Pubbl. Sab, 11 Lug 2020
Il paradigma dell´inutilizzabilità derivata
Modifica paginaLa Consulta ha ritenuto che non possa trovare applicazione un principio di “inutilizzabilità derivata”, sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall’art. 185, co. 1, c.p.p. Corte Cost. n. 219/2019
Sommario: 1. Premessa; 2. L’inutilizzabilità derivata e le sue aporie; 3. Perquisizione illegittima, sequestro e inutilizzabilità: Corte Cost. nr. 219/2019; 4. Conclusioni.
1. Premessa
La questione della inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite nel corso del procedimento penale è uno dei temi che, a più riprese, ha coinvolto tanto la dottrina quanto la giurisprudenza.
L’inutilizzabilità degli atti probatori assunti in violazione dei divieti imposti dalla legge trova rifermento normativo all’art. 191 c.p.p. e si attesta, nel nostro ordinamento, come una sanzione a carattere processuale.
Il fondamento sostanziale di questa categoria processual-penalistica è inquadrabile nell’esigenza di dover operare un bilanciamento tra beni e interessi giuridici contrapposti quali, da un lato, la corretta amministrazione della giustizia e la completezza del quadro probatorio, e, dall’altro, i diritti del singolo, costituzionalmente garantiti, i quali, in atto, sono lesi e compressi dall’attività dell’A.G diretta all’accertamento della eventuale commissione di un reato. 1
Il fulcro del tema sottoposto al vaglio dalla dottrina e dalla giurisprudenza è, nella sostanza, relativo alla determinazione delle sorti delle prove raccolte in base a risultanze probatorie - che ne rappresentano il presupposto logico-fattuale - acquisite in violazione dei divieti imposti dalla legge.
Valida soluzione, a fini della risoluzione dell’annosa questione, è parsa, ad ormai risalente dottrina,2 la creazione della categoria della inutilizzabilità derivata, sul modello dell’invalidità derivata degli atti processuali.
Invero, ancorché il tentativo operato dalla scienza processual-penalistica possa dirsi meritevole di valorizzazione su di un fronte idealistico e opportunistico, nella realtà processuale tale categoria, di matrice dottrinale, non ha incontrato il beneplacito della giurisprudenza, in particolare quella Costituzionale, che, da ultimo, con la sentenza nr. 219/2019, è tornata nuovamente a esprimersi, negativamente, sull’ammissibilità di detto modello di reazione dell’ordinamento alla violazione dei divieti probatori.
La ricostruzione di una simile forma di reazione dell’ordinamento all’assunzione di prove dipendenti da precedenti risultanze probatorie illegittimamente acquisite, origina da un’interpretazione analogica della disposizione di cui all’art. 185 c.p.p. in materia di invalidità degli atti processuali. E’ sul modello della nullità derivata, infatti, ammessa e tipizzata dal legislatore, che si è ritenuto di poter forgiare l’istituto in esame.
A ben vedere, però, un simile procedimento di interpretazione analogica, fondamento di questa nuova sanzione processuale, porta con sé due aporie difficilmente superabili: la prima, è il tradimento del dettato codicistico e dei principi in materia di nullità degli atti processuali; la seconda, è la riscontrata difficoltà circa l’estensione del concetto di derivazione e dipendenza agli atti probatori.
Quanto al primo profilo indicato, invero scarsamente considerato, emerge con tutta evidenza, dal dettato ex art. 177 c.p.p., l’inopportunità, nonché l’impossibilità pratica, di ricorrere ad un siffatto procedimento interpretativo che, dalla previsione ex art. 185 c.p.p., porta alla creazione del modello della inutilizzabilità derivata.
La norma in esame – l’art. 177 c.p.p., infatti, che apre il titolo VII del libro II del codice di rito, colora di tassatività l’intera disciplina dell’invalidità degli atti processuali.
Da una stretta e corretta interpretazione dell’inciso “nei casi previsti dalla legge”, deriva l’impossibilità di estendere la disciplina dell’invalidità ad atti processuali che non siano stati, espressamente, attratti nell’alveo di questa categoria. A fortiori, dunque, dall’ evidente impossibilità di sanzionare con l’invalidità quegli atti che non siano stati espressamente previsti e contemplati dal legislatore, dovrebbe derivare, in automatico, l’impossibilità di estendere il medesimo regime agli atti probatori che, sistematicamente, e in tutta evidenza, sono stati, dal legislatore, esclusi dal campo di applicazione di questa forma di invalidità.
