Pubbl. Mer, 3 Giu 2020
Il Coronavirus mostra le criticità della spending review sanitaria
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Riccardo Samperi
Secondo la Corte dei Conti, la crisi sanitaria prodotta dal Coronavirus ha messo in luce i rischi e i danni derivati dal ritardo con cui le amministrazioni si sono mosse per rafforzare le strutture sanitarie territoriali, soprattutto in relazione all’imponente sforzo operato per il ripristino di più elevati livelli di efficienza e di appropriatezza nell’utilizzo delle strutture di ricovero. Al riguardo, se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate, riducendo quelle minori che, per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura, la mancanza di un efficace sistema di assistenza ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La progressiva riduzione della spesa sanitaria pubblica e il crescente ruolo di quella a carico dei cittadini. 3. La riduzione del personale a tempo indeterminato, il crescente ricorso a contratti a termine e la fuga dei medici dall’Italia. 4. Brevi riflessioni conclusive.
1. Introduzione.
L’emergenza sanitaria provocata dal Coronavirus ha messo in evidenza, ancora una volta, l’importanza di garantire l’efficienza dei sistemi sanitari pubblici.
Negli ultimi anni, il settore sanitario ha subito importanti modifiche, volte a rendere la spesa pubblica più efficiente, riducendo gli squilibri nell’utilizzo delle risorse. Permangono tuttavia alcune criticità, come le profonde (e inaccettabili) differenze nella qualità dei servizi offerti nelle diverse aree del Paese; le carenze di personale dovute alla spending review, la progressiva fuga dal sistema pubblico verso quello privato e dei medici italiani all’estero; le insufficienze dell’assistenza territoriale a fronte dell’invecchiamento della popolazione e del conseguente aumento della non autosufficienza degli anziani; la lentezza dell’adeguamento degli investimenti in ambito medico rispetto alla velocità con cui si presentano le nuove necessità[1].
Negli anni a venire, tali criticità saranno accentuate dall’invecchiamento generale della popolazione, che gode di aspettative di vita tra le più alte al mondo, ma soffre di bassissimi indici di natalità[2].
Tutto ciò si tradurrà in un crescente onere economico-finanziario a carico dei lavoratori: tra circa 20 anni, vi sarà un pensionato ogni due persone in età da lavoro, con la conseguente diminuzione della ricchezza totale prodotta e delle risorse pubbliche disponibili a fronte di un aumento dei bisogni di cure e assistenza sanitaria.
La situazione desta forte preoccupazione e concreti dubbi in merito alla sostenibilità finanziaria della spesa sanitaria pubblica, soprattutto da parte delle nuove generazioni[3].
Il Coronavirus ha messo in evidenza i rischi e i danni che sono derivati dal ritardo con cui le amministrazioni si sono attivate per ripristinare maggiori livelli di efficienza nelle strutture sanitarie territoriali.
Nel corso degli anni, le politiche di spending review hanno portato alla diminuzione del numero delle strutture sanitarie locali e al loro ridimensionamento[4], a vantaggio di quelle di grandi dimensioni.
Se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate, riducendo quelle minori che, per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura, la mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha tuttavia lasciato la popolazione senza protezioni adeguate[5].
Infatti, il potenziamento delle grandi strutture sanitarie non è stato bilanciato da un parallelo mantenimento di livelli essenziali di tutela negli altri presidi ospedalieri, con la conseguenza che il sistema ha risentito di una generale perdita di efficienza ed efficacia.
Fino ad ora è stato possibile “scaricare” l’onere delle inefficienze della sanità locale sui cittadini (obbligandoli a ricorrere spesso a servizi medici privati), ma ciò non è stato possibile davanti ad un nemico nuovo e sconosciuto come il Covid, che ha mostrato in maniera quasi brutale la fragilità del sistema.
2. La progressiva riduzione della spesa sanitaria pubblica e il crescente ruolo di quella a carico dei cittadini.
Nel 2019, la spesa sanitaria ha raggiunto i 115.4 miliardi di euro, con un incremento dell’1.4% rispetto al 2018, inferiore a quello previsto dal DEF 2019 (+2.3%). L’incidenza sul PIL è rimasta sostanzialmente invariata (dal 6.45% del 2018 al 6.46% del 2019)[6].
Fino al 2019, prima dell’emergenza sanitaria, la spesa sanitaria si è mantenuta su livelli di molto inferiori rispetto a quella di altri Stati europei[7].
L’Italia ha confermato il trend osservato nel periodo compreso tra il 2009 e il 2018, con una riduzione, in termini reali, delle risorse destinate alla sanità particolarmente consistente. La spesa pro capite a prezzi costanti (prendendo come punto di riferimento i prezzi del 2010) è passata, infatti, da 1.893 a 1.746 €, con una riduzione media annua dello 0.8%[8].
Si tratta di una flessione ben più contenuta rispetto a quella di altri Paesi in difficoltà (Grecia -4.5% l’anno), ma che si differenzia, sia pur minimamente, dall’andamento registrato in Spagna (-0.6%) e Portogallo (-0.7%), Paesi che – come l’Italia – hanno vissuto periodi di crisi economica[9].
La spesa è invece cresciuta (sempre su base annua) del 2% in Francia, dello 0.5% in Olanda e del 2.2% in Germania[10].
Nel periodo compreso tra il 2012 e il 2018, il fenomeno di riduzione della spesa sanitaria pubblica è stato accompagnato da un parallelo aumento della spesa a carico dei privati; infatti, nonostante la pubblica amministrazione continui ad essere il principale finanziatore della spesa sanitaria complessiva, nel periodo compreso tra il 2012 e il 2018, a fronte di una flessione del 3.1% di quella pubblica, quella privata è cresciuta del 25.1%[11].
Da notare che se in media la spesa privata pro capite a livello nazionale è di circa 612 €, essa varia dai circa 720 € delle regioni del Nord-Ovest e i 471 € del Mezzogiorno. Il divario aumenta confrontando la spesa nelle singole regioni: dai 1.000 € della Valle d’Aosta si arriva ai 420 € della Campania[12].
3. La riduzione del personale a tempo indeterminato, il crescente ricorso a contratti a termine e la fuga dei medici dall’Italia.
In seguito al blocco del turn over nelle regioni che si trovano in piani di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre regioni (con il vincolo alla spesa), nell’ultimo decennio, il personale medico assunto a tempo indeterminato è fortemente diminuito: al 31 dicembre 2018, era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (e circa 41.400 rispetto al 2008)[13].
Nel quinquennio compreso tra il 2012 e il 2017, il numero dei lavoratori a tempo indeterminato in servizio presso strutture sanitarie è passato da 653.000 a 626.000 unità, con una riduzione di poco inferiore alle 27.000 unità (-4%). Nello stesso periodo, il numero di lavoratori assunti con contratti a termine è cresciuto del 36.5%, passando da 26.200 a 35.800 unità. La riduzione del personale ha assunto caratteristiche e dimensioni diverse tra Regioni in piano di rientro e non. Nelle prime, il personale a tempo indeterminato si è ridotto di oltre 16.000 unità, pressocché tutte a tempo pieno, mentre sostanzialmente invariato è rimasto il personale a tempo parziale. La riduzione è stata particolarmente forte nel Molise, nel Lazio e in Campania a cui sono riferibili riduzioni superiori tra il 9% e il 15%. Solo poco inferiori quelle di Calabria e Sicilia, mentre Abruzzo e Puglia hanno contenuto di molto le riduzioni, soprattutto considerando gli incrementi del personale a tempo determinato[14].
Nelle Regioni non in piano la flessione è stata molto più contenuta (-2.4%) e addirittura alcune Regioni a statuto speciali del Nord hanno incrementato il personale assunto a tempo indeterminato (Valle d’Aosta e le province di Trento e Bolzano)[15].
Tra il 2012 e il 2018, la spesa per il personale a tempo indeterminato si è ridotta di quasi il 4%. Nello stesso periodo, quella per addetti a tempo determinato è aumentata del 48%. È cresciuto anche il ricorso ad altre forme di lavoro private (collaborazioni, consulenze e lavoro interinale), con una variazione del 6.2%. Complessivamente, quindi, gli oneri per il personale sanitario e non sono diminuiti dell’1.7%. L’andamento varia da regione a regione, venendo influenzato anche dall’eventuale presenza di piani di rientro finanziario. Le regioni in piano hanno registrato una riduzione della spesa per contratti a tempo indeterminato pari all’8.3%; non diversa dal dato medio nazionale è stata la variazione della spesa a tempo determinato (+48%), mentre è cresciuta di oltre il 30% quella da privati. Nel complesso, tra il 2012 e il 2018 nelle regioni in piano, la spesa pubblica è diminuita del 4%. Nelle Regioni non in piano, invece, la flessione della spesa a tempo indeterminato è stata inferiore (-1.5%), mentre l’aumento di quella a tempo determinato è stato simile a quello delle altre regioni[16].
Negli ultimi anni, inoltre, i vincoli posti alle assunzioni in sanità, pur se resi necessari dal forte squilibrio dei conti pubblici del settore, hanno aumentato le difficoltà di trovare uno sbocco stabile a fine specializzazione e un trattamento economico adeguato (imbuto formativo)[17]. Ciò è alla base della fuga dal Paese di un rilevante numero di soggetti: negli ultimi 8 anni, secondo i dati Ocse, sono oltre 9.000 i medici formatisi in Italia che sono andati a lavorare all’estero. Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia sono i mercati che più degli altri hanno rappresentato una soluzione alle legittime esigenze di occupazione e adeguata retribuzione quando non soddisfatte dal settore privato nazionale. Una condizione che, pur deponendo a favore della qualità del sistema formativo nazionale, rischia di rendere le misure assunte per l’incremento delle specializzazioni poco efficaci, se non accompagnate da un sistema di incentivi che consenta di contrastare efficacemente le distorsioni evidenziate[18].
In linea generale, poi, il Covid ha dato un forte impulso all’assunzione di personale sanitario con forme di lavoro flessibili. A questo riguardo, «operando anche in deroga ai vincoli previsti dalla legislazione vigente (ma nei limiti delle nuove risorse stanziate, 660 milioni previsti dal d.l. 14/2020 aumentati a 770 milioni con il d.l. 18/2020), per aumentare il potenziale di risposta all’emergenza sanitaria sul fronte del personale, con il d.l. 14/2020, si è previsto di poter procedere al reclutamento (art. 1) di professionisti sanitari (compresi i medici specializzandi iscritti all’ultimo e penultimo anno), con incarichi di lavoro autonomo, anche in collaborazione coordinata e continuativa, della durata massima di 6 mesi, prorogabili in ragione del perdurare dello stato di emergenza. Nel caso sia verificata l'impossibilità di assumere personale, anche facendo ricorso agli idonei in graduatorie in vigore, le aziende possono fino al 31 luglio 2020 conferire incarichi di lavoro autonomo, con durata non superiore ai sei mesi, e comunque entro il termine dello stato di emergenza, a personale medico e a personale infermieristico collocato in quiescenza. Tali incarichi possono riguardare anche laureati abilitati, anche senza cittadinanza italiana, previo riconoscimento del titolo di studio. Inoltre, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale (art. 2), verificata l’impossibilità di utilizzare personale già in servizio nonché di ricorrere agli idonei collocati in graduatorie concorsuali in vigore, possono, durante la vigenza dello stato di emergenza, conferire incarichi a tempo determinato, previo avviso pubblico, al personale sanitario e ai medici in possesso dei requisiti previsti dall’ordinamento per l’accesso alla dirigenza medica»[19].
