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Pubbl. Mer, 6 Mag 2020

La rinuncia abdicativa nelle espropriazioni

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Andrea Nicosia



La sentenza dell´Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 3 del 20.01.2020 - letta in combinato alle pronunce n. 2 e 4 del 20.01 e n. 5 del 18.02 - rappresenta un punto fermo che l´A.P. ha voluto porre su una questione giuridica oggetto di contrastanti orientamenti: l´ammissibilità nell´ambito delle espropriazioni della rinuncia abdicativa. Il commento ripercorre gli arresti più significativi della giurisprudenza, soffermandosi sulle ragioni per le quali i Giudici dell´A.P. ne escludono definitivamente la configurabilità.


Sommario: 1. Introduzione; 2. Il merito della pronunicia; 3.Il superamento del precedente orientamento; 4. Conclusioni

 

1. Introduzione

La sentenza oggetto del presente commento rappresenta un punto fermo che il Consiglio di Stato – nella sua più autorevole composizione – ha voluto porre su una questione giuridica oggetto di numerosi e contrastanti orientamenti affermatisi in sede giurisprudenziale sia ammnistrativa che civile; quest’ultima chiamata ad esprimersi per i fatti antecedenti la L. 21 luglio 2000 n. 205 che ha assegnato al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva relativa alle controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia di urbanistica ed edilizia.

Con la pronuncia 20 gennaio 2020 n. 3 – che merita di essere letta in combinato alle pronunce n. 2 e 4 del 20.01.2020 e con la pronuncia n. 5 del 18.02.2020 - i Giudici di Palazzo Spada sono tornati a ridefinire i contorni relativi alla ammissibilità dell’istituto della rinuncia abdicativa nell’ordinamento giuridico con espresso riferimento alla materia delle espropriazioni, puntellandone le ragioni di rigetto. Lo hanno fatto ripercorrendo le tappe dei principali arresti giurisprudenziali italiani ed europei anche alla luce delle modifiche normative che hanno coinvolto il D.P.R. 327/2001.

Con il presente commento daremo conto dell’evoluzione che ha riguardato l’istituto (e la sua ammissibilità nell’ordinamento giuridico) approfondendo le questioni trattate dai Giudici amministrativi e le ragioni giuridiche che hanno condotto alla definizione risolutiva della questione. L’analisi terrà conto delle altre recenti pronunce innanzi richiamate attraverso cui il Collegio è intervenuto su alcuni ulteriori profili critici. Di particolare interesse la sentenza del 18.02.2020 n. 5 con la quale i Giudici dell’Adunanza sono stati chiamati a pronunciarsi sulla applicabilità dell’articolo 42 bis del D.P.R. 327/2001 anche ai casi in cui l’illegittima occupazione sia derivata da un atto avente natura privatistica (un contratto di compravendita successivamente dichiarato nullo) e non già dall’esercizio del potere da parte della P.A.

2. Il merito della pronunicia. 

Con ricorso esperito innanzi al T.A.R. del Lazio i ricorrenti agivano per sentire dichiarare l’illegittimità della occupazione ultra quinquennale dei suoli di loro proprietà – destinati alla realizzazione di un impianto per la produzione di un combustibile derivato dai rifiuti – e per l’effetto condannare l’Ente locale occupante alla restituzione dei medesimi, oltre che al risarcimento del danno per l’illegittima occupazione e per il mancato utilizzo dalla data dell’illecito fino alla restituzione. Chiedevano, infine, il risarcimento dei danni non patrimoniali da quantificarsi in via equitativa.

In via subordinata, domandavano il pagamento di una somma di denaro pari al valore attuale del terreno secondo la sua natura edificatoria, oltre che il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Il primo Giudice, con pronuncia del 22 febbraio 2017 n. 2700, accoglieva il ricorso dichiarando l’illegittimità dell’occupazione data l’assenza di qualunque provvedimento idoneo a giustificarlo e invitava l’amministrazione resistente ad esercitare, entro 60 giorni dalla sentenza e ai sensi dell’articolo 42 bis del T.U. in materia di esproprio, la valutazione in ordine alla scelta se restituire il fondo o indennizzare i proprietari nelle modalità di cui al medesimo articolo.

Nonostante la statuizione, l’Ente resistente ometteva di provvedere.