Ulteriormente, ad onta di quegli orientamenti che trascurano questo profilo di peculiare rilevanza, va sottolineato, per ragioni di completezza, che finanche la previsione di cui all’art. 191 c.p.p. è caratterizzata, in realtà, da profili di tassatività e tipicità. A ben vedere, infatti, il carattere tassativo ed eccezionale della previsione ex art. 191 c.p.p. viene canonizzato anche dalla giurisprudenza di legittimità. Con la pronuncia delle SS.UU. del 2010 3, il Supremo Consesso ha specificato che: “essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto al rango di paradigma del parametro del giusto processo, qualsiasi divieto positivamente introdotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale”.
Dalla pronuncia della Corte, in altre parole, si evince che anche la materia dei divieti probatori è, in realtà, coperta dalla riserva di legge, in quanto, comportando un necessario bilanciamento dei diversi interessi in gioco, la scelta della prevalenza di un interesse su un altro non può che spettare al legislatore nei limiti della ragionevolezza.
Ebbene, a voler ritenere percorribile la via dell’inutilizzabilità derivata, si determinerebbe, così facendo, una macroscopica lesione del principio di legalità che, in ogni caso, rilevando anche in materia di diritto processuale, difficilmente potrebbe giustificarsi.
Rispetto alla seconda fallacia ascrivibile all’istituto dell’inutilizzabilità derivata, invece, vengono in rilievo quegli orientamenti contrapposti che sono direttamente dipendenti dalla pretesa di estendere la disciplina dell’invalidità derivata ex art. 185 c.p.p. al regime degli atti probatori.
Il legislatore, contemplando esplicitamente il paradigma della nullità derivata, prescrive, ai fini della sua operatività, taluni presupposti essenziali tra i quali, primo tra tutti, la dipendenza dell’atto susseguente da quello presupposto.
Rispetto al concetto di dipendenza, invero, molto si è detto.
In via di principio, però, l’opinione oggi dominante qualifica il concetto di dipendenza come un rapporto di sequela caratterizzato da una necessaria presupposizione logico-giuridica. Dunque, se per quanto concerne gli atti processuali non sono sorte particolari problematiche nell’individuazione della presupposizione logico-giuridica, si pensi al rapporto intercorrente tra la richiesta di rinvio a giudizio e il decreto che dispone il giudizio, relativamente all’individuazione di questo legame tra gli atti probatori, si sono, ex adverso, contrapposti diversi orientamenti dottrinali. Alla stregua di una prima concezione 4, infatti, l’istituto dell’inutilizzabilità derivata non sarebbe modellabile sul paradigma dell’invalidità derivata perché, le risultanze probatorie, a differenza degli atti, sono prive di quel requisito di dipendenza logico-giuridica, prescritto ex art. 185 c.p.p., e caratterizzate, invece, solo da un mero legame di occasionalità.
In forza di un’altra prospettazione dottrinale 5, invece, l’inutilizzabilità derivata, costruita sul modello della nullità derivata, sarebbe ammissibile in base alla sussistenza del rapporto di dipendenza tra agli atti probatori intesa come “dipendenza sostanziale”.
Invero, ancorché risulti empiricamente dimostrabile la dipendenza tra una prova presupposta e una susseguente, e quindi la correttezza esegetica di quest’ultima concezione dottrinale, è innegabile che il concetto di dipendenza preso in considerazione dal legislatore è di tipo logico-giuridico e non empirico-fattuale. Da ciò discende, dunque, l’impossibilità di sovrapporre, e perciò di far derivare, l’inutilizzabilità derivata all’invalidità ex art. 185 c.p.p.
A quanto precede, si aggiunga poi la ludica constatazione di un autore 6 secondo cui, anche a ritenere superabili le problematiche considerate, l’invalidità derivata, in realtà, non apporterebbe comunque delle rilevanti utilità al sistema processual-penalistico. Già operando mediante un’interpretazione letterale e sistematica della previsione ex art. 191 c.p.p., infatti, si potrebbe in ogni caso sortire lo stesso effetto anelato e giustificante la creazione dell’istituto dell’inutilizzabilità derivata.
Il concetto di “inutilizzabilità”, ancorché considerato da alcuni una vulgata7, è ricco di potere esemplificativo. Prescrivere che le prove acquisite in violazione dei divieti sono inutilizzabili, a ben vedere, implica una sola conseguenza: quelle prove sono, dall’ordinamento, considerate “tamquam non esset”. Ciò determina, quindi, l’impossibilità di utilizzarle, a qualsiasi fine, in ogni fase del procedimento perché, a voler circoscrivere l’ambito applicativo dell’art. 191 c.p.p. alla sola fase dibattimentale, si determinerebbe un’inaccettabile lesione delle garanzie processuali del singolo.
Un orientamento diverso8, tuttavia, in assenza di un esplicito divieto rapportabile alla fase investigativa, sul presupposto che il diritto si disinteressi dell’iter che nella mente degli inquirenti 9 porta alla rilevazione della prova, ritiene che la previsione ex art. 191 c.p.p. trovi applicazione rispetto alla sola suddetta fase decisoria. Questo arresto, a ben vedere, in forza anche di quanto risulta dalla Relazione al Progetto preliminare al codice di rito secondo cui “ i risultati della prova non sono in alcun modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, quale che sia comportamento della parte interessata” e dalla previsione ex art. 191 comma 2 c.p.p., non può, date le conseguenze aberranti che ne deriverebbero, essere avallato.
Esemplificando, e considerando il caso degli atti probatori a forma libera e vincolata, si può evidenziare, dunque, la superfetazione dell’istituto dell’inutilizzabilità derivata che, ad un’attenta analisi, oltre a fallacie sistematiche, nessuna utilità pratica pare apportare.
In sede di interrogatorio per l’assunzione di informazioni, ad esempio, proprio la violazione delle prescrizioni imposte dalla legge determinerebbe, in forza del disposto di cui all’art. 191 c.p.p, l’impossibilità di utilizzare quanto raccolto ai fini della ricerca di ulteriori prove; al riguardo, l’argomentazione circa la difficoltà di provare l’avvenuto uso di risultanze probatorie inutilizzabili, non può poi porsi a fondamento dell’opportunità del ricorso all’inutilizzabilità derivata. Rispetto agli atti probatori a forma libera, infatti, anche mediante il ricorso alla categoria di cui si discute, non si potrebbero scongiurare le assunzioni di prove dipendenti da atti probatori, ad esse presupposte, raccolti in violazione dei divieti.
Anche in relazione agli atti a forma vincolata, si pensi per esempio alle intercettazioni, il ricorso alla inutilizzabilità derivata appare privo di effettività. Il legislatore, infatti, con la previsione di cui all’art. 271 c.p.p. ha già cristallizzato le conseguenze sanzionatorie dipendenti dalla violazione delle prescrizioni circa l’assunzione delle intercettazioni. Nel caso in cui, ad esempio, un’intercettazione venisse disposta in ragione di una precedente captazione – illegittima – che ne ha determinato l’utilità pratica, gli obblighi motivazionali del provvedimento con cui l’intercettazione susseguente viene disposta, risulterebbero, giocoforza, frustrati. Da ciò discende, dunque, per volontà del legislatore, l’inutilizzabilità diretta, e non derivata, di quanto assunto mediante la captazione successiva propiziata da un’intercettazione – presupposta - illegittima e, pertanto, l'inutilità pratica del paradigma dell'inutilizzabnilità derivata.
Diversamente dai casi che precedono, invece, l’istituto in esame, qualora ammesso, potrebbe avere dei precipui esiti pragmatici nei casi di perquisizioni eseguite in assenza dei presupposti di legge. Sul tema, che rappresenta ormai una vexata quaestio, è tornata nuovamente a pronunciarsi, a ben undici anni di distanza 10, la Corte Costituzionale con la sentenza nr. 219/2019.
3. Perquisizione illegittima, sequestro e inutilizzabilità: Corte cost. nr. 219/2019
Con un sonoro “non possumus” la Corte Costituzionale, con la sentenza nr. 219/2019 11, è tornata a pronunciarsi sull’annosa e complessa questione della presunta illegittimità Costituzionale dell’art. 191 c.p.p. nella parte in cui non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti ad esso, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’autorità giudiziaria con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività.
Al riguardo, è bene porre subito l’accento su un profilo di peculiare rilevanza che è l’indice rilevatore della ratio assunta nella pronuncia della Corte.
La Consulta, nonostante fosse al secondo vaglio di legittimità dell’art. 191 c.p.p, non ha dichiarato il ricorso infondato ma, bensì, inammissibile. Questo dato, ad un’attenta analisi, rivela come, in realtà, la Corte non abbia voluto prendere un’esplicita posizione sulla questione ma, invece, sottolineare un elemento di innegabile pregio e cioè che, ancorché la questione non possa dirsi priva di fondamento, il ricorso non può comunque essere accolto perché, richiedendo una pronuncia di tipo additivo, comporterebbe un’inaccettabile sostituzione del Giudice delle leggi al legislatore in una materia, quale quella delle valutazioni di politica-processuale, che non le compete.
Il dato fondante il pronunciamento in senso di inammissibilità del ricorso, dunque, è la riserva di legge che copre le scelte in materia di divieti probatori.
L’iter che ha portato alla pronuncia in esame parte da due ordinanze12 di rimessione del GUP di Lecce che, sulla scorta di valutazioni diverse - dal diritto vivente - del dettato dell’art. 191 c.p.p, ha ritenuto gravemente lesivo dei diritti del singolo il regime dei divieti probatori per come operanti nel sistema alla luce dei prevalenti arresti dottrinali e giurisprudenziali.
L’interpretazione dal quale il giudice a quo si discosta, in particolare, è quella desunta dalla pronuncia delle SS.UU. n. 5021 del 1996 in cui la Suprema Corte, avendo statuito l’ammissibilità della sanzione dell’inutilizzabilità rispetto a prove raccolte senza l’autorizzazione del magistrato, riteneva, ex adverso, non operante l’inutilizzabilità, disconoscendo la “teoria dei frutti dell’albero avvelenato”, rispetto a quanto caduto in sequestro a fronte di un’attività di ricerca della prova condotta in violazione dei presupposti stabiliti dalla legge.
In altre parole, con le censure sollevate, il G.U.P. di Lecce denuncia il vulnus che la disciplina ex art. 191 c.p.p., così come interpretata dal diritto vivente, porta nel sistema processual-penalistico.
La Corte Costituzionale, operata preliminarmente una ricostruzione dell’istituto dell’inutilizzabilità, e vagliato il carattere tassativo ed eccezionale della previsione ex art. 191 c.p.p., ha riaffermato quanto eloquentemente sostenuto dalle SS.UU. del 2010 (sent. Nr. 13426) e cioè che: “essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto a rango di paradigma del parametro costituzionale sul giusto processo, qualsiasi divieto probatorio positivamente introdotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale”.
Secondo la Consulta, dunque, seppur le argomentazioni del giudice a quo possano in linea di principio dirsi fondate in punto di diritto, la valutazione circa la prevalenza degli interessi relativi al diritto alla prova, costituzionalmente garantito, o relativi ai diritti del singolo, anch’essi costituzionalmente garantiti, non può che spettare al legislatore in un’ottica di ragionevolezza.
Invero, in un’ottica sistematica, c’è da dire che il legislatore non ha mancato di considerare e disciplinare le ipotesi in cui il diritto del singolo debba prevalere rispetto alle esigenze probatorie. Ciò accade, ad esempio, in materia di intercettazioni; nel caso delle perquisizioni e sequestri, invece, nulla è stato in tal senso prospettato.
Ed allora, se il legislatore ubi voluit dixit e ubi noluit tacuit, il vizio derivante dall’illegittimità della perquisizione sicuramente non potrà, per ragioni di tassatività e scelte di politica processuale, estendersi alle risultanza probatorie cadute in sequestro per il tramite della perquisizione illegittimamente eseguita. Questa conclusione, a ben vedere, non è intaccata da quanto previsto dall’art. 252 c.p.p. Chi infatti riconnette alla norma in esame un collegamento funzionale tra perquisizione e sequestro che porterebbe, sulla scorta del regime delle intercettazioni, al propagarsi dell’inutilizzabilità, in realtà cade in errore. La disposizione testé citata, alla stregua di un’interpretazione letterale, non determina una connessione tra l’atto della perquisizione e il sequestro. Il rapporto di necessarietà e dipendenza che questa norma fonda è, infatti, solo tra le cose rinvenute a seguito della perquisizione e il sequestro susseguente. Da ciò discende, pertanto, la completa e più totale autonomia di queste due categorie processual-penalistiche che ne impedisce, nel silenzio della legge, l’operare dell’inutilizzabilità sia essa diretta ex art. 191 c.p.p ovvero derivata.
Da quanto precede si può pertanto ritenere che, nonostante le diverse aporie, le scelte compiute dal legislatore, rispetto alle diverse esigenze e istanze che si affermano nell’ordinamento, non sono dunque sindacabili e, per quanto le stesse possano non essere condivisibili, vanno, ciononostante, rispettate.
4. Conclusioni
Per ragioni di completezza, vanno tuttavia sottolineati alcuni profili problematici, opportunamente individuati dal GUP di Lecce, che dipendono dal mantenimento di un sistema siffatto.
In merito al profilo per cui le sanzioni del tipo dell’inutilizzabilità siano funzionali ad una deterrenza da possibili abusi, la Consulta ritiene che, comunque, il sistema contempli diverse soluzioni alternative all’inutilizzabilità probatoria. Ad esempio, rispetto ad una perquisizione eseguita illegittimamente da un ufficiale di PG, l’ordinamento, facendo salva la risultanza probatoria in ragione della valutazione circa la prevalenza dell’interesse all’accertamento del fatto di reato, contempla rimedi sanzionatori che colpiscono direttamente la condotta dell’agente quali, ad esempio, procedimenti disciplinari e finanche penali. A tali condizioni, tuttavia, si perviene a circostanze paradossali quali, per esempio, quella in cui l’ufficiale di PG, assoggettato a procedimento penale per il reato di cui all’art. 609 c.p., assuma l’ufficio di testimone rispetto alla vicenda processuale che accerta il reato la cui prova è stata da lui raccolta illegittimamente.
Ebbene e in conclusione, seppur l’arresto della Corte Costituzionale è da condividere quanto a correttezza e lucidità di analisi, va sottolineata, comunque, la contraddizione in termini in cui cade l’intero sistema. In una prospettiva de jure condendo, dunque, potrebbe auspicarsi, rispetto a determinate fattispecie che ne necessitano, un intervento del legislatore atto ad introdurre una forma di sanzione processuale, per la violazioni dei divieti probatori, che soddisfi, nell’ottica di un diritto processuale costituzionalmente orientato, l’intento di garantire, all’intero sistema, coerenza e razionalità.
Possibile soluzione, al riguardo, potrebbe pertanto essere quella di procedere, in ossequio al principio di tassatività e determinatezza, a una redazione di tipo casistico delle fattispecie che abilitano la Polizia Giudiziaria ad eseguire le perquisizioni in assenza della previa autorizzazione da parte dell’ A.G 13. Ciò vale, però, in una mera prospettiva de jure condendo. Infatti, condividendosi l’orientamento espresso dal Giudice delle Leggi, va ribadito che le scelte di politica criminale, e cioè nel caso de quo il bilanciamento dei delicati interessi in rilievo, non possono che competere agli opportuni organi istituzionali, previsti dalla Carta Costituzionale, nel rispetto, ovviamente, del principio di ragionevolezza e del principio del contraddittorio tra le diverse forze politiche non potendo, il singolo giurista, compiere valutazioni di tal peso che, certamente, incidono in maniera rilevante sull’intero assetto ordinamentale.
1 In questo senso, CONTI C., “Il volto attuale dell’inutilizzabilità: derive sostanzialistiche e bussola della legalità, in Dir. Pen e Proc. Pen., 2010;
2 GALANTINI N., “Inutilizzabilità della prova e diritto vivente”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2012; ILLUMINATI G., “L’inutilizzabilità della prova nel processo penale Italiano” in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2010;
3 Cass. Sez. Un. 9 aprile 2010 nr. 13426
4 CORDERO F., “Procedura Penale”, CEDAM, 2012;
5 BASSO E., “Commento all’art 185 c.p.p.”, in Commento al nuovo codice di procedura Penale; LOZZI G., “Lezioni di Procedura Penale”, Giappichelli, 2018;
6 CABIALE A., “L’inutilizzabilità derivata: un mito a mezza via fra nullità ed esigenze sostanziali”, in Diritto Penale Contemporaneo nr. 4/2013;
7 GALANTINI N., “L’inutilizzabilità della prova nel processo penale”, CEDAM, 1992; SCELLA A., “L'inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992;
8 CORDERO F., “Procedura Penale”, Giuffrè, 2012;
9 Così si esprime CORDERO F., “Tre studi sulle prove penali”, Giuffrè, 1963;
10 Corte Cost. ord. 27 settembre 2001 nr. 31;
11 Corte Cost. sent. 15 luglio 2019 nr. 219;;
12 Registro ordinanze nr. 14 del 2018 e 93 del 2018;
13 Operando, ad esempio, mediante una predeterminazione delle circostanze di tempo e di luogo alla cui stregua è possibile condurre una più opportuna valutazione circa la sussistenza dell’avvenuta consumazione di un fatto di reato.