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Pubbl. Mer, 5 Ago 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Dignità e costituzione: storia di un diritto controverso

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Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



La nostra Carta Costituzionale, a differenza di altre, non contempla un riferimento esplicito in ordine alla dignità, e ciò complica ogni vicenda nella quale essa viene chiamata a supportare una determinata ragione. Si pensi all´acceso dibattito sul rapporto dignità umana-fine vita, oggi, oggetto di numerose ed intense pronunce della Corta Costituzionale. Tuttavia, l´assenza di un previsione costituzionale non penalizza il concetto di dignità umana, alla luce del fatto che esso trova accoglimento, seppur non in veste di assoluto protagonista, in tre articoli cruciali della Carta Costituzionale ed anche al di fuori di quest´ultimo contesto.


ENG Our Costitutional Charter, unlike others, does not contemplate an explicit reference to dignity, and this complicates any event in which it is called to support a specific reason. Think of the heated debate on the relationship between human dignity and the end of life today, the subject of numerous and intense pronouncements by the Costitutional Court. However, the absence of a constitutional provision does not penalize the concept of human dignity, in light of the fact that is accepted, albeit not in the role of absolute protagonist, in three crucial articles of the Constitutional Charter and also outside of this last context.

Sommario: 1. La concezione della dignità umana nel Grundgesetz e l’attività giurisprudenziale del Bundesverfassungsgericht; 2. I plurimi volti della dignità umana nella Costituzione Italiana; 3. Dignità e principio di Eguaglianza: verso un unico obiettivo; 4. La centralità della dignità nella Costituzione Italiana in termini di retribuzione; 5. Dignità umana e iniziativa economica privata; 6. La proiezione della dignità umana nello spazio europeo; 7. Brevi riflessioni sull’intreccio logorante tra dignità umana e fine vita.

1. La concezione della dignità umana nel Grundgesetz e l’attività giurisprudenziale del Bundesverfassungsgericht

L’articolo 1, comma 1, della moderna Costituzione tedesca recita: “La dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di ogni potere statale[2]. Il principio della dignità umana, in codesta Costituzione, presenta un valore immenso, non solo grazie alla dichiarazione solenne di intangibilità dell’art. 1, GG che la “strappa” da qualsiasi forma di revisione costituzionale dichiarandone quindi la sua immodificabilità, ma anche per merito dell’attività di analisi, delucidazione ed interpretazione attuata, con fermezza, dal Tribunale costituzionale tedesco, il Bundesverfassungsgericht (BVerfGE).

In verità, la Costituzione della Repubblica federale di Germania (Grundgesetz) non contempla una definizione chiara di “dignità”, ma si limita meramente a sottolinearne il ruolo e la palese importanza. La dottrina tedesca, come anche il BVerfGE, perciò, ha dovuto farsi carico di un compito faticoso: individuare un significato giuridico univoco della dignità umana. A tal proposito, sussistono tre teorie fondamentali della dignità umana, che trovano i loro fulcri nelle produzioni filosofiche antecedenti[3]. Intorno all’art. 1 GG è scaturita più di una questione.

In concreto, ci si è chiesti, con costanza: cosa si intenda per “dignità umana”, e di conseguenza, cosa voglia dire, sotto il profilo giuridico, che essa sia intangibile. Per quanto concerne il significato giuridico della dignità umana, oggi, codesta dottrina evidenzia delle incertezze, a causa della vaghezza del concetto medesimo di dignità, che immerge le proprie radici nel Cristianesimo. Un passo in avanti, invece, viene realizzato dal Tribunale federale tedesco, il quale con lo scorrere del tempo, riesce ad accumulare una giurisprudenza esauriente e, al contempo, intricata. Inizialmente, il Tribunale ha riportato le modalità di violazione e di lesione della dignità umana.

Nella sua prima pronuncia[4], infatti, il Tribunale sostiene che l’art. 1, comma 1, GG intende proteggere la dignità umana da “umiliazioni, stigmatizzazioni, persecuzioni, disprezzo, ecc.”. In seguito, il BVerfGE ha ritenuto opportuno annettere al contenuto di dignità, contraddistinto dalle possibili forme di lesione, una definizione più teorica. Alla luce di ciò, esso ha abbracciato la visione kantiana di dignità. Secondo il filosofo, “l’uomo, e in generale ogni essere razionale, esiste come fine in sé stesso, non semplicemente come mezzo da usarsi a piacimento per questo o quella volontà,   ma dev’essere sempre considerato,  in tutte le sue azioni indirizzate verso sé stesso come verso altri esseri razionali, insieme come fine”[5].

In ordine a quanto sancito dal Tribunale costituzionale tedesco, le forme di violazione della dignità si configurano nella flessione dell’uomo ad oggetto e, nel privare quest’ultimo della capacità di autodeterminarsi, che lo differenzia da qualunque altro essere vivente. Tuttavia, il BVerfGE precisa, poi, che a ledere la dignità è soltanto quello specifico trattamento che “in via di principio pone in dubbio l’essere soggetto dell’uomo” o costituisce “uno spregio volontario della dignità dell’uomo”. La suddetta delucidazione non è, però, bastata al Tribunale costituzionale tedesco per sottrarsi da talune critiche. Infatti, il BVerfGE, nelle sue pronunce, appare piuttosto vago ed incerto, tant’è che esso non specifica, ad esempio, cosa significhi esattamente la sopramenzionata espressione di “spregio volontario”.

Il Tribunale costituzionale tedesco, dunque, non concede una definizione chiara della “dignità umana”, ma si limita a rappresentare quest’ultima in forma negativa attraverso una panoramica delle eventuali lesioni. In una data pronuncia, il Tribunale costituzionale tedesco afferma, con evidente rigore, che la dignità umana “è la radice di tutti i diritti fondamentali”[6].

Del resto, una conferma di tale considerazione discende dalla stessa lettura dell’art. 1 GG: al primo comma, esso qualifica la dignità come intangibile; al secondo comma, invece, menziona l’importanza dei diritti fondamentali. L’ordinamento tedesco è imperniato sul principio antropocentrico che pone al vertice il principio della personalità umana e trova il suo fulcro nella duplice tutela degli art. 1 GG, comma 1 e comma 2. Sul punto, appare necessaria una precisazione. Il valore della personalità umana non è affatto assoluto, ma deve essere combinato con tutti quei principi che garantiscono un’onesta convivenza nel contesto di una comunità.

L’intenso rapporto tra dignità umana e diritti fondamentali, discendente dai commi 1 e 2 dell’art. 1 GG, conduce forzatamente a chiedersi se l’intangibilità della prima possa, in qualche modo, riflettere sugli ulteriori diritti. Una risposta negativa scaturisce dall’art. 19, comma 2, GG, il quale prevede che “in nessun caso un diritto fondamentale può essere toccato nel suo contenuto sostanziale”. In conclusione, si ritiene che, a prescindere dalla vaghezza ruotante intorno al concetto di “dignità umana”, il panorama giuridico tedesco, a differenza di quello italiano, immetta maggior coraggio. Si accorda, al BVerfGE, il merito di essersi allineato con la realtà odierna.     

2. I plurimi volti della dignità umana nella Costituzione Italiana

Nella prospettiva costituzionale italiana, la dignità viene identificata in relazione a tre caratteristiche.       

Essa, infatti, è universale, in quanto concerne tutti gli individui indipendentemente dal possesso della cittadinanza e, qualunque sia la posizione in cui questi si trovino; è assoluta, poiché definisce un nucleo intangibile della personalità umana non ridimensionabile da parte del potere pubblico; infine, è pervasiva, tenuto conto del fatto che essa identifica non solo un diritto, ma il fulcro costituzionale di tutti i diritti inerenti alla persona. Il principio di dignità umana si presta a molteplici utilizzazioni.                                                  

La Costituzione Italiana, diversamente dall’esempio tedesco, non eleva apertamente la dignità umana come principio fondamentale della Repubblica[7]. Le disposizioni costituzionali, invocanti il concetto di dignità, sono accompagnate da uno specifico aggettivo, che ne consente l’ingresso nell’ambito dei rapporti economici-sociali: l’art. 3, comma 1, abbraccia la “pari dignità sociale” dei cittadini, l’art. 36 comma 1, rileva in una “esistenza libera e dignitosa” l’essenza minima essenziale dei diritti del singolo lavoratore e della sua famiglia, che la retribuzione deve garantire, infine, l’art. 41, comma 2, disegna la dignità umana come limite alla libertà di iniziativa economica privata, accanto all’utilità sociale, alla sicurezza e alla libertà. Tra i sopracitati articoli della Costituzione sussiste uno stretto allacciamento. Il filo che li lega è il concetto di lavoro, al quale si riferisce anche l’art. 3, se identificato in un’accezione più ampia, non vincolato all’attività di lavoro subordinato.

È il lavoro che permette di conseguire la “pari dignità sociale”. Ogni cittadino è titolare di un valore pari a quello di un altro cittadino; codestaosservazione riflette quanto contenuto nel secondo comma dell’art. 3, nonché la piena partecipazione di tutti i cittadini alla vita quotidiana. Sotto tale profilo, la “dignità” deve essere intesa come qualcosa di astratto, tale da rimuovere tutti quegli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2). Per altro, sempre nella suddetta ottica, insorge un’ulteriore profilo da esaminare. Mentre nell’art. 3 la dignità assolve una funzione propositiva, nell’art. 36 e nell’art. 41 figura come limite rispettivamente all’attività lavorativa (la Costituzione assicura a ciascun lavoratore il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, evidenziando come tale attore non possa rinunciare a quest’ultimo diritto) e all’attività imprenditoriale (che non potrebbe essere mai realizzata in caso di minacce alla dignità umana).

