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Pubbl. Mer, 15 Lug 2020

Le Sezioni Unite delimitano l’ambito applicativo dell´abrogata ”protezione umanitaria”

Floriana Coccia



La ”protezione umanitaria” può essere riconosciuta allo straniero che abbia presentato la domanda prima del D.L. 113/2018, ma non è sufficiente l´integrazione sociale ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (SS.UU. n. 29459/2019).


Sommario: 1. Premessa: le novità apportate dal D.L. 113/2018 al diritto dell’immigrazione; 2. La questione controversa rimessa alle Sezioni Unite; 3. La soluzione delle Sezioni Unite.

Sommario: 1. Premessa: le novità apportate dal D.L. 113/2018 al diritto dell’immigrazione; 2. La questione controversa rimessa alle Sezioni Unite; 3. La soluzione delle Sezioni Unite.

1. Premessa: le novità apportate dal D.L. 113/2018 al diritto dell’immigrazione

Il diritto dell’immigrazione è spesso il bersaglio dell’azione riformatrice del legislatore. Difatti, il più recente intervento normativo risale al d.l. n. 53/2019, mentre nel 2018, con il d.l. sicurezza - il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv. con mod. in l. 1° dicembre 2018, n. 132 -  è stato in parte ridisegnato il sistema della tutela giurisdizionale garantita allo straniero, con particolare riferimento alla tutela del c.d. "migrante involontario".

La riforma ha abrogato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendola con alcune ipotesi tassative di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario. Nello specifico, è stato riformato l'art. 5 T.U.I. nella parte in cui vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno in presenza di seri motivi di carattere umanitario ovvero risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.

La norma, sulla quale si era, perciò, incardinato l'istituto della protezione umanitaria, era richiamata dall'art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25/08 che, con riferimento alla domanda diretta ad ottenere lo status di rifugiato o quello di protezione sussidiaria, consentiva il rilascio del permesso di soggiorno in presenza di gravi motivi di carattere umanitario. L’abrogato permesso, dalla durata biennale e rinnovabile, poteva poi essere convertito in un permesso per motivi di lavoro (art. 14 del d.P.R. n. 394/99) ovvero per motivi familiari (art. 30 T.U.I.).

Ad avviso del legislatore, autore della novella abrogativa, la definizione – “dai contorni incerti” –  di protezione umanitaria lasciava “ampi margini ad una interpretazione estensiva in contrasto con il fine di tutela temporanea di esigenze di carattere umanitario per il quale l'istituto è stato introdotto nell'ordinamento”, rispetto al quale sorgeva la necessità di “delimitare l'ambito di esercizio di tale discrezionalità alla individuazione e valutazione della sussistenza di ipotesi predeterminate nella norma[5].

In sostituzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sono state perciò introdotte ipotesi tassative di titoli di soggiorno riconducibili a esigenze umanitarie. Accanto a questi permessi, il legislatore ha altresì introdotto una nuova forma di protezione cd. “speciale”, consentendo alle Commissioni territoriali di trasmettere gli atti al questore affinché rilasci un permesso di soggiorno annuale di "protezione speciale", qualora non sia stata accolta la domanda di protezione internazionale, ma comunque sussistano i presupposti previsti dall'art. 19 del d.lgs. n. 286/98, fatta salva l’ipotesi di allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga.

La protezione speciale è quindi configurata come norma di chiusura, in ideale contraltare all'apertura del catalogo dei seri motivi già contemplati dall'art. 5 T.U.I. e perciò mentre nella disciplina abrogata i seri motivi umanitari costituivano il titolo per rimanere in Italia, in quella odierna, la protezione speciale si traduce nel diritto di non essere allontanati, espressione del divieto di refoulement.  

Tuttavia, conformemente a quanto espressamente previsto dalla novella, la nuova disciplina non è applicabile né ai i permessi di soggiorno per motivi umanitari già rilasciati che perciò restano validi fino alla loro naturale scadenza, né ai procedimenti non ancora conclusisi in cui le Commissioni territoriali abbiano ritenuto la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario. Tali casi continuano a essere regolati secondo la disciplina precedente.

Tuttavia, il legislatore non ha provveduto a delineare il regime intertemporale applicabile ai giudizi ancora in corso qualora l’istanza, rivolta all’ottenimento del permesso di soggiorno umanitario, sia stata presentata prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 113/18 ma nello svolgimento del processo sia stata emanata la novella.

2. La questione controversa rimessa alle Sezioni Unite

Ebbene, nel giudizio sottoposto all'esame della Corte, si era configurato proprio il caso non espressamente contemplato dal regime intertemporale della novella: lo straniero aveva impugnato il provvedimento con il quale la Commissione territoriale aveva respinto la sua richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari e non gli aveva riconosciuto né lo status di rifugiato né la c.d. protezione sussidiaria.