I ricorrenti, pertanto, proponevano appello, deducendo che la consulenza disposta in primo grado aveva accertato l’impossibilità di ripristino dei luoghi a causa della destinazione assegnata al terreno, con ciò confermando l’irreversibile condizione e la conseguente impossibilità di ripristino della situazione ex quo ante; lamentavano, quindi, il mancato accoglimento della domanda proposta in via subordinata tesa al risarcimento dei danni subiti.

Il Giudice di appello, con ordinanza 30 luglio 2019 n. 5399, rimetteva alla Adunanza Plenaria due specifici quesiti.

Il primo relativo alla capacità della domanda risarcitoria proposta dal ricorrente di assurgere, seppure implicitamente, a rinuncia del diritto di proprietà del fondo occupato e cioè quindi se la domanda di condanna [possa] astrattamente qualificarsi come dichiarazione di rinuncia; il secondo, (in parte dipendente dall’esito del primo) concernente la rilevanza giuridica di siffatta rinuncia nell’ambito delle espropriazioni e la sua idoneità a determinare un effetto traslativo della proprietà in capo alla amministrazione responsabile dell’illecito.

Al fine di rispondere ai quesiti per come avanzati, l’Adunanza Plenaria, preliminarmente, richiama gli orientamenti che, negli anni, hanno teso giustificare l’ammissibilità della rinuncia abdicativa in ambiti differenti dalle espropriazioni. Di poi, si sofferma sulla sua applicabilità nel campo delle espropriazioni, esaminando le ragioni giuridiche poste, da buona parte della giurisprudenza, a motivazione della sua ammissibilità. Conclude, infine, manifestando i motivi per cui detto orientamento, con riferimento al settore delle espropriazioni, non può ritenersi accoglibile.

Inutile evidenziare come le questioni giuridiche siano numerose e complesse, concatenate l’una con l’altra vista l’assenza, nell’ordinamento, di una specifica base e previsione normativa dell’istituto.

 

3. Il superamento del precedente orientamento

La prima questione affrontata dai Giudici attiene alla idoneità della domanda di risarcimento del danno in sede di giudizio amministrativo ad assurgere a manifestazione della volontà di rinuncia alla proprietà del bene occupato.

Sul punto, occorre preliminarmente ribadire che istituto della rinuncia abdicativa, benché mai oggetto di specifico intervento ad opera del legislatore, è ritenuto dalla prevalente dottrina[1] e giurisprudenza[2] pacificamente ammesso nell’ordinamento.  

Trattasi di un negozio[3] giuridico unilaterale, non recettizio con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius, esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti il trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto né automatica estinzione dello stesso[4].

Non altrettanto pacifica può dirsi, piuttosto, la sua configurabilità nell’ambito delle espropriazioni.

È proprio su quest’ultimo aspetto che focalizzeremo l’attenzione.

Merita di essere anzitutto chiarito se la domanda di condanna al risarcimento del danno possa di per sé sola essere qualificata quale implicita manifestazione della volontà di rinuncia alla proprietà di un fondo illegittimamente e irreversibilmente occupato dalla Amministrazione con ciò essendo idonea a determinare anche l’effetto traslativo in capo alla amministrazione responsabile dell’illecito[5]. Solo dopo, occorrerà verificare se detto effetto sia tutt’oggi configurabile nell’ambito delle espropriazioni, in particolar modo alla luce della disciplina prevista dall’articolo 42 bis del D.P.R. 327/2001.

Occorre preliminarmente richiamare il più risalente orientamento in materia di occupazione illegittima di un fondo, per comprendere l’evoluzione che ha condotto dottrina e giurisprudenza a riconoscere, fino ad oggi, l’operatività della rinuncia abdicativa anche all’ambito delle espropriazioni.

Con la pronuncia resa dalle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione, n. 1464 del 16 febbraio 1983[6], gli ermellini – a superamento di pregressi confliggenti posizioni giurisprudenziali – consacrarono nell’ordinamento l’istituto della c.d. accessione invertita sostenendo che l’occupazione di un fondo da parte della P.A. – frutto di originaria illegittimità o del venir meno degli effetti prodotti da un provvedimento previamente adottato – fosse in grado di determinare e produrre l’acquisizione a titolo originario della proprietà in capo alla Amministrazione, residuando al privato la esclusiva facoltà di richiedere il risarcimento nel termine di cinque anni dall’occupazione, qualificando la medesima in termini di illecito istantaneo a effetti permanenti[7].