Al contrario della concezione tradizionale che accompagna alla dignità l’aggettivo “umana”, la Costituzione Italiana parla di “pari dignità sociale”, collegandosi al ruolo che ciascun individuo è chiamato a rivestire all’interno della società e al compito spettante all’apparato statale, consistente nel garantire al primo la possibilità di svolgerne dignitosamente uno. Coloro che, erroneamente, tendevano a far combaciare il concetto di la dignità sociale con quello di la dignità umana, ricavavano nell’art. 3 l’anima dell’onore inteso come diritto ad essere curati in modo uguale dai propri pari. Tale riflessione appare asettica, in quanto non è affatto possibile minimizzare la dignità umana esclusivamente all’onore, data l’esistenza di molteplici accezioni della dignità stessa.

3. Dignità e principio di Eguaglianza: verso un unico obiettivo

La pari dignità sociale comporta divergenti forme di tutela. Innanzitutto, essa protegge la pari dignità delle categorie sociali, vale a dire garantisce che nessuna classe o status dell’individuo possa giustificare la concessione a quest’ultimo di una massima considerazione all’interno dell’ordinamento giuridico. In secondo luogo, la dignità sociale evoca una prospettiva socioeconomica legata alla concezione del Welfare State[8]. Dignità ed eguaglianza si completano e si coordinano in differenti ambiti. Ambedue i principi sono citati nei testi di numerose Costituzioni a partire da quella italiana che, imputa la “pari dignità sociale” all’interno dell’art. 3, relativo al principio di eguaglianza. Sotto un primo profilo, tale articolo sembra arginare ai soli cittadini l’applicazione del principio di eguaglianza e della pari dignità sociale.

La giurisprudenza costituzionale ha esteso la portata di codesto articolo anche agli stranieri. In tale ottica, merita di essere menzionata la sentenza del 23 novembre 1967, n. 120, attinente alla disciplina dell’arresto: “Il raffronto tra la disposizione contenuta nell'art.139 della legge doganale, secondo cui deve essere mantenuto nello stato di arresto lo straniero finché non abbia prestato idonea cauzione o malleveria, e l'art. 3 della Cost., non deve farsi con questa norma, isolatamente considerata, ma con la norma stessa in connessione con l'art. 2 e con l'art. 10, secondo comma, della Costituzione, il primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell'uomo, mentre l'altro dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Ciò perché, se è vero che l'art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattasi di rispettare quei diritti fondamentali”.

L’eguaglianza sancita dall’art. 3 attiene anche allo straniero, a prescindere dalla previsione normativa, nel momento in cui si tratta di garantire i diritti fondamentali, anche se la Corte salva comunque il dettato normativo rilevando una legittima giustificazione del diverso trattamento. Nella sentenza del 26 giugno del 1969, n. 104, si precisa che la definizione dello statuto dello straniero avviene mediante la diligente analisi delle singole fattispecie e della valutazione espressa dalla Corte[9].

Sotto il versante dell’eguaglianza dei sessi, la prima partecipazione delle donne al voto (referendum istituzionale del 1946) viene considerata una rivoluzione. In quell’occasione, molti consideravano le donne impreparate a compiere il proprio dovere elettorale. Tali previsioni, tuttavia, vennero smentite soprattutto grazie alle principali associazioni femminili di massa– l’Unione donne italiane (Udi), il Centro italiano Femminile (Cif), l’Associazione nazionale donne elettrici (Ande) – che avviarono una propaganda scrupolosa per sensibilizzare ed educare le donne all’esercizio del diritto in discussione. Nell’immaginario collettivo, il 2 giugno 1946, è associato al volto radioso di una ragazza bruna, anche grazie alla celebre foto di Federico Patellani.

La (ridotta) presenza femminile viene reputata preziosa soprattutto in ordine all’importante contributo posto in essere dalle stesse nella stesura dei principi fondamentali – il principio di uguaglianza (art. 3), la parità tra uomini e donne nella famiglia (art. 29 comma 2), nel lavoro (art. 37 comma 1), l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 51) – che avrebbero poi rappresentato in un futuro impreciso “il saldo aggancio per importanti conquiste legislative sia sul piano sociale sia sul piano civile[10].

La lotta alla parità di sesso, però, non cessa qui.                    

Negli anni ’60, la parità di accesso agli uffici pubblici rappresentava una meta ancora da conquistare. Un cambio di rotta, infatti, si ebbe solo con la sentenza del 1960, con la quale la Corte costituzionale dichiarava illegittima[11] la norma (l’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176) che escludeva totalmente le donne da una serie di rilevanti uffici pubblici comportanti l’esercizio di diritti e potestà pubbliche. Tale sentenza assunse rilevanza, data la precedente situazione di disparità in cui le donne versavano[12].

Per quanto concerne l’eguaglianza giuridica e morale dei coniugi, sancita dall’art. 29[13] Cost., una netta rilevanza viene assunta dalla sentenza della Corte costituzionale del 19 dicembre 1968, n. 127, con la quale l’adulterio femminile cessa di essere considerato un reato. Sul punto, la Corte ritiene che detta discriminazione sia di grave nocumento alla concordia e all’unità della famiglia. La legge, infatti, non conferendo importanza all’adulterio del marito e punendo, invece, la moglie, pone in stato di palese inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua dignità.

La Corte, quindi, reputa che la disparità prevista nel primo comma dell’art. 559 del Codice penale non tuteli l’unità familiare, bensì costituisca un beneficio assicurato al marito. Con la sentenza del 13 giugno del 1975, n. 87, viene dichiarata, da parte della Corte, l’illegittimità costituzionale della norma che stabilisce la perdita automatica della cittadinanza per il fatto stesso del matrimonio, a prescindere dalla volontà della donna ed anche se questa manifesta un’intenzione contraria, assoggettando la perdita ad una condizione completamente dipendente dall’ordinamento del marito, estraneo a quello italiano.

La disposizione in oggetto (terzo comma dell’art. 10 della legge n. 55 del 1912) si ricollega alla visione della donna come soggetto non avente la completa capacità giuridica, concezione che contrasta con i principi della Costituzione, ed in modo particolare, con l’art. 29 Cost. In tal contesto, particolarmente interessante, risulta la recente pronuncia del 16 febbraio 2006, n. 66, del 2006, circa il conferimento al figlio del cognome materno. La Corte ammette che il vigente sistema di attribuzione del cognome affonda le proprie radici in età romanistica; in tale periodo, la donna è soggetta alla potestà maritale, nonché giuridicamente inferiore al marito. Tale concezione contrasta, senza alcun dubbio, con i principi costituzionali, e non solo[14].

Nella summenzionata pronuncia, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della norma – ritenutaricavabile da una ventaglio di disposizioni in materia: artt. 237, 262, 299 c.c., art. 72, 1° comma, r. d. 9 luglio 1939 (Ordinamento dello stato civile); artt. 33 e 34 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) – “nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita,anche il cognome materno”. In via consequenziale, viene dichiarata l’illegittimità specificamente degli artt. 262, 1 comma, c.c. e 299, 3 comma, c.c. per la stessa omissione, con riferimento ai figli nati fuori dal matrimonio ed a quelli adottati[15].

In materia di lavoro, con la sentenza 1° luglio del 1969, n. 123, la Corte sostiene che la previsione normativa dell’art. 37 Cost, conferisce alla donna lavoratrice non soltanto i medesimi diritti e, a parità di lavoro, la medesima retribuzione che spetta all’uomo, bensì anche il diritto a che le siano garantite condizioni di lavoro tali da consentirle l’adempimento della “essenziale” funzione familiare. Gli articoli sollevati in detta pronuncia ( 37 e 3 Cost.) espletano una funzione di riscatto nei confronti della donna lavoratrice, che acquista il diritto, costituzionalmente garantito, alla parità giuridica con il lavoratore.

La sentenza 26 marzo, n. 109, del 1993, ha ad oggetto disposizioni che introducono delle incentivazioni finanziarie a vantaggio di imprese con prevalente partecipazione femminile ovvero a beneficio di istituzioni tendenti a intensificare l’imprenditorialità femminile. In tale pronuncia, la Corte coglie l’occasione per discutere in ordine alle azioni positive[16]. Circa la tutela della maternità, particolare rilevanza ricopre la legge 26 agosto, n. 860, del 1950 - “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” – che ha introdotto il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; nonché, il divieto di destinare le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori rischiosi, complicati e malsani; ed infine, il divieto di impiegare al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive.

Tale legge, in seguito, viene modificata dalla legge 9 gennaio, n. 7, del 1963 – “Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche alla legge 26 agosto 1950, n. 860: “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” – che sopprime le c.d. clausole di nubilato, ossia la possibilità di procedere al licenziamento delle donne conseguentemente alle nozze.

Oltre il genere femminile, nella categoria dei soggetti particolarmente vulnerabili, rientrano i portatori di handicap ed i minori. Per i primi, nella sentenza 3 giugno, del 1987, n. 125, la Corte ricompone lo sviluppo normativo sull’inserimento nella scuola dei portatori di handicap. Occorre sottolineare che, la Costituzione, nel quadro del riconoscimento dei diritti inviolabili, (art. 2) e della pari dignità sociali di tutti i cittadini (art. 3 comma 1), nonché dell’impegno dei pubblici poteri a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della personalità individuale (art. 3 comma 2), dichiara che “la scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1). In particolare, “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita” (art. 34 comma 2), altresì, i “capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34 comma 3).