4. Brevi riflessioni conclusive.
Nonostante l’aumento, negli ultimi anni, di attività sanitarie erogate dal settore privato, anche in collaborazione con quello pubblico, permane ancora (e non soltanto nelle aree più fragili del Paese) una sostanziale debolezza della rete sanitaria territoriale in relazione alle esigenze di assistenza della popolazione, specialmente di quella più anziana, spesso in condizioni di non autosufficienza ed affetta da patologie, magari non particolarmente gravi, che richiederebbero una assistenza non ospedaliera ma domiciliare. Tale debolezza ha inciso fortemente sulla gestione dell’emergenza sanitaria. Superata la crisi, sarà quindi necessario implementare e potenziare quelle strutture territoriali (come le case di salute), che possono soddisfare quelle esigenze sanitarie non così gravi da richiedere assistenza ospedalieri, ma che tuttavia mantengono un forte legame con le strutture di ricovero. La riorganizzazione delle attività dei medici di medicina generale, delle reti specialistiche multidisciplinari rappresentano dunque una scelta obbligata verso la quale si è mosso anche il Piano nazionale della cronicità[20], proponendo nuovi modelli organizzativi, basate sull’integrazione tra cure territoriali e domiciliari, e delegando all’assistenza ospedaliera la gestione dei casi di maggiore complessità, qualora non gestibili dagli operatori sanitari in regime domiciliare[21].
Guardando oltre alla crisi sarà, quindi, determinante incidere anche sulla capacità progettuale delle amministrazioni, nonché sulla effettiva disponibilità delle risorse già destinate ad investimenti, per far sì che gli oltre 6 miliardi per accordi di programma disponibili si traducano in progetti concreti[22].
[1] Corte dei Conti, Sezioni riunite in sede di controllo, La sanità e il nuovo patto per la salute, in Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, approvato nell’adunanza delle Sezioni riunite in sede di controllo del 15 maggio 2020, 285.
[2] Istat, Stime per l’anno 2018 – Indicatori demografici, 7 febbraio 2019, www.istat.it, 1-13.
[3] P. Cappelletti, Il futuro della Sanità: sostenibilità finanziaria e scenari evolutivi, in Riv. Ital. Med. Lab. N. 8/2012, 63–70 DOI 10.1007/s13631-012-0044-1, il quale scrive: «È del tutto evidente che, al di là degli orizzonti temporali (2030, 2040, 2050, 2060) e delle metodologie adottate, la crescita della spesa sanitaria negli anni futuri sarà insostenibile (+ 2,7% per anno fino al 2050 per la quota di spesa pubblica)».
[4] In particolare attraverso il taglio dei posti letto, Corte dei Conti, cit., 310 e ss.
[5] Corte dei Conti, cit., 286.
[6] Corte dei Conti, cit., 287.
[7] Corte dei Conti, cit., 288.
[8] Da notare che la variazione è calcolata in termini reali, cioè a parità di potere d’acquisto (PPP, Purchasing Power Parity). In termini nominali, invece, è stato registrato un incremento positivo, essenzialmente legato all’inflazione, cioè all’aumento generalizzato dei prezzi e, quindi, del costo della vita.
[9] Corte dei Conti, cit., 289.
[10] Corte dei Conti, cit., 289.
[11] Corte dei Conti, cit., 290-291.
[12] Corte dei Conti, cit., 293.
[13] Corte dei Conti, cit., 299.
[14] Corte dei Conti, cit., 300.
[15] Corte dei Conti, cit., 301-302.
[16] Corte dei Conti, cit., 306.
[17] C. Palermo, M. D’Arienzo, F. Ragazzo, Imbuto formativo: nel 2021 rischiano di trovarcisi 20 mila medici. “Per scongiurarlo più borse e più concorsi”. Lo studio Anaao, in Quotidiano Sanità, 19 aprile 2020, www.quotidianosanita.it.
[18] Corte dei Conti, cit., 24.
[19] Corte dei Conti, cit., 295.
[20] Messo a punto dal Ministero della Salute, reperibile sul sito istituzionale www.salute.gov.it.
[21] Corte dei Conti, cit., 321.
[22] Corte dei Conti, cit., 26.