I Giudici del Supremo Collegio statuirono sulla supremazia dell’interesse pubblico (insito nella occupazione strumentale alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse) sul diritto alla proprietà del fondo, che sarebbe stato acquisito dall’Ente a titolo originario senza la necessità di alcun atto dispositivo di trasferimento[8].

Si affermava, quindi, in giurisprudenza l’istituto della, anche detta, occupazione acquisitiva o appropriativa recepita, nel quinquennio successivo, dal legislatore con L. 27 ottobre 1988 n. 458.   

Alla suesposta elaborazione giurisprudenziale è succeduto un orientamento teso a distinguere gli effetti dell’occupazione in ragione della sua origine.

Invero la S.C.[9] ebbe ad affermare che, per i casi in cui l’occupazione non fosse stata anticipata da un atto autoritativo (anche solo la dichiarazione di pubblica utilità sul bene) o questo fosse stato annullato dal Giudice amministrativo, l’occupazione non poteva che ritenersi inidonea a determinare l’acquisizione a titolo originario della proprietà in capo alla amministrazione e, per l’effetto, questa sarebbe rimasta in capo al privato con la conseguenza che solo la domanda di risarcimento del danno (non accompagnata dalla domanda di ripristino della situazione ex quo ante) sarebbe assurta al ruolo di rinuncia della proprietà. L’assenza, quindi, di qualunque atto o provvedimento da cui desumere il rilievo pubblicistico dell’occupazione non avrebbe generato in capo all’Ente il suo diritto alla acquisizione a titolo originario della proprietà; piuttosto, il suo acquisto sarebbe derivato dalla rinuncia al diritto proprietario (e dall’implicito effetto traslativo) desumibile dalla proposizione della sola domanda di risarcimento dei danni subiti e non anche dalla domanda di restituzione del bene: si afferma, distinguendosi per detta ragione dal precedente, l’istituto dell’occupazione usurpativa[10].

In quest’ultimo caso, quindi, la proprietà si riteneva restasse in capo al privato che avrebbe potuto domandarne la restituzione oppure rinunciarvi implicitamente con la domanda di risarcimento[11].

Per gli altri casi – ovvero quelli in cui l’Amministrazione avesse adottato un provvedimento autoritativo seppure non seguito dal Decreto di espropriazione - il regime applicabile restava quello sancito dalla L. 458/1988[12].

È in ragione dell’affermarsi di questa diversità di trattamento che la domanda di risarcimento in giudizio, per i casi di occupazione usurpativa, acquisisce – con più forza – i connotati della rinuncia implicita al diritto alla proprietà attesa l’assenza di qualsiasi collegamento tra l’occupazione del bene e l’interesse pubblico immanente al vincolo di scopo impresso all’opera della preventiva dichiarazione di pubblica utilità.

Se nell’ambito della occupazione acquisitiva – attesa la irrimediabile trasformazione del fondo – si riteneva che l’amministrazione agente, in forza della destinazione assegnata al bene e della presenza, seppure solo ab origine, di un provvedimento autoritativo ne divenisse proprietaria a titolo originario[13] con ciò residuando, in capo al privato, la sola facoltà di chiedere il risarcimento del danno per equivalente; nel caso, invece, della occupazione usurpativa (mai anticipata da alcun atto autoritativo) si configurava l’ipotesi di rinuncia abdicativa quando il privato, pur potendo domandare la restituzione del bene, si limitava a formulare la domanda di risarcimento per equivalente al valore venale del bene [14].

La tesi in discussione è stata poi ulteriormente e organicamente trattata e ammessa dalla giurisprudenza amministrativa con la sentenza del Consiglio di Giustizia amministrativa 25 maggio 2009 n. 486 e ricostruita negli stessi termini dalla S.C. di Cassazione con la pronuncia a SS.UU. del 19 gennaio 2015 n. 735, per i giudizi instaurati prima della entrata in vigore della norma che ha assegnato al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia espropriativa.

Più di recente, ancora, l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n. 2/2016 ha confermato – seppure incidentalmente in motivazione – l’ammissibilità dell’istituto ed il conseguente effetto traslativo della proprietà del bene connaturandolo alla rinuncia. Dello stesso avviso la Suprema Corte, con la sentenza a SS.UU. n. 3517 del 2019. 