Con riferimento agli studenti affetti da forme di disabilità, l’art. 38, comma 3, prevede che anche “gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. Prima di arrivare alla sentenza del 1987, nel contesto dell’istruzione secondaria, secondo quanto disposto dall’art. 28, comma 3, della legge n. 118 del 1971, doveva essere “facilitata la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie”. In tale maniera, però, il diritto degli studenti disabili all’inserimento nelle classi normali veniva previsto solo per la scuola dell’obbligo. Sul punto, nel 1987, interviene la Corte costituzionale che sostituisce la formula “sarà facilitata” con quella più flessibile di “è assicurata”[17].

Nell’ambito lavorativo, la Corte, nella sentenza 15 giugno del 1960, n. 38, osserva che il sistema di avviamento al lavoro dei minorati trova fondamento e giustificazione nel disposto dell’art. 38 Cost.[18]. In tale occasione, l’obiettivo da perseguire è quello di rimuovere, in armonia con lo spirito e con il dettato del secondo comma dell’art. 3 Cost., “gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica e sociale del Paese”, in linea con quanto determinato nell’art. 4 Cost., il quale promuove e attua le condizioni che rendono possibili ai minorati, di essere reinseriti, con contratti di lavoro che presuppongano prestazioni di opere, nell’ambiente lavorativo. Sempre a riguardo del portatore di handicap, sotto il profilo dell’assistenza, una particolare rilevanza viene ricoperta dalla sentenza 29 luglio del 1996, n. 325, nella quale la Corte costituzionale dichiara infondato il dubbio di costituzionalità circa il quinto comma dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992 (Legge quadro per l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), in base al quale il genitore o familiare, lavoratore con rapporto di lavoro pubblico o privato, il quale assiste con continuità un portatore di handicap, parente o affine entro il terzo grado, con lui convivente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, non potendo essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede[19].

In tale occasione, si percepisce il rischio di conferire alla norma un rilievo eccessivo, essendo impensabile che l’assistenza presenti solo carattere familiare. Per quel che concerne, invece, il minore, uno dei profili più interessanti concerne, senza alcun’ombra di dubbio, l’adozione. La Corte costituzionale, nella sentenza 24 luglio del 1996, n. 3030, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), nella parte in cui “non prevede che il giudice possa disporre l’adozione, valutando esclusivamente l'interesse del minore, quando l’età di uno dei coniugi adottanti superi di ben oltre quaranta anni l’età dell'adottando, pur rimanendo la differenza di età compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla mancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore”.

In merito alla convivenza more uxorio, la Corte, nella sentenza 6 luglio del 1994, n. 281, evidenzia, da un lato, l’impossibilità di ignorare “il sempre maggiore rilievo che, nel mutamento del costume sociale, sta acquistando la convivenza more uxorio, alla quale sono state collegate alcune conseguenze giuridiche”, e dall’altro, “la validità della suggestiva considerazione secondo cui, proprio ai fini della tutela dell'interesse del minore, la solidità di una vita matrimoniale potrebbe risultare, oltre che da una convivenza successiva alle nozze protratta per alcuni anni, anche da un più lungo periodo, precedente alle nozze, caratterizzato da una stabile e completa comunione materiale e spirituale di vita della coppia stessa, che assuma poi col matrimonio forza vincolante”.              

In tema di “figli incestuosi”, nella sentenza 28 novembre del 2002, n. 494, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 278, primo comma, del Codice civile, nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, primo comma, c.c., il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato[20]. Una menzione merita anche la condizione dei soggetti sottoposti a restrizioni della libertà personale. In epoca risalente, nella sentenza 12 febbraio del 1966, n. 12, la Corte costituzionale ebbe modo di analizzare l’art. 27, terzo comma, Cost., rilevando che “la norma non si limita a dichiarare puramente e semplicemente che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, ma dispone invece che “le pene ‘non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Sotto il profilo del bilanciamento dei valori costituzionali, in una sentenza più recente (4 luglio del 2006, n. 257), la Corte marca come tra le finalità che la Costituzione “assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e di retributività, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo – non possa stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione”.

Profondamente correlata alla funzione rieducativa della pena è la disciplina dell’attività lavorativa. In particolare, nella sentenza 22 maggio del 2001, n. 185, vengono esaminate le funzioni sociali e rieducative del lavoro dei detenuti. La Corte osserva come “il lavoro dei detenuti, è oggi divenuto, a seguito delle innovazioni dell’ordinamento penitenziario ispirate all’evoluzione della sensibilità politico-sociale, un elemento del trattamento rieducativo”. D’altro canto, “lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il nostro sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale, ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo”.

Tra i diritti fondamentali, posti a rischio in caso di detenzione, rientra quello alla salute. L’importanza della tutela del suddetto diritto viene posta in luce nella sentenza 4 maggio del 1984, n. 134, tuttavia, solo dieci anni dopo, la Corte affronta il problema relativo ai detenuti malati di AIDS, evidenziando la rinomata sensibilità della suddetta condizione. Nella sentenza del 3 marzo 1994, n. 70, infatti, la Corte costituzionale sostiene che “la questione attinge il nucleo del delicato problema relativo all’individuazione dei confini all’interno dei quali al legislatore è consentito esercitare le proprie scelte discrezionali, nel quadro del non sempre agevole bilanciamento di valori ai quali la Costituzione assegna uno specifico risalto”.

4. La centralità della dignità nella Costituzione Italiana in termini di retribuzione   

La dignità trova superficie anche nell’art. 36 Cost., che la innalza come parametro della retribuzione sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. Tale disposizione rappresenta un “unicum rispetto ai rapporti privatistici: nessun altro contratto di diritto privato ritrova all’interno della Costituzione i principi-guida per la determinazione di un suo elemento essenziale”[21].

In tal contesto, la retribuzione assolve una funzione in chiave di previdenza sociale (quindi non solo in termini di trattamento corrispettivo), a cavallo tra la giustizia corrispettiva e la giustizia distributiva. Oltre al problema inerente alla “retribuzione equa e sufficiente”, piuttosto discussi sono i due criteri guida posti a fondamento della determinazione della retribuzione del lavoratore: la proporzionalità e la sufficienza a sopportare le esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie. In merito al primo canone, la proporzionalità, esso tende a subordinare la retribuzione ad elementi oggettivi, assicurando così al lavoratore una ragionevole determinazione del proprio salario rispetto agli indici della quantità (tempo e risultato) e della qualità (esperienza e competenza) del lavoro eseguito, mentre l’altro canone, quello della sufficienza, mira a conferire vitalità all’elemento soggettivo delle condizioni di vita del lavoratore e della sua famiglia.

In particolare, la ricompensa integrale non deve ricadere sotto il livello minimo. Nella sentenza del 19 dicembre del 1962, n. 106, la Corte marca come l’art. 36 Cost. formi un corpo unico con gli artt. 3 comma 2, 35 e 37 Cost., il cui proposito è quello di proteggere la dignità personale del lavoratore ed il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato. Nella successiva sentenza del 24 aprile del 1967, n. 51[22], la Corte sostiene che un’offesa nei riguardi della dignità discende “dall’esiguità della retribuzione”. Il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa deve essere assicurato a tutti alla stregua di un “debito sacro dello Stato”[23].

L’art. 36 Cost. rivela l’elevata importanza posta dai Costituenti per la persona sociale, alla luce del fatto che esso non si accontenta solo del dato materiale dell’esistenza, ma precisa che essa deve essere “libera e dignitosa”. Libertà e dignità si accorpano: il lavoratore gode della dignità solo se beneficiario della libertà e, al contempo, è solo grazie alla libertà se ha la possibilità di consolidare la propria dignità. L’individuo è “libero se può anche veder riconosciuta la sua dignità”, così come è “dignitoso, è portatore di dignità, solo se è libero nel determinare ciò che la dignità gli attribuisce[24]. In tal contesto, quindi, la dignità viene elevata quale parametro di contenuto positivo.

5. Dignità umana e iniziativa economica privata

In relazione a quanto stabilito dall’art. 41, comma 2, Cost., l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.           Nella suddetta formula, si deduce, oltre allo stretto legame tra tutela della sicurezza ed esigenze di salvaguardia di integrità psico-fisica dei lavoratori, una presentazione della dignità quale valore autonomo, da non mescolare ed equiparare, con quello, certamente fondamentale, della libertà. In codesta disposizione, la dignità si propone nel suo significato più esteso, come aspetto qualificante di tutta la specie umana.

In merito al rapporto con la libertà, di recente, non sono mancate visioni volte a marcare l’asserzione della libertà contenuta nel primo comma, accantonando la seconda parte della previsione dalla quale sorge il carattere non intangibile del diritto all’iniziativa economica privata. In particolare, la Costituzione accosta alla suddetta due limiti: uno interno (la compatibilità all’utilità sociale) e l’altro esterno (il divieto di recare pregiudizio alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana), prevedendo, inoltre, che l’esercizio dell’attività di impresa sia caratterizzato da prospettive di socialità. La Corte costituzionale ha cercato di interpretare l’espressione di “utilità sociale”, ma con deludenti risultati, data la mancanza di una nozione generale ed unitaria[25].         

In realtà, codesta espressione presenta dei margini incerti ed in continua evoluzione. Secondo Massimo Severo Giannini, l’art. 41 non rientra tra le disposizioni più “perspicue” della Costituzione Italiana. Un dato pare certo: dietro le espressioni di “utilità sociale” e di “dignità umana”, insorgono i valori della soggettività umana e della personalità. Nel contesto vigente, lo sviluppo sostenibile ed il rispetto della persona umana rischiano di rimanere degli obiettivi irrealistici e asettici, destinati ad affondare innanzi al dominio economico e al profitto.   