L’impugnazione veniva parzialmente accolta, prima dell'entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, con conseguente rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. La Corte d’Appello, infatti, rilevato l’inizio dell’attività lavorativa da parte del richiedente, gli riconosceva l’acquisita indipendenza economica e personale e l’integrazione sociale.

Contro tale sentenza, il Ministero dell’Interno proponeva ricorso, inaugurando una nuova fase processuale, durante il cui svolgimento veniva emanata la novella abrogativa, che ha perciò posto le predette problematiche afferenti il relativo regime intertemporale.

Per decidere il ricorso, quindi, risultava necessaria la preliminare soluzione delle questioni inerenti alla permanente configurabilità, dopo il decreto Salvini, del permesso di soggiorno per motivi umanitari ed ai presupposti utili al  suo rilascio. 

3. La soluzione delle Sezioni Unite

Il cd. decreto Salvini, pur prevedendo alcune disposizioni atte a risolvere problematiche temporali transitorie, mancava di inquadrare tutte le questioni emerse nella prassi all’indomani della sua entrata in vigore, compresa quella attinente al caso oggetto della sentenza de quo.

In particolare, sulla questione, si erano delineati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti.

Secondo una prima impostazione[1], già consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, il decreto Salvini non troverebbe applicazione in relazione a domande presentate prima della sua entrata in vigore, in virtù del principio di irretroattività di cui all’art. 11 prel., che non può essere derogato di fronte a un mutamento del fatto generatore del diritto azionato o delle sue conseguenze giuridiche, dovuto a una disciplina sopravvenuta.

Infatti, il diritto dello straniero di ottenere il permesso di soggiorno, fondato su seri motivi umanitari, sorge per effetto del verificarsi delle condizioni di vulnerabilità e si cristallizza con la proposizione della domanda. Tale soluzione interpretativa si mostrerebbe, altresì, conforme al principio di ragionevolezza ed alle esigenze di tutela del legittimo affidamento, ingenerato nello straniero istante che abbia confidato nella normativa vigente al momento della presentazione della domanda.

Sarebbe, infatti, irragionevole che venissero trattate diversamente situazioni giuridiche sostanziali simili – perché caratterizzate dalla sussistenza dei presupposti necessari per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari e dalla avvenuta presentazione dell'istanza – in ragione della circostanza, del tutto eventuale, che la commissione territoriale abbia deliberato prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.

Tuttavia, secondo tale ricostruzione, nonostante il diritto sia già sorto, la fase della sua attuazione dovrà essere disciplinata dalla normativa sopravvenuta. Di conseguenza, in caso di domanda anteriore all’entrata in vigore del decreto Salvini, il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie dovrà essere rilasciato valutando i presupposti sulla base della legge precedente, ma sarà disciplinato, quanto alla durata e ad altri aspetti procedimentali, dal d.l. 113/18, quale unica disciplina applicabile al momento dell’accertamento giudiziale del diritto.

Diversamente, secondo una diversa ricostruzione, esplicitata anche nell’ordinanza interlocutoria[2], in base agli artt. 73 Cost. e 10 Prel., il decreto Salvini non sarebbe applicabile a domande già proposte al momento della sua entrata in vigore. Viene così, esclusa, ai fini risolutori della questione, la rilevanza dell’art. 11 preleggi e del principio di irretroattività.

La riforma, infatti, essendo stata emanata con lo strumento del decreto legge, per definizione, deve contenere “misure di immediata applicazione”. Inoltre, nell’ordinanza interlocutoria, si evidenzia la fallacità del ragionamento, esplicitato dall’orientamento prevalente, nella parte in cui esclude l’applicazione del diritto sopravvenuto ai giudizi in corso ma ne conferma l’applicabilità sotto il profilo del nome e della durata del permesso di soggiorno da rilasciare.

In tal modo si finirebbe con il creare una norma transitoria nuova, non prevista dal decreto.

Rispetto alla questione di diritto intertemporale ora esposta, le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento consolidato, respingendo le argomentazioni avanzate nell’ordinanza interlocutoria: il decreto Salvini non è applicabile retroattivamente alle domande già presentate al momento della sua entrata in vigore.

Preliminarmente, le Sezioni Unite rilevano l’irrilevanza del richiamo, da parte dell’ordinanza interlocutoria, degli artt. 73 Cost. e 10 prel., giacché la quaestio iuris non attiene all’immediata applicabilità della nuova norma, ma alla sua eventuale applicazione retroattiva.