A giustificazione dell’idoneità, quindi, della domanda a produrre effetti rinunciativi, la prevalente giurisprudenza amministrativa ha motivato facendo ricorso al principio di concentrazione della tutela, corollario della ragionevole durata del processo, ritenendo applicabile all’atto di parte la dogmatica degli atti impliciti[15].

I Giudici dell’Adunanza Plenaria evidenziano[16] nella pronuncia in commento i limiti della applicabilità del costrutto giuridico al caso in esame rilevando che detta teoria richiede che debba pregiudizialmente esistere una manifestazione espressa di volontà da cui potersi desumere l’atto implicito: e ciò in quanto la rilevanza relazionale dei comportamenti amministrativi deve essere apprezzata in termini contestualizzati; che debba provenire da un organi amministrativo competente nell’esercizio delle sue attribuzioni e che anche l’atto implicito rientri nella sfera di competenza dell’organo agente; che dal comportamento deve desumersi in modo non equivoco la volontà provvedimentale dovendo sussistere un collegamento esclusivo e bilaterale tra atto implicito e atto presupponente, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile di quello espresso[17].

E proprio su quest’ultimo aspetto che l’Adunanza plenaria, quindi, fonda, passando al setaccio il precedente orientamento, il rifiuto di estenderne l’applicabilità agli atti di diritto privato; oltre che sulla impossibilità di sostenere che la rinuncia alla proprietà sia l’unica conseguenza possibile dell’atto espresso con la domanda di condanna al risarcimento. E, sul punto, si sofferma più approfonditamente la motivazione alla sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 20 gennaio 2020, che ulteriormente chiarisce che la domanda di risarcimento denuncia un illecito di cui la parte richiede la riparazione; ma a fronte della pluralità di strumenti offerti nell’ordinamento nonché in presenza di una disciplina legale del procedimento espropriativo, la domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene.  

L’Adunanza, in entrambe le pronunce rese, circoscrive l’ambito di applicazione della dogmatica degli atti impliciti ai soli atti della pubblica amministrazione non potendosi ritenere estensibile, per carenza degli elementi essenziali, anche a quelli provenienti dai privati; esclude, inoltre, che la domanda di condanna al risarcimento dei danni possa avere come unica implicita conseguenza la rinuncia alla proprietà del bene illegittimamente occupato dalla Amministrazione[18].

Prosegue l’A.P. rilevando un limite aggiuntivo, di carattere formale, alla sua applicazione. Invero, essendo la domanda al risarcimento espressa a mezzo di un atto giudiziario a firma del difensore di parte, questa non può di per sé sola, se non accompagnata da procura speciale, esprimere e disporre, per conto del privato, la rinuncia del diritto alla sua proprietà.

Né può ritenersi tecnicamente possibile giacché una tale rinuncia implica senz’altro la perdita della proprietà, mentre invece una domanda giudiziale volta al risarcimento del danno – pari al controvalore della res – in realtà comporterebbe una rinuncia condizionata alla pronuncia del giudice che liquidi il risarcimento del danno, ed il cui evento è tecnicamente precluso poiché solo l’amministrazione e non il giudice può valutare “gli interessi in conflitto e decedere se restituire il terreno ovvero acquisirlo[19].

Aggiunge, sul punto, la pronuncia resa dal Collegio n. 4 del 20 gennaio 2020, che la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico al settore dell’espropriazione per pubblica utilità, genera una irrazionalità amministrativa di tipo funzionale, in quanto lascia aperta e irrisolta la questione dell’effetto acquisitivo in favore della P.A.

Chiarita, quindi, la inconciliabile attitudine della domanda di risarcimento di produrre l’effetto rinunciatario alla proprietà, i Giudici amministrativi proseguono mettendo in evidenza un’altra criticità posta, fino ad oggi, a supporto del precedente orientamento.  

Invero, quand’anche si ritenesse astrattamente ammissibile assegnare alla domanda giudiziaria capacità rinunciativa, la rinuncia non sarebbe comunque di per sé sola sufficiente a produrre l’effetto traslativo in capo all’Ente responsabile dell’illecito[20].