Il ricorso alla dignità umana, in ordine all’iniziativa economica privata, di fronte a codesta situazione, appare urgente, a prescindere dal significato originario che i costituenti intendevano attribuire a detto richiamo[26]. L’affermazione della dignità umana, come limite all’iniziativa economica privata, assume una portata universale: attiene ad un concetto di dignità “intrinseca” dell’uomo, limite invalicabile di qualsiasi libertà economica. “Nell’epoca contemporanea, la dignità evocata come limite dell’iniziativa economica privata esprime l’esigenza di una salvaguardia nei riguardi delle potenzialità disumanizzanti insite in uno sviluppo discontrollato di tecnostrutture e mercati”[27].  

6. La proiezione della dignità umana nello spazio europeo

Un punto di partenza, per cercare di delineare la dimensione dell’espressione “dignità umana”, al di fuori del contesto costituzionale, è rilevato nella Charter of the United Nations sottoscritta il 26 giugno 1945 a San Francisco, dove nel preambolo, viene espressa la seria intenzione dei popoli delle Nazioni Unite di riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore dell’individuo.

Tale proposito trova attuazione nella conseguente “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo” approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, la quale individua nel rispetto dell’eguale dignità degli uomini il fulcro dei Diritti dell’Uomo. In particolare, nel Preambolo, si sostiene che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, per poi mettere in evidenza che “I popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita in una maggiore libertà”. In ragione di detti presupposti, l’art. 1 dichiara, senza giri di parola, che “Tutti gli esseri umani nascono liberi cd eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione, di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

Così come la Costituzione Italiana incanala la dignità umana in più articoli, al contempo, la suddetta Dichiarazione prevede molteplici riferimenti alla dignità. Quest’ultima, infatti, viene segnalata anche negli artt. 22 e 23 della medesima Dichiarazione, dove si afferma testualmente che “ogni individuo ha diritto alla realizzazione dei diritti economici, sociali, culturali, indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità” (art. 22) e che “ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se necessario, ad altri mezzi di protezione sociale” (art. 23, comma 3).

Nel panorama giuridico comunitario, la dignità umana beneficia di numerosi riconoscimenti sia nel diritto primario che nel diritto derivato. In particolare, l’art. 2 del Trattato dell’Unione Europea recita che “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”, assegnando così alla suddetta il ruolo di valore istitutivo dello stesso ordinamento europeo. Un altro richiamo alla dignità, a livello comunitario, si ricava nell’art. 21 del TUE (Disposizioni generali sull'azione esterna dell'unione), ai sensi del quale “L’azione dell'Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione”, individuati nel “rispetto della dignità umana” e nei “principi di uguaglianza e di solidarietà”. Sotto il profilo del diritto derivato, la dignità umana campeggia nei considerando del regolamento (CEE) n. 1618/68[28], nel quinto considerando della direttiva 2004/38[29] e nell’art. 12 della direttiva 89/552/CEE[30].

Tuttavia, a livello comunitario, il riconoscimento della dignità umana trova consolidamento con l’entrata in vigore della “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea”. Il Preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali, solennemente proclamata a Nizza il 7 dicembre del 2000, prescrive che l’Unione Europea “pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Il Capo I della Carta, rubricato, “Dignità”, si articola in cinque articoli, ove sono accolti l’inviolabilità della dignità umana, da rispettare e tutelare; il diritto di ogni individuo alla vita e l’esclusione della pena di morte; il diritto all’integrità psico-fisica[31] ed i divieti di mercificazione del corpo umano e della clonazione umana; la proibizione della tortura e di trattamenti inumani e degradanti; la proibizione della schiavitù e della tratta degli esseri umani. Rileggendo le spiegazioni stilate dal Presidium della Convenzione Europea, sembra che dignità costituisca il valore fondante degli stessi diritti dell’uomo.

Si sostiene, infatti, che “la dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali”. Da detta considerazione, ne discende, sempre secondo il Presidium, che “nessuno dei diritti sanciti nella presente Carta può essere usato per recare pregiudizio alla dignità altrui e che la dignità umana fa parte della sostanza medesima dei diritti sanciti nella Carta. Non può pertanto subire pregiudizio, neanche in caso di limitazione di un diritto”. Appare evidente, come le delucidazioni del Presidium superino quanto espresso nel Preambolo della Carta, ove la dignità umana è posta sul medesimo livello di ulteriori valori (parimenti rilevanti) quali la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà. L’adozione a Nizza della Carta dei diritti ed il suo successivo recepimento nel Trattato di Lisbona hanno accresciuto il livello di attenzione delle istituzioni dell’Unione Europea nei confronti della dignità umana.

A tal proposito, la Corte di Giustizia qualifica i diritti fondamentali come parte integrante dei principi generali del diritto. Occorre, però, marcare che la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in talune episodi, si è mostrata (implicitamente) avversa all’impiego di codesto criterio[32]. Sul piano comunitario, non deve affatto trarre in inganno la mancata dicitura esplicita della dignità umana nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata dai Paesi Membri del Consiglio d’Europa, il 4 novembre 1950.

Detto valore, infatti, appare, in modo implicito, per il tramite del richiamo, avvenuto nel Preambolo, alla Dichiarazione Universale dei diritti umani. Il Trattato di Lisbona, stipulato il 13 dicembre 2007 dai Capi di Stato e di Governo dei ventisette Paesi Membri dell’Unione Europea ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, all’art. 1, nell’illustrare i valori fondativi, pone al primo posto il rispetto della dignità umana, a cui si accostano la libertà, la democrazia, l’uguaglianza ed i diritti umani. Codesto “sbarco” era stato, in precedenza, auspicato dall’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa – sottoscritto il 1° agosto del 1975 da tutti gli Stati Europei[33], nonché da USA e Canada – in seguito,  dalla Dichiarazione di Berlino – approvata il 25 marzo del 2007 dai Presidenti del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo – ed infine, dalla sopracitata Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza)[34], riconosciuta dal Trattato di Lisbona come “avente lo stesso valore giuridico dei trattati”.

La Risoluzione sulla situazione delle persone con disabilità, introdotta il 17 marzo 2008 dal Consiglio dell’Unione Europea e dai rappresentanti degli Stati Membri, pone la dignità umana alla base dei diritti e delle libertà dei disabili, che, al contempo, si impegna a garantire. Nella Convenzione sui diritti dell’uomo e la bioetica (Convenzione di Oviedo), adottata dal Consiglio d’Europa il 4 aprile del 1997, l’esortazione alla dignità riguarda “l’essere umano sia come individuo  che nella sua appartenenza alla specie umana” e si concretizza in un invito alla precauzione, in ordine alle imboscate che potrebbero scaturire da un impiego inopportuno della medicina e della bioetica”[35]. Tale atmosfera traspare anche in altri documenti di rilievo, quali ad esempio il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Oviedo circa il trapianto di organi e di tessuti di origine umana (del 4 dicembre 2001), quello sul divieto di clonazione degli esseri umani (del 12 gennaio 1998) e la Direttiva 98/44 sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Mentre i primi due testi rimarcano quanto espresso nella Convenzione[36], la Direttiva scongiura dalla brevettabilità “il corpo umano, in ogni  stadio della sua costituzione e del suo sviluppo, comprese le cellule germinali, la semplice scoperta di uno dei suoi elementi o di uno dei suoi prodotti, nonchè la sequenza parziale di un  gene umano” (considerando 16) e, altresì, respinge fermamente la clonazione (considerando 20) ed “i procedimenti la cui applicazione reca pregiudizio alla dignità umana”.

7. Brevi riflessioni sull’intreccio logorante tra dignità umana e fine vita

Nel testo costituzionale del 1948 manca una previsione normativa esplicita inerente alla tutela della vita, nonostante la dottrina e la giurisprudenza concordino in merito al fatto che il diritto alla vita sia comunque parte integrante dell’apparato costituzionale. In talune Costituzioni nazionali, invece, tale diritto trova ampio riconoscimento e ciò consente al legislatore e all’autorità giudiziaria di analizzare il concetto di “vita”.           

Nella Costituzione Italiana, il diritto alla vita è stato incanalato nell’ampio alveo dei diritti inviolabili della persona umana per via giurisprudenziale ed ermeneutica, in occasione di talune pronunce relative all’aborto, nell’ambito delle quali si è reso indispensabile un bilanciamento tra il diritto alla vita del nascituro, il diritto alla salute e all’autodeterminazione dell’attore, la donna. Tale scenario comincia ad infiammarsi nel momento in cui entra in scena la tematica relativa al “fine vita”. In rapporto al diritto alla salute, l’art. 32 Cost. stabilisce che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può, in nessun caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.                          

Alla luce di tale previsione normativa, ne discende che nel nostro ordinamento non sussiste un obbligo alla vita o un obbligo di curarsi, è invece, possibile e lecito rigettare le terapie essenziali alla sopravvivenza in piena autodeterminazione e previo ottenimento delle informazioni opportune (a fronte dell’obbligo di consenso informato)[37]. In tal contesto costituzionalistico deve essere incanalata la questione inerente all’eutanasia, prevista con modalità differenti dagli ordinamenti nazionali, ma ancora arginata nella maggior parte di essi.   Con l’espressione “eutanasia”, si intende il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica, in modo permanente. L’eutanasia, nell’ambito medico, viene articolata in eutanasia attiva o eutanasia passiva. Si ha eutanasia passiva, quando la condotta tende a lenire le sofferenze del paziente la cui vita si stia già concludendo, a prescindere dalla somministrazione di certe sostanze che possano abbreviarne l’esistenza.