La nuova normativa, dal momento della sua emanazione, è immediatamente applicabile ma ciò non esclude che possa continuare a trovare applicazione la norma abrogata, in relazione al passato e cioè rispetto ai fatti verificatisi prima della riforma.

Pertanto, viene in rilievo il principio di irretroattività che, nella materia in esame, al contrario di quanto avviene per la materia penale, non ha copertura costituzionale, ma trova la sua fonte nell’art. 11 prel..

Il principio di irretroattività è finalizzato alla tutela dei diritti e non dei fatti, così da impedire la modifica della rilevanza giuridica di fatti già verificatisi compiutamente (nel caso di fattispecie istantanea) o di una fattispecie non ancora esauritasi (in caso di fattispecie di durata non ancora completa al momento dell’abrogazione).

La retroattività, pertanto, non si esaurisce nell’immediata applicabilità di una nuova normativa vigente, ma permette di regolare diversamente fatti già avvenuti, sotto la vigenza della legge anteriore, consentendo l'estensione “a ritroso” della sua applicabilità[3].

Di conseguenza, laddove si consentisse l’applicazione del decreto Salvini ai giudizi, ancora in corso al momento della sua entrata in vigore, si avrebbe una applicazione retroattiva del decreto stesso.

Inoltre, per le Sezioni Unite, il permesso di soggiorno non è una “fattispecie complessa e a formazione progressiva” ma il diritto sorge nel momento in cui si verifica la situazione di vulnerabilità che integra la fattispecie astratta. Il procedimento non incide sull’insorgenza del diritto, ma si limita ad accertarne la sussistenza. Non residua alcun potere discrezionale in capo all’ente pubblico al quale lo straniero domandi il rilascio del permesso di soggiorno.

L’autorità amministrativa deve limitarsi ad accertare la sussistenza dei presupposti di fatto che danno luogo alla protezione umanitaria, poiché il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate è riservato al legislatore. La qualità di rifugiato non è degradabile a interesse legittimo, per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo e pertanto non dipende dal suo riconoscimento.

È un diritto soggettivo[4], da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dall'art. 2 Cost. e art. 3 della convenzione Europea dei diritti dell'uomo. Tutte le protezioni umanitarie sono quindi ascrivibili all'area dei diritti fondamentali e in particolare sono espressione del diritto di asilo, tutelato dalla Costituzione. Il diritto di asilo, costruito come diritto della personalità, spetta allo straniero - in quanto essere umano - bisognoso di aiuto, che, allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale (Corte Cost. 10 aprile 2001, n. 105; 8 luglio 2010, n. 249).

Di conseguenza, anche i nuovi istituti – che ne sono la diretta applicazione – devono essere interpretati ed applicati, nel rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali. Le norme, rivolte alla regolazione del soggiorno dell'esule, alla definizione dei criteri di accertamento dei requisiti richiesti per l'asilo e alle modalità del relativo procedimento di accertamento, possono essere definite dalla legge ma trovano, nelle norme costituzionali e internazionali, un limite invalicabile.

Ebbene, l’applicazione retroattiva del decreto n.113/2018 entrerebbe in frizione con la tenuta dei valori costituzionalmente tutelati, laddove comportasse il diniego del permesso per ragioni umanitarie, sulla base di una diversa valutazione giuridica dei fatti già accaduti e posti a base dell’istanza per il rilascio del predetto.

Infatti, nonostante il diritto di asilo nasca al momento dell’ingresso del richiedente nel territorio della Repubblica Italiana, in condizioni di vulnerabilità che mettano a repentaglio l'esercizio dei propri diritti fondamentali, solo con la presentazione della domanda si individua il regime normativo della protezione per ragioni umanitarie da applicare. Inoltre, sarebbe irragionevole assegnare un diverso trattamento normativo a situazioni soggettive sostanziali già sorte e fatte valere con la domanda, per il solo fatto che qualcuna di esse, al momento di entrata in vigore della novella, per ragioni che sfuggono alle possibilità di controllo dei rispettivi titolari, sia stata già favorevolmente delibata nel corso di un procedimento ricognitivo.

Una tale ricostruzione, inoltre, non si pone nemmeno in contrasto con il principio di eguaglianza, comportando un trattamento differenziato tra coloro che abbiano presentato la domanda entro il 5 ottobre 2018 e coloro che, pur trovandosi nella medesima situazione, non l'abbiano fatto. Spetta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme (tra varie, Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194 e 23 maggio 2018, n. 104).

Ed è ragionevole che si applichino regole diverse a seconda del momento in cui il titolare della situazione soggettiva innesti il procedimento indirizzato alla tutela di essa, diversamente disciplinato nel tempo dal legislatore.

Risolta la questione preliminare di diritto intertemporale, nel senso della irretroattività del decreto Salvini rispetto alle domande già proposte, le Sezioni Unite risolvono la problematica legata alla possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno per “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” anche allo straniero che abbia conseguito uno stato di integrazione adeguato in Italia, in base a una valutazione comparativa con la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente nel pase d’origine.

L’ordinanza interlocutoria aveva sollevato alcune perplessità circa la possibilità di ancorare il rilascio del permesso di soggiorno in parola a questo tipo di valutazione, per via dell’assenza di un solido fondamento normativo, oltre che in ragione della vaghezza della valutazione comparativa richiesta.

La prima sezione, inoltre, aveva prospettato il dubbio in ordine al rapporto tra le due protezioni maggiori di matrice unionale – lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria – e la protezione umanitaria, che potrebbe andare a sovrapporsi con le altre due.

Le Sezioni Unite risolvono il quesito, proponendo un’analisi analitica del diritto dell’Unione Europea, ed in particolare della direttiva n. 2011/95/UE, la quale - come chiarito anche dalla Corte di giustizia - non osta alla previsione, da parte degli Stati membri, di tipologie di protezione ulteriori rispetto a quelle rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva.

Ciò a condizione che tali ulteriori forme di protezione abbiano caratteristiche che le distinguano chiaramente da quella concessa in forza della direttiva. Viene, di conseguenza, esclusa la sovrapponibilità tra le forme di protezione di matrice unionale e la protezione umanitaria nazionale.

Tanto premesso, quanto ai presupposti utili all’ottenimento della protezione umanitaria, le Sezioni Unite richiamano la necessità di interpretare la normativa, tenendo sempre conto dei diritti fondamentali che l’alimentano. In quest’ottica, occorre evitare che gli interessi protetti rimangano ingabbiati in ipotesi tassative, che ne limitino le possibilità di adeguamento elastico, conforme ai valori costituzionali e sovranazionali.

Pertanto, le Sezioni Unite condividono l’orientamento che riconosce rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente nel Paese di origine, allo scopo di vagliare se il rimpatrio possa comportare, ai danni dello straniero istante, la soppressione dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, la verifica – utile all’ottenimento della protezione umanitaria – deve incentrarsi sulla situazione specifica del soggetto interessato e non può essere limitata a considerazioni inerenti al contesto di generale compromissione dei diritti umani, accertati in relazione Paese di provenienza.

Al tal fine, non può nemmeno considerarsi sufficiente una verifica, astratta ovvero isolata, del solo livello di integrazione dello straniero in Italia.

Ciò premesso, in applicazione di questo principio, le Sezioni Unite hanno accolto il ricorso del Ministero, dal momento che la decisione del giudice di appello si fondava solamente sull’integrazione dello straniero derivante dalla recente assunzione da un datore di lavoro italiano, e non sulla prescritta valutazione comparativa.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass. civ., 4 febbraio 2019, n. 4890; Cass. civ., 2 aprile 2019, n. 9090; Cass. civ., 5 aprile 2019, n. 9650; Cass. civ., 10 aprile 2019, n. 10107; Cass. civ., 18 aprile 2019, n. 10922; Cass. civ., 2 maggio 2019, nn. 11558, 11559, 11560; Cass. civ., 3 maggio 2019, n. 11593; Cass. civ., 8 maggio 2019, n. 12182; Cass. civ., 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13082; Cass. civ., 20 maggio 2019, nn. 13558, 13560, 13561; Cass. civ., 22 maggio 2019, nn. 13883 e 13884; Cass. civ., 24 maggio 2019, n. 14278; Cass. civ., 19 giugno 2019, nn. 16457, 16460, 16461, 16462, 16463 e 16464; Cass civ., 27 giugno 2019, nn. 17306, 17308, 17310 e 17311; Cass. civ., 5 luglio 2019, nn. 18208, 18211, 18212, 18213 e 18214.

[2] Cass. civ., ord. 2 maggio 2019, n. 11749.

[3] Corte cost. 22 febbraio 2017, n. 73, nonché, tra le ultime, 12 luglio 2019, n. 174.

[4] Cass., sez. un., 29 gennaio 2019, n. 2441; 19 dicembre 2018, nn. 32778, 32777, 32776, 32775 e 32774; 28 novembre 2018, nn. 30758, 30757; 27 novembre 2018, n. 30658, Cass., sez. un., 12 dicembre 2018, n. 32177 e 11 dicembre 2018, nn. 32045 e 32044)

[5] pag. 3 della relazione di accompagnamento del decreto.