rifugio politico e protezione sussidiaria, perché i due istituti hanno presupposti fattuali diversi, che coinvolgono accertamenti diversi.

In altre parole, rifugio politico e protezione sussidiaria, pur avendo subito un certo riavvicinamento dal punto di vista degli effetti in termini di contenuto della protezione riconosciuta, sono basati su presupposti (causa petendi) diversi e sono pertanto due domande autonome e distinte.

In linea generale pertanto, il giudice, al quale sia richiesto di attribuire una delle due protezioni, non potrebbe d’ufficio attribuire l’altra, se non con la conseguenza di violare il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. nella forma della pronuncia ultra petita.

Tuttavia, nella caso dei giudizi sul riconoscimento di una delle forme di protezione internazionale si deve registrare l’atteggiamento, quantomeno di una parte della giurisprudenza, di “fuga” dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, mentre un’altra parte della giurisprudenza, come ad esempio quella che oggi si commenta, cerca, correttamente, di trovare un delicato punto di equilibrio tra la possibile attenuazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c., giustificata dal fatto che in questo caso la giurisdizione non si esercita per la risoluzione di controversie esclusivamente tra privati, ma in materia di diritti fondamentali della persona, che peraltro versa in stato di particolare vulnerabilità, e contro l’amministrazione dello Stato, la quale deve perseguire non fini meramente individualistici ma quelli assegnati dall’ordinamento, ed ha pertanto interesse a che sia effettivamente riconosciuta la protezione internazionale ove ne sussistano i presupposti.

Il tema è oggetto di riflessione anche nella dottrina.

Secondo un’opinione diffusa, riflettendo sul modo in cui la materia della protezione internazionale plasmi in concreto l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte dei giudici interni ritiene di trovare una ragione idonea nell’obbligo di conformazione al principio eurounitario di tutela giurisdizionale effettiva[36]: «Il principio di tutela giurisdizionale effettiva, in particolare, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sancito dai richiamati artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e poi ribadito all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. È dunque compito dei giudici nazionali, secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 4 Tue, garantire la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti agli individui in forza delle norme del diritto dell’Unione. Le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi in materia interna (principio di equivalenza) né devono rendere praticamente impossibile od eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)[37]».

In effetti, l’art. 46, paragrafo 1 della Direttiva 2013/32/Ue prevede che gli Stati membri siano tenuti a disporre[38] che il richiedente abbia diritto a un rimedio effettivo dinanzi ad un giudice nei casi elencati in tale disposizione e, in particolare alla lettera a), punto i), ossia avverso la decisione di ritenere la domanda infondata in relazione allo status di rifugiato e/o allo status di protezione sussidiaria.

Tale principio, però, può testualmente trovare applicazione soltanto con riferimento agli istituti della protezione internazionale di matrice eurounitaria (nelle due forme dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria), mentre per quello che riguarda la c.d. protezione umanitaria, o quel che oggi ne rimane, che non ha matrice unionale, l’effettività della tutela va accertata secondo altri parametri.

Per quanto riguarda il caso in esame, dobbiamo dare atto del fatto di come in passato la Corte di giustizia abbia dichiarato non conforme al diritto dell’Unione il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ritenendo che tale principio desse luogo ad un formalismo idoneo a rendere troppo difficile l’accesso alla piena tutela giudiziale così come codificata negli atti normativi di matrice europea[39].

In quel caso, tutela del consumatore per vizi della cosa venduta, la Corte dichiarò che, nel sistema processuale spagnolo, un consumatore che avesse chiesto in giudizio unicamente la  risoluzione  del  contratto  di  vendita  di  un  bene fosse definitivamente privato  della  possibilità  di  usufruire  del  diritto  di  ottenere la  congrua  riduzione  del  prezzo, se  il giudice  nazionale  adito  avesse considerato  che,  in  realtà,  il  difetto  di  conformità  di  tale  bene  presentava  un carattere  minore. La Corte accertò che per dichiarare l’illegittimità della regola fosse sufficiente l’esistenza di un rischio non trascurabile che il consumatore non avesse proposto, neanche in subordine, una domanda di riduzione del prezzo anche solo a cagione del motivo di ignorare o non comprendere la portata dei suoi diritti. La Corte  considerò  che un  regime  processuale  di  questo  genere fosse  tale  da  arrecare  pregiudizio all’effettività della tutela dei consumatori voluta dal legislatore dell’Unione, giacché non consentiva al giudice  nazionale  di  riconoscere  d’ufficio  il  diritto  del  consumatore  ad  ottenere  una  congrua riduzione del prezzo di vendita del bene, quanto peraltro tale consumatore non era autorizzato né a precisare  la  sua  domanda  iniziale  né  a  proporre  un  nuovo  ricorso  a  questo  fine[40].

Al di là del fatto che la pronuncia indicata è stata dettata in tutt’altra materia rispetto a quella della protezione internazionale, per la quale anzi vertendosi in materia di diritti fondamentali della persone l’accesso alla tutela deve essere ancora più ampio rispetto a diritti dalla portata esclusivamente commerciale/patrimoniale, dobbiamo evidenziare che il principio di diritto espresso dalla Corte di Lussemburgo è quello di ritenere non compatibile con l’obbligo di assicurare un rimedio effettivo quel sistema processuale che obblighi ad anticipare la qualificazione giuridica della domanda con effetti preclusivi definitivi dell’esame di altre forme di tutela basate sui medesimi titoli, quando la qualificazione possa essere positivamente eseguita dal giudice  competente, al fine però di fare conseguire al ricorrente il medesimo bene della vita.

In altre parole, l’evidente asimmetria di posizione tra il richiedente protezione e la pubblica amministrazione, che in questo caso esercita poteri pubblici derivanti dal nucleo più atavico e ancestrale della sovranità statuale, giustifica l’attribuzione del potere officioso del giudice di cooperazione istruttoria, e una certa conformazione, a determinate condizioni, del modo in cui viene esercitato il potere giurisdizionale anche con riguardo all’esame delle domande.

La pronuncia 8819/20 della Cassazione si segnala anche per questo tentativo di volere individuare una giustificazione ragionevole tra attenuazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c. e tutela dei diritti del richiedente protezione.

Infatti, la prima questione affrontata dalla Suprema Corte riguarda la possibilità di attribuire al ricorrente la protezione internazionale nella forma del riconoscimento dello status di rifugiato, pur in presenza di una domanda che espressamente limitava il petitum alla sola protezione sussidiaria e in subordine alla protezione umanitaria.