L’eutanasia passiva attiene anche alla sospensione di terapie che tengono in vita artificialmente un individuo che, in mancanza delle stesse morirebbe naturalmente. In caso di eutanasia attiva, invece, si impiega comunemente l’espressione di “suicidio medicalmente assistito”: è la condotta dell’agente a causare direttamente la morte del paziente, che non avverrebbe per cause naturali. L’opinione più frequente[38] e condivisibile nella dottrina costituzionale è quella che intravede in un’ipotetica legge sulla legalità dell’eutanasia, un netto scontro con l’anima della Costituzione nel suo carattere personalistico, alla luce del fatto che l’art. 2 Cost., riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo, bandirebbe l’attuazione di qualsiasi diritto diretto a interrompere o abbreviare la vita dell’uomo. In tale cotesto, spunta anche l’art. 3 comma 2 Cost., il quale conferisce all’apparato statale l’inestimabile compito di farsi strumento per assicurare il pieno sviluppo della persona umana. Secondo una corrente[39] di pensiero, nel momento in cui si discute se sia lecito o giusto consentire ad una persona adulta e libera, di causare un danno fisico e psichico a sé stessa, la tematica della dignità desta delle perplessità in quanto si rivela non soltanto insufficiente, ma anche (e soprattutto) nociva.  

Nel costituzionalismo contemporaneo, ed in particolare nelle questioni del fine vita, la dignità umana viene impiegata “come un vero e proprio ombrello per tutti i diritti fondamentali che tutelano la vita e le scelte dell’individuo in merito alle modalità con cui la sua esistenza deve essere condotta o deve, in ultimo avere fine. In codesta ottica, la dignità umana significa anche, necessariamente, dignità della morte”[40]. Alla luce delle suddette riflessioni, si ritiene che anche nel caso in cui in il legislatore dovesse in futuro intervenire, le problematiche inerenti alla mancanza di un equilibrio tra la dignità umana ed il tema del “fine vita”, non troverebbero comunque una costante risoluzione, complice il pericoloso incrocio tra costituzionalismo, dignità umana e progresso tecnologico. In generale, guardando detta situazione con occhi esterni, sembra che il legislatore intenda allontanarsi dalle tematiche più fragili.                                     

Sono, quindi, destinati ad insorgere nuovi casi destinati a scatenare numerose perplessità in termini di dignità umana. Appare evidente, però, che nessuna concezione sull’eutanasia potrebbe, comunque, trovare totale accoglimento, in mancanza di un fondamento legittimante nella Carta costituzionale.


Note e riferimenti bibliografici

[2] L’art. 1 GG ai commi 2 e 3 stabilisce che “Il popolo tedesco riconosce gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo. I seguenti diritti fondamentali vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come diritti direttamente applicabili”.

[3] G. STANZIONE, Processo penale e dignità dell’uomo. Profili di teoria generale, teoria del processo e comparazione giuridica, in Comparazione Diritto Civile, 2018, 11-12: “La teoria della dote definisce la dignità dell’uomo come una qualità o una proprietà che l’uomo ha innata, quale dono di Dio o della natura. A parte coloro che, affondando le loro radici  nella tradizione cristiana, ritengono l’uomo creato a immagine e somiglianza di  Dio, la maggioranza dei fautori di questa teoria si rifà all’idealismo tedesco e in particolare all’idea kantiana dell’essere-persona: l’uomo possiede  dignità in quanto dotato di ragione e in quanto riesce a rappresentarsi a sé stesso come persona e non come cosa e può autodeterminarsi ed esercitare la volontà di agire conformemente alla legge morale. La teoria della  prestazione, invece,  sembra  riecheggiare  quelle  dottrine  passate che  ritenevano la dignità umana  una  conquista  dell’uomo. La dignità  dell’uomo rappresenta  un  prodotto  del  suo  agire:  l’uomo  deve  guadagnarsela  costruendo  sé stesso e la sua identità. Entrambe le teorie sono però omogenee sotto tre profili in particolare: in primo luogo,  assumono un concetto di dignità che è eguale per tutti gli uomini e ciò determina il divieto di qualsiasi discriminazione o mortificazione di qualsivoglia essere umano;  in secondo luogo, sono  fondate  sulla  difesa  della  soggettività umana, ossia dell’identità e integrità fisica e morale di ogni individuo; infine, sanciscono la difesa di ogni individuo quale che sia la sua condizione, anche qualora si trovi nelle mani dello Stato (si pensi all’esistenza in carcere). Per quanto riguarda la terza teoria, quella detta della comunicazione, essa rimprovera alle due   precedenti di fondare la propria concezione di dignità sull’affermazione  apodittica della soggettività  e  individualità umana, che non è un principio universalmente condiviso né tanto meno dimostrato. Sostengono, infatti, che la dignità sia un dono o una conquista del singolo uomo, mentre la teoria in esame la fonda sul riconoscimento sociale. Quest’ultima asserisce che la dignità non sia una qualità oppure una prestazione, ma stia nella relazione, comunicazione, tra uomini”.

[4] BVerfGE 1, 97 (104).

[5] IMMANUEL KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, 1997, p.89

[6] BVerfGE 93, 266 (293)

[7] C. LEVERATO, Aspetti giuridici della dignità umana nell’orizzonte della disabilità, in Consulta Online, 2019, 663-664: “La Costituzione italiana è il frutto di un compromesso tra forze politiche molto diverse che hanno lavorato per creare “un breviario giuridico per l’uomo comune” partendo da presupposti comuni come antifascismo e difesa dell’unità nazionale. La Carta repubblicana era, ed è, per una persona che vive nella storia ed è protagonista del quotidiano, nelle relazioni con l’altro e con tutti gli altri che i Costituenti hanno saputo umilmente osservare e inventare. Dalla loro opera inventiva emerse la priorità della persona rispetto ad ogni organizzazione politica e, di conseguenza, quest’ultima avrebbe dovuto rispettare la prima. L’impostazione della Costituzione Italiana è quella della socialità progressiva che parte dalla difesa della persona e, quindi, dalla sua dignità e si amplia abbracciando il pluralismo  sociale”.

[8] A. APOSTOLI, La dignità sociale come orizzonte dell’uguaglianza nell’ordinamento costituzionale, in Costituzionalismo, 2019, 13: “La possibilità di effettiva realizzazione della dignità sociale è dunque strettamente collegata all’enunciazione costituzionale (anche in ambito sovranazionale) della solidarietà tra le persone; in quest’ottica si fa largo la nuova missione dell’essere umano, il quale, in virtù della dignità sociale che gli deriva dalla garanzia di una piena partecipazione alla vita economica, sociale e politica della comunità repubblicana, è chiamato esso stesso ad assicurare concretamente e quotidianamente, nell’esercizio dei diritti inviolabili così come nell’adempimento dei doveri inderogabili, la promozione continuativa dei valori costituzionali, in un circolo virtuoso che lo vede, esso stesso, protagonista della realizzazione dell’ambizioso programma costituzionale. Di qui l’esigenza di dar vita a un complesso apparato costituzionale che si snoda nelle esplicite previsioni delle situazioni giuridiche a carattere sociale e nelle diverse tipologie di doveri costituzionali, nel quale il principio solidaristico è costantemente  declinato  nel senso dell’inclusione della persona nella vita dell’ordinamento e della collettività. E a questo punto diviene allora necessario considerare il forte significato dei singoli doveri solennemente proclamati in Costituzione, proprio  perché essi “rappresentano l’immagine normativa della complessità sociale”. Del resto, “le democrazie si  sviluppano  attraverso l’affermazione dei diritti ma si consolidano attraverso la pratica dei doveri”; se non ci fosse l’alterità tra i diritti e i doveri si creerebbe una guerra tra le persone per accaparrarsi i diritti, senza corrispondere con i doveri, “disgregando le relazioni sociali” e determinando l’impossibilità di “crescita della civiltà del paese”. Senza i doveri i diritti sono lettera morta”.

[9] M. BELLOCCI, P. PASSAGLIA, La dignità dell’uomo quale principio costituzionale, in Corte costituzionale, 2017: “La riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto  che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il  legislatore  può  apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del suo  apprezzamento. Ora, nel caso, non può escludersi che, tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel  godimento di quegli  stessi  diritti. Il cittadino ha nel territorio un  suo domicilio stabile, noto e dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il cittadino ha diritto di risiedere ovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente, senza limiti di tempo, mentre lo straniero può recarsi a vivere nel territorio del nostro, come di altri  Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che è in genere limitato, salvo che egli non ottenga il così detto diritto di stabilimento o di incolato che gli assicuri un soggiorno di durata prolungata o  indeterminata;  infine il cittadino non può essere  allontanato  per  nessun  motivo dal territorio dello Stato, mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie per commessi reati. Questa differenza di  situazioni  di fatto e di connesse  valutazioni  giuridiche è rilevabile in ogni ordinamento e si fonda sulla basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente nella circostanza  che, mentre il  primo ha con lo  Stato  un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo. Ne deriva che ogni indagine diretta ad accertare ove lo straniero si trovi è legittima, perché fondata  sulla necessità  razionale di poterlo raggiungere; e ciò non solo allo scopo di sottoporlo a controllo,  ma anche  di  assicurargli  le forme di assistenza  che gli sono dovute, partecipandogli, ad esempio, informazioni e notizie urgenti con le quali le sue autorità consolari intendano raggiungerlo”.

[10] M. MAFAI, L’altra faccia della politica, cit.

[11] Corte Cost. sent. 33/1960: “una norma che consiste nell’ escludere le donne in via generale da una vasta  categoria di impieghi pubblici, deve essere dichiarata incostituzionale per l'irrimediabile contrasto in cui si pone con l'art. 51, il quale proclama l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all'uno e all'altro sesso in condizioni di eguaglianza”.