A questo ultimo proposito, tuttavia, la citata pronuncia a SS.UU. (735/2015), confermando l’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia di espropriazioni[21] ne aveva affermato la contestuale idoneità a trasferirne il diritto in capo alla Amministrazione responsabile dell’illecito, ricorrendo, a tale fine, all’articolo 827[22] c.c.  e, in alcuni casi, all’applicazione per analogia degli articoli 923, 940, 942[23] c.c.,

Dello stesso tenore la pronuncia resa dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana con la quale aveva confermato che il proprietario dell’area su cui è stata realizzata l’opera utilizzata per finalità di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace titolo può proporre, autonomamente, e di propria iniziativa, la domanda risarcitoria per equivalente, diretta ad ottenere il ristoro patrimoniale del pregiudizio derivante dalla perdita del diritto di proprietà, rinunciando, contestualmente, al proprio diritto di proprietà[24].

E, seppure incidentalmente, anche la stessa A.P. n. 2 del 2016, aveva ritenuto pacifico l’effetto traslativo prodotto in capo alla Amministrazione responsabile dell’illecita occupazione[25].   

Agli orientamenti anzidetti, si contrappone la sentenza in commento[26] manifestando contrarietà all’assunto interpretativo che pone a base legale di detto effetto la disciplina sancita in materia di beni immobili vacanti.

L’articolo 827 c.c., infatti, assegna allo Stato (o, nelle Regioni a Statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al patrimonio delle rispettive regioni in forza degli artt. 14, 34 e 67 dei rispettivi Statuti speciali) le res nullius[27]. Ma – evidenzia la Corte – il patrimonio disponibile dello Stato non equivale al patrimonio dell’Ente che abbia illegittimamente occupato il bene[28].

Né può condividersi l’orientamento che, a legittimare il trasferimento, ha fatto ricorso all’istituto della trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno. Posizione avversata dalla Adunanza Plenaria atteso che le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano della opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi[29]  

Concludono i Giudici sostenendo che ammettere nell’ordinamento un sistema siffatto, assegnando alla azione in giudizio l’implicita idoneità a produrre la rinuncia ed il trasferimento del bene immobile in capo all’Ente, è scelta che si pone in aperto contrasto col principio di legalità in ragione di quanto disposto dall’articolo 42 bis del D.P.R. 327/2001 e, per suo tramite, dell’articolo 42 della Costituzione.  

Infatti, la disposizione costituzionale tutela la proprietà privata e ne legittima l’espropriazione ai soli casi espressamente previsti dalla legge. L’istituto della rinuncia abdicativa non è tra questi annoverabile. Ammetterla significherebbe riproporre i profili di criticità, già affrontati in tema di occupazione acquisitiva, dichiarati contrastanti con le disposizioni della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.  

Per contro l’articolo 42 bis del T.U. assegna solo alla Autorità che utilizzi sine titulo un bene immobile la valutazione in ordine alla scelta se acquisire il bene o restituirlo: rimedio, questo, applicabile anche al caso in cui l’occupazione sia derivata da un atto avente natura privatistica (contratto di compravendita dichiarato nullo dal Giudice civile) e non già dall’esercizio di un potere autoritativo[30].  

Assegnare al privato – proseguono i Giudici – un diritto potestativo di tal guisa, significherebbe mortificare il ruolo della P.A. e consegnare alla volontà del privato le sorti del bene oramai asservito al pubblico interesse[31]. Significherebbe, altresì, affidare alla condotta del privato il cagionamento del danno posto che sarebbe proprio la rinuncia a provocare l’evento dannoso (perdita della proprietà) con ciò provocando una condotta in contrasto con i principi che presiedono l’illecito aquiliano e che esigono un rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento responsabile[32].

Né il privato, né l’Autorità Giudiziaria può sostituirsi alla scelta discrezionale della Amministrazione potendo, in limine, il secondo nominare – per i casi di inerzia della P.A. – un commissario ad acta, chiamato a compire, nell’esercizio dell’attività amministrativa, le valutazioni prodromiche alla scelta.

Questo è l’unico modo – conclude risolutamente la Corte – attraverso cui può riconoscersi, nel rispetto del principio di legalità, tutela al privato titolare del bene occupato.

4. Conclusioni

La sentenza in commento si posiziona nel solco tracciato da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa[33] (prevalentemente di primo grado) che, già in passato, aveva manifestato il proprio dissenso al diffuso orientamento giurisprudenziale con ciò consacrando l’espunzione dall’ordