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Pubbl. Gio, 18 Giu 2020

Diritto di difesa nel procedimento disciplinare e tempestività delle giustificazioni scritte

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Gabriella Inguscio



Con sentenza 32607 del 2018, la Corte di Cassazione afferma che il mancato scrutinio delle difese del lavoratore, presentate nei termini, equivale a negare il diritto al contraddittorio nel procedimento disciplinare ai sensi dell´art. 7 dello Statuto dei lavoratori.


ENG With sentence 32607 of 2018, the Court of Cassation affirms that failure to scritinize the employee´s defenses, presented within the terms, is equivalent to denying the right to be heard in the disciplinary procedure pursuant to art. 7 of the Workers´ Statute.

Sommario: 1. Preambolo 2. I fatti 3. L’iter argomentativo seguito dalla Corte 4. Considerazioni finali

1. Preambolo

Il rapporto di lavoro subordinato è disciplinato nel codice civile all’art. 2094, norma per la quale è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.

Dalla predetta norma codicistica discende il potere datoriale di infliggere sanzioni disciplinari e conseguentemente una posizione di supremazia del datore rispetto al prestatore di lavoro subordinato.

Giova premettere che il recesso nel rapporto di lavoro è un negozio giuridico unilaterale con cui una parte del contratto rende noto all’altra di volersi liberare del vincolo contrattuale.

Quando il lavoratore si macchia di un fatto vietato dal codice disciplinare o da una norma di legge incorre nelle reazioni del datore che possono essere a seconda della gravità: il rimprovero verbale, l’ammonizione scritta, la multa, la sospensione, il trasferimento o il licenziamento.

E’ utile ricordare che nel licenziamento disciplinare rientra quello per giusta causa e quello per giustificato motivo soggettivo: nel primo caso è pretermesso il preavviso in quanto grave deve essere la compromissione della fiducia nel rapporto; nel secondo caso, meno grave dal punto di vista fiduciario, viene previsto il preavviso.

Eccettuato il rimprovero verbale, per tutti gli altri provvedimenti è previsto un iter che garantisce il diritto di difesa dell’incolpato ed eventualmente una sua assoluzione.

Innanzitutto l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori prevede la contestazione della condotta arbitraria, che l’interpretazione pretoria ha voluto in forma scritta ad substantiam. Successivamente, alla contestazione segue un termine di cinque giorni, entro i quali il dipendente può giustificarsi in forma scritta od orale, del fatto che ha dato causa al procedimento. Infine, decorsi i cinque giorni, l’imprenditore può dare esecuzione alla sanzione.

Il licenziamento disciplinare non è altro che il recesso del datore di lavoro a seguito del procedimento disciplinare ed è quanto si è verificato nella questione affrontata dalla Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe. Essa è da tempo intervenuta stabilendo che, nel caso in cui siano presentate giustificazioni dalla controparte, il momento interruttivo della decadenza si verifica con la consegna dell’atto al servizio postale, rendendo l’impugnazione atto non ricettizio e marginale che sia portato a conoscenza del destinatario affinchè produca i suoi effetti[1].

Ci si chiede allora se il recesso datoriale, a fronte di un comportamento colposo del lavoratore, sia sempre legittimo.

Nel caso che stiamo per trattare, il licenziamento disciplinare non ha seguito pedissequamente le fasi previste dall’art. 7 ed in terzo grado di giudizio se ne è disapprovata la conclusione.

2. I fatti

La lavoratrice costituita aveva chiesto e ottenuto la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto con la Società convenuta: la controversia lavoristica era culminata nella riammissione della lavoratrice ove originariamente era collocata.

La Società per ragioni tecnico-produttive si era determinata, dopo aver ripristinato la dipendente nella sua posizione, ad un trasferimento dall’originario Centro di smistamento di Fiumicino alla sede di Torino. Nella sede di origine si era infatti verificato un esubero, tale da non consentire il ricollocamento e la Società si era appellata all’Accordo Sindacale per il trasferimento.

La lavoratrice si assentava così ingiustificatamente e la Società addiveniva alla soluzione del licenziamento disciplinare: nei cinque giorni successivi alla contestazione dell’addebito, la dipendente inviava rituali giustificazioni che la Società non prendeva in considerazione in quanto giudicate tardive.

Il Giudice di primo grado adito, all’esito della fase sommaria, riteneva non fondata l’impugnativa del licenziamento e trascinava con sé la Corte d’appello di Roma che pure in secondo grado ne confermava le statuizioni.

Alla base del provvedimento della Corte distrettuale vi era però una contraddizione, determinante per la vicenda in oggetto, sotto l’egida della quale la lavoratrice ricorreva in Cassazione.