[12] C. LATINI,  Quaeta non movere. L’ingresso delle donne in magistratura e l’art. 51 della Costituzione. Un’occasione di riflessione sull’accesso delle donne ai pubblici uffici nell’Italia repubblicana, in Giornale di storia costituzionale, 2014: “Nella sentenza del 1958 la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, sulla partecipazione delle donne all’amministrazione della giustizia nelle Corti d’assise e nei Tribunali per i minorenni, assumeva una posizione favorevole al riconoscimento del sesso come incluso tra i requisiti stabiliti dalla legge, secondo il dettato dell’art. 51 della Costituzione. Questa posizione della Corte appariva in contrasto con quanto la stessa avrebbe detto due anni dopo, nella sentenza del 1960, a proposito della questione di costituzionalità dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici implicanti l’esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all’art. 51, primo comma, della Costituzione. Il Presidente Gaetano Azzariti era lo stesso per entrambe le sentenze, come peraltro sempre Azzariti era l’estensore della sentenza della prima sentenza della Corte, n. 1 del 14 giugno 1956 che affermava la competenza della Corte stessa a sindacare le norme anteriori alla Costituzione; la composizione della Corte vede la partecipazione, in entrambe, di giuristi come Aldo Sandulli, Giuseppe Branca, Nicola Jaeger. In una fase in cui il redattore era il Presidente e redattore e relatore sistematicamente distinti, appare piuttosto difficile tentare di ricostruire l’eventualità di dissensi interni alla Corte, considerata la collegialità della stessa e delle sue decisioni. Dunque, le ragioni di un diverso giudizio della Corte, in merito alla portata dell’art. 51 e del suo noto inciso possono essere solo presunte. E così nel 1960 la Corte costituzionale dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge del 17 luglio 1919 n. 1176, con sentenza n. 33. La questione di legittimità costituzionale della norma con tenuta nell’art. 4 del R.D. 4 gennaio 1920, n. 39, nonché dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, sul quale la norma si basava, veniva proposta in via incidentale nel corso di un giudizio davanti al Consiglio di Stato su ricorso della dottoressa Rosa Oliva contro il Ministero dell’interno, l’avvocato era Costantino Mortati. L’illegittimità di questi articoli sarebbe derivata dal contrasto in cui essi si trovavano con l’art. 3, primo comma e l’art. 51, primo comma della Costituzione, dato che la potestà che l’art. 51 aveva conferito al legislatore di determinare i requisiti per l’ammissione agli uffici pubblici non si sarebbe riferita al requisito del sesso. La violazione dell’art. 51 si sarebbe avuta anche nel caso in cui si fosse potuta interpretare la norma contenuta in quest’articolo come quella che consentiva di considerare il sesso una ragione di differente capacità, considerato che un limite di questa portata non avrebbe potuto essere contenuto in una norma priva di efficacia formale di legge come quella di un regolamento. Secondo la tesi della difesa, la norma contenuta nell’art. 51, primo comma, della Costituzione, aveva posto una riserva assoluta di legge. Lo si poteva dedurre già dalla stessa dizione letterale – “secondo i requisiti stabiliti dalla legge” – che non avrebbe potuto avere alcun altro significato se non quello dell’attribuzione al legislatore del potere-dovere di disporre esso soltanto “in ordine ai requisiti stessi”. Da ciò sarebbe disceso il divieto per il legislatore di rimettere ad una qualsiasi fonte secondaria anche soltanto parte della disciplina della materia e l’illegittimità dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che aveva invece rinviato ad apposito regolamento, la determinazione degli impieghi che comportassero l’esercizio di diritti e potestà politiche. Sempre secondo la difesa inoltre non era possibile obiettare contro questa linea interpretativa che la Costituzione, essendo sopravvenuta rispetto alla legge in questione, non avrebbe potuto determinare vizi formali di norme anteriori, trattandosi di una norma che tutelava i diritti fondamentali del cittadino, rimettendo al legislatore ogni intervento. L’Avvocatura dello Stato sosteneva che la questione fosse infondata su due fronti, uno preliminare e uno di merito. Per quanto riguardava il primo profilo, cioè quello preliminare, la questione di legittimità sarebbe stata infondata perché al momento dell’emanazione della legge del 1919 non esisteva la riserva di legge, posta poi dall’art. 51 della Costituzione. Non si sarebbe potuto pertanto imputare alla legge la violazione di una norma che in quel momento non era esistente. E quando anche la norma dell’art. 7, che conferiva una delega di poteri all’esecutivo, fosse da ritenere attualmente illegittima, il regolamento emesso in base a tale delega sarebbe stato valido. Non solo, ma l’Avvocatura dello Stato riteneva che la Corte, in altra sede e cioè con sentenza n. 56 del 26 settembre 1958, avesse già dato dell’art. 51 un’interpretazione che avrebbe consentito al legislatore di stabilire esclusioni o ammissioni a pubblici uffici, muovendo dall’appartenenza all’uno o all’altro sesso dei candidati a tali uffici. In particolare, la legge 27 dicembre 1956, n. 1441, in applicazione dell’art. 102, ultimo comma, della Costituzione, relativo alla partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia, aveva ammesso anche le donne a far parte delle Corti d’assise, prescrivendo, però, che dei sei giudici popolari, che componevano il collegio, almeno tre devono essere uomini. In questo modo i componenti donne nei collegi di Corte d’assise non potevano essere più di tre, ossia la metà dei giudici popolari. In effetti, nella sentenza n. 56 del 26 settembre 1958, il dubbio che si poneva era il seguente e cioè, se il limite numerico fosse legittimo oppure non fosse piuttosto in contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione, che sanciscono, rispettivamente, l’eguaglianza giuridica dei cittadini senza distinzione di sesso e l’accesso agli uffici pubblici dei cittadini dell’uno e dell’altro sesso in condizioni di uguaglianza. L’illegittimità della norma era stata sollevata ritenendo che l’equiparazione dei sessi, riconosciuta negli articoli 3 e 51 della Costituzione, fosse assoluta e che la riserva di legge, contenuta nell’art. 51, riguardasse solo i requisiti che il legislatore doveva fissare per potere accedere ai pubblici uffici, e cioè la cittadinanza, l’età, il godimento dei diritti civili e politici, il titolo di studio, ma non anche quello del sesso, a proposito del quale la Costituzione avrebbe stabilito un principio di assoluta eguaglianza. Tale principio sarebbe stato violato proprio dalla legge n. 1441 del 1956, che richiedeva un numero minimo di giudici popolari di sesso maschile e non assicurava per altro verso anche un numero minimo di giudici popolari di sesso femminile, realizzando un trattamento diverso e per certi aspetti privilegiato per gli uomini, e, come tale, costituzionalmente illegittimo. La sentenza n. 56 del 26 settembre 1958 sorprende perché la Corte costituzionale segnalava come non vi fosse alcuna violazione del principio di uguaglianza, ma che, in base allo stesso dettato dell’art. 51 fosse possibile per il legislatore ordinario dare rilievo a specifiche attitudini, tra cui poteva collocarsi senza dubbio il sesso”.

[13] L’art. 29 Cost. prevede che: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

[14] L’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei  confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la  discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e,  in particolare, ad assicurare “gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome”; Vanno, parimenti, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998, e, ancor prima, la risoluzione n. 37 del 1978, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra madre e padre  nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che  vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome”.

[15] B. AGOSTINELLI, Il cognome materno tra parità dei coniugi e identità personale del figlio, in Riv. OIDU, 2017, 104: “Il prossimo passo non dovrà – o non dovrebbe – compierlo ancora una volta un giudice, ma il legislatore, cui spetta il lavoro più arduo, perché, come già prospettato in Corte Cost. n. 61/2006, quello che si apre al legislatore è il largo ventaglio di una “serie di opzioni”, che vanno “da quella di  rimettere  la  scelta del  cognome esclusivamente”  alla volontà dei coniugi “con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe  attenersi in caso di mancato accordo – ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di  derogare ad una  regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi”. Si tratta  certo di un compito delicato, oltreché  tecnicamente complesso (ma non mancherebbero spunti in molti singoli ordinamenti europei) – che dovrà peraltro regolare, alla luce della sentenza in parola, anche la posizione del figlio nato fuori dal matrimonio – e che andrà a toccare le sensibili corde della tradizione più radicata. Del resto, la  valenza ideale, seppure talvolta  agitata  ideologicamente, di alcune riforme positive può risultare utile a fertilizzare un nuovo humus culturale, a patto che non distolga dalla ricerca di benefici più concreti e più implicati nella  costante ridefinizione  di rapporti e ruoli all’interno della famiglia, che procede anche, ma non solo, dalle norme e dalla loro interpretazione.

[16] Corte Cost. sent. 123/1969: “nel caso di specie, le “azioni positive” disciplinate dalle disposizioni impugnate sono dirette a superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale. A tal fine è prevista, in relazione a un settore di attività caratterizzato da una composizione personale che rivela un manifesto squilibrio a danno dei soggetti di sesso femminile, l'adozione di un trattamento di favore nei confronti di una categoria di persone, le donne, che, sulla base di una non irragionevole valutazione operata dal legislatore, hanno subìto in passato discriminazioni di ordine sociale e culturale e, tuttora, sono soggette al pericolo di analoghe discriminazioni. Trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di effettiva disparità di condizioni in una connotata da una sostanziale parità di opportunità, le “azioni positive” comportano l'adozione di discipline giuridiche differenziate a favore delle categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al generale principio di formale parità di trattamento, stabilito nell'art. 3, primo comma, della Costituzione. Ma tali differenziazioni, proprio perché presuppongono l'esistenza storica di discriminazioni attinenti al ruolo sociale di determinate categorie di persone e proprio perché sono dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni personali (sesso) in ragione della garanzia effettiva del valore costituzionale primario della “pari dignità sociale”, esigono che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche e politiche del Paese. Infatti, se ne fosse messa in pericolo l'applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale, il rischio che le “azioni positive” si trasformino in fattori (aggiuntivi) di disparità di trattamento, non più giustificate dall'imperativo costituzionale di riequilibrare posizioni di svantaggio sociale legate alla condizione personale dell'essere donna, sarebbe di tutta evidenza”. 

[17] S. TROILO, I nuovi diritti sociali. La parabola dell’integrazione scolastica dei disabili tra principi e realtà, in Forum Costituzionale, 2016: “La Consulta, poi, non si limita a risolvere un problema concreto attraverso la rimozione di una norma illegittima, ma scioglie diversi  nodi problematici, a cominciare dall’interpretazione da dare all’articolo 34 Cost. Per il Giudice delle leggi, infatti, “riconoscendo in via generale l’istruzione come diritto di tutti i cittadini, l’art. 34, primo comma, Cost. pone un principio nel quale la basilare garanzia apprestata dall’art. 2 Cost. trova   espressione in riferimento a quella formazione sociale che è la comunità scolastica. L’art. 2, poi, si raccorda e si integra con l’altra norma di cui all’art. 3, secondo comma, che richiede il superamento delle sperequazioni di situazioni sia economiche che sociali suscettibili di ostacolare il pieno sviluppo  delle  persone  dei  cittadini”. L’art.  38 Cost., a sua volta, sancisce il diritto all’educazione di inabili e minorati, non solo in quanto strumento funzionale alla loro formazione professionale, ma soprattutto in quanto principio volto ad integrare il disposto dell’art. 34: infatti, “l’inserimento nella scuola e l’acquisizione di una compiuta istruzione sono strumento fondamentale per quel “pieno sviluppo della persona umana” che” gli artt.2 e 3 Cost. “additano come meta da raggiungere”. Il diritto all’educazione non va dunque inteso in senso stretto, ma come un vero e proprio “diritto ad una piena socialità del ragazzo portatore di handicap”, che non è riservato solo ai menomati fisici, ma va garantito anche ai “soggetti incisi da distorsioni nella sfera psichica” e che è fondato su  “un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale” (per cui “il canone ermeneutico da impiegare in detta materia è essenzialmente dato dall’interrelazione e integrazione tra i precetti in cui quei valori trovano espressione e tutela”).Quanto poi al diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi, garantito dall’art. 34 Cost. solo ai “capaci e meritevoli”, la Consulta rifiuta la tesi secondo cui tale espressione comporta una esclusione inevitabile dei soggetti handicappati dalla scuola superiore, in quanto incapaci. Ciò, infatti, “equivarrebbe a postulare come dato insormontabile una diseguaglianza di fatto, rispetto alla quale è invece doveroso apprestare gli strumenti idonei a rimuoverla, tra i quali è appunto fondamentale l’effettivo inserimento di tali soggetti nella scuola”. Capacità e merito non devono essere, dunque, usati come criteri per valutare il raggiungimento di determinati livelli standardizzati fissati per lo studente medio, poiché questo discriminerebbe a priori determinate categorie di soggetti in base a condizioni personali di fatto; tali presupposti devono, invece, assumere significato nuovo e differenziato in ragione delle varie minorazioni e degli handicap soggettivi”.

[18] Corte Cost. sent. 38/1960: “É compito dello Stato provvedere “all'educazione e all'avviamento professionale” dei minorati. Per i minorati del lavoro il decreto ha istituito presso ogni Ufficio provinciale del lavoro la commissione di cui all'art. 4, essa, nei riguardi degli invalidi aspiranti a collocamento, procede - in base ad attestato dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro circa il grado di riduzione della capacità lavorativa dei minorati e a documenti atti a dimostrarne le attitudini lavorative e professionali sia generiche che specifiche - a dichiarare l'idoneità al lavoro non in forma generica, ma distinguendo gli aspiranti per categorie professionali anche in relazione al tipo di imprese alle quali essi possono essere avviati. Né deve si omettere il rilievo che della commissione, presieduta dal dirigente dell'Ufficio del lavoro, fanno parte, a fianco di due rappresentanti dell'associazione minorati del lavoro e di uno delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, due rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro. Eseguita questa opera di accertamento e di selezione nei confronti dei minorati che, provvisti di residua capacità, sono ancora in grado di prestare opera lavorativa, deve si provvedere al loro “avviamento professionale”: locuzione che non può essere intesa come sinonimo di “educazione e che invece, a integrazione di questa, prescrive il compito ultimo per rendere operante il disposto del terzo comma dell'art. 38. Compito che si sostanzia e realizza nell'effettivo collocamento al lavoro; e tal fine, in armonia con il quarto comma dello stesso art. 38, viene nella specie assolto dallo Stato a mezzo di un suo organo, la commissione prevista dall'art. 4 del decreto. La quale provvede appunto al collocamento dei minorati e attua il reinserimento di essi nel mondo del lavoro, avviandoli, secondo le modalità stabilite dal decreto, a posti nei quali gli invalidi possano essere utilmente impiegati tenuto conto delle loro attitudini e capacità”.

[19] In seguito, nella sent. 233/2005, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili; nella sent. 158/2007, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati dalla norma, anche per il coniuge convivente con “soggetto con handicap in situazione di gravità”, il diritto a fruire del congedo straordinario.

[20] In codesta sentenza, la Corte sottolinea che, dalla disciplina normativa relativa alla categoria dei figli incestuosi “deriva, in danno della prole nata da genitori legati dai rapporti familiari indicati dall’art. 251 del Codice civile, una capitis deminutio perpetua ed irrimediabile, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti; una discriminazione compendiata, anche nel lessico del legislatore, nell’espressione “figli incestuosi”. La violazione del diritto a uno status filiationis, riconducibile all’art. 2 della Costituzione, e del principio costituzionale di uguaglianza, come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali, è evidente e non richiede parole di spiegazione. Nessuna discrezionalità delle scelte legislative, con riferimento al quarto comma dell’art. 30 della Costituzione, che abilita la legge a dettare norme e limiti per la ricerca della paternità, può essere invocata in contrario: non è il principio di uguaglianza a dover cedere di fronte alla discrezionalità del legislatore, ma l’opposto”.

[21] MAZZOTTA, Ragionare per modelli: conciliare lavoro e non lavoro nella crisi economica. Spunti per una riflessione, in M. V. BALLESTRERO, G. DE SIMONE (a cura di), Persone, lavori, famiglie. Identità e ruoli di fronte alla crisi  economica,  2009, Torino, Giappichelli, p. 6

[22] Corte Cost. sent. 51/1967. Diversamente, a giudizio della Corte, non possono ritenersi offese alla dignità rapporti gerarchici derivanti da compiti e responsabilità richiesti dalla finalità dell’attività cui si concorre. La considerazione di codesta forma di esistenza può trovare traduzione normativa in un “trattamento” (assistenziale) mirante ad assicurarla, o in “restrizioni” a poteri del datore di lavoro”.

[23] C. TRIPODINA, Il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di cittadinanza, cit. p. 128

[24] S.RODOTÀ, La dignità della persona, Intervento alla Scuola di Cultura Costituzionale, 14 gennaio 2011, pp. 6-7

[25] G. BUTTARELLI, Diritti fondamentali e libertà di iniziativa economica, in Privacy, 2002

[26] G. M. FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Riv. AIC, 2014, 16: “La espansione e la pervasività del mercato propongono continuamente nuove possibilità di aggressione alla dignità; richiedono correlativamente nuove chances di tutela. Da ciò quello che nell’art. 41 Cost. si rivela essere un vero e proprio monito di portata generale, di fronte a questo tipo di rischi insiti nella globalizzazione. È un monito che sino ad ora è stato evidentemente ritenuto opportuno se non necessario, come risulta dal fatto che l’art. 41 Cost. non è stato ancora  modificato sul punto, nonostante le reiterate critiche, dichiarazioni di intenti e proposte per la sua modifica in senso liberista”.

[27] A. NICOLUSSI, Autonomia contrattuale e diritti della persona, in Giurisprudenza per principi e autonomia privata, 2017, 125

[28] Tra i “considerando” del Regolamento (CEE)  n. 1612/68 del Consiglio del 15 ottobre 1968 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, si ricava quanto segue: “considerando che il diritto di libera  circolazione richiede, perché esso possa essere esercitato in condizioni obiettive di libertà e di dignità, che sia  assicurata di diritto e di fatto la parità di trattamento per tutto ciò che si riferisce all'esercizio stesso di un'attività subordinata e all'accesso all'alloggio, e che siano anche eliminati gli ostacoli che si oppongono alla mobilità dei lavoratori, specie per quanto riguarda il diritto per il lavoratore di farsi raggiungere dalla famiglia e le condizioni   d'integrazione della famiglia nella società del paese ospitante”.

[29] Il quinto considerando della direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, prevede che: “il  diritto di ciascun cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli  Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza”.

[30] L’art. 12 della direttiva 89/552/CEE del Consiglio, del 3 ottobre 1989, relativa al coordinamento di determinate  disposizioni  legislative, regolamentari e amministrative degli Stati  Membri concernenti l'esercizio delle attività  televisive, afferma che la pubblicità televisiva non deve “vilipendere la dignità umana”.

[31] A. CELOTTO, G. PISTORIO, L’efficacia giuridica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2001-2004: “La sentenza della CGCE del 9 ottobre 2001, causa C-377/98, Regno dei Paesi Bassi contro Parlamento e Consiglio UE, ha ad oggetto l’annullamento della direttiva comunitaria n. 44/98/CE (concernente la protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche) per asserita violazione del diritto all’integrità della persona e, più in generale, dei diritti fondamentali degli esseri umani. La Corte risolve la controversia giudiziaria senza alcun riferimento alla tutela accordata a tali diritti dalla Carta di Nizza, sebbene l’Avvocato Generale Jacobs, nelle sue conclusioni presentate il 14 giugno 2001, avesse invocato il diritto alla dignità umana, sancito dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali, in quanto considerato “il più fondamentale” dei diritti ed, avesse, inoltre, riconosciuto che il diritto ad un consenso libero e informato da parte sia delle persone dalle quali vengono prelevati elementi del corpo umano, sia dei destinatari di cure mediche – che trova attualmente espressione all'art. 3, n. 2, della Carta UE, il quale prescrive che nell'ambito della medicina e della biologia dev'essere rispettato “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge” – debba essere considerato un diritto fondamentale strettamente connesso alla tutela del diritto alla vita e all’integrità psico-fisica. Un importante e significativo riferimento allo stretto rapporto che intercorre tra l’inviolabilità della dignità umana e il diritto all’integrità psico-fisica della persona è presente nell’ordinanza della CGCE, V sezione, 19 marzo 2004, relativa alla causa C-196/03, Lucaccioni contro la Commissione delle Comunità europee. In tale occasione, il ricorrente, il sig. Arnaldo Lucaccioni, ex dipendente della Commissione delle Comunità europee, nelle sue conclusioni si rivolge alla Corte per ottenere il risarcimento dei danni morali e biologici che gli sono stati provocati dalla Commissione nel periodo compreso fra il 1967 e il 1990, sulla base del diritto comune, degli artt. 1 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, derivanti dalla colpa nonché dalla responsabilità non scusabile della Commissione per aver violato la sua dignità umana e il suo diritto all'integrità fisica e psichica. Tuttavia, anche in tal caso, la Corte decide senza alcun riferimento alla Carta di Nizza”.

[32] G. MONACO, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, in Forum Costituzionale, 2011: “Si pensi, ad esempio, al caso del rifiuto di permesso di soggiorno richiesto da alcune donne polacche e della Repubblica Ceca, che intendevano stabilirsi in Olanda per esercitare l’attività della prostituzione. In quella occasione la Corte si è limitata a prendere atto che la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita e dunque un’attività economica. Su tale presupposto, considerato, altresì, che l’esercizio della prostituzione in Olanda era autorizzato, ha ritenuto che detto Stato non potesse rifiutare l’applicazione di accordi in materia di stabilimento tra la Comunità da un lato e la Polonia e la Repubblica Ceca dall’altro, per motivi di moralità o di ordine pubblico. Nessun tipo di riferimento è stato fatto alla dignità dell’uomo, sebbene proprio nel caso della prostituzione appaia evidente che l’uomo o la donna sono considerati un mezzo e non certo un fine. A tal proposito si può ricordare che, diversamente, la Corte costituzionale italiana, con riferimento alla legge n. 75/1958 che aveva abolito la regolamentazione della prostituzione e che aveva introdotto, altresì, il reato di sfruttamento della prostituzione, aveva evidenziato lo stretto legame tra attività della prostituzione ed esigenze di tutela della dignità dell’uomo, indicando come alla base della nuova normativa ci fossero “particolari ragioni di tutela della dignità umana”. Un qualche riferimento alla dignità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia si poteva trovare, comunque, già prima della formulazione della Carta dei diritti del 2000, così ad esempio nel caso del licenziamento di un transessuale per motivi legati al suo mutamento di sesso. In quella occasione la Corte di Giustizia, pur ritenendo che la direttiva concernente la parità di accesso al lavoro tra uomini e donne fosse innanzi tutto espressione del principio di uguaglianza, ha evidenziato al contempo come il diritto a non essere discriminato in   ragione del proprio sesso, costituisse uno dei diritti fondamentali della persona e un’eventuale discriminazione del genere avrebbe determinato una violazione della dignità e della libertà cui ogni persona ha diritto”.

[33] Fatta eccezione per l’Albania che, invece, ha sottoscritto tale documento soltanto nel 1990

[34] Oltre a quanto affermato in precedenza, appare necessario menzionare il riferimento alla dignità umana nell’art. 31 (“Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose) e nell’art. 34 comma 3 (“Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l'Unione riconosce e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”) nella suddetta Carta.

[35] A tal proposito, nel Preambolo, gli Stati firmatari affermano di essere “convinti della necessità di rispettare  l’essere umano sia come individuo che nella sua appartenenza alla specie umana e riconoscendo l’importanza di assicurare la sua dignità” e si dichiarano altresì “consapevoli delle azioni che potrebbero mettere in pericolo la dignità umana da un uso improprio della biologia e della medicina”. L’art. 1 riconferma, poi, l’intento delle Parti di proteggere sempre “l’essere umano nella sua dignità e nella sua identità” e di assicurare “ad ogni persona, senza  discriminazione, il rispetto della sua integrità e dei  suoi  altri  diritti  e  libertà fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina”. Il Rapporto esplicativo sottolinea che “il concetto di dignità umana costituisce il valore essenziale da difendere. È, infatti, alla base della maggior parte dei valori cui viene data importanza nella Convezione”.

[36] Nel Preambolo del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Oviedo circa il trapianto di organi e di tessuti di origine umana si evince, infatti, che un uso improprio del trapianto di organi o tessuti potrebbe minacciare la vita,  il benessere o la dignità umana”. Nel Preambolo del Protocollo aggiuntivo sul divieto di clonazione degli esseri umani, invece, si considera “contraria alla dignità dell’uomo” ed “uso improprio della  biologia e della medicina” la strumentalizzazione dell’individuo che si attuerebbe “con la creazione intenzionale di esseri umani geneticamente identici”

[37] In linea con ciò si pone la ratio del c.d. testamento biologico. Sul punto, I. BALDINO, Il testamento biologico nell’ordinamento giuridico italiano, in Opción, 2011, 64: “Il testamento di vita sarebbe la valida alternativa nelle ipotesi in cui la volontà non possa rinnovarsi, come scelta di cura personale dell’incapace. Ciò risulta anche confermato dalle recenti pronunce giurisprudenziali, in particolare quella relativa al noto caso Englaro, la sentenza 27145/08, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione concessero l’autorizzazione all’interruzione dei trattamenti “salvavita” della giovane Eluana, ridotta in stato vegetativo permanente, a causa di un incidente stradale. Si trattò di una sentenza fondamentale, in quanto attuativa ed esecutiva della volontà di Eluana così come ricostruita sulla base delle testimonianze del padre e delle persone alle quali Eluana avrebbe espresso il desiderio di essere lasciata morire se si fosse trovata in condizioni di fine vita. Infatti emerse non solo che Eluana non avrebbe voluto essere un mero soggetto passivo di un trattamento finalizzato al mero sostegno artificiale per la sua sopravvivenza biologica, ma anche le ragioni del “perché” non avrebbe ammesso tale possibilità: in particolare perché considerava radicalmente incompatibile con le sue concezioni di vita uno stato patologico di totale incapacità motoria e di assoluta deprivazione sensoriale che le impedisse completamente di muoversi, di sentire e di pensare, passivamente restando come un semplice “oggetto” in balia dell’altrui volontà. Nonostante nella Costituzione italiana il diritto all’autodeterminazione delle cure ed il principio della volontarietà dei trattamenti sia implicitamente affermato, e nonostante i contributi giurisprudenziali, in Italia non è ancora stata emanata una legge sul testamento biologico. C’è un vuoto normativo che necessita di essere colmato, affinchè l’Italia si adegui al mutato panorama europeo ed internazionale, in quanto già molti ordinamenti sono dotati di una legge sul testamento biologico”.  

[38] MANTOVANI F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 37 ss.

[39] In particolare, G. MANIACI, Perché abbiamo un diritto costituzionalmente garantito all’eutanasia e al suicidio assistito, in Riv. AIC, 2019, riporta un esempio volto a far riflettere sull’indeterminatezza del concetto di dignità umana: “se affermo che lo Stato può impedire, con la forza, all’agente di consumare eroina, perché ciò lede la sua dignità di uomo, ciò significa che l’agente lede quella particolare forma di considerazione e rispetto che lui deve a se stesso, non rilevando, nel dibattito paternalismo/antipaternalismo, il rispetto che deve agli altri, in quanto esseri umani, perché non sta cagionando (per ipotesi) danni fisici, psicofisici o economici a nessun altro (ovvero tali danni non sono direttamente rilevanti ai fini di un argomento paternalista). L’agente, consumando eroina, non avrebbe rispetto di sé, lederebbe il suo bene. Ma perché? Perché, appunto, farebbe parte del rispetto che ciascuno deve a sé stesso, del suo bene, rispettare la volontà divina (argomento teologico), non far soffrire i genitori (argomento utilitarista/organicista) oppure coltivare determinate virtù (argomento perfezionista). Se mi limito ad affermare,  apoditticamente, che il consumare eroina o il suicidarsi (tramite il suicidio assistito) lede il rispetto che ciascuno deve a sé stesso, senza aggiungere altro, la mia argomentazione non spiega nulla, rimane totalmente inde-terminata, appunto razionalmente insufficiente”.

[40] P. BILANCIA, Dignità umana e fine vita in Europa, in Consulta Online, 2020, 2.