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Pubbl. Gio, 30 Lug 2015

Diritto e letteratura: un inedito rapporto sinallagmatico.

Maria Pina Di Blasio


Il ruolo della letteratura nella formazione del giurista.


Sommario: 1. Breve premessa metodologica. – 2. Lo sguardo di un letterato: Delitto e Castigo di F. M. Dostoevskij. - 2.2. (Segue) I Promessi Sposi di A. Manzoni: una storia di “ingiustizia”. – 2.3. (segue) La storia della colonna infame di A. Manzoni: una storia di “mala giustizia”. – 3. Attraverso lo sguardo di un giurista. –  4. Considerazioni conclusive.

Sommario: 1. Breve premessa metodologica. – 2. Lo sguardo di un letterato: Delitto e Castigo di F. M. Dostoevskij. - 2.2. (Segue) I Promessi Sposi di A. Manzoni: una storia di “ingiustizia”. – 2.3. (segue) La storia della colonna infame di A. Manzoni: una storia di “mala giustizia”. – 3. Attraverso lo sguardo di un giurista. –  4. Considerazioni conclusive.


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Breve premessa metodologica.

 "Mio caro Paul, Nessuno può considerarsi un giurista veramente/competente se non è un uomo di cultura. Se fossi in Te, dimenticherei qualsiasi preparazione tecnica per quanto/concerne il diritto. Il miglior modo per studiare il diritto è quello di giungere a tale studio come una persona già ben istruita. Solo così si può acquisire la capacità di usare la lingua inglese, scritta ed orale, ed avere un metodo di pensiero chiaro, che solo una educazione genuinamente liberale possono conferire. Per un giurista non è meno importante coltivare le facoltà immaginative leggendo poesia, ammirando grandi quadri, nell’originale o in riproduzioni facilmente accessibili, ascoltando grande musica. Rifornisci la tua mente di tante buone letture, e amplia e approfondisci i Tuoi sentimenti sperimentando /indirettamente ed il più possibile i magnifici misteri dell’universo, e dimenticati della tua futura carriera. Con i miei migliori auguri, Cordialmente, Felix Frankfurter[1]."

È la lettera al dodicenne Paul Claussen, del giudice statunitense della Corte Suprema. Il ragazzino avevo scritto manifestandogli la sua ambizione di diventare avvocato, e chiesto dei consigli su come e cosa avrebbe potuto fare. In un suo recente scritto James Boyd White lo ricorda, a guisa di aneddoto[2].

Il movimento noto come “Diritto e letteratura” nasce per convenzione nel 1973, anno di pubblicazione dell’opera di James Boyd White The Legal Imagination[3]. Nell’opera l’autore sostiene che lo studio della letteratura sarebbe fondamentale per il curriculum di studi del giurista in quanto «gli studi letterari avrebbero qualcosa di particolare da dire sul diritto e sull’interpretazione giudiziale»[4].

Dunque, gli studi sul rapporto fra diritto e letteratura, fioriti soprattutto in area anglosassone, da qualche anno interessano molto anche i giuristi italiani[5].

Da sempre diritto e letteratura intessono un rapporto molto stretto, sinergico; se volessimo mutuare dalla contrattualistica di stampo civilistico, potremmo dire “sinallagmatico”[6]. Mettere insieme due universi così apparentemente lontani, può risultare, come si vedrà in prosieguo, altamente produttivo, tanto per i giuristi che per i letterati.Sussiste quindi un'affinità tra i processi espressivi e concettuali di questi due ambiti, che formano naturalmente un sodalizio fornendosi sostegno reciproco. Ecco il perché della sinallagmaticità del legame tra queste due discipline.La letteratura ha sempre trovato un suolo fertile nel terreno di competenza del giurista.  L’interesse della letteratura per il diritto deriva dalle affinità tra le due discipline. Gli artisti, sensibili a queste affinità, inseriscono personaggi, temi e strutture giuridiche nelle loro opere, dimostrando ciò che da secoli gli scrittori avevano percepito: non solo la compatibilità, ma addirittura il carattere connaturale di due ambiti intellettuali apparentemente distinti.Una vecchia storia dunque. Forse la più vecchia di tutte. Perché il rapporto tra Diritto e Letteratura inizia più o meno quando inizia la nostra civiltà. I miti e il teatro dell’antica Grecia sono le basi fondanti della storia letteraria occidentale, ma anche dell’idea di diritto, di giustizia. Antigone, per fare un esempio, è un’opera letteraria che affronta il problema del rapporto tra individuo e potere ed è costruita come un processo, con tanto di introduzione preliminare che spiega l’antefatto, con la difesa (Antigone), l’accusa (Creonte) e addirittura con l’opinione pubblica (il coro). Tra Giustizia e Letteratura quindi c’è un rapporto antico, non sempre lineare, a volte addirittura conflittuale, viziato da una serie di pregiudizi reciproci che ha scavato un solco tra letterati e giuristi.Cicerone e Seneca erano avvocati; filosofi, letterati ed uomini di stato come Tommaso Moro, Bacone e Montesquieu avevano una preparazione giuridica.Dickens fece il garzone di studio (e poi il cronista giudiziario); nel novecento Jorge Amado, un poeta come Wallace Stevens, John Luther Long (l’autore di Madama Butterfly) o Bernardo Guimaraes, il creatore della Schiava Isaura, erano tutti giuristi.Ed ancora, tra Duecento e Trecento numerosi sono gli scrittori italiani che sono anche o innanzitutto giuristi: si va dal caposcuola dei Siciliani, Jacopo da Lentini detto appunto il Notaro, a Pier delle Vigne, a Guido Guinizelli, a Cino da Pistoia[7].

La dottrina più accorta, per lo più di stampo positivista, ritiene, non a torto, che il giurista, grazie alla letteratura possa sviluppare quella capacità di orientarsi e di guardare i problemi del diritto con occhi diversi, con modalità discorsive idonei a costituire veri e propri strumenti per ideare e applicare in modo originale e innovativo, e soprattutto giusto, molti degli istituti non solo del diritto penale e del diritto processuale penale, ma di ogni altro ramo dell’ordinamento giuridico.

La letteratura, come si vedrà, si impianta, molto spesso, su questioni estreme, si rinvengono concetti forti, come quello di pena, crimine, delitto, colpa, perdono e la giustizia in generale e come questa viene amministrata[8]Delitto e castigo di Dostoevskij, per esempio, attraverso la vicenda tormentata di Raskòlnikov, spinge la domanda sulla colpa ai suoi estremi confini, in quella zona indistinta dove bene e male, orrore e compassione, si intrecciano in una vertiginosa spirale.I testi letterari si prestano a ricordare al giurista il concetto di giustizia. Da questo punto di vista, la letteratura svolge una funzione “rammemorativa”, in quanto essa ricolloca il diritto nella posizione dalla quale tende ad allontanarsi, vale a dire dal suo fondamento ontologico[9].All’uopo mi piace ricordare le parole di Vincenzo Vitale  «Perché mentre il diritto vorrebbe oggi contentarsi del finito, la letteratura lo induce a sensibilizzarsi verso l’infinito, mentre il diritto vorrebbe chiudersi nella asfitticità dell’analisi del linguaggio giuridico, la letteratura lo induce ad affacciarsi sul mondo, mentre il diritto vorrebbe preservarsi puro e incontaminato, la letteratura lo induce a sporcarsi le mani, mentre il diritto vorrebbe dimenticarsi di sé, la letteratura lo induce a ricordarsene, mentre il diritto vorrebbe sempre appiattirsi sulla forma, la letteratura lo salva dal formalismo, mentre il diritto vorrebbe identificarsi con la pura logica, la letteratura lo salva dal logicismo, mentre il diritto è pieno di paure, la letteratura lo induce ad osare, mentre il diritto non vorrebbe avere nulla a che fare con gli uomini, la letteratura lo costringe a patirne le vicende, mentre il diritto vorrebbe esaurirsi tra articoli e massime, la letteratura lo induce a registrare l’esperienza umana, mentre il diritto vorrebbe estinguersi divenendo altro da sé, la letteratura lo induce a rinascere ogni volta»[10].Non v’è chi ritenga che la letteratura, oltre a costituire un bagaglio di conoscenze indispensabili per qualsiasi professionista, fornisca, in particolare, gli strumenti culturali e umani, utili alla formazione del giurista, e in generale a tutti gli operatori e cultori del diritto[11].Andrea Galganopoeta, critico letterario e saggista, nonché docente di letteratura, presso la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, recentemente, in qualità di relatore unico nel convegno su “Delitto e Castigo” di Fedor Dostoevskij e sul problema della giustizia in Alessandro Manzoni, tenutosi a Potenza, nel Palazzo di Giustizia, innanzi ad un attentissima platea di giuristi, ha sostenuto con forza questa idea, nella ferma convinzione che il rapporto tra diritto e letteratura costituisca un campo privilegiato, un terreno di coltura ideale per un indagine della realtà. I rispettivi ambiti, solo prima face distinti, possono e devono convivere, impreziosire le conoscenze del giurista, consentirgli di procedere a confronti e  ad analisi interpretative di tutta quella vasta gamma di questioni, che ruotano sostanzialmente intorno all’annoso concetto di «giustizia».In questa sede si tenterà di dimostrare come, in fondo, le osservazioni di un letterato, non sono poi così distanti da quelle di un giurista, probabilmente perché il campo di osservazione è il medesimo, ciò che cambia, semmai, è l’angolo visuale dal quale si guarda, si osserva, si scruta.Molto giuristi si sono interessati di questo sinallagmatico legame[12]. Per il presente lavoro si è scelti una figura di spicco, Gustavo Zagrebelsky. Ma cos’hanno in comune un giovane scrittore come Andrea Galgano e un giurista come Gustavo Zagrebelsky?In via del tutto preliminare, va sgombrato il campo da un possibile equivoco: non si intende procedere ad un’inutile, defatigante quanto fuorviante comparazione. La scelta ricade su esponenti che rappresentano molto bene i due mondi a cui appartengono, e che incarnano, come si vedrà, quel sinallagma che avvince il legame tra diritto e la letteratura propugnato in epigrafe.Sono due studiosi di quei due ambiti disciplinari ritenuti per troppo tempo lontani e, a volte, addirittura opposti. Sono senz’altro diversi, diversi anche per età (Andrea Galgano[13] ha solo 34), per formazione, esperienze personali e professionali, ma null’affatto distanti. Non pare nemmeno necessario dover specificare, in questa sede, la grandezza dell’illustre giurista Gustavo Zagrebelsky.Si è, quindi, volutamente optato richiamare nomi dal rilevante profilo professionale e dall’elevata capacità di comunicazione, la cui distanza, però, non avrebbe potuto essere maggiore di così. E ciò per una ragione ben precisa: entrambi convergono su un’unica idea, riassumibile in ciò: giuristi e letterati possono e devono dialogare.In altri termini, ci troviamo di fronte un letterato e un giurista. Entrambi, per quel che qui rileva, prendono in considerazione, tra gli altri, e lo hanno fatto in sedi e contesti diversi, la figura di Dostoevskij, o meglio, dei personaggi dei romanzi di Dostoevskij.Perché i testi di Dostoevskij? Perché raccontano un mondo così diverso dal nostro, riescono sempre a sfidarci e a parlarci di noi[14]. Perché le sue opere rimangono attuali e capaci di affascinare generazioni di studiosi. Più volte indagato dalla critica letteraria, non finisce mai di rivelare l’origine della sua misteriosa e inesauribile forza vitale.Sorprendentemente i due studiosi arrivano, attraverso iter argomentativi diversi, a conclusioni non dissimili, e cioè che il Diritto e la Letteratura possono e devono coniugarsi.


 

2. Lo sguardo di un letterato: Delitto e Castigo di F. M. Dostoevskij[15] -  Delitto e castigo è un classico non solo della letteratura russa, ma anche di quella mondiale. E’ considerato, non a torto, un romanzo «universale», tutti ne conoscono l’esistenza e la grandezza anche senza averlo mai preso in mano[16].«Attraverso i personaggi di Delitto e castigo - dice Andrea Galgano - Dostoevskij, comunica un’idea molto interessante: «la pena giuridica comminata per il delitto spaventa il criminale molto meno di quanto pensino i legislatori», spostando, in tal modo il problema della pena tout court ad una questione morale[17]La pena è vista non solo da un punto giuridico,  (vedremo poi l’importanza del ruolo del giudice nella vicenda), da una parte c’è un castigo morale, e dall’altra il riconoscimento della colpa commessa. Il pentimento del protagonista è un rinnovamento spirituale, che avviene gradualmente, per fasiAddentrandoci nelle maglie delle vicende del romanzo», - aggiunge  - «scandagliandolo punto per punto, è possibile rinvenire tutti i passaggi del rinnovamento spirituale di Raskòlnikov, che tocca non solo la pena in quanto giuridicamente ascrivibile, ma soprattutto l’inferno interiore che da essa ne deriva»[18].

Andrea Galgano di questa  “polifonia”, ha fornito una poetica descrizione: «è come se lo spettatore fosse coinvolto nelle tante voci dei personaggi; è un po’ come entrare nel teatro del mondo, in cui noi stessi siamo protagonisti o anche vittime»[19].La trama: fondo dell’intero romanzo è Pietroburgo, orizzonte entro cui si svolge l’intreccio della vicenda, un città intrisa di un’afa soffocante, e si erge sui personaggi come un atroce e demoniaco spettro. Si chiude con un altro scenario, la Siberia, precisamente in una fortezza situata in un Basso Piano della Siberia occidentale. Al di là del penitenziario in cui è rinchiuso Raskòlnikov, si aprono le sterminate steppe russe, che nella loro infinita e armonica bellezza si contrappongono al mondo oppressivo, frantumato e tenebroso della città. Sotto lo sguardo di Raskòlnikov pianura russa trascende i propri contorni etnico-geografici per diventare simbolo della tensione trasfiguratrice dell’anima; nell’infinità dello spazio sconfinato c’è la promessa di un nuovo contatto immediato con la vita, di una rinnovata unione fra cielo e terra, che sembrano confluire nel lontano orizzonte.Raskòlnikov uccide una vecchia usuraia per impossessarsi del suo denaro e liberare l’umanità da un essere da lui ritenuto inutile e parassitario. Nella storia, trovando altri due personaggi, Sonja e Svidrigàjlov, i punti di contatto con il protagonista del romanzo. Sonja, la figlia maggiore dei Marmelàdov, costretta a prostituirsi per sfamare la famiglia, è colei che conduce Raskòlnikov all’espiazione e alla redenzione. Questa in sintesi la storia che, come vedremo, è molto più densa e ricchi di spunti di riflessione.

Ora, la vicenda vede come figura chiave uno studente che si chiama Raskòlnikov. Con riferimento al protagonista, si è sottolineata la genalità di Dostoevskij, a partire dal suo nome, che nella lingua italiana non ha alcun significato, non così per la lingua russa; Raskòlnikov in russo significa scisso, a ricordare come la coscienza umana, in determinate circostanze, può essere scissa, divisa, lacerata[20].

Andrea Galgano ha spiegato molto bene cosa si cela dietro il termine “scisso”, facendone emergere il suo più profondo significato. Ha sostenuto, al riguardo, che: «la parola scissione ha dentro una specie di involucro contenente la “colpa”, di cui il giovane si rende responsabile, che non consiste solo nel suo isolamento rispetto alla comunità, ma nella totalità universale, cioè è un uomo recluso, recluso prima di tutto da se stesso». Ha evidenziato come a Dostoevskij non interessa tanto l’omicidio in sé, quanto le motivazioni sottostanti, che crescono e si alimentano nell’animo del protagonista[21].A Pietroburgo, in un abbaino angusto, l’ex studente Raskòlnikov cova un progetto che dovrebbe affrancarlo dal degrado in cui è sprofondato. La miseria l’ha costretto a interrompere gli studi, è braccato dalla povertà, pieno di rancore e disprezzo per la vita. Per uscire da quell’inferno gli basterebbe un atto di coraggio. C’è una vecchia usuraia, con gli occhi avidi e maligni, che non vale più di un pidocchio.L’usuraia è descritta come una “vecchia, stupida, sorda, malata, avida e cattiva. Andrea Galgano, ne ha specificato il significato: «vecchia, stupida, sorda, malata, avida e cattiva  assommano un unico concettoLa stupidità è l’incapacità di non saper vedere, sorda perché non sa ascoltare; malata non soltanto nel fisico ma anche nell’anima perché usuraia; avida, perché legata alla ricchezza e al potere e cattiva. Quindi un delitto che torna, un giusto delitto, potremmo dire»[22].

Se la uccidesse e la derubasse, con i suoi soldi potrebbe finire l’università, costruirsi una carriera, esser di sostegno alla famiglia. Sarebbe illecito per la legge, non per la sua coscienza. Tanti grandi uomini hanno iniziato così la propria ascesa, non facendosi scrupolo di calpestare degli esseri inutili per raggiungere un alto obiettivo.

«L’omicidio» - dice Andrea Galgano - «è l’unico modo che lo studente ha per dimostrare a se stesso di appartenere alla categoria dei grandi uomini, convinto di averne il diritto»[23].

Iplot di Delitto e castigo è incastonato fra due incubi di Rodiòn Raskòlnikov. Uno, in cui il giovane si vede bambino, mentre assiste sconvolto al massacro di un cavallo per mano del suo padrone, ebbro, istigato da una piccola folla altrettanto alticcia. L’altro, apocalittico, nel capitolo finale, dove sogna che il mondo sia vittima di una pestilenza a causa della quale gli uomini impazziscono. I due momenti onirici sintetizzano gli estremi fra cui oscilla il suo malessere interiore, prima spettatore impotente di un’iniquità intollerabile, poi testimone del caos che deriva dall’abolizione di ogni norma, avendo ciascuno eletto se stesso ad unica norma. Raskòlnikov vive una schizofrenia intellettuale che lo spinge a voler attuare l’equità sociale di Marx arrogandosi i privilegi del superuomo di Nietzsche. È lui ad ammettere che il vero movente del suo delitto è stato il desiderio di provare la propria superiorità. Nel suo delirio di onnipotenza, però, ha fallito. A questo punto Raskòlnikov, che per giorni e giorni si è aggrovigliato in pensieri farneticanti, è maturo per affrontare la redenzione che passa attraverso la sofferenza e confessa il suo crimine quando ormai potrebbe farla franca. A guidarlo in questa volontaria via crucis è la presenza salvifica di Sònja, che al suo nichilismo disperato oppone la speranza del Vangelo. E alla fine Raskòlnikov si piega non tanto alla fede, quanto al sentimento umile, paziente e generoso della ragazza, che lo ha seguito in Siberia dove deve scontare la sua pena.

Questa è, in sintesi la storia.

Orbene,  l’idea che vive in Raskòlnikov consiste nella giustificazione dell’assassinio per fini superiori. E’ perciò giusto uccidere una vecchia usuraia, in quanto il denaro da lei accumulato  può essere messo a servizio di tutta l’umanità. Gli uomini si dividono, infatti, in due categorie, quelli «comuni» - tenuti ad attenersi alla morale umana, a ciò che è riconosciuto come bene e male – e quelli «eccezionali», svincolati da ogni obbligo  morale e legittimati a violare qualunque legge. Gli uomini eccezionali, proprio per la loro superiorità, hanno il diritto di uccidere, soprattutto se il loro atto può servire al bene comune. In Raskòlnikov si uniscono così due tensioni che si rinvengono problematicamente in tutti i romanzi di Dostoevskij: la libertà illimitata dell’uomo e il bene dell’umanità possono legittimare qualunque cosa, anche l’omicidio.

In Delitto e castigo tale morale del «tutto è permesso» va tuttavia incontro alla graduale rivelazione delle contraddizioni di cui è intessuta: l’idea del Superuomo, logicamente perfetta nella propria astrazione, nel momento in cui si muove e si rende vitale, si autodistrugge. E la sua dissoluzione viene confermata dal sentimento di angoscia e sofferenza che annienta Raskòlnikov. L’affermazione di ciò che ha fatto si tramuta in un’offesa alla vita, che travolge la sua stessa esistenza. Raskòlnikov, uccidendo un essere umano in nome del proprio libero arbitrio, nega il valore dell’individuo e, con esso, se stesso e il principio che lo giustifica: la libertà. Dostoevskij arriva così a mostrare che se la libertà è per l’uomo il bene al quale non può rinunciare senza cessare di essere «ad immagine e somiglianza di Dio»[24] - ciò che libera l’uomo dalla propria determinazione empirica rilevando in lui  un’energia creativa – questa stessa libertà, quando trapassa in puro arbitrio, diventa qualcosa di vuoto, di devastante. Per il libero arbitrio non esiste nulla di sacro, tutto viene profanato, diventando semplice sperimentazione di una volontà che, volta  unicamente a se stessa, resta priva di oggetto e si dissipa tragicamente.

Raskòlnikov si trasforma così da Superuomo in «pidocchio», il suo orgoglio diventa orgoglio ferito, odio nei confronti di sè stesso e di quell’umanità «comune» al cui livello si sente abbassato. Egli è tormentato dalla consapevolezza del proprio fallimento, apparendo a se stesso come un debole e privo di valore, un essere impotente, misero e meschino. E il tormento si tramuta in disperazione.

Come si vede, la questione per Dostoevskij, non è tanto la pena in sé né il castigo (che ha valenza teologica - morale), ma è il «il cuore dell’uomo[25]», ovvero le motivazioni che spingono un uomo a commettere un delitto, consapevole di rischiare quasi certamente una sentenza di condanna.

«Il vero tormento per Dostoevskij» – dice Andrea Galgano – «non è la pena in sé considerata, ma il tormento che ne consegue, quel qualcosa che entra dentro l’anima e costringe a fare i conti con sé. Si tratta di un’operazione abbastanza difficile e complessa»[26].  Lo studioso, che del romanzo conosce i più profondi significati,  ha sostenuto che Dostoevskij, in qualche modo, tende a ridimensionare la pena dal punto di vista giuridico, dando rilievo all’aspetto morale, teologico, facendo ricorso al concetto di “peccato” e di “peccatore”, un monito per le future generazioni. Ciò perché a Dostoevskij interessa il singolo individuo in quanto tale; «è come se dicesse che ognuno di noi, potenzialmente, potrebbe commettere un omicidio»[27].

Ma la via per una libertà che, pur colpevole, non si nega e, pur sofferente, non si disgrega,è rappresentata da Sonja, che alla morale del Superuomo contrappone la religione dell’amore. Sonja non condanna Raskòlnikov, bensì lo ama, lo ama a tal punto da farsi carico di un peccato che non ha commesso. Costretta a prostituirsi per sfamare la famiglia, non è tuttavia disposta a rinunciare alla propria dignità di persona libera, assumendosi così la responsabilità della propria degradazione e sofferenza.

Sonja e Raskòlnikov sono i due assi portanti dell’intero romanzo. Figura molto interessante è anche quella del giudice Porfìrij. Di lui Andrea Galgano dice: «Dostoevskij lo descrive come un uomo metodico oltre che ipocondriaco»[28].

Il giudice istruttore che indaga sul delitto dell’usuraia. Autentico interlocutore dialettico con Raskòlnikov, ricopre un ruolo fondamentale nella vicenda del protagonista. Certo che i fatti sono solo il prodotto dell’animo umano, egli porta alla luce le contraddizioni interiori di Raskòlnikov, che si sente così smascherato nel propri segreto, cosciente del proprio fallimento e perciò indotto alla confessione del delitto.

Andrea Galgano, con riferimento a questo interessante personaggio e al suo singolare modus di condurre tutta l’attività inquisitoria, ha acutamente osservato come «Le conversazioni tra Raskòlnikov e il giudice sono estremamente essenziali, in una specie di movimento; è come se a Porfìrij interessa non soltanto la modalità istruttoria, ma volesse vedere oltre, l’essere l’umano in sé, quell’umano che ha commesso un omicidio. A lui interessa, prima ancora che l’applicazione della legge, nelle sue rigorose procedure, le persone che commettono l’omicidio nella loro fragilità umanità. A questo giovane giudice (35 anni soltanto), non interessa la legge rigida, immutata e incrontrovertibile, ma l’uomo in quanto tale»[29].

Consapevole che la pena ha un senso solo se interiormente richiesta dall’omicida. Porfìrij lascia libero Raskòlnikov. Solo così il castigo esterno che prima o poi si abbatterà su di lui sarà il coronamento del suo istinto di autopunizione; solo così il sistema di repressione giudiziario si concilierà con la libertà dell’individuo e ne manterrà intatta  la dignità. Dotato di una profonda intuizione, riesce a unire alla propria attività di indagine un profondo senso umano, fondato sul rispetto  della libertà dell’uomo.

L’umanità del giudice Porfirij, si contrappone, così all’ideologia di un altro personaggio, Lebezjàtnikov. Quest’ultimo, imbevuto di filantropia socialista, attribuisce all’ambiente e alle circostanze l’origine del male nell’uomo, che viene così sollevato dalla propria responsabilità personale.

Ma l’intera vicenda di Delitto e castigo è volta a sfatare questa forma di umanitarismo che, riducendo l’uomo a prodotto sociale, non solo elimina il concetto di male ma priva l’uomo stesso della sua libertà, spersonalizzandolo.

Al riguardo Andrea Galgano ha sostenuto qualcosa di molto interessante: «In Delitto e castigo, come del resto in tutti gli altri romanzi, non si rinviene quella rigida divisione dei personaggi tra i buoni e i cattivi; invero in ognuno di loro vi è identificato lo stesso autore: Dostoevskij è in ogni personaggio del romanzo. Raskòlnikov» - commenta - «è diviso in due, è combattuto in una continua lotta. Questo conflitto interiore lo animava anche prima di commettere l’omicidioLo stesso Dostoevskij» – prosegue - «in un passaggio del Taccuini, dice che “al mattino noi facciamo una lotta tra l’essere e il non essere”, cioè siamo strappati dal nulla. E’ lì che si gioca la partita, tra il sì alla vita e il sì alla morte. Decidere di fare del bene nella quotidianità oppure no. E lì che si gioca la partita dell’uomo con la morte e con la vita. Del resto» - specifica lo studioso - «Dostoevskij vede il male come qualcosa di privato e dice una cosa molto interessante “il male è un fango sovrapposto”. Con ciò non intende dire che l’uomo sia il male, e non ha certo una visione pessimistica del mondo e della vita. Semplicemente per lui rileva il valore della vita dell’uomo anche quando è degradato, anche quando di trova in uno stato di male assoluto».[30]

In un altro romanzo, Il sosia[31], in Jakov Petrovic’Goldjadkin, burocrate consigliere titolare, Dostoevskij fa emergere la figura del doppio (il sosia) in una coscienza scissa, pronta ad annullarsi e sporta verso l’abisso: «La sua condizione in quel momento rassomigliava alla condizione dell’uomo ritto su un precipizio spaventoso, mentre la terra si apre sotto di lui e già frana, già si muove, sussulta per l’ultima volta, crolla, lo trascina nell’abisso; e intanto l’infelice non ha più né la forza né la fermezza d’animo di balzare indietro, di distogliere gli occhi dal baratro spalancato; l’abisso lo attrae ed egli finalmente vi si lancia, affrettando egli stesso il momento della sua rovina»[32] . Il sosia è sì altro da noi, ma può essere anche la nostra parte peggiore, quella parte di noi più oscura, quella che Freud definì “perturbante” e che poi Otto Rank, suo allievo, analizzerà nel suo testo[33]. Quando questa parte oscura interviene scompaginando ogni cosa, allora si insinua la figura del “demonio”. È appena il caso di sottolineare come Dostoevskij ricorre all’uso di termini ben precisi, per nulla casuali. Va ricordato che ”Diavolo”, specie nel Vangelo, è il contrario di simbolo: il simbolo unisce, il diavolo divide. Il diavolo, quindi, è la forza della negazione e dell’inganno.

A Raskòlnikov, l’aver ucciso una vecchia usuraia, gli appare un qualcosa di liberatorio, ma in realtà è la sua condanna e non solo da un punto di vista giuridico. Il castigo è qualcosa di peggio della pena, perché condanna all’inferno, ad un dissidio interiore, ad essere privi di amore. «Non va dimenticato,  - ricorda Andrea Galgano - «Dante non colloca Lucifero nel fuoco, ma nel ghiaccio, a simboleggiare il fatto che il cuore non è più animato dalla bellezza della vita»[34]. E quindi, ciò che oppone al male, alla morte, non è la vita ma l’amore. Solo un amore più grande, uno sguardo persino di compassione può salvare l’omicida.

E questa prospettiva è stata ben condensata da Andrea Galgano: «in Delitto e Castigo, Dostoevskij dimostra come la pena, per quanto decisiva, estrema e assoluta, non toglie la dignità. Il male interviene nella storia non privando il bene ma sovrapponendosi. In tal modo non siamo più padroni di noi stessi, non siamo più destinati a qualcosa di grande»[35].

E l’amore grande per Raskòlnikov è Sonja, che lo ama nonostante sia un omicida. Non a caso, ad un certo punto Dostoevskij parla di “sottosuolo”, che non è quel che abbiamo al di sotto di noi ma è la coscienza,  il rapporto con la coscienza di sé. Per questo motivo scrive il Memorie del sottosuolo o Ricordi dal sottosuolo[36].

Tat’jana Kasatkina, studiosa di fama mondiale di Dostoevskij, attraverso una lettura originale, mostra che l’opera dello scrittore russo si è nutrita della tradizione cristiana, letteraria e iconografica: è questa la sorgente che gli ha insegnato a non temere l’umano, ma ad amarlo. Sempre. La Kasatkina afferma che «Dostoevskij parla dell’uomo all’uomo, affascina e impaurisce proprio perché raggiunge il mistero insondabile del suo essere una creatura aperta al bene e al male con un’ampiezza che va dal paradiso all’inferno»[37].

Andrea Galgano ricorda così, un po’ commosso, il suo incontro con la studiosa: «Ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere, in una conferenza a Rimini, la più grande studiosa di Dostoevskij: Tat’jana Kasatkina. In quell’occasione parlò del problema della libertà in Dostoevskij - (contenuto nel sui libro “Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij) – o meglio, della speranza della libertà e del concetto di male. Ciò che mi ha maggiormente stupito sono stati i suoi racconti degli aneddoti dello scrittore, che lo hanno reso molto più vicino»[38].

Il romanzo termina con la condanna di di Raskòlnikov, in Siberia ai lavori forzati. Egli prenderà il Vangelo che Sonja gli ha donato, e, per la prima volta, aprendolo e soffermandosi sull’episodio di Lazzaro, comprenderà che la via dell'espiazione e del cambiamento consiste nel cercare la convivenza con gli altri e l’offerta commossa di se al prossimo, come l’amore di Sonja: un amore semplice e totale, fatto di silenziosa dedizione e conversione.

Bisogna, quindi, guardare a Dostoevskij, per affrontare, fino alle estreme conseguenze l'interrogativo sulla colpa nelle sue diverse facce. Dostoevskij sonda le profondità dell’animo umano e porta il suo protagonista ad un percorso di rinascita attraverso una colpa, il suo giudizio e la successiva espiazione della stessa colpa.

 Andrea Galgano, che del romanzo è un profondo conoscitore,  dice una cosa bellissima: «La bellezza di Dostoevskij sta in un principio basilare: che l’altro rivela a me stesso una parte di me, cioè il rapporto, la relazione con l’altro è decisiva per me stesso, perché fa sì che, muovendosi verso l’altrocapisco di cosa sono fatto io, a cosa tendo, perché cosa vivo.

Lo studioso, inoltre, dice qualcosa di molto interessante, che costituisce, se vogliamo, una possibile chiave di lettura del romanzo e, per traslato, il suo autore: «per il pentimento di Raskòlnikov occorre una forza esterna che intervenga nella società, qualcosa che salvi il mondo. Non il mondo in quanto in quanto tale, ma il singolo che appartiene al mondo. E Dostoevskij dice proprio della nostra irripetibile singolarità:“Dio ci ha creati unici e irripetibili”. Fra centomila anni non ci sarà una persona identica a noi. Ed è proprio questo volto unico che fa sì che il condannato mantenga una sua dignità fino all’ultima goccia di sangue. Questo è il pentimento che sta alla base»[39].

Questa la storia narrata nel romanzo, a cui molte definizioni sono state attribuite: romanzo giallo, romanzo sociale e romanzo “filosofico”; ma Delitto e castigo è soprattutto la storia del suo protagonista, della sua conversione e del recupero della sua umanità lacerata.

Andrea Galgano, a chiusura della lezione, durata circa 3 ore, del romanzo dice: «la condanna di Raskòlnikov, al termine del romanzo, mette in evidenza una differenza etica tra chi subisce passivamente la sofferenza di una pena e chi, invece, condivide la propria pena. E’ il pentimento che cambia l’uomo; è grazie al perdono che l’uomo ha la possibilità di redimersi, che non cancella tuttavia, l’errore. Per Dostoevskij il perdono è un dono, è qualcosa che viene dato in abbondanza da uno stato di grazia che lo modifica e ne fa un evento propulsivo. Ed è Sonja, che perdona Raskòlnikov perché lo ama. Per amare un omicida ci vuole uno slancio sovrumano. E questo è qualcosa di bellissimo. Dostoevskij entra talmente nell’animo umano che ognuno dei suoi personaggi potrebbe essere ognuno di noi»[40].


 

2.2. (segue) I Promessi sposi di A. Manzoni: una storia di “ingiustizia”.[41]. – «Con Alessandro Manzoni[42], più che di diritto in senso stretto, si dovrebbe parlare di giustizia o meglio, di “ingiustizia”, oltre che di perdono» ha acutamente osservato il prof. Andrea Galgano.

Il tema della giustizia, come si vedrà, è centrale nella riflessione manzoniana: basti pensare alla «Storia della Colonna infame», di cui si parlerà ampiamente in seguito.

Per usare una felice espressione di Davide Rondoni, «Alessandro Manzoni prende di petto il problema della giustizia, sia nel suo romanzo popolare, I Promessi Sposi sia ne La storia della colonna infame» . [43]

Ma perché uno scrittore come Manzoni si occupa della giustizia? Manzoni non era certamente un giurista. Tuttavia, con il diritto «ebbe a che fare». Ce lo spiega Andrea Galgano: «A dimostrazione di come la letteratura non sia un satellite che orbita da solo ma ha a che fare con la vita di tutti i giorni e con il quotidiano, basti ricordare che Alessandro Manzoni, pur non essendo un giurista, con il diritto ebbe a che fare. Intentò una causa contro un editore, per aver pubblicato, senza il previo consenso, un’edizione de I Promessi Sposi. La controversia si trascinò fino ad arrivare innanzi alla Corte di Cassazione. Chiese un risarcimento di 159.000 mila lire, ma gli furono riconosciute solo 34.000 mila lire. Cifra enorme per quei tempi». Prosegue Galgano: «Che lo scrittore si occupasse di diritto lo testimonia anche la sua amicizia con Tommaso Grossi, notaio e suo grande amico».[44]

A conferma di come a Manzoni stesse a cuore il problema della giustizia, va detto che la stessa compare anche nei Promessi sposi, dove addirittura percorre l’intero libro: dall’introduzione, in cui l’anonimo si domanda come sia possibile che in un mondo retto dal “Re Cattolico nostro Signore” siano possibili tanti “atti tenebrosi, malvagità e sevizie”, alla conclusione, che sembra sanare tutte le ingiustizie patite da Renzo e Lucia, ma apre in realtà alla consapevolezza che le vicende del mondo si ripeteranno, sotto altra veste e con altri personaggi. Mi piace riportare le parole di Andrea Galgano a proposito della parola “giustizia” contenuta nell’introduzione dell’opera, perché, con la sua osservazione, riesce a compiere un’operazione straordinaria: trasformare il lettore in spettatore, aiutandolo a posizionarsi nella giusta angolazione, da dove è possibile uno sguardo d’insieme, dove si apre uno scenario ricco di dettagli[45]. Dopo aver premesso che il problema della giustizia stava molto a cuore a Manzoni e che la parola “giustizia” compare fin dall’introduzione dello scritto – lo studioso spiega - «tutta la parte introduttiva sembra un set cinematografico. E’ come se Manzoni conoscesse le tecniche cinematografiche. Introduce il racconto come se stesse facendo delle riprese dall’alto di tutto ciò che c’è  per poi scendere giù, su uno specifico personaggio, che è Don Abbondio»[46].

Ma procediamo con ordine.

Come detto, I Promessi Sposi si aprono e si chiudono nel segno della giustizia. La vicenda, come sappiamo, prende avvio proprio dal un’ ”ingiustizia”, cioè la minaccia a don Abbondio da parte di Don Rodrigo perché non celebri le nozze tra Renzo e Lucia; e si chiude con il matrimonio, che costituisce la riparazione dell’ingiustizia. La parola giustizia che, come detto,compare già dalle primissime pagine, fa la propria irruzione nel terzo capitolo dei Promessi sposi. Renzo si reca dall’avvocato, un esperto della legge – da tutti soprannominato Azzeccagarbugli – per avere consigli;  per “sapere se a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale”. Il dialogo tra i due è molto interessante. Vediamo. Dice l’Azzeccagarbugli a Renzo: «La grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco». Renzo replica: «Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io; e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a mee vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustiziae son ben contento d’aver visto quella grida». Alla fine del capitolo, Renzo dichiara: «In ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente». Andrea Galgano ha evidenziato come dal dialogo tra i due emerga un certo timore, molto più marcato in Renzo, per la giustizia, evocativa di qualcosa di cui starsene alla larga[47].

Invero, la giustizia, nei Promessi sposi, viene, come vedremo, modulata attraverso diversi momenti[48]. «E’ come se Manzoni» – dice Andrea Galgano - «non avesse a cuore solamente l’aspetto esteriore, formale della giustizia, ma anche la modalità con cui essa interviene nella società, si esplica». E questo aspetto è qualcosa di sicuro intereresse per un giurista.  Galgano prosegue specificando: «Ad esempio il termine “giustizia, in bocca all’Azzeccagarbugli avvocato di pessima fama, non particolarmente eccelso al servizio dei potenti,  assume un particolare significato e cioè “quel complesso di uomini e leggi al servizio del potere che serve a far rispettare l’ordine costituito”. E’ una giustizia malmessa ma appoggiata sull’ordine, non deve essere disordinata, “squadernata”. In bocca al Renzo, invece, la giustizia assume un significato diverso. Renzo è un ragazzo che ha subito un sopruso, quindi si tratta di un significato che coincide grossomodo con quello di una giustizia, nel senso di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la leggeE Renzo, invero, ha proprio questa di giustizia, perciò la teme. Renzo, in fondo, è una persona ingenua. E’ un ragazzo perseguitato da un potere più grande di lui»[49].

Andrea Galgano, al riguardo, aggiunge qualcosa di molto interessante. Segnatamente, quando Renzo dice all’Azzeccagarbugli «A questo mondo c’è giustizia finalmente» - dice Galgano - «Manzoni è come se scrivesse una specie di postilla, che si tratta di «strane parole» e che solo il dolore può far credere una cosa del genere». «Tanto è vero», dice il narratore - «che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica»[50].

Ma torniamo al nostro personaggio, Renzo. Come si comporta un uomo che ha subito un’ingiustizia? La sua prima reazione, non appena ha saputo che c’è «un prepotente» non vuole che egli sposi Lucia si ribella e si reca a casa di Don Abbondio e lo minaccia, perché vuole sapere chi colui che si frappone al suo matrimonio. Don Abbondio, nella concitazione dice, terrorizzato: «Ma se parlo son morto. Non m’ha da premere la vita». Renzo, terminata la discussione con Don Abbondo, si allontana a passi infuriati verso casa, ma nella sua mente prende corpo ciò che il narratore chiama, con bellissima espressione, un «sogno di sangue»: immagina, cioè, di tendere un agguato a don Rodrigo e di ucciderlo.

Andrea Galgano, con riferimento alla espressione «sogno di sangue» da lui stesso, definita poetica, (la qual cosa non deve sorprendere il lettore, dal momento che, tra le altre cose, è egli stesso un poeta[51]), dice : «Con questa espressione, in realtà, Manzoni, indica una forma di giustizia non pedissequa alla legge, una forma di giustizia privata, un po’ come ha fatto Raskòlnikov in Delitto e castigo, in cui ci si fa giustizia da sé e si è convinti che sia giusto.»[52].

Renzo, animato da spirito di vendetta, vorrebbe uccidere Don Rodrigo. Manzoni descrive questa scena con una simbologia davvero attualissima, voleva tendergli una trappola, aspettarlo nascosto dietro una siepe. Il narratore descrive una classica scena di un agguato qualunque, come potrebbe attuarsi anche oggi. Ma vediamo il passo: «Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo».

Naturalmente Renzo non porta a termine il suo intento. Al riguardo Andrea Galgano dice : «Ciò che trattiene Renzo dal proposito omicida, non è tanto la bella vita da salvare, ma l’amore, Lucia. E’ Lucia a distogliere Renzo da suo «sogno di sangue». [53] Da questo punto di vista, è come se Renzo modulasse l’aspetto della giustizia, la sua giustizia, con il proposito della vendetta. In altri termini, quello che all’inizio abbiamo definito giustizia diventa vendetta, se Renzo avesse ucciso Don Rodrigo. Ed è su questi due aspetti che si innesta il concetto di libertà, di autodeterminazione: Renzo avrebbe potuto uccidere il suo nemico ma ha, con un atto di volontà, deciso di astenersi.

Come osservato acutamente da Andrea Galgano, «In Renzo appare impigliato tra due sentimenti diametralmente opposti: da una parte ferve in lui il desiderio di vendetta, dall’altra la volontà di perdonare. Un dualismo, un tratto distintivo del giovane Renzo, che rimarrà per tutto il romanzo»[54].

Da qui, diventa quasi obbligata una riflessione importante: se in Renzo prevalesse il suo desiderio di vendetta e uccidesse don Rodrigo diventerebbe del tutto simile a lui. Passerebbe dal ruolo di perseguitato e di innocente a quello di persecutore e di colpevole: passerebbe dal ruolo di colui che cerca la giustizia al ruolo di colui che commette l’ingiustizia.

Procedendo a passo svelto, facciamo un salto in avanti, quasi alla fine del romanzo. In sintesi, Renzo, guarito dalla peste, è di nuovo a Milano. Lucia è stata rapita dall’innominato, che poi l’ha liberata. Renzo è appunto a Milano a cercarla. Viene a sapere che si è ammalata di peste e che è stata portata al lazzaretto.

Vi si reca, dunque, tormentato dal pensiero che sarà molto difficile trovarla, e ancora più difficile trovarla sana. Al lazzaretto fa un incontro che non s’aspettava: trova padre Cristoforo, il quale gli fornisce delle indicazioni utili che possono aiutarlo a rintracciare Lucia, ma anche gli dice di prepararsi a non trovarla, o a non trovarla sana. A questo punto Renzo esplode: «se non trovo lei», dice, «troverò don Rodrigo». «e se lo trovo», continua Renzo, in preda alla collera, «se la peste non ha già fatto giustizia… è venuto un tempo che gli uomini  s’incontrino a viso a viso: e… la farò io la giustizia».

Le intenzioni di Renzo manda su tutte le furie Fra Cristoforo il quale, il quale, mostrando a Renzo lo spettacolo degli appestati, esclama: «Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va’, sciagurato, vattene!»

Dunque, siamo quasi alla fine del romanzo ma Renzo non ha ancora imparato cos’è la “giustizia”. Andrea Galgano, nel descrivere questa scena, ha evidenziato una cosa che potrebbe sembrare anche una ovvietà ma che invece non lo è; un principio che molto spesso,  trascuriamo per dare un senso alle cose. Dice: «Renzo non ha ancora imparato cosa sia la giustizia. E’ rimasto fermo all’inizio del romanzo, quando pensava di uccidere Don Rodrigo. Una cosa la si impara o incontrandola o scontrandosi, quindi facendo esperienza, giudicandola»[55].


 

Fra Cristoforo, dunque si scaglia contro Renzo, ricordandogli che non è uccidendo don Rodrigo che otterrà giustizia.

Questo frate incarna il problema della giustizia per tutto il romanzo[56]. Prima di diventare un frate santo, Cristoforo era stato un ricco mercante di nome Ludovico, pieno di ambizione e desideroso di introdursi negli ambienti della nobiltà. La sua vita era cambiata quando, durante una rissa per futili motivi, aveva ucciso un nobile e visto morire Cristoforo, un servitore a lui molto caro. Da quel momento inizia il percorso di conversione che lo porterà a farsi frate con il nome di Cristoforo, in ricordo dell'amico perduto. Ma la conversione vera e propria di Lodovico non avviene quando egli si fa frate.  Il passaggio decisivo avviene in seguito: una volta vestito il sacco e assunto il nome di fra Cristoforo, egli prende la decisione di andare a chiedere perdono al fratello dell’ucciso, e mantiene, con fermezza e coraggio, questo proposito.

È qui che la conversione di Lodovico viene messa alla prova. Per usare le parole di Andrea Galgano «E’ il perdono che cambia, che rende giusti» . Snodo decisivo è dunque la richiesta di perdono. Galgano prosegue: «Manzoni utilizza la parola perdono con molto parsimonia, come se ne avesse terrore ad usarla. La cosa non deve stupire, perdonare non è mai un atto semplice, non lo è per nessuno» . Fra Cristoforo può chiedere perdono perché è già stato perdonato; e perdonato, con un atto gratuito e paradossale, dall’uomo che ha ucciso. Il perdono di Dio precede la richiesta di perdono dell’uomo; anzi, fonda la possibilità della richiesta. E’ così che fra Cristoforo diventerà, nel romanzo, l’uomo del perdono. Da questo punto di vista, Manzoni mostra un movimento umano molto interessante.

Torniamo all’incontro nel lazzaretto con Renzo: padre Cristoforo, che dunque, sa molto bene, per esperienza diretta, che cosa voglia dire cercare la giustizia, invita Renzo a tralasciare i suoi di vendetta e di perdonare don Rodrigo.

A questo punto, «il lettore si trova innanzi una scena bellissima» - Andrea Galgano la descrive quasi commosso - «Renzo perdona don Rodrigo mentre sta per morire di peste, ma prima di vederlo»[57], prima ancora di sapere che è malato. Si tratta di un aspetto molto importante perché segna il grado di maturità, se così possiamo dire, del giovane Renzo. E’ qui che si conclude il suo lungo viaggio alla ricerca della giustizia. Renzo cercava la giustizia e aveva trovato quel suo simulacro che è la vendetta e che pensava fosse giustizia.

Fra Cristoforo ricorda a Renzo cosa sarebbe stato se avesse messo davvero attuato il suo proposito, che altro non è se non vendetta.  In frate utilizza questa espressione «macchinar la vendetta».

Il dialogo tra Renzo e padre Cristoforo cruciale non solo per la maturazione di Renzo, ma anche, e soprattutto, per il romanzo: da questo punto in poi che le vicende si avviamo alla conclusione in cui Renzo potrà ritrovare Lucia e sposarla

Immaginando, per assurdo, un esito diverso della storia. Se Renzo avesse dato attuazione al suo proposito omicida e si sarebbe vendicato di don Rodrigo e lo avesse ucciso non sarebbe riuscito a sposare Lucia. Braccato, sarebbe stato costretto a fuggire dal Ducato di Milano.


 

Paradossalmente avrebbe finito per realizzare proprio il disegno di don Rodrigo. Del resto la giustizia a cui è interessato maggiormente Renzo non è solo la punizione di don Rodrigo, ma avere Lucia. Ciò significa che per Manzoni il perdono riveste un ruolo importante nel romanzo, ciò per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, il perdono non è in conflitto con la giustizia, come erroneamente si è portati a credere. In secondo luogo, cosa più importante, è che il perdono non ha una valenza individuale bensì sociale, non è un qualcosa di privato ma di esistenziale che investe la vita della collettività.

La scena finale del romanzo si svolge in un luogo semplicissimo, nel tinello di casa, in cui si trovano gli sposi e Lucia lava i piatti. Renzo racconta le sue passate avventure e, soprattutto, elenca le molte cose che ha imparato per l’avvenire, tra cui non mettersi nei tumulti, non predicare in piazza, non bere troppo, non tenere in mano il martello delle porte quando c'è intorno gente malintenzionata, non attaccarsi un campanello al piede senza prima aver riflettuto, e molte altre cose simili. Lucia, però, trova che nel ragionamento ci sia qualcosa di sbagliato, qualcosa non torna e a furia di sentirlo ripetere osserva che lei, i guai, non è andata a cercarli. Testualmente Lucia dice: «Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire," aggiunse, soavemente sorridendo, "che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi». Andrea Galgano esplicita cosa contenga lo “sproposito” di cui parla Lucia. Al riguardo dice : «”lo sproposito di volervi bene”.. non è un cattivo pensiero, è qualcosa che va oltre la misurache non sta in una misura stretta. Lo sproposito è qualcosa che supera la giustizia delle cose, più grande e più vera di una promessa di felicità».[58]

Dopo qualche discussione, i due coniugi concludono infine che i guai capitano spesso a chi si comporta in modo incauto, ma anche a chi non ne ha alcuna colpa, e che in un caso e nell'altro la fiducia in Dio li rende più sopportabili e li rende utili per una vita migliore. Questo è "il sugo di tutta la storia" dice Manzoni alla fine del romanzo: «se l'opera», osserva con ironia, «è piaciuta ai lettori, questi dovranno voler bene a chi l'ha scritta e un po' anche a chi l'ha rimaneggiata, se invece ne sono stati annoiati credano che non è stato per volontà dello scrittore».

Questo è il “sugo della storia”, e si chiude con una domanda, c’è giustizia a questo mondo?

Impossibile rispondere in modo netto e definitivo. Ai lettori il compito di cercare di rinvenire risposte. Sicuramente il narratore lascia un messaggio importante: bisogna stare attenti a non trasformare la giustizia in vendetta; e che la realizzazione della giustizia passa attraverso il perdono.

La sto­ria di Renzo e Lucia, costi­tui­sce un esem­pio para­dig­ma­tico di giu­sti­zia ripa­ra­tiva, nei suoi per­corsi di ricon­ciliazione rispetto ai mali sof­ferti e nella dispo­ni­bi­lità, che Renzo e Lucia matu­rano nel corso della sto­ria, al per­dono.

Promessi Sposi confermano, dunque, la loro centralità nel rapporto tra diritto e letteratura. Il romanzo offre un punto di vista sempre valido. Quale che sia l’angolo visuale da cui scrutarlo, sarà sempre quello perfetto, e lo sarà per chiunque, sia esso giurista o letterato.


 

2.3. (segue) Storia della colonna infame di A. Manzoni: una storia di “mala giustizia”. –

La Storia della colonna infame nasce come parte del Fermo e Lucia, legata ai capitoli sulla peste. Ne viene poi staccata e si presenta inizialmente come Appendice storica. La prima edizione risale al 1823, prima di Fermo e Lucia, ma verrà pubblicata solamente nel 1840, insieme con I Promessi Sposi.

Il romanzo e la Storia della colonna infame, sono, quindi coevi, nella loro ideazione interna e fanno parte dello stesso universo narrativo. Ma, contrariamente al romanzo, che alterna, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, momenti tragici con altre situazioni, nella Colonna infame si ha solo la percezione della tragedia.

Brevemente la storia. Il 21 giugno del 1630 è un venerdì tetro. La città di Milano è divorata dalla peste, moltissime sono le vittime che la malattia ha mietuto. Quel giorno, di mattina, una donna, Caterina Rosa, vede dalle finestre della sua casa in via Vetra, un uomo avvicinarsi alle porte e ai muri delle case poste di fronte alla sua finestra[59].

La donna è convinta di vederlo ungere i muri con un unguento scuro, lo accusa quindi di spargere la peste per diffonderla e uccidere altre persone. Una vicina di Caterina Rosa, Ottavia Bono, successivamente conferma alle autorità di aver visto anche lei un uomo ungere i muri della strada dove vive.

La polizia, dopo aver trovato i muri sporchi di nero, in realtà si tratta di inchiostro, crede alle testimonianze delle due donne e arresta un sospetto, Guglielmo Piazza, le cui mani sono  sporche di nero, che viene scambiato per unguento pestilenziale. Il Piazza, commissario di sanità, viene quindi arrestato e sottoposto ad interrogatorio. La casa, perquisita, non produce alcuna prova del crimine. Guglielmo Piazza viene interrogato lungamente e anche torturato; resiste ma poi sotto la pressione degli inquisitori che gli promettono l’impunità e la libertà, confessa di aver ricevuto l’unguento pestilenziale da Giangiacomo Mora, un barbiere di umili origini, che vende, fra le altre cose, balsami che servono teoricamente per curare alcune malattie.

Il Mora viene subito arrestato e portato in galera. Perquisita la casa, gli inquirenti trovano e sequestrano strani liquami. Durante il processo il Mora si difenderà dicendo che non sono preparati pestilenziali bensì che si tratta di un miscuglio di cenere e acqua bollente usato per lavare i panni. Ma i giudici e gli esperti nominati dal tribunale, dopo molte incertezze e molti dubbi, dichiarano l’unguento una pozione pestilenziale atta a prolungare e diffondere la peste.

A questo punto il Mora e il Piazza vengono perseguitati dagli inquirenti e sfiniti da continue torture morali e fisiche, finiranno per confessare. Denunciano anche un certo Baruello, un tale da entrambi conosciuto, due arrotini e due membri della famiglia Migliavacca. Il processo sembra quindi assumere una dimensione più consistente con coinvolgimenti insospettabili come quello del figlio del comandante della guarnigione spagnola a Milano.

La tortura e le macchinazioni, costruite dagli inquirenti affinché il processo assuma una dimensione sempre più ampia, divengono una sorta di simulacro della doppia verità, in cui l’estorsione di una confessione sempre più allucinante conduce ad un fiume di bugie quasi inarrestabile. I due imputati oramai distrutti dagli interrogatori portano all’arresto delle cinque persone che hanno accusato. Ma le promesse di libertà e perdono, fatte ai due imputati dagli inquirenti, non vengono avvallate dai giudici che sentenziano, il 27 luglio dello stesso anno, la condanna a morte dei due principali imputati.

Entrambi, dopo indicibili torture, vengono giustiziati il 2 agosto del 1630. Con loro vengono uccisi gli altri cinque imputati. Dopo l’esecuzione della sentenza e sempre per ordine del tribunale viene rasa al suolo la casa del Morra, ritenuto il più colpevole degli imputati e sopra alle ceneri della casa viene eretta a futura memoria una colonna con un’iscrizione latina, che dovrà ricordare, a tutti coloro che la guardano, l’infamia dei propagatori di peste. La colonna è stata rimossa nel 1778.

Orbene, la Storia della colonna infame costituisce senz’altro un caso di “mala giustizia”, una vicenda di condanna e di dannazione. E’ la tragedia della storia nel suo silenzio, quasi fosse una musica composta da più note[60]. Manzoni si misura con quell’evento e sente il dover di prendere posizione. Si ricorderà che già Piero Verri, nelle sue Osservazioni  sulla tortura, ne aveva dato un’interpretazione.

Si dice, di solito, è un atto di accusa contro i giudici milanesi. »[61]. Si tratta, invero, di una lettura non del tutto errata, sebbene, però riduttiva. Al riguardo, Andrea Galgano ha osservato: «A Manzoni non interessa la questione della  giustizia relegata al problema dell’applicazione del diritto in senso stretto. Sarebbe riduttivo e banale o, comunque una questione del tutto risolvibileCiò che interessa maggiormente a Manzoni è comprendere da quali passioni sono stati mossi i giudici che hanno condannato “ingiustamente” ad un supplizio immane due innocenti»[62] Infatti, la dura requisitoria, che si trasforma in un vero e proprio processo, contro i giudici serve a Manzoni a dimostrare che non fu questione di tempi, né di circostanze, ma fu colpa di uomini. L’obiettivo polemico di Manzoni allora, non sono tanto i giudici, semmai la loro incapacità di resistere alle passioni che li agitavano; passioni che, in quanto tali, possono intaccare il giudizio di qualunque uomo un pericolo che continuamente si ripresenta, nella storia dell’uomo.

«Manzoni studia questo processo» - spiegherà Andrea Galgano - «e se ne occuperà perché c‘è stata una condanna ingiusta. Tutta l’istruttoria è stata condotta in modo arbitrario. Gli interessa oltre che la singolarità dell’evento anche la questione della tortura» .[63]

Già dalle prime pagine, la Storia della colonna infame pone questioni estreme. Per comprenderne le ragioni, si ritiene utile riportare l’inizio  dell’introduzione:

«Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissmi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile»[64].

Come ha acutamente osservato Andrea Galgano - «Sono gli aggettivi “atrocissimi”, “orribili”e “sventurato” a ad evidenziare il livello di drammaticità dell’evento»[65].

Nelle intenzioni dei giudici l’avvenimento doveva restare memorabile e certamente lo fu.  «E’ come se» - per usare le parole di Davide Rondoni - «i giudici, dopo aver eletto la colonna, volessero dire “abbiamo fatto bene”. Infatti, poi, Manzoni ironizza: quel giudizio fu veramente memorabile»[66].

«Ecco perché Manzoni procede su un doppio binario» – ancora Andrea Galgano - «da una  parte studia i documenti del processo e dall’altro analizza tutti quei giudizi, tutte quelle considerazioni su tutte le regole che sono state applicate dai giudici, un po’ come succedeva, nel diritto romano, nel “processo per formulas”»[67]. Ed è così che il narratore cede la parola ai documenti: la voce degli eventi da una parte e la voce di chi racconta dall’altra.

I giudici smettono di essere meri esecutori della legge o, meglio della sua applicazione e diventano i responsabili della ingiusta condanna inflitta agli imputati. «Ed allora, il passaggio di Manzoni» - dirà Andrea Galgano – «è spostare il problema da un punto di vista strettamente giuridico ad una questione etica. Non vuole compiere la stessa operazione fatta da Pietro Verri, il quale si limitò a registrare l’accaduto  con il metodo di tipo storico e documentale del processo. A Manzoni interessa andare oltre, il suo sguardo è rivolto a qualcosa di più grande, di più denso, che è la categoria della responsabilità. Per Manzoni il problema della responsabilità è un problema importante, anzi è il problema per eccellenza. Manzoni ricorda come questi poveri disgraziati siano stati sottoposti alla tortura per estorcere la confessione. Bisognava trovare dei colpevoli e li hanno trovati nel modo sbagliato. E questo aspetto»  - prosegue lo scrittore - «è qualcosa di geniale, che serve a noi» e ricorda quel che Manzoni, ad un certo punto, dice - «una istituzione non si applica da sé e ha bisogno degli uomini che la realizzino. Manzoni fa quello che in termini retorici viene indicato con il termine di “vero essenziale”, cioè arriva subito alla questione»[68].

“Una istituzione non si applica”, è lo snodo cruciale, è quel che maggiormente rileva in questa sede, ai fini del presente lavoro. Manzoni sta dicendo, in realtà, una cosa fondamentale: i giudici “non si ingannarono” per sopperire ad una necessità, potevano, se volevano non sbagliare. E si poteva non sbagliare decidendo le sorti del processo diversamente. Infatti Manzoni indaga su tutto il processo, lo scruta, lo studia, ma, ad un certo punto si chiede, “ma siamo sicuri che i giudici non avrebbero potuto decidere diversamente” o,  specularmente, “siamo sicuri che la decisioni del giudice milanesi fosse la unica possibile”?

Per lo Alessandro Manzoni, visto che nessuna istituzione si muove da sé, e la giustizie è un istituzione, non è concepibile l’idea di una sentenza assoluta, cioè giusta perche frutto di una pedissequa applicazione delle legge. Il problema delle istituzioni è sempre di chi li rappresenta, di chi agisce in nome e per conto della stessa. Una istituzione è fatta da uomini e gli uomini, in questo caso, giudici, che infallibili non sono, possono sbagliare.

A ben guardare, il ragionamento di Manzoni appare più attuale che mai, ben si presta ad illuminare l’agire di molti giuristi, oggi, alle prese con l’esercizio delle rispettive professioni legali.

Il messaggio è molto forte, quasi un monito: non basta fare bene il proprio lavoro, per mettersi al riparo da ogni responsabilità, applicare correttamente la legge, in questo caso, ma occorre qualcosa di più, e ciò è tanto più vero nel campo del diritto penale, in cui entrano in gioco beni come quello della vita e della libertà personale.


 

3. Lo sguardo di un giurista. – «Testi giuridici, testi letterari e testi filosofici appartengono, in fondo, ad un medesimo nucleo»[69]. Lo ha affermato il grande giurista Gustavo Zagrebelsky, intervenuto alla presentazione del libro “Giustizia e Letteratura[70], all’Università Cattolica “Sacro Cuore”, di Milano, il 19 aprile del 2013. Si tratta di una buona premessa per supportare quanto si è sostenuto nella parte introduttiva: diritto e letteratura si coniugano perfettamente.

Andando indietro nel tempo, prendiamo ad esempio Antigone di Soflocle. Un “classico” della letteratura su cui si concentrano e l’attenzione e l’interesse di giuristi, studiosi di letteratura e filosofi. L’anno della prima rappresentazione è il 442 a.C.: da allora Antigone affascina e spinge alla ricerca, per orizzonti che superano mito, tragedia, spettacolo.  Da una parte la regola statuita, la legge, con Creonte; dall’altra l’imperativo che il singolo, Antigone, sente forte nella propria coscienza. Da una parte lo Stato, dunque, dall’altra l’individuo.

 Antigone – ha affermato il grande giurista  «rappresenta il fondamento della riflessione sul diritto, senza tempo, e, allo stesso tempo anche un grande testo filosofico e naturalmente  una delle somme opere dell’ingegno letterario di tutti i tempi»[71].

Continuando nel suo discorso, Gustavo Zagrebelsky dice: «Una volta la letteratura veniva utilizzata spesso dagli avvocati, per esempio, nelle aule di giustizia con qualche citazione ad effetto, per dir così, per forbire le loro arringhe. Ma è evidente che si tratta di un uso strumentale della letteratura. Non che oggi sia venuto meno. Invero» – prosegue – «anche oggi molto avvocati hanno l’abitudine di cercare la frase ad effetto, la citazione dotta, qualche volta per mostrare quante cose sappiamo. In sostanza, farci belli! ». Invero, «non è raro imbattersi in libri che cominciano con qualche citazione che paiono avere uno scopo meramente esortativo. Sicuramente non è questo l’uso corretto della letteratura. Si tratta piuttosto di una forma di approfittamento, se così possiamo dire, della letteratura per fare bella mostra di sé e delle proprie conoscenze, non certo per la coscienza del letterato attraverso l’esperienza dei giuristi»[72]

Nelle università statunitensi sono istituiti dei veri e propri corsi di studio in “Diritto e Letteratura” , a riprova di come una distinzione netta tra le due discipline non sia mai stata avvertita. Tanto è vero il movimento noto come “Law  and  Literature” , nasce negli USA, nel 1973, anno di pubblicazione dell’opera di James Boyd White The Legal Imagination, dove l’autore sostiene che lo studio della letteratura sarebbe fondamentale per il curriculum di studi del giurista in quanto gli studi letterari avrebbero qualcosa di particolare da dire sul diritto e sull’interpretazione giudiziale.

Anche in Italia non mancano significative esperienze e corsi, come quello della facoltà  di Giurisprudenza di Torino, diretto da Pier Giuseppe Monateri, e quello di Roma Tre,  oltre, nonché di associazioni (come l’AIDEL –  Associazione  Italiana  Diritto  e  Letteratura,  e  la  SIDL  -  Società  Italiana  di Diritto  e  Letteratura )  alle  cui attività   partecipano  giuristi  come  Francesco Galgano, Luigi Lombardi Vallauri, Eugenio Ripepe, Umberto Breccia, e che si caratterizzano per una forte interazione con analoghe esperienze europee.

Ciò posto, preliminarmente va sfatata una convinzione diffusa e radicata di ordine metodologico. Nella percezione generale, si è  protesi a ritenere che il “diritto” non faccia parte di quel grande mondo che è la cultura[73].

Da questo punto Zagrebelsky ha spiegato che: «gli studi di Diritto e letteratura, sono coltivati da quei giuristi, che, ad un certo punto della loro esistenza, avvertono con un certo peso il rigore del ragionamento deduttivo». Proseguendo precisa: «il diritto è una scienza con i suoi presupposti epistemologici, che sono indubbiamente diversi da quelli previsti in altri settori»[74].

Preso atto di questa diffusione e della grande soddisfazioni di coloro i quali , partendo dallo studio del diritto, si sono aperti alla letteratura approfondendo l’interpretazione dei testi letterari, vi è da farsi una domanda forse banale, ma per nulla scontata. A cosa serve tutto questo? E’ quanto si è posto l’eminente giurista: «Qual è lo statuto epistemologico di questo connubio che chiamiamo Diritto e Letteratura[75] In realtà è estremamente arduo rispondere a tale quesito, per la semplice ragione che non è possibile definire, con estrema precisione, i labili confini di questi ambiti disciplinati. Una sola cosa può sostenersi con certezza, la lettura di un testo letterario è sempre fatta in vista di una riflessione giuridica.

Al riguardo Zagrebelsky indica come esempio di un grande testo letterario, il Vangelo e dice: «Il processo a Gesù è stato ricostruito sulla base dei testi evangelici. Questi testi possono essere studiati da molti punti di vista. I testi biblici in generale, possono essere studiati anche dal punto di vista della letteratura. Possono essere considerati dei documenti storici e per coloro che professano la fede, come testi rivelati»[76].

Ed infatti, in processo a Gesù, è stato interamente ricostruito sulla base di fonti preziosissime come i testi evangelici. Sono queste fonti che ci hanno rivelato la circostanza che Gesù sia stato condotto innanzi a due tribunali, se così possiamo dire, quello sinedrile e quello romano.

Lo studioso cita “I fratelli Karamazov”  di Dostoevskij[77]. Romanzo sulla fede o sull’ateismo, sulla passione o sull’amore, sulla gioia o sulla sofferenza. Di certo, per contenuto ideologico e struttura artistica, è il romanzo più complesso di Dostoevskij, soggetto trae spunto da un parricidio e da un errore giudiziario realmente accaduti.

In un villaggio della Russia, un agghiacciante fatto di cronaca salta alla ribalta con protagonista la famiglia Karamazov. Stando alle ricostruzioni, il padre Fedor è un uomo dissoluto che si è intrattenuto in rapporti illeciti con i propri stessi figli. Questi, d'altro canto, sembrano aver ereditato dal padre la stessa inclinazione compreso il giovane Alesa che cerca però di sopprimere tali pulsioni e di far emergere la propria vocazione religiosa.

Dopo il brutale assassinio del padre compiuto per mano di Smerdjakov, servo nato da un rapporto extraconiugale di Fedor Karamazov, ogni personaggio poi entrerà in un vortice di autodistruzione senza scampo che travolgerà le vite di tutti in un turbine di delitti, crisi epilettiche, suicidi, follie, morti sospette, possenti passioni amorose, odio.

Dopo aver consigliato la lettura di questo romanzo, Gustavo Zagrebelsky dice una cosa bellissima: «Nel romanzo a un certo punto, l’autore scrive che la Bibbia è il bassorilievo dell’umanità. Io consiglio Dostoevskij perché lui è il “bassorilievo dell’umanità”. Definizione stupenda». Poi specifica: «L’umanità lì è rappresentata come un immenso bassorilievo, dove si trova di tutto, tutte cose che parlano della nostra umanità».[78]

Il giurista, e non solo, può trovare nella letteratura molte cose. Autorevolmente il grande giurista Zagrebelsky ha sostenuto che nella letteratura si trovano le grandi alternative nelle quali si svolge la vita degli individui e quella della società. Innanzitutto il rapporto tra bene e male, che può essere sviluppato anche come tra verità inganno o come il rapporto tra bello brutto, amore e tradimento[79]Altro grande tema è la libertà e la necessità del comportamento degli essere umani. Quest’ultimo è diventato un aspetto di grande interesse nella letteratura a partire dallo sviluppo del positivismo della seconda metà del diciannovesimo secolo. Questi anni vede il fiorire di tutta quella letteratura che ha cercato di reagire all’idea dell’essere umano inglobato della struttura sociale, costituendone un pezzo della stessa. L’idea si basa su una visione del mondo che vede individuo inglobato in una entità superiore  che crea la necessità, e sparisce così, la sua responsabilità personale.

Ad esempio, uno dei tanti temi di Dostoevskij, percepibile anche in Delitto e castigo, è, tra gli altri, la centralità dell’ambiente in cui i personaggi devono fare i conti. L’idea è che il contesto socio - ambientale spiega e allo stesso tempo giustifica qualunque comportamento. La colpa individuale non esiste più. Ogni delitto, ogni male, ogni comportamento non conforme è da ascriversi a difetti della società. Una volta modificata questa, di per sé, verrà eliminato il male[80]. Sono questi, grossomodo, i postulati della Scuola Positiva del diritto penale. Si propugnava l’idea di una deresponsabilizzazione individuale, per cui, per colpa della società o a causa dell’incapacità, il criminale non va punito ma, semmai, curato (e, quindi, recuperato). L’idea di fondo è quella di un essere umano che è anche un “essere morale”, cioè come essere capace di prendere decisioni sulla propria esistenza, sui propri rapporti con i terzi[81].

Un altro grande tema, strettamente legato alla reazione della società nei confronti del delinquente, è quello del capo espiatorio, tematica che, in verità, non sempre emerge con nitidezza, ma che indubbiamente fa parte della forma mentis del giurista. Da questo punti di vista, non vi è dubbio che la letteratura può essere di grande ausilio, soprattutto quando si tratta di uno fenomenologie non sempre evidenti[82]. Quante volte nei processi ci troviamo di fronte all’accanimento su un capo espiatorio. «L’accanimento del capo espiatorio» - afferma Gustavo Zagrebelsky - «è qualcosa per cui la società toglie via da sé qualcuno, e, togliendolo da sé, carica su di lui tutte le pesantezze. E’ quasi una forma alternativa alla confessione. La confessione mette l’individuo “a tu per tu” con la misericordia e il perdono divino, mentre il capo espiatorio mette la società, tutta quanta, di fronte ad un individuo o un gruppo di individui». Ed ancora, prosegue - «Si pensi alla sorte del popolo ebraico in Germania all’epoca del nazismo. Evidentemente il popolo ebraico ha assunto il ruolo di capo espiatorio, in una procedura di purificazione collettiva. La confessione, come la conosciamo noi, è una purificazione individuale»[83].

Altro argomento che presenta indubbiamente profili di interesse è quello dell’ideologia. Si pensi a Buio a mezzogiorno , grandissimo romanzo di Arthur Koestler , sulla funzione plasmatica della coscienza e della ideologia. E’ la storia di un dirigente del partito comunista all’epoca delle epurazioni staliniane[84], che non rappresenta solamente una storia individuale, ma è la storia di un’intera parte, di un intero gruppo dirigente, ceh viene condannato per ragioni ideologiche, ritenuti colpevoli dei delitti contro lo Stato. «Il proletariato contro il partito»,  ha specificato lo studioso, delitti che non avevano commesso, tuttavia, si lasciano giustiziare convinti che quella “giustizia” sia giusta. «Nel romanzo è messo in lice tutta la portata manipolatoria dell’ideologia», ha aggiunto Zagrebelsky[85].

Certe ideologie non esistono più. Tuttavia, non si può non aderire all’autorevole opinione espressa dallo studioso quando afferma che  «nessuna società è del tutto priva di un tessuto ideologico che la tiene insieme.  E’ pur vero che oggi le ideologie non sono più quelle di una volta, ma è comunque vi è una certa “pressione uniformante” del pensiero, per cui certe cose non si possono dire. Questa è una versione più benevola. Ci sono cose che ciascuno di noi pensa ma che non osa dire[86].

Ma a questo punto viene da porsi una domanda. Diritto e letteratura , insieme, il loro studio congiunti a cosa serve?

Si ritiene di poter rispondere con le parole di Gustavo Zagrebelsky: «Diritto e letteratura servono a fa pensare, e pensare è qualcosa di importante. Può sembrare una ovvietà, ma pensare significa produrre idee e di manifestarle». Non si può non condividere tale assunto, vero in ogni tempo. Se si considera che nella storia dell’uomo, pensare, ideare, manifestazione, non hanno mai costituito dei postulati quanto piuttosto delle conquiste.

Vi è un’ultima considerazione da fare. Quando esaminiamo la maggior parte dei testi letterari, non sfugge la circostanza che sono tutti collocati in una particolare fase storica. Per esempio, nel Il mercante di Venezia  di William Shakespeare,  centrale è la figura negativa di Shylock, ebreo usuraio e crudele. Se non si considera il contesto storico di riferimento, sarebbe difficile, oggi, comprendere questi testi fino a fondo. Sarebbe auspicabile seguire il prezioso insegnamento di Zagrebelsky, il quale, ad avviso di scrive, correttamente, dice: «Sarebbe auspicabile cercare di collocare questi testi nell’epoca in cui sono stati scritti e non presentarli in modo astratto. Si tratta quasi sempre di testi storicamente determinati dalle circostanze che li hanno prodotti». Poi, nella sua lucidissima analisi prosegue - «Prendiamo ad esempio l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij,rappresentato dallo scrittore come un essere abietto, è invece, un personaggio positivo, l’eroe che per ribellarsi a ciò che sta nel sottosuolo, cioè la civiltà industriale, la Londra della seconda esposizione universale del 1861. Dostoevskij descrive la descrive come una città  piena di persone tutte uguali, tutte mosse dalla stessa forza, provenienti da tutto il mondo, che visitano questi padiglioni di vetro e cemento, senza sapere esattamente il perché. Ecco il “sottosuolo”, fatto da questa folla indifferenziata di individui, tutti uguali, omologati, che si muovono secondo una legge che è cogentissima, di cui loro stessi non hanno consapevolezza ma non sanno chi è l’autore. Chi ha spinto questi due milioni e mezzo di visitatori dell’esposizione universale a Londra? Un numero fantastico per l’epoca. Ed allora l’uomo del sottosuolo, per manifestare la sua originalità e la sua indipendenza, è costretto ad essere un uomo abietto, rispetto agli stili di vita e alla mentalità degli appartenenti al  soprasuolo». [87]

Come si vede, non  sarebbe possibile leggere un’opera letteraria senza calarsi nel contesto storico in cui è stata scritta. Eppure è un’operazione indispensabile, in quanto darebbe la possibilità al lettore di depurare tutta quella parte caduca, legata al suo tempo e di lasciare la parte universale. Poiché, molto spesso, com’è noto, i testi letterati hanno anche quelle caratteristiche che li rendono universali, senza tempo. Questo evita il rischio di prendere tutto per buono o il rischio opposto, cioè affermare che tutto quello che è stato scritto è storicamente superato[88]. In verità, nei grandi testi letterari, soprattutto quelli classici, si rinvengono sia gli uni che gli altri, e per non confondere le due cose sarebbe buona cosa procedere ad opera di selezione del testo.

«Rudolf Bultmann»[89] – ricorda Gustavo Zagrebelsky - «utilizzava il termine “demitizzazione” per indicare l’eliminazione di tutto ciò che è il frutto del tempo, della mentalità, della cultura del tempo e quindi caduco da ciò che è il nucleo fondamentale»[90].


 

4. Considerazioni conclusive. - Ciò che la letteratura insegna al giurista, come si è avuto modo di appurare in questo breve lavoro, rispetto all' assetto astrattamente codificato del diritto, è che nell' esperienza vissuta non esistono leggi generali, immutabili, valevoli sempre, per tutti e per tutte le situazioni, perché i casi della vita sono sempre singolari e irripetibili. Perciò le condanne, come le assoluzioni, risultano inevitabilmente imperfette, visto che in qualche modo siamo tutti colpevoli, ma anche, da un altro punto di vista, tutti innocenti.

A tale imperfezioni tuttavia, può e deve porsi rimedio. Il diritto non è assoluto e, per una usare la felice espressione manzoniana «un’istituzione non si applica da sè». La giustizia, o meglio, la sua amministrazione, è un’istituzione, condotta da uomini, perciò potenzialmente caduca o, quanto meno esposta ad errori interpretativi ed applicativi. A parere di scrive una giustizia perfetta non esiste, o per lo meno, è difficilissimo delineare i precisi contorni in grado di delimitare il giusto dall’ingiusto in sede definitoria. Non esiste una definizione assoluta di giustizia che la differenzi da ciò che giusto non è.

Tuttavia, sarebbe riduttivo,oltre che privo di qualsivoglia utilità, arrestarsi innanzi ad una costatazione tanto banale quanto ovvia. Se ci si limitasse ad una tale affermazione, non avremmo detto nulla e, per traslato, il presente lavoro non avrebbe trovato la sua ragion d’essere. Ma le cose non stanno esattamente così.

Con il presente lavoro, non sì è preteso essere esaustivi e dire più di quanto non abbiamo scritto altri. A parlare, in verità, sono stati l’autorevolezza degli studiosi che, in tema di diritto e del suo legame fraterno con la letteratura, hanno detto molto, tanto. Per il loro tramite, a parlare sono stati grandi autori, attraverso le loro opere. F. M. Dostoevskij e Alessandro Manzoni hanno parlato molto. Il lettore – giurista non può non coglierne i messaggi. Non si tratta di un semplice esercizio accademico ma di qualcosa che serve al giurista  per la propria formazione.

Come autorevolmente Gustavo Zagrebelsky insegna, “la letteratura serve al giurista per pensare e pensare significa generare idee e manifestarle”.

Andrea Galgano, altrettanto autorevolmente, lo sostiene da sempre: la letteratura, oltre a costituire un bagaglio di conoscenze indispensabili per qualsiasi professionista, fornisce, al giurista gli strumenti culturali e umani, utili alla sua formazione.

Come si vede, i due studiosi, diversissimi, lo abbiamo sottolineato in premessa, parlano la stessa lingua, dicono esattamente la stessa cosa. Ciò conferma quell’idea che qui si è intesa propugnare e diffondere e cioè che tra il Diritto e la Letteratura non c’è solo un legame strettissimo, questo lo affermato in molti e più autorevolmente del presente autore. Invero, forse in maniera un po’ azzardata, si ritiene di fare un salto un avanti (che poi sarebbe, un ritorno al passato). Il giurista ha bisogno dei grandi testi letterari per orientarsi soprattutto quando si tratti decisionali;  il letterario ha bisogno delle esperienze del giurista, di uno spaccato di realtà su cui porre il suo sguardo. L’avvocato, il magistrato, come si sa, forse più di altre categorie professionali, è costretto a fare i conti con il vivere quotidiano con una realtà molto spesso difficile, dove prendere decisioni evitando il rischio di essere “ingiusti”, non è sempre facile.

Alla luce di tutto quanto detto fin ora, si ritiene di poter affermare, e si spera di non essere smentiti, che tra il Diritto e la Letteratura esiste un legame talmente stretto, che potremmo definire “sinallagmatico”, come detto all’inizio, e il nesso di reciprocità che avvince questi due ambiti disciplinari costituisce un po’ l’anello di congiunzione e la condizione per la loro esistenza.

Ciò vuol dire che, non può un giurista ignorare i grandi insegnamenti dei testi letterari senza avvertire smarrimento, disorientamento e, del pari, non può un letterato ignorare tutte quelle esperienze di cui il giurista, suo malgrado, è spesso testimone. Perdere l’uno significa perdere anche l’altro.

 


BIBLIOGRAFIA 

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  • Vitale V.  , Diritto e Letteratura. La giustizia narrata, Sugarco Edizioni, 2012.
  • Zagrelbesky G., ospite dell’Università Cattolica “Sacro Cuore”, in occasione della presentazione del libro "Giustizia e Letteratura". Incontro promosso dal Centro Studi "Federico Stella, 19 aprile 2013, visibile su: in https://youtu.be/CygBP8TKcNs

[1] È la lettera al dodicenne Paul Claussen del famoso giudice statunitense della Corte Suprema (1882 –1965) in E. LONDON, (ed.), The Law as Literature, New York, Simon and Schuster, 1960, (traduz. di B.Pozzo, in Law & Literature e diritto comparato: a proposito dell’opera di James Boyd White, in Riv. Giur. ISAIDAT, 2010, fasc.1, 3.
[2] Ibidem.
[3] J.B. White, The Legal Imagination: Studies in the Nature of Legal Thought and Expression, Boston, Little, Brown & Co., 1973.
[4]  G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Il Mulino, Bologna, 2001, p.247.
[5] Gabrio Forti, Professore ordinario di Diritto penale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore e avvocato  nonché  Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Cattolica di Milano, è Direttore del Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la politica criminale. Autore  ispiratore, nel 2009, di un ciclo di incontri e di pubblicazioni dedicati al binomio “Giustizia e Letteratura”. Ha coordinato importanti progetti di ricerca, tra cui, da ultimo, l'indagine sul tema della responsabilità penale nell'ambito dell'attività medico - chirurgica e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, i cui esiti sono sfociati nel volume Forti G. - Catino M. - D'Alessandro F. - Mazzucato C. - Varraso G. (a cura di), Il problema della medicina difensiva (Ets, Pisa 2010). Oltre ad aver curato varie pubblicazioni scientifiche, tra cui, Forti G. - Visconti A. - Mazzucato C. (a cura di), Giustizia e letteratura - I (Milano 2012), è autore della monografia Colpa ed evento nel diritto penale (Giuffrè, Milano 1990), del volume L'immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale (Raffaello Cortina, Milano 2000), nonché di numerosi saggi di Diritto penale e Criminologia pubblicati su riviste giuridiche italiane e straniere.
[6] La felice, quanto originale definizione del rapporto tra Diritto e Letteratura, come legame avvinto da sinallagma, è stata fornita fa Claudio Brancati, Avvocato del Foro di Potenza, in occasione del Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni”, svoltosi nei giorni 29 e 30 giugno, 2015 nel Palazzo di Giustizia di Potenza, dal Prof. Andrea Galgano, docente di Letteratura presso la Scuola di Psicoterapia “Erich Fromm” di Prato.
[7] G. Forti – A. Visconti. - C. Mazzucato  (a cura di), Giustizia e letteratura II, con il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Vita Pensiero, Milano 2014, p. 39.
[8] A.  Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni,cit.
[9] V. Vitale, Diritto e Letteratura. La giustizia narrata, Sugarco Edizioni, 2012.
[10] Ibidem.
[11] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni,cit.
[12]  G. Forti – A. Visconti. - C. Mazzucato  (a cura di), Giustizia e letteratura - I , Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Vita e Pensiero Editore, Milano, 2012. Peraltro, autore  ispiratore, nel 2009, di un ciclo di incontri e di pubblicazioni dedicati al binomio “Giustizia e Letteratura” (. Un’impresa cui si è dedicato con un folto gruppo di professori, giovani ricercatori, scrittori, critici letterari coordinati dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale dell’Università Cattolica di Milano.
[13] Andrea Galgano, poeta, saggista e critico letterario, collabora con il periodico on-line Città del Monte, per il quale è editorialista e curatore di poesia e letteratura. Al Polo Psicodinamiche di Prato è docente di letteratura presso la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm e fondatore e direttore responsabile di «Frontiera di pagine magazine - on line», coordina il progetto di ricerca sul senso religioso in Giacomo Leopardi per International Foundation Erich Fromm e lo sviluppo dei processi di formazione letteraria nelle professioni intellettuali per la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm. Ha pubblicato un libro di poesie Argini (Lepisma editrice, prefazione di Davide Rondoni) ed è membro del comitato scientifico della collana “L’immaginale” per Aracne editrice, Roma, per la quale ha pubblicato  i saggi Mosaico (2013) e Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido (2014, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini), e assieme ad Irene Battaglini il volume Frontiera di Pagine (2013) che raccoglie saggi e interventi di arte, poesia e letteratura, e il catalogo Radici di fiume (Polo Psicodinamiche, 2013), un intenso percorso simbiotico di arte e poesia.
[14] T. Kasatkina, Dal paradiso all'inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, (a cura di) Elena Mazzolla, Itaca, 2012.
[15] Il presente paragrafo contiene gli interventi del Prof. Andrea Galgano, docente di Letteratura presso la Scuola di Psicoterapia “Erich Fromm” di Prato,  in occasione del Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni ”, svoltosi nei giorni 29 e 30 giugno a Potenza. I passi sono stati interamente registrati e sbobinati a cura del presente autore e trascritti tra virgolette. Ciò ha consentito di poterli riportare pressoché integralmente. Nel presente paragrafo, segnatamente, si riportano gli interventi del primo incontro di studi (29 giugno 2015).
[16] L’idea del romanzo ebbe una lunga  maturazione in Dostoevskij. Concepito nel 1865 come un racconto sull’alcolismo dal titolo “Gli ubriachi”, diventò in breve un romanzo incentrato sull’omicidio, che recuperò un precedente progetto del 1859, “Confessione”, basato appunto sulla confessione di un delitto. Ad un primo abbozzo del romanzo, distrutto dall’autore alla fine del 1865, seguì la sua forma definitiva, che uscì a puntate nella rivista Rùsskij Vèstnik a partire dal gennaio del 1866. (F. M. Dostoevskij, Delitto e castigo, introduzione di Chiara Cantalli, traduzione di Vittoria Carafa De Gavardo, Newton Compton Editori, Roma, 2014, p. 7.).
[17] A. Galgano, Convegno “Diritto e Letteratura. Tra Dostoevskij e Manzoni,  primo incontro di studi (29 giugno 2015), cit.
[18] Ibidem. Cfr. M. Bachtin,  Estetica e romanzo, Einaudi, Torino, 2001 e ID., Dostoevskij, Poetica e stilistica, Einaudi, Torino, 2002.
[19] Ibidem.
[20] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, primo incontro di studi (29 giugno 2015), cit.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem
[22] Ibidem
[23] Ibidem.
[24] F. M.  Dostoevskij,  Delitto e castigo, op. cit., p. 9.  
[25] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, primo incontro di studi (29 giugno 2015), cit.
[26] Ibidem
[27] Ibidem
[28] Ibidem.
[29] Ibidem..
[30] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, (29 giugno 2015), cit.
[31] F. M. Dostoevskij, Il sosia, BUR Rizzoli, Milano 2009.
[32] Ibidem.
[33] Cfr.,A. Carotenuto , Freud il perturbante, Bompiani, Milano 2002.
[34] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, (29 giugno 2015), cit.
[35] Ibidem.
[36] Il romanzo è stato edito in italiano anche con il titolo Ricordi dal sottosuolo, ad esempio da FeltrinelliFëdor Michailovič Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli [1864], 1995.
[37] T. Kasatkina, Dal paradiso all'inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij,  (a cura di) Elena Mazzolla, Itaca, 2012.
[38] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, (29 giugno 2015), cit.
[39] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni,, (29 giugno 2015), cit.
[40] Ibidem
[41] Il presente paragrafo contiene gli interventi del Prof. Andrea Galgano, docente di Letteratura presso la Scuola di Psicoterapia “Erich Fromm” di Prato,  in occasione del seminario “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni ”, svoltosi nei giorni 29 e 30 giugno a Potenza. I passi sono stati interamente registrati e sbobinati a cura del presente autore. Ciò ha consentito di poterli riportare pressoché integralmente. Nel presente paragrafo, segnatamente, si riportano gli interventi del secondo  incontro di studi 30 giugno 2015).
[42] Alessandro Manzoni che giurista non era, suo malgrado, per far valere un suo diritto, costretto dalle circostanze a difendere un suo diritto, si trovò a frequentare le aule dei tribunali, e lo fece da protagonista, non limitandosi a godere del patrocinio di un avvocato, ma intervenendo personalmente con argomenti giuridici nella gestione della causa. Nel 1840 il Regno di Sardegna, l’Austria e il Granducato di Toscana introdussero nella loro legislazione il diritto d’autore. Nel 1844 l’editore fiorentino Le Monnier produsse una ristampa dei Promessi sposi (che ebbe numerose riedizioni) non autorizzata da Manzoni, che gli fece dunque causa. Nel 1846 l’editore fu condannato; fece ricorso alla Corte Regia, che di nuovo lo condannò nel 1860; e ancora alla Corte di Cassazione (del Regno d’Italia), con nuova e definitiva condanna il 20 dicembre 1861. Restava da definire la questione del risarcimento dei danni economici procurati a Manzoni: solo nel 1864 venne stipulata una transazione, con la quale Le Monnier si impegnò a restituire a Manzoni 34.000 lire (Manzoni aveva calcolato che il danno economico da lui subito ammontasse a 159.000 lire, e tanto chiedeva). A. De Rubertis, Il processo Manzoni - Le Monnier, in Id., Documenti manzoniani, Napoli -Genova - Città di Castello 1926, pp. 5-59.
[43]  D. Rondoni, Conferenza C'è Giustizia a questo Mondo?, Centro Asteria Milano, visualizzabile su https://youtu.be/lmt4APnUp0g.
[44] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, (30 giugno 2015), cit.
[45] Questa sensazione è stata avvertita da buona parte dei presenti al Convegno. Al termine dei lavori, non sono mancati, infatti, giuristi che di questa circostanza, hanno reso edotto il relatore.
[46] Ibidem
[47] Ibidem.
[48] Ibidem.
[49] Ibidem.
[50] Ibidem.
[51] Si segnala, tra gli altri, A. Galgano, Argini, Lepisma, Roma, 2012.
[52] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, (30 giugno 2015), cit
[53] Ibidem.
[54] Ibidem
[55] A.  Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni, (30 giugno 2015), cit
[56] D. Rondoni, Conferenza C'è Giustizia a questo Mondo?, Centro Asteria Milano, visualizzabile su https://youtu.be/lmt4APnUp0g
[57] Ibidem
[58] A. Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni”, (30 giugno 2015), cit.
[59] A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, introduzione (a cura di) Maurizio Cucchi, Universale Economica Feltrinelli – Classici, Milano, 2015, p. 3 ss.
[60] E. Raimondi, La ferita del passato. Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, in Letteratura e identità nazionale, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 69.
[61] A.  Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni”, (30 giugno 2015), cit.
[62] Ibidem.
[63] Ibidem.
[64] A. Manzoni, Storia della Colonna Infame,cit., p. 3.
[65] A.  Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni”, (30 giugno 2015), cit.
[66] D. Rondoni, Conferenza C'è Giustizia a questo Mondo? cit.
[67] Il processo formulare fu uno dei tre modelli giurisdizionali del diritto romano. Esso, caratterizzato da una procedura più semplice e meno rigoristica delle arcaiche lègis actine, finì per sostituirsi completamente a queste nel periodo augusteo. (Dizionario Giuridico Romano, Introduzione (a cura di) Antonio Guarino, III Edizione, Collana diretta da Federico Del Giudice, Edizioni Giuridiche Simone, 2000, p.410).
[68] A.  Galgano, Convegno “Diritto e LetteraturaTra Dostoevskij e Manzoni”, (30 giugno 2015), cit.
[69] G. Zagrelbesky, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, ospite dell’Università Cattolica “Sacro Cuore”, in occasione della presentazione del libro "Giustizia e Letteratura". Incontro promosso dal Centro Studi "Federico Stella, 19 aprile 2013, visibile su: in https://youtu.be/CygBP8TKcNs
[70] G. Forti – A. Visconti. - C. Mazzucato  (a cura di), Giustizia e letteratura - I ,cit.
[71]  G. Zagrelbesky, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, ospite dell’Università Cattolica “Sacro Cuore”, in occasione della presentazione del libro "Giustizia e Letteratura". Incontro promosso dal Centro Studi "Federico Stella, 19 aprile 2013, visibile su: in https://youtu.be/CygBP8TKcNs
[72] Ibidem
[73] G. Zagrelbesky, presentazione del libro "Giustizia e Letteratura", cit.
[74] Ibidem.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
[77] F. M. Dostoevskij,  I fratelli Karamazov, (trad. M. R. Fasanelli), Garzanti, 1992.
[78] G. Zagrelbesky, presentazione del libro "Giustizia e Letteratura", cit.
[79] Ibidem.
[80] Ibidem.
[81] G. Zagrelbesky, presentazione del libro "Giustizia e Letteratura", cit.
[82] Ibidem.
[83] Ibidem.
[84] Un alto funzionario del Partito sovietico, ex commissario del popolo, Nicola Salmanovič Rubasciov, viene arrestato nella sua abitazione in piena notte, per attività controrivoluzionarie. Trasferito in cella, ricorda la propria vita di esponente di primo piano del Partito fin dalla Rivoluzione e le persone che egli stesso ha portato alla condanna e alla "liquidazione". Un racconto preciso che rispecchia realisticamente quanto descritto da altre testimonianze sull'atmosfera di quegli anni. Il romanzo, scritto nel 1940 e ambientato nel 1939, si rifà al processo e alla condanna a morte di Nikolaj Ivanovič Bukharin, svoltosi nel 1938, e di altri alti dirigenti comunisti che in quegli anni furono vittime di un'epurazione che caratterizzò l'epoca del Grande terrore. Koestler indaga come un uomo, preso da un perverso ingranaggio di accuse false e torture psicologiche e fisiche, sia indotto a confessare crimini che non ha commesso e che, comunque, non sono tali.
[85] G. Zagrelbesky, presentazione del libro "Giustizia e Letteratura", cit.
[86] Ibidem.
[87] Ibidem.
[88] Ibidem.
[89]  R. K. Bultmann , teologo tedesco. «Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici e nello stesso credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostici dal Nuovo Testamento» (Da Il manifesto della demitizzazione).
[90] G. Zagrelbesky, presentazione del libro "Giustizia e Letteratura", cit.