Giova precisare sin da subito che la Corte ritiene legittimo l’esercizio della giurisdizione come concretamente svolto da parte del giudice di primo grado, il quale sia pure in presenza di una domanda limitata soltanto all’attribuzione della protezione sussidiaria e in subordine a quella umanitaria, come già detto, aveva sottoposto a scrutinio, d’ufficio, le allegazioni probatorie del ricorrente con lo scopo di verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, che il ricorrente non aveva chiesto espressamente, e ritenendole insufficienti a integrare i presupposti per lo status di rifugiato, aveva rigettato la domanda di rifugio politico, si ripete non chiesta.

Il principio non è nuovo, e sembra anzi chiaramente ispirato a quell’orientamento già emerso in passato nella Corte di legittimità, che viene apertamente richiamato anche dall’ordinanza 8819/20, espresso con l’ordinanza n. 14998 del 16 luglio 2015.

In quel caso[41] la Corte di legittimità aveva espressamente affermato in motivazione che «le informazioni oggettive sulla situazione generale e sulla mancata indicazione di una precisa eziologia del rischio, denunciato [sono] elementi che il giudice della protezione internazionale ha l'obbligo di verificare officiosamente anche al fine  di fornire una precisa qualificazione giuridica alla misura da adottare (o da respingere) e di  procedere ad una corretta sussunzione dei fatti nelle diverse ipotesi normative di persecuzione (per il rifugio) e di danno grave (per la protezione sussidiaria). Tale operazione ermeneutica relativa al nomen juris entro cui inquadrare la fattispecie concreta individuata, non costituisce uno degli elementi dell'onus probandi a carico della parte, integrando il nucleo dell'attività decisionale».  

In altre parole con la richiamata pronuncia 14998/2015 la Corte, da un lato aveva riaffermato un principio pacifico in giurisprudenza, e cioè che la qualificazione della domanda è compito che rientra nel nucleo essenziale dell’attività di cognizione del giudice, e che sempre al giudice compete il potere di riqualificare la domanda giudiziale, a prescindere dal nomen juris utilizzato dal ricorrente.

D’altro canto la Corte, in quella occasione, aveva concentrato l’attenzione soprattutto sulla necessità di tracciare il confine e circoscrivere il perimetro dell’onere probatorio a carico del richiedente protezione, legando l’accertamento e l’allegazione probatoria delle informazioni oggettive sul paese di origine e sulla causa del rischio allegati dal ricorrente a sostegno della propria domanda al dovere officioso di cooperazione istruttoria del giudice.

La Corte però non aveva chiarito in base a quale dato normativo ritenere mutuabili i due istituti dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria.

Ne discende che ciò che rileva secondo la recente pronuncia n. 8819/2020 della Cassazione «non è l'indicazione precisa della fattispecie di protezione internazionale che s'invoca, ma esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria».

La novità della pronuncia 8819/2020 è dunque costituita, come peraltro ricorda la motivazione dell’indicato provvedimento, nel fatto che la Corte ritiene di potere estendere tale principio anche «in presenza (come nella specie) di una espressa limitazione della domanda di protezione internazionale ad alcune soltanto delle sue possibili forme, poiché tale limitazione non può assumere il significato di una rinuncia tacita a quella non richiesta, sempre che i fatti esposti con l'atto introduttivo del giudizio siano rilevanti e pertinenti rispetto alla fattispecie non espressamente invocata».

In altre parole, la Corte rileva che il principio di cui all’art. 112 c.p.c., deve essere applicato anche al rito della protezione internazionale, ma che compito del giudice sia quello di indagare quale sia l’effettiva domanda di tutela della parte.

A tale fine l’indagine del giudice deve essere compiuta non valorizzando ipotetici elementi impliciti come quello della volontà tacita di rinuncia alla protezione superiore o diversa, che si prestano a facili interpretazioni non in linea con la reale volontà dell’avente diritto, ma sulla base di elementi oggettivi, quali i fatti allegati a sostegno della richiesta di giustizia, che è peraltro obbligo del giudice contribuire a ricercare in forza dei poteri officiosi di cooperazione istruttoria che gli vengono specialmente attribuiti.

Tale assunto però a mio avviso si giustifica, senza incorrere in violazioni dell’art. 112 c.p.c., se il fine dell’operazione ermeneutica del giudice è quello di individuare una risposta in termini di attribuzione/riconoscimento di bene della vita che sia congruente con i fatti allegati dalla parte e assunti nell’istruttoria del processo.

Ritengo che tale conclusione sia coerente con la natura dichiarativa del provvedimento finale di accoglimento della protezione internazionale.

Ricordo infatti che secondo l’opinione unanime il richiedente protezione si trova già nella condizione richieste per conseguire lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria e che il provvedimento dell’autorità amministrativa o di quella giurisdizionale valga soltanto ad accertare, non a costituire il diritto alla protezione internazionale.

In questo modo si salvaguarda il diritto della parte ad avere riconosciuto non attribuito lo strumento di protezione internazionale al quale ha diritto.

Per dare un’idea del rilievo della questione che oggi ci occupa, si consideri che in una pronuncia successiva e ancora più recente[42] la Corte è arrivata a negare espressamente che l’art. 112 c.p.c. trovi applicazione alle controversie in ordine al riconoscimento della protezione internazionale e che dunque alcuni principi generali del processo civile sembra che possano avere carattere recessivo innanzi ad una capacità conformativa della materia relativa alla protezione internazionale, in modo che il rito applicabile innanzi alle sezioni specializzate ne risulti ulteriormente fortemente destrutturato[43] e virato verso un modello inquisitorio.

Senza però che nelle pronunce indicate si rinvenga evidenza di uno sforzo motivazionale al di là di un semplice cenno apodittico alla rilevanza della materia che involge diritti fondamentali della persona.

Come abbiamo detto, riteniamo questa posizione in contrasto con i principi del giusto processo regolato dalla legge.

In realtà, se è comprensibile l’intento della giurisprudenza di non rendere eccessivamente difficile l’effettiva possibilità di accesso al riconoscimento giudiziale dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, ritengo doveroso, quantomeno, trovare una giustificazione normativa che riconosca la legittimità di tale estensione del potere del giudice.

Un primo riferimento normativo può essere considerato l’art. 46 comma 3 della Direttiva 2013/32/UE il quale stabilisce che «per conformarsi al paragrafo 1 gli Stati membri assicurano        che  un  ricorso  effettivo  preveda  l’esame  completo  ed  ex  nunc  degli  elementi  di  fatto  e  di  diritto  compreso,  se  del  caso,  l’esame  delle  esigenze  di  protezione  internazionale  ai  sensi  della  direttiva  2011/95/UE,  quanto  meno  nei  procedimenti  di  impugnazione  dinanzi  al  giudice  di  primo  grado».

Ai sensi della norma indicata si richiede dunque che l’esame sia completo e comprendente tutte le esigenze di protezione.

Il che potrebbe essere interpretato nel senso di ritenere che se il bene della vita oggetto della richiesta giudiziale di riconoscimento di una delle forme di protezione è la tutela effettiva dei propri diritti fondamentali, allora il fatto che il giudice attribuisca al richiedente l’una o l’altra forma di protezione non dovrebbe costituire violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Tale soluzione ci sembra confortata dal tenore letterale dell’art. 2 del Dlgs n.251 del 19 novembre 2007 a tenore del quale si intende per «a) «protezione internazionale»: lo status di rifugiato e di protezione sussidiaria di cui alle lettere f) e h); ((a-bis) 'beneficiario di protezione internazionale': cittadino straniero cui é stato riconosciuto lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria come definito alle lettere f) e h)».

Come si nota, al contrario del legislatore europeo che si riferisce al rifugio politico e alla protezione sussidiaria in termini alternativi, il legislatore italiano mantiene entrambe le forme di protezione sul medesimo piano.

Anche questo potrebbe essere un segno di ritenuta equiparazione tra le due forme della protezione internazionale.

A mio avviso, la complicazione che emerge al momento in cui si cerca di trovare una contiguità tra le forme di protezione, sconta il peccato originale derivante dalla scelta della giurisprudenza, quantomeno dal 2012, di non lasciare margine di rilevanza giuridica alla nozione di asilo politico di cui all’art. 10 comma 3Cost.

Senza l’accogliente alveo del diritto costituzionale di asilo, emergono tutte le diversità di disciplina normativa tra le due forme di protezione sia in termini di presupposti che di contenuti.

Diversità che difficilmente rendono compatibile l’ipotetica mutuabilità tra lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, tanto con il principio di cui all’art. 112 c.p.c. quanto con le regole sulla emendatio libelli.

I primi commentatori dell’ordinanza 8819/2020[44] hanno sottolineato che la Corte, nel ritenere possibile per il giudice di primo grado attribuire al richiedente una forma di protezione, tra lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria diversa da quella richiesta, ritiene non violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c. a determinate condizioni: «1) la natura autodeterminata dei diritti fondamentali; 2) l’idoneità dei fatti allegati a “contenere” l’accertamento giudiziale sulla domanda non proposta; 3) l’autonomo potere del giudice di qualificazione giuridica delle domande all’interno del quadro allegativo valutabile e la conseguente irrilevanza del nomen juris attribuito dalla parte; 4) l’individuazione di un unico limite alla cd. emendatio libelli, identificabile nell’introduzione di un nuovo tema d’indagine fattuale; 5) il richiamo al rilievo officioso delle nullità contrattuali e alla funzione pubblicistica del processo al fine di rafforzare, in chiave di effettività, secondo i principi costituzionali della tutela giurisdizionale, la soluzione accolta[45]».

Delle condizioni di cui ai punti 2), 3), 4) e 5) abbiamo già parlato.

Quanto al n. 1) ricordiamo che si intende per diritto autodeterminato il diritto individuabile in base alla «sola indicazione del relativo contenuto quale rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto».

Ora, da quello che ho sinteticamente riportato nella breve storia del diritto di asilo e delle forme di protezione internazionale, nonché dall’esame della direttiva e dal D.Lgs n. 251/2007 emerge che la tensione con il principio di corrispondenza è dovuta alla assenza di un confine ontologico tra la nozione di diritto di asilo di cui all’art. 10 comma 3 della Cost. e le forme di protezione internazionale.

Come ho detto all’inizio di questa riflessione, la giurisprudenza ha ritenuto di non volere attribuire più alcuna residua rilevanza al diritto di asilo di cui all’art. 10 comma 3 della Cost. probabilmente ritenendo autosufficiente il sistema armonizzato europeo sul diritto di asilo[46], anzi ritenendo che il moto evolutivo del diritto di asilo fosse giunto al termine, avendone la disciplina della protezione internazionale incorporato[47] ogni aspetto degno di giuridica rilevanza.

Viceversa, accogliendo una nozione unificante del diritto di asilo di cui all’art. 10 comma 3 della Cost. si consentirebbe di recuperare la dimensione costituzionale del diritto del richiedente protezione  e attribuire valore alle forme della protezione internazionale quali condizioni determinate dal legislatore per il concreto dispiegarsi del diritto di asilo.

Per fare ciò si potrebbe sia consentito avvalerci dei risultati della riflessione di Giorgio Pino[48] il quale nel tentativo di tracciare una soluzione alla banalizzazione dei diritti determinata propone la costruzione di una definitoria dei diritti fondamentali basata su una struttura “molecolare”, un insieme più o meno complesso di posizioni soggettive hohfeldiane (pretese, libertà, poteri, immunità)[49], costituita da un nucleo fondamentale e un perimetro protettivo.

Rileva Pino che «più precisamente, un diritto soggettivo comprende solitamente, per un verso, una o più posizioni soggettive che ne rappresentano il “nucleo”, e per altro verso altre posizioni soggettive che fungono da “perimetro protettivo”[50]».

Lo stesso autore ricorda che «Il nucleo del diritto corrisponde alla maniera più immediata di soddisfare  l’interesse che giustifica l’attribuzione del diritto stesso. Così, assumendo banalmente che il diritto alla libertà di espressione tuteli l’interesse sostanziale ad esprimere le proprie opinioni, il nucleo sarà rappresentato da una posizione soggettiva di libertà (= assenza di un divieto) il cui contenuto è l’espressione delle proprie opinioni. Il perimetro protettivo ha invece la funzione di assicurare la protezione e il godimento del contenuto del nucleo del diritto: ad esempio, può includere pretese di non interferenza, poteri di attivare istituti di garanzia, immunità dalla privazione di quel diritto, ecc. Tale struttura potrà essere più meno complessa a seconda del tipo di diritto con cui abbiamo a che fare. Tipicamente, un diritto fondamentale, di solito riconosciuto da uno o più principi, avrà una struttura più complessa rispetto ad un diritto più specifico attribuito da una regola».

Nel caso del diritto di asilo, si potrebbe porre al centro della struttura, al c.d. “nucleo”, il diritto costituzionale di asilo di cui all’art. 10 comma 3 Cost.

Il suo contenuto identificativo sarebbe costituito dalla protezione accordata da uno Stato a colui il quale non vengano riconosciute le libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione.

Attorno al nucleo fondamentale si potrebbe collocare il perimetro protettivo, costituito dalle norme attributive dello status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dai casi di protezione umanitaria.

In tal modo, si tornerebbe a riconoscere la consistenza di diritto soggettivo e la portata immediatamente  precettiva del diritto di asilo costituzionale, che era misteriosamente sparita nella degradazione a posizione processuale e strumentale al riconoscimento dello status di rifugiato.

Inoltre se ne riaffermerebbe l’autonoma rilevanza e l’ampiezza che i costituenti avevano disegnato nel tenore letterale dell’art. 10 comma 3 Cost.

Infine, la domanda di una delle forme di protezione non incorrerebbe mai nella violazione dell’art. 112 cpc, in quanto tutte le forme di protezione sarebbero unificate nella funzione protettiva del medesimo diritto di asilo.

La soluzione concettuale che propongo permetterebbe di superare la critica espressa da chi[51] ha rilevato che «se la situazione giuridica soggettiva a cui l’art. 10, co. 3, Cost. dà corpo si trovasse per ipotesi a “refluire” nello status di rifugiato, nella protezione sussidiaria e/o nella protezione umanitaria si assisterebbe, prima di tutto, ad una singolare inversione sul piano precipuo dell’ermeneutica costituzionale: quella per cui, piuttosto che interpretare la legislazione alla luce della Costituzione, si compirebbe il percorso logico inverso, riempiendo di contenuti legislativi, al costo di plurime forzature, l’enunciato costituzionale di riferimento[52]».

Infatti, nella costruzione oggi proposta, non è il diritto di asilo a refluire nelle forme della protezione internazionale, ma sono queste ultime a promanare dal nucleo fondamentale costituito da diritto di asilo costituzionale.

Con ampliamento e stabilizzazione della tutela dei diritti fondamentali della persona richiedente protezione.

Infine, riteniamo che tale soluzione permetterebbe anche di colmare i vuoti di tutela emergenti a seguito dell’avvenuta abrogazione dalla  protezione umanitaria[53] ad opera della L. 132/2018 di conversione del D.L. 113/2018.

La c.d. protezione umanitaria era uno strumento di tutela del diritto d’asilo considerato atipico e residuale, previsto da una disposizione non di matrice eurounitaria, ma di origine interna , l’art. 5, co. 6 del d.lgs. 286/98 (Testo Unico sull’Immigrazione), che trovava applicazione nei casi in cui non sussistessero i presupposti fissati dalla normativa europea per la concessione delle due forme di protezione internazionale, lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, ma residuassero comunque in capo allo straniero profili di vulnerabilità meritevoli di salvaguardia da parte dello Stato, da accertarsi caso per caso[54].

5. Conclusioni

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato obbliga la parte e il giudice a identificare con precisione

É dunque evidente che tanto due istituti  tendono a sovrapporsi e a non possedere un chiaro distinguo, tanto più una volta che i medesimi siano tradotti in termini di domanda giudiziale è facile che si generino  tensioni con il principio dispositivo e con quello di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Spero di essere riuscito a mettere in evidenza l’importanza che riveste il fatto di prendere il diritto di asilo seriously[55].

Se è vero che per un certo periodo di tempo il diritto di asilo costituzionale sembrava essere destinato ad  essere relegato a norma programmatica[56], priva di forza precettiva, bisogna dare atto alla giurisprudenza di avere compiuto scelte coraggiose e affatto scontate, affermandone il carattere immediatamente precettivo.

Oggi sembra che siamo arrivati al punto in cui il diritto di asilo stia vivendo una fase tra la fanciullezza e l’età adulta, alla strana e incomprensibile ricerca di una identità autonoma rispetto alle norme sulla protezione internazionale.

È come se la giurisprudenza, che pure ne aveva decretato l’inizio del moto evolutivo, oggi trovi l’ampia previsione di un diritto costituzionale di asilo un ospite scomodo, rispetto al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione sussidiaria, che con le loro procedure codificate offrono binari tracciati e impegno ermeneutico maggiormente confortevole.

Forse trascurando il fatto che la giustificazione stessa dell’esistenza della protezione internazionale, a mio avviso, respira e vive grazie al suo nucleo, il diritto costituzionale di asilo.

Sebbene sia opinione diffusa che in politica non vi siano spazi vuoti, è vero invece che la politica in alcuni settori ha lasciato degli spazi, che la giurisprudenza ha avuto necessità di colmare.

Ma la funzione di supplenza del potere giurisdizionale nei confronti del potere politico non può essere eterna, soprattutto in un ordinamento costituzionale basato sulla sovranità popolare e sulla Costituzione.

La giurisprudenza dovrebbe applicare i diritti costituzionali, lasciandone l’attuazione agli organi del potere politico. Per  usare un’espressione di  Joseph  Raz, «i  diritti costituzionali  sono  congegni  per  effettuare  una  divisione  di  potere  tra  i  vari organi dello stato[57]».

Ciò è vero soprattutto nel secolo scorso, quando con l’elaborazione delle costituzioni lunghe e rigide sono stati creati i cataloghi dei diritti e li si è elevati a limite di contenuto della sovranità statale: «Se lo stato liberale ottocentesco – lo stato di diritto – riconosce  come  unici  o  principali  limiti  alla  sovranità  statale  le  “procedure”  che  l’autorità  legittima  deve  rispettare  per  creare  diritto  valido,  lo  stato  costituzionale  aggiunge, ai limiti procedurali, anche limiti “sostanziali”, di “contenuto”, che impediscono che il potere costituito possa fare o decidere tutto ciò che vuole. La crisi della  sovranità  implica  anche  una  nuova  ripartizione  del  potere  normativo  tra  gli  organi dello stato»[58].

Come ho detto più volte in questo scritto secondo la mia opinione il diritto di asilo è, o dovrebbe essere, il punto di partenza non di arrivo di un processo ermeneutico che deve partire dal riconoscimento che la Costituzione italiana del 1948 vuole che il nostro ordinamento sia aperto e che sia aperto non in modo arbitrario o ingenuamente retorico.

Anzitutto, dovrebbe esserlo nei confronti delle persone vulnerabili.

Isabel Trujillo ha osservato che «In  ogni  caso,  che  i  soggetti  dei  diritti  debbano  essere  protetti  non  risponde  tanto all’immagine dello scudo per un individuo forte in se stesso, ma piuttosto corrisponde  alla  consapevolezza  della  vulnerabilità […]. Nel  nostro  tempo  si  possono,  però,  notare  alcune  sfumature  specifiche  relative  alla estensione  ed  alla  percezione  della  vulnerabilità  degli  esseri  umani»[59].

Non è certamente un caso la collocazione delle norme sugli stranieri siano poste dopo quelle sul recepimento delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.

Così come l’art. 10 comma 1 costituisce un meccanismo di adattamento automatico dell’ordinamento in senso di diritto oggettivo verso l’ordinamento internazionale[60], così le norme sullo straniero e sul diritto di asilo determinano l’apertura permanente dell’ordinamento alle persone.

Non tutte le persone però, ma solo quelle che, per la particolare situazione che stanno vivendo, per essere costrette a subire la restrizione dei propri diritti, si trovino in condizione di vulnerabilità[61].

In altre parole, mentre il comma 1 dell’art. 10 Cost. ci dice che il nostro ordinamento non è una «monade chiusa», e che nel dinamico svolgersi della sua vita, respira e si modifica adattandosi alle regole universali della comunità internazionale[62], l’art. 10 comma 3 Cost. ci impegna a far si che le libertà democratiche conquistate dopo le discriminazioni degli Stati nazionali siano riconosciute non soltanto ai cittadini, ma a coloro che ne avessero bisogno, soprattutto se stranieri.

Ecco perché ritengo che si possa affermare che, in senso descrittivo e non precettivo, il diritto di asilo così come riconosciuto dalla nostra Costituzione, possa essere definito come il diritto, dello straniero, a ritrovare i propri diritti.

La centralità e l’importanza del riconoscimento dei diritti degli altri è una caratteristica della pratica dei diritti, infatti è stato scritto che «Rispetto alle rivendicazioni dei diritti del passato, una caratteristica significativa dell’attuale configurazione della pratica dei diritti è che essa è centrata più sulla responsabilità nella tutela dei diritti degli altri, senza distinzioni, che nella rivendicazione dei propri diritti, anche se certamente c’è posto anche per questo. I diritti umani non sono innanzitutto diritti per noi, ma diritti degli altri, che bisogna proteggere, ed in particolare che gli stati si impegnano a proteggere. Un carattere saliente della pratica consiste appunto nella rivendicazione di diritti per altri soggetti[63]».

Non esistono diritti senza comandi morali[64].

Il concetto che sta alla base del diritto di asilo è dunque il fatto che come ordinamento costituzionale il nostro è impegnato a riconoscere i diritti degli altri.

In una delle ultime interviste Stefano Rodotà diceva: «Mi sembra che il commento di Luigi Zoja sulla parabola del buon samaritano sia calzante. Qui Cristo mostra il contenuto rivoluzionario del suo messaggio: bisogna amare lo straniero, non il prossimo. Amare lo straniero è il punto chiave della solidarietà. La solidarietà per vicinanza, per appartenenza, sono facili. La solidarietà dev’essere praticata in tempi difficili che spingono anche a rotture. Se viene abbandonata, vengono meno le condizioni minime della democrazia, cioè il riconoscimento reciproco e la pace sociale. Con Jürgen Habermas dico che la solidarietà è un principio che può eliminare l’odio tra gli stati ricchi e quelli poveri. La solidarietà serve infatti a individuare i fondamenti di un ordine giuridico mancando il quale tutte le nostre difficoltà si esasperano sul terreno personale e su quello sociale»[65].

Rinunciare al diritto di asilo costituzionale significa rinunciare ad una parte dei valori  che l’Assemblea Costituente ha posto alla base del nostro ordinamento e alla scelta di visione che si basa non soltanto nel riconoscimento dell’altro, che costituisce la pretesa universalistica formale dei diritti, ma nella autentica proiezione verso l’altro.

Con una suggestiva ed efficace immagine è stato detto che  «Il riconoscimento universale dei diritti umani può essere paragonato al varo di una  nave  che  poi  bisogna  sapere  accompagnare  in  acque  aperte  e  spesso tempestose[66]».

Il diritto di ritrovare i propri diritti ne potrebbe essere il timone.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] I.TRUJILLO, I diritti umani e il problema della legittimità e della giustizia  dell’ordine internazionale, in Ragion pratica, Fascicolo 1, Giugno 2009.

[2] I.TRUJILLO, Ibidem, 21.

[3] A.SCIURBA, Al confine dei diritti. Richiedenti asilo tra normativa e prassi, dall’hotspot alla decisione della Commissione territoriale, in Questione giustizia, 02/2018.

[4]  S.CASTLES e M.J.MILLER, L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya, Bologna, 2012.

[5]  Con la decisione del 7 gennaio 2020 resa in Teitiota c. Nuova Zelanda, il Comitato dei diritti umani dell’Onu segna per la prima volta il riconoscimento di due fondamentali principi di diritto internazionale: da un lato ammette che gli effetti dei cambiamenti climatici possano comportare una violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani o degradanti e, dall’altro, per la prima volta in assoluto, stabilisce che il rischio di subire tali effetti nel Paese di origine genera il divieto di respingimento (non refoulement) da parte di Stati terzi.

[6]   L'espressione originaria è di M.FIORAVANTI da ultimo in «Art. 2 Costituzione italiana». Carocci, Roma, 2018 e viene riferita al duopolio asilo-protezione internazionale da L.MINNITI in La Costituzione italiana come limite       alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero in Europa, in Questione giustizia, 2/2018.

[7]    L.MINNITI, Ibidem.

[8]    «tout homme persécuté en raison de son action en faveur de la liberté a droit d'asile sur les territoires de la République»; tale enunciazione è stata riprodotta testualmente nella Costituzione del 1958.

[9]    Il 7 marzo 2017, nel caso X e X contro Belgio, C-638/16 PPU, la Grande Sezione della Corte di giustizia si è pronunciata riguardo al rilascio di visti umanitari da parte degli Stati membri dell’Unione europea. Secondo la Corte, consentire a cittadini di paesi terzi di presentare domande di visto finalizzate ad ottenere il beneficio di una protezione internazionale nello Stato membro di loro scelta lederebbe l’impianto generale del sistema istituito dall’Unione per determinare lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale. La CEDU, seguendo le orme segnate dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nell’analogo caso X e X c. Belgio deciso il 7 marzo 2017, ha optato per un’interpretazione restrittiva degli obblighi incombenti sugli Stati contraenti nei confronti di persone in fuga da guerre o persecuzioni. I giudici di Strasburgo hanno infatti escluso che presentare una richiesta di visto umanitario presso la rappresentanza diplomatica di un Paese terzo possa comportare un’applicazione “extraterritoriale” della Convenzione e far quindi sorgere una responsabilità in capo allo Stato per la possibile violazione dell’art. 3 della CEDU. Per un commento A.PASQUERO, M.MICHELETTI, E.RIFFALDI, Anche la Cedu chiude ai visti umanitari, Questione giustizia, https://www.questionegiustizia.it/rivista/fascicolo-1-2020-21004.

[10]  Il richiamo al “territorio della Repubblica” di cui all’art. 10 comma terzo Cost. deve essere inteso non tra le condizioni della richiesta di asilo, che il legislatore costituente ha rimesso alla legislazione ordinaria successiva, ma come modalità di esercizio dell’ottenuto asilo. In altre parole quale diritto a permanere sul territorio della Repubblica, e non oltre il territorio della Repubblica, una volta ottenuta la protezione garantita dalla norma costituzionale. La questione è stata messa in luce in un noto caso giudiziario avente come protagonista il dissidente curdo Abdullah Öcalan in occasione del quale il Tribunale di Roma, con sentenza n. 49565 del 01 ottobre 1999, ha riconosciuto al leader curdo il diritto di asilo costituzionale, sebbene egli fosse al momento della pronuncia recluso in un carcere turco, sul presupposto che ‹‹la presenza del richiedente diritto di asilo non è condizione necessaria per il conseguimento del diritto stesso››; Per un maggior approfondimento riguardo alla vicenda Öcalan, si v. anche: S.ANNIBALE, Il caso Öcalan, in Rivista penale, n.1/1999; E.ANTONINI, Il caso Öcalan. Profili di diritto interno, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n.3/1999, 370ss.; G.PALOMBARINI, Del caso Öcalan e dintorni, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.4/1999, 53ss.

[11]  Cass., sez. un., sent. n. 907/1999

[12]  Cass., sez. I, sent. n. 8423/2004

[13]  Cass., Ibidem.

[14]  Cass., sez. I, sent. n. 25028/2005 del 25novembre 2005, in Foro it., 2006, pt.I, col.2851 sulla quale si v. E.CAVASINO, Un passo indietro nell’interpretazione dei rapporti fra diritto d’asilo e status di rifugiato nell’ordinamento italiano, in Giurisprudenza italiana, n.2/2007, 318ss.; L.MELICA, La Corte di cassazione e l’asilo costituzionale: un diritto negato? Note alle recenti sentenze della prima sezione della corte di Cassazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.4/2006; S.E.PIZZORNO, La Cassazione svuota l’asilo politico «costituzionale», in La nuova giurisprudenza civile commentata, n.5/2007.

[15] L’indicato cambio di rotta della Cassazione, invero della sua Sez. I, ha trovato la critica quasi unanime della dottrina: S.FURLAN, Diritto di asilo in base all’art. 10, 3° comma, Cost. e status di rifugiato, in Rivista di diritto internazionale, 2006, 1095; L.MELICA, Op. cit.; P.PASSAGLIA, Eutanasia di un diritto, in Il foro italiano, 2006, pt. I, 2852-2853; E.CAVASINO, Ancora sui rapporti fra asilo e rifugio, in Il foro italiano, 2007, pt. I, 1871 e ss.; Id, Un passo indietro nell’interpretazione dei  rapporti fra diritto d’asilo e status di rifugiato nell’ordinamento italiano, in Giurisprudenza italiana, 2007, 320 e ss.; S. E.PIZZORNO, La Cassazione svuota l’asilo politico «costituzionale», in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2007, pt. I, 614; G.M RUOTOLO, Diritto d’asilo e status di rifugiato in Italia alla luce del diritto internazionale e della prassi interna recente, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, 1819 e ss.; N.SCATTONE, Il diritto d’asilo in Italia e in Francia, in Quaderni costituzionali, 2008, 79 e ss.; P.PALERMO, Problematiche relative alla mancata attuazione normativa in Italia del diritto di asilo, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2009, pt. II, 329 e ss.; a favore dell’opinione espressa dalla Cassazione S.DEL CORE, Diritto d’asilo e status di rifugiato nella giurisprudenza di legittimità, in Giustizia civile, 2007, pt. II, 136 e ss.

[16] Cass., sez. VI, ord. n. 10686/2012

[17]  Cass., Ibidem.

[18]  Cass., Ibidem.

[19] Prima dell’abrogazione di cui si dirà infra.

[20]  Così M.BENVENUTI, La forma dell’acqua. Il diritto di asilo costituzionale tra attuazione, applicazione e attualità, in Questione giustizia n. 02/2018 il quale riporta un noto luogo di N.BOBBIO, Intorno all’analisi funzionale del diritto, [1975], in Id., Dalla struttura alla funzione, Roma-Bari, 2007, 100, «l’analisi strutturale, attenta alle modificazioni della struttura, e l’analisi funzionale, attenta alle modificazioni della funzione, debbono essere continuamente alimentate e procedere di pari passo».

[21] Per una estesa analisi dei passaggi evidenziati nelle sentenze indicate si rimanda a M.BENVENUTI, Ibidem.

[22] A.CASSESE, Art. 10-12, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975,  539 ss.; M.BENVENUTI, Il diritto di asilo cit.,  214 ss.

[23] E.CAVASINO, Il diritto d’asilo nell’ordinamento italiano, in La tutela dei diritti umani in Europa, a cura di A. Caligiuri et al., Padova, 2010, 325 ss.; Id., Le trasformazioni del diritto d’asilo, in Nuove autonomie, 2013, 398; F.MASTROMARTINO, Il diritto d’asilo, Torino, 2012, 180; F.SCUTO, I diritti fondamentali della persona quale limite al contrasto dell’immigrazione irregolare, Milano, 2012, 343-344; L.GRASSO, L’asilo costituzionale in Europa, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2013, 772 ss.; G.MICCIARELLI, Il diritto d’asilo “dimenticato”, in La gestione dei flussi migratori tra esigenze di ordine pubblico, sicurezza interna ed integrazione europea, a cura di A. Di Stasi e L. Karb, Napoli, 2013, 273 e 280 ss.; E.XHANARI, Brevi riflessioni in tema di sostanziale disconoscimento del diritto costituzionale d’asilo nella recente giurisprudenza di legittimità, cit. nt. 35, 11 ss.; D.VITIELLO, Verso un sistema di protezione internazionale più sostenibile e garantista?, cit. nt. 35, 26 ss.; la posizione contraria è riportata infra, nt. 42 e nt. 43 ed è altresì sostenuta da C.FAVILLI, La protezione internazionale nell’ordinamento dell’Unione europea, in Procedure e garanzie del diritto di asilo, Padova, 2011, 143 ss.; R.FINOCCHI GHERSI, Il diritto di asilo in Italia e in Europa, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2011, 917 ss.; M.ASPRONE, Il diritto d’asilo e lo status di rifugiato, Roma, 2012, 40 ss.; G.PIZZOLANTE, Diritto di asilo e nuove esigenze di protezione internazionale nell’Unione europea, Bari, 2012, 122 ss.

[24] Sulla semplificazione dei riti ed in particolare sul modello modificato di processo sommario di cognizione F.RUSSO, La “semplificazione” dei riti civili, Roma, 2011.

[25] Si rimanda a G.BUFFONE, Il nuovo “processo accelerato” (e in unico grado) di protezione internazionale, ilprocessocivile.it,  il quale evidenzia che il legislatore «modifica, inoltre, il tempo di chiusura del processo da sei mesi a quattro mesi. Secondo il legislatore, dunque, passando dal rito sommario al rito camerale dovrebbe essere possibile definire le controversie con un terzo di tempo in meno. Ciò, ben inteso, con flussi in ingresso invariati e l'esponenziale aumento del contenzioso inalterato; ciò, inoltre, dando atto – nella relazione illustrativa – che, in genere, già solo il tempus compreso tra deposito del ricorso e fissazione dell'udienza è, oggi, in media, di dodici mesi».

[26] F.COCCIA, Le Sezioni Unite delimitano l’ambito applicativo dell’abrogata “protezione umanitaria”, Rivista Cammino diritto, pubblicazione Luglio 2020.

[27] F.RUSSO, La rilevabilità d’ufficio delle nullità nel sistema delle eccezioni secondo le Sezioni Unite (note in margine a Cass. sez, un. 26242 e 26243 del 12 dicembre 2014), Diritto Civile contemporaneo, Anno II, numero I, gennaio/marzo 2015.

[28] Per una  ricostruzione di come le due anime convivano anche nel nostro processo civile si rimanda a F.RUSSO, Op. ult. cit.

[29] per uno studio del concetto di eccezione, e sulla polisemia del vocabolo, v. F.RUSSO, Contributo allo studio dell’eccezione, Roma, 2014.

[30]  È la previsione costituzionale di un processo "giusto", che «impone al giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l'interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di una ermeneutica tralascia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale».

[31] Sul diverso modo di concettualizzare il rapporto tra diritti e azioni nella tradizione degli ordinamenti di common law e di quella di civil law si v. G.SMORTO, Sul significato di rimedi, in Europa e diritto privato, 1/2014, 132.

[32] Secondo Cass. civile, sezione seconda, sentenza del 31.3.2014, n. 7502:«I primi sono quelli la cui individuazione prescinde dal titolo d'acquisto allegato  ed  è  motivata  in  relazione  alla  natura  unica  ed  irripetibile della  situazione  sostanziale  dedotta;  lì  dove,  invece,  l'identificazione dei secondi è in funzione dello specifico fatto storico contrattualmente qualificato, sicché la causa petendi si risolve nel riferimento concreto a quel fatto specifico che è affermato ed allegato come costitutivo, e che perciò  possiede  una  specifica  attitudine  a  individuare  il  diritto  fatto valere in giudizio (cfr. per tutte, Cass. n. 7267/97)». Sulla distinzione tra domande autodeterminate e domande eterodeterminate si v. in dottrina A.CERINO CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Comm. c.p.c. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 177 ss.; C.CONSOLO, Domanda giudiziale (diritto processuale civile), in Dig. civ., VII, Torino, 1991, 44 ss.

[33]  Cass. SS.UU., sent. n. 12310 del 15 giugno 2015, in «Foro it.», 2015, I, coll. 3188 e 3190, con osservazioni  di  M. CICCONE  e  nota  di  A.MOTTO, Le  sezioni  unite  sulla  modificazione  della  domanda giudiziale; in «Corriere giur.», 2015, 968 ss., si v. altresì la nota di C.CONSOLO, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e  irriducibilmente)  diverse  da  quella  originaria  cui  si  cumuleranno,  in  «Giur.  it.»,  2015; la decisione è stata commentata anche da G.F.RICCI, I nuovi confini del binomio mutatio-emendatio libelli come  ridisegnati  dalla  Corte di cassazione a sezioni unite del 2015,  in judicium.it.

[34]  In  questo  senso  si era già espressi V.ANDRIOLI, Commento  al  codice  di  procedura  civile,  Vol.  II,  Napoli, 1945,  secondo  cui  il  concetto  di  modifica  non  sarebbe  «logicamente  distinto  da  quello  di  mutamento»; G.BALENA, Riforma  del  processo  civile.  Art.  183:  prima  comparizione  delle  parti  e  trattazione  della  causa,  in Nuove  leggi  civ.  comm.,  2006,  4-5,  945; secondo S.SATTA, Guida  pratica  per  il  nuovo  processo  civile,  Padova,  1942,  41,  «modificazione  si  contrappone  a mutamento,  che  implica  domanda  nuova».

[35] M.AVOSSA, L’arricchimento senza causa al vaglio delle Sezioni Unite civili, Rivista Cammino Diritto, pubblicazione Novembre 2018 e bibliografia ivi citata.

[36] I.PAGNI, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enciclopedia del Diritto, Annali, 2017, 355, ss. e G.VETTORI, Effettività delle tutele (diritto civile), ibidem, 2017.

[37] La citazione è tratta da: M.FLAMINI, Il ruolo del giudice di fronte alle peculiarità del giudizio di protezione internazionale, Questione giustizia n.02/2018.

[38] Si coglie l’assenza duna norma procedurale armonizzata in assenza della quale gli Stati membri sono liberi di regolare  gli atti normativi interni gli aspetti procedurali e processuali relativi ai diritti oggetto dell’intervento normativo unionale (c.d. principio dell’autonomia processuale).

[39] causa C-32/12, Soledad Duarte Hueros / Autociba SA, Automóviles Citroën España SA.

[40] Nel sistema spagnolo descritto alla Corte di Giustizia vige la regola che il giudicato copre il dedotto ed il deducibile

[41] Cass. Ord. n. 14998 del 16 luglio 2015.

[42] Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12948 nella cui motivazione espressamente si afferma «Quanto al primo motivo, mediante il quale è stato denunciato un vizio di ultrapetizione, a causa dell’esame da parte del Tribunale di una richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato non avanzata dal ricorrente, rileva il Collegio che nei giudizi in materia di protezione internazionale non si applica il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato quale previsto dal codice di rito perché, in base alle direttive UE, nel ricorso introduttivo viene formulata una domanda unica a oggetto indistinto, per effetto della quale il giudice può attribuire una qualunque forma di protezione (internazionale o complementare) che ritenga adeguata ai fatti allegati dell’interessato (vedi, per tutte: Cass. SU 11 dicembre 2018, n. 32046; Cass. 24 marzo 2011, n. 6879, Cass. 18 febbraio 2011, n. 4139, Cass. 21 novembre 2011, n. 24544; Cass. 16 luglio 2015, n. 14998; Cass. 6 febbraio 2018, n. 2875; Cass. 27 marzo 2020, n. 7546; Cass. 12 maggio 2020, n. 8819)».

[43] Nota incisivamente al riguardo G.MONTELEONE, Diritto processuale civile, 2^ ed., Padova 2000, 1225: «[…] quando il procedimento camerale viene distolto dal suo oggetto e trasferito alla materia contenziosa, deve subire i necessari adattamenti alle garanzie ineliminabili nella giustizia civile, che sono pure costituzionalmente presidiate. Esso viene, quindi, notevolmente alterato rispetto al suo ordinario schema, anche perché non sarebbe sufficiente il solo cappello del ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost. per legittimare, infine, ciò che legittimo non è. Ma allora la c.d. “cameralizzazione” diventa inutile, perché di fatto con gli adattamenti in discorso ci ritroviamo di nuovo con un processo ordinario». Id., Il processo civile alla luce dell'art. 111 Cost., in Giustizia Civile, 12/2001, parte seconda; V. anche, nel medesimo senso A.CERINO CANOVA, Per la chiarezza di idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, 478; A.ATTARDI, Diritto processuale civile, I,  43-44.

[44]  La Cassazione torna (con molte novità) sul delicato tema del bilanciamento tra valutazione di credibilità vs. dovere di cooperazione istruttoria, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-cassazione-torna-con-molte-novita-sul-delicato_05-06-2020.php

[45] Ibidem.

[46] E.CANNIZZARO, L’armonizzazione del diritto d’asilo in sede comunitaria e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, in Rivista di diritto internazionale, 2001; A.DEL GUERCIO, La seconda fase di realizzazione del sistema europeo comune d’asilo, in Osservatorio Costituzionale, settembre 2014; A.GERACI, “There is not enough union in this Union”. Principio di solidarietà e Sistema di Dublino alla prova del più imponente esodo di profughi dal secondo dopoguerra, in Federalismi.it, 4 maggio 2016.

[47] Così si esprime M.G.GLIATTA, La garanzia costituzionale del diritto di asilo e il sistema di tutela europeo dei richiedenti protezione internazionale: quando l’integrazione non funziona, in Federalismi.it, Focus human rights, 27 dicembre 2017.

[48] G.PINO, Crisi dell’età dei diritti?, Etica & Politica / Ethics and Politics, XV, 1, 2013,  87-119.

[49] W.N.HOHFELD, Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial Reasoning (1913), in  D.  Patterson  (ed.  by), Philosophy of Law and Legal Theory. An Anthology,  Blackwell,  Oxford, 2003, 295-321. Per alcune esposizioni della teoria di Hohfeld, cfr. A.ROSS, Diritto e giustizia (1958),  Einaudi,  Torino,  1965,  151-159;  J. FINNIS, Some Professorial Fallacies about Rights, in «Adelaide Law Review», vol. 4, 1972, 377-388 (ma solo relativamente a pretesa e libertà,  e  concetti  correlativi);  Id., Natural  Law  and  Natural  Rights,  Clarendon  Press,  Oxford, 1980, 199-202; J. WALDRON, Introduction,  in  J.  Waldron  (ed.  by), Theories of Rights,  Oxford  U.P.,  Oxford,  1984,  5-8;  B.CELANO, I diritti nella jurisprudence anglosassone contemporanea Da Hart a Raz, in «Analisi e diritto», 2001, 1-58.

[50] L’idea del “perimetro protettivo” dei diritti risale a H.L.A.HART, Legal Rights,  171-173; cfr. anche R.ALEXY, Teoria dei diritti fondamentali,  255-257; M.KRAMER, Rights Without Trimmings,  11-12; C.WELLMAN, Interpreting the Bill of Rights: Alter-native Conceptions of Rights, p. 239; Id., The Proliferation of Rights,  8-9 (distinzione tra il core e gli associated elements di ciascun diritto).

[51] M.BENVENUTI, La forma dell’acqua cit.

[52] M.BENVENUTI, Ibidem.

[53] Per un’analisi approfondita delle caratteristiche della protezione umanitaria, si veda N.ZORZELLA, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, Fascicolo n. 1/2018.

[54] Cass. Civile 27 novembre 2013, n. 26566, nella quale si legge «le situazioni di vulnerabilità che possono dar luogo alla richiesta di rilascio di un permesso per motivi umanitari da parte delle Commissioni territoriali o del giudice in sede di giudizio d'impugnazione, costituiscono un catalogo aperto non necessariamente fondato sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o l'incolumità psicofisica secondo la declinazione dell'art. 14 del d.lgs n. 251 del 2007».

[55] Nel senso di R.DWORKIN, Taking rights seriously, Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1977.

[56] Corte Cost., sent. n. 1 del 14 giugno 1956.

[57] J. RAZ, The  Morality  of  Freedom,  Clarendon  Press,  Oxford,  1986, 257.

[58] A.SCHIAVELLO, Op. ult. cit., 256.

[59] I.TRUJILLO, Diritti umani e diritto umanitario: convergenze, complementarietà e deroghe, in Diritti umani e soggetti vulnerabili. Violazioni, trasformazioni, aporie, a cura di T. CASADEI, Torino, 2012.

[60] T.PERASSI, La costituzione italiana e l’ordinamento internazionale, in Scritti giuridici, vol. II, Milano, 1958, 429 ss.

[61] A.SCHIAVELLO, Vulnerabilità, concetto di diritto e approccio clinico-legale, Etica &Politica, XXI(3), 2019, 255-277.

[62] Sulla difficoltà di attribuire effettivamente tale valore a regole che sembrano essere ormai consolidate si v. M.STARITA, Il dovere di soccorso in mare e il diritto di obbedire al diritto (internazionale) del comandante della nave privata, in Diritti umani e diritto internazionale, 01/2019, 5-48.

[63] I.TRUJILLO, Il problema dell’adozione e del matrimonio omosessuale nell’attuale pratica dei diritti umani, Pensare il diritto, http://www.pensareildiritto.it/wp-content/uploads/2015/01/Relazione-Prof.ssa-Trujillo.pdf

[64] F.VIOLA, I diritti umani alla prova del diritto naturale, in Persona y Derecho, 23(2), 1990; A.SCHIAVELLO, L’obbligo di obbedire al diritto, In G. PINO, A. SCHIAVELLO, & V. VILLA, Filosofia del diritto. Introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, Torino, 2013.

[65]https://ilmanifesto.it/la-parola-chiave-di-stefano-rodota/

[66] A.SCHIAVELLO, La fine dell’età dei diritti, Etica & Politica / Ethics & Politics, XV, 2013