3. L’iter argomentativo seguito dalla Corte

La Suprema Corte critica la sentenza impugnata con un ragionamento che ne scardina i passaggi principali. Essa ci rammenta il canone ermeneutico dell’art. 1362 c.c.[2] , pertanto i dubbi fondati sul CCNL di settore dovevano essere sciolti attribuendo alle parti sociali l’intento di far decadere il diritto di difesa del lavoratore nel momento dell’invio delle giustificazioni. Il secondo comma dell’art. 55 CCNL di settore faceva da eco all’art. 7 Statuto dei lavoratori, ricalcandone il precetto e non lasciando spazio ad altre interpretazioni.

Il Collegio[3] pone in luce che l’unico effetto impeditivo della decadenza va riconnesso all’avvio della comunicazione: una volta avviato il procedimento, esso sfuggirebbe alla sfera di disponibilità del lavoratore ed il servizio postale realizzerebbe il giusto contemperamento degli interessi[4] .

Orbene, il Supremo Collegio richiama una recente pronuncia[5] , chiarendo che la disciplina del procedimento disciplinare realizza una mediazione fra gli opposti interessi delle parti: il termine per la contestazione è volto a garantire la tempestività dell'esercizio del potere e tutela il diritto di difesa del lavoratore considerando il principio del legittimo affidamento sulla irrilevanza disciplinare della condotta.

Dalle considerazioni della Corte discende la sproporzione della sanzione irrogata, tanto più sproporzionata se si considera che il datore, oltre ad essere giudice del procedimento disciplinare, ne è anche parte. Ed ancora più grave risulta la violazione della regola audiatur altera pars se si pensa, come la Corte di merito, che la sanzione espulsiva sia stata adottata ‘viste le risultanze tutte del procedimento disciplinare’.

A tal proposito, la Corte Costituzionale, in una storica pronuncia, ha sancito i parametri cui si riconnette la risposta ad un comportamento negligente o colpevole del lavoratore: i principi di ragionevolezza e del contraddittorio, il primo inteso come coerenza al fatto addebitato ed il secondo come coinvolgimento di chi versa in uno stato di soggezione[6] .

Sicché a parere dello scrivente, la Corte di legittimità si è spinta oltre: dopo aver ribadito che il lavoratore si può discolpare per iscritto o a voce, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale, ha paventato una illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare. Ebbene, la stessa censura aveva previsto in un precedente caso[7] in cui il lavoratore aveva presentato le difese oltre il termine di cinque giorni ma prima dell’adozione del provvedimento disciplinare e, dunque, allargando le maglie della disposizione statutaria.

Orbene, essa enuclea il principio di diritto al quale la Corte d’Appello si dovrà attenere: considerare da parte del datore di lavoro tardive delle giustificazioni scritte in realtà tempestive equivale a negare al lavoratore il suo diritto di difesa e al contraddittorio, con violazione del procedimento sancito dall’art. 7 legge n. 300 del 1970 non dissimile dalla violazione che si verifica quando il lavoratore abbia invano chiesto di essere ascoltato di persona.

4. Considerazioni finali

Il luogo di lavoro è lo spazio fisico in cui si deve svolgere la prestazione del debitore e l’art. 2103, 8° co. c.c. assevera in proposito il diritto del lavoratore a non essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive[8].

La Società, che nello specifico ha proceduto al ripristino, pur avendo addotto ragioni tecnico-produttive, ha invero dissimulato un trasferimento. Nel caso de quo la dipendente ha subito una violazione dei propri diritti: il mancato rispetto delle esigenze di lei e della sua famiglia è stato aggravato dal mancato scrutinio delle difese presentate nei termini.

Dunque con la sentenza esaminata, si è solcato il cammino verso la parificazione creditore-debitore del rapporto di lavoro, si è ristabilito l’equilibrio delicato tra chi detiene la direzione e chi la subisce: il datore di lavoro potrà sì comportarsi come giudice e dominus ma limitatamente ai confini legalmente dati.


Note e riferimenti bibliografici

[1] O. Mazzotta, Trattato di diritto privato, Diritto del lavoro, VI ed., GIUFFRE’, 2016

[2] Cass. civ. 19/3/2014 n. 6335

[3] Cass. SS. UU. 14/4/2010 n. 8830; Cass. 24/3/2011 n. 6757

[4] Cass. 16/7/2018 n. 18823

[5] Cass. 13/9/2017 n. 21260

[6] Corte Cost. 29/5/1995 n. 220

[7] Cass. 12/11/2015 n. 23140

[8] O. Mazzotta, Trattato di diritto privato, Diritto del lavoro, VI ed., GIUFFRE’, 2016