Pubbl. Lun, 27 Lug 2020
La legittimità costituzionale delle sanzioni disciplinari (militari) di corpo della consegna e della consegna di rigore
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Raffaele Russo
L´articolo si propone di sollevare dubbi sulla legittimità costituzionale degli artt. 1358, 1361 e 1362 del D.Lgs. 66/2010 (Codice dell´Ordinamento Militare) poiché essi prevedono l´irrogazione di sanzioni amministrative, ma sostanzialmente penali (secondo i dettami europei) violando l´art. 13, comma 2, Cost. e l´art. 117 Cost. in riferimento alla connotazione di sanzione sostanzialmente penale derivata dall´art. 7 della CEDU e, derivatamente, alla violazione del principio del ”ne bis in idem” (sancito anche dall´art. 4 del prot.7 CEDU) in caso di instaurazione del procedimento amministrativo per i medesimi fatti oggetto di giudicato penale.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il principio di legalità sostanziale europeo; 3. L’importanza dell’art. 4 del prot. 7 CEDU (Diritto di non essere giudicato o punito due volte); 4. La natura formale e sostanziale delle sanzioni disciplinari di corpo in ambito militare; 5. L’art. 1393 del C.O.M.: rapporti fra il procedimento disciplinare e il procedimento penale.
1. Introduzione
Il principio di legalità è uno dei pilastri sui quali si fonda il moderno sistema penalistico. In estrema sintesi, si può affermare che di esso esistano due principali accezioni:
- principio di legalità formale, inteso come il divieto di punire un qualsiasi fatto che, al momento della commissione, non sia espressamente previsto dalla legge come reato e con pene che non siano da questa stabilite (nullum crimen, nulla poena sine lege);
- principio di legalità sostanziale, in disuso nei paesi moderni, che fonda la propria forza nell’idea che si debba considerare reato il fatto considerato antisociale o socialmente pericoloso, anche se non espressamente previsto dalla legge. Ciò ovviamente, seppur in nome di una funzione astrattamente difensiva del cittadino, comporta evidenti lesioni delle più elementari garanzie dell’individuo.
L’Italia, così come la gran parte dei Paesi di diritto moderno, ha fondato il proprio sistema penale sul principio di legalità formale, come deducibile da alcune disposizioni normative e, in particolare:
- Art. 25 comma 2 Cost.: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»;
- Art. 1 codice penale: «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite»;
- Art. 199 codice penale: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti»
Il principio di legalità, quindi, si regge sulla compresenza di tre corollari: il principio di riserva di legge (solo la legge può prevedere norme penali), il principio di tassatività (il contenuto delle norme penali deve essere chiaro e comprensibile, anche con riferimento alla sanzione prevista) e il principio di irretroattività (norme penali incriminatrici non possono avere efficacia retroattiva).
2. Il principio di legalità sostanziale europeo
Il principio di legalità in materia penale è riconosciuto, indistintamente, in tutti gli Stati facenti parte dell’Unione Europea e, pertanto, ha trovato un automatico riconoscimento anche nelle istituzioni europee. Il principale riferimento normativo è l’art. 7 della CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) rubricato “nulla poene sine lege” il cui primo comma recita: «nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso».
Il principio stabilito dalla CEDU, come confermato da diverse sentenze del giudice europeo, non conosce il limite delle sanzioni e degli illeciti qualificati come “penali” in base a norme di diritto interno. La Corte Europea ben può giungere a qualificare come penale una sanzione che uno Stato membro connota come amministrativa nell’ambito del diritto interno. Da ciò, scaturiscono una serie di conseguenze tutt’altro che irrilevanti: in prima battuta occorre verificare se l’irrogazione di una siffatta sanzione (amministrativa per il diritto interno e penale per il giudice europeo) sia frutto di una pedissequa applicazione delle norme e dei principi propri del diritto penale.
La Corte Europea, con molteplici pronunce, ha elaborato una nuova nozione sostanziale di illecito penale, disciplinando dei criteri attraverso i quali definire un fatto come illecito penale, prescindendo dall’elaborazione e inquadramento formale dello stesso.
«La Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di una «accusa in materia penale», occorre tener presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della «sanzione» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22). Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell’art. 6, § 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale»»[1]
Un caso su tutti, per quel che riguarda l’Italia, è quello mediaticamente noto della confisca urbanistica di “Punta Perotti” (Bari), in cui la Corte ha stabilito che la confisca dei suoli abusivamente lottizzati, anche se prevista dall’art. 40 comma 2 del D.P.R. 380 del 2001 (fonte regolamentare e sanzione di tipo amministrativo), fosse una sanzione penale, ai sensi dell’art. 7 comma 1 della CEDU.
3. L’importanza dell’art. 4 del prot. 7 CEDU (Diritto di non essere giudicato o punito due volte)
L’art. 4 del prot. 7 CEDU sancisce il divieto di una doppia sanzione per lo stesso reato e, in ogni caso, il divieto assoluto di un secondo giudizio per il medesimo fatto. Tale principio, non è certamente nuovo al diritto italiano, essendo già autonomamente disciplinato dall’art. 649 c.p.p..
Ebbene, partendo dalla nozione di sanzione penale di natura sostanziale, la Corte Europea ha affermato l’incompatibilità del “doppio binario” amministrativo/penale nell’applicazione di talune misure asseritamente amministrative. Una sentenza su tutte, è quella del 4 marzo 2014 relativa al caso n. 18640/10 “Grande Stevens contro Italia”.
La vicenda in esame, prescindendo dai dettagli, riguarda la manipolazione del mercato punita, penalmente, dall’art. 185 del T.U.F. (Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da ventimila a cinque milioni di euro, e amministrativamente dall’art. 187 ter T.U.F. che per i medesimi fatti prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da centomila a venticinque milioni di euro.
Nel caso de quo, i ricorrenti hanno adito la Corte Europea denunciando la violazione del principio del ne bis in idem, poiché erano già stati sanzionati amministrativamente per i medesimi fatti per i quali era stato poi instaurato un procedimento penale.
I giudici, in via preliminare, hanno qualificato le sanzioni pecuniarie amministrative previste dall’art. 187 ter T.U.F. come sanzioni sostanzialmente penali (in virtù della gravità e delle finalità che esso si propone) e, pertanto, hanno sentenziato che nella loro irrogazione vanno osservate tutte le norme del processo penale equo e del principio del ne bis in idem.
In estrema sintesi, il giudice europeo ha accolto il ricorso affermando che non vi era alcun dubbio sul fatto che i ricorrenti erano stati processati, in sede penale, per il medesimo fatto già giudicato e sanzionato amministrativamente (ma sostanzialmente penale) dalla CONSOB con provvedimento definitivo e, pertanto, avendo tale pronuncia una natura sostanzialmente penale, è da considerarsi illegittima la sottoposizione dei soggetti ad nuovo procedimento.
Mentre risultano essere dubbiosi i casi relativi alle sanzioni di carattere patrimoniale, hanno certamente carattere sostanzialmente penale (in virtù dei criteri individuati dal giudice europeo) le misure di restrizione della libertà personale, qualora rivestano la natura di sanzione con scopo punitivo e/o rieducativo.
4. La natura formale e sostanziale delle sanzioni disciplinari di corpo in ambito militare
Le sanzioni disciplinari di corpo previste in ambito militare sono: il richiamo, il rimprovero, la consegna e la consegna di rigore.
Tralasciando le prime due, di natura formalmente e sostanzialmente amministrativa, non possono non sollevarsi dubbi in merito alla natura sostanzialmente penale della consegna e della consegna rigore.
L’art. 1358 del D.Lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’Ordinamento Militare) afferma che: «la consegna consiste nella privazione della libera uscita fino al massimo di sette giorni consecutivi» e che «la consegna di rigore comporta il vincolo di rimanere, fino al massimo di quindici giorni, in apposito spazio dell’ambiente militare – in caserma o a bordo di navi – o nel proprio alloggio, secondo le modalità stabilite dagli articoli successivi. La sanzione della consegna di rigore non può essere inflitta se non per i comportamenti specificatamente previsti dall’art. 751 del regolamento».
È indubbio che tali misure rappresentino una privazione della libertà del militare e che, pertanto, seppur “etichettate” come sanzioni amministrative e irrogate secondo i canoni propri del procedimento amministrativo, esse rappresentino, alla luce dei parametri indicati dal giudice europeo, sanzioni sostanzialmente penali.
Una sanzione amministrativa il cui paragone è dirimente, è la misura di prevenzione personale del divieto di accesso alle competizioni agonistiche, meglio nota con l’acronimo di “daspo”. In particolare, ci si sofferma su una delle novità che ad essa fu affiancata con l’art. 1, comma 2 del D.L. n. 717 del 1994 nella parte in cui prevede, accanto al divieto di accesso a taluni eventi, l’obbligo di comparizione personale presso l’ufficio e/o il comando di polizia competenti, nel corso della giornata di svolgimento delle competizioni agonistiche per le quali sia stato vietato l’accesso. Ebbene, trattandosi di una misura limitativa della libertà personale (così come l’obbligo di permanere nell’alloggio previsto con la consegna semplice e di rigore), fu previsto che tale obbligo dovesse formare oggetto di convalida giurisdizionale, in quanto misura restrittiva della libertà personale e, pertanto, soggetta alla riserva di giurisdizione stabilita dall’articolo 13 della Costituzione.
Appurata la natura sostanzialmente penale e restrittiva della libertà personale di tali sanzioni, nella loro irrogazione devono osservarsi tutti i principi propri di tale natura.
Così come accennato, poi, uno dei corollari del principio di legalità è la tassatività, consistente nella determinatezza della norma penale sia riguardo al precetto che alla sanzione corrispondente alla sua violazione.
Con riguardo alla “consegna semplice”, appare palese che manchi qualsiasi riferimento tassativo alle condotte sanzionabili, se non con un illimitato margine di discrezionalità («la recidiva nelle mancanze già sanzionate con il rimprovero; le più gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio») e con campo di applicazione residuale («la violazione dei doveri diversi da quelli previsti dall’art. 751 del regolamento»).
5. L’art. 1393 del C.O.M.: rapporti fra il procedimento disciplinare e il procedimento penale
La norma in esame prevede che «il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è avviato, proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale … l’autorità competente, solo nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al militare … promuove il procedimento disciplinare al termine di quello penale. Il procedimento disciplinare non è comunque promosso e se già iniziato sospeso fino alla data in cui l’Amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che concludono il procedimento penale, ovvero del provvedimento di archiviazione nel caso in cui riguardi atti e comportamenti del militar nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio.
Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrigazione di una sanzione, e successivamente, il provvedimento penale è definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il militare non lo ha commesso, l’autorità competente, ad istanza di parte … riapre il procedimento disciplinare.
Se il procedimento disciplinare si conclude senza l’irrogazione di sanzioni e il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità competente riapre il procedimento disciplinare per valutare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale».
In virtù di tale norma, sono innumerevoli i casi di militari che, dopo essere stati sottoposti a lunghi ed estenuanti processi (magari anche conclusi con soluzioni assolutorie) si ritrovano a doversi nuovamente difendere in un procedimento disciplinare di corpo nel quale non sono certamente previste le garanzie difensive tipiche del procedimento penale.
Basti pensare che il superiore che formula la contestazione degli addebiti è lo stesso che poi istruisce il procedimento e commina la sanzione disciplinare. Una tale situazione è paragonabile ad un inverosimile caso in cui il P.M. che promuove l’azione penale si ritrovi poi ad essere giudice in fase processuale.
Tale paragone, nonostante quello disciplinare si configuri come procedimento amministrativo, è meno assurdo di quanto si pensi, soprattutto se si considera che tra le sanzioni irrogabili vi sono la consegna e la consegna di rigore che, stando ai dettami stabiliti dalla Corte Europea, essendo sanzioni limitative della libertà personale, sono di fatto sanzioni penali e che, pertanto, devono essere irrogate a seguito di un equo processo.
A ciò si aggiunge la circostanza secondo cui l’irrogazione di una delle predette sanzioni, comminata per fatti già oggetto di un giudicato penale, è in piena violazione del divieto del ne bis in idem.
Il diritto fondamentale al ne bis in idem è enunciato a chiare lettere nel già citato art. 4, prot. 7 CEDU, ma anche dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che è norma di diritto primario dell’Unione (art. 6, par. 3, TUE), che per sua stessa natura è idonea a produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme nazionali contrastanti, nella misura in cui si versi nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione[2].
Alla luce delle suesposte ragioni, a parere di chi scrive, appare sussistere un evidente problema di legittimità costituzionale (sotto diversi profili) relativo alle suindicate norme del Codice dell’Ordinamento Militare.
[1] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 4 marzo 2014, casi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, Grande Stevens and Others v. Italy, §§ 94-96;
[2] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 4 marzo 2014, casi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, Grande Stevens and Others v. Italy, §§ 94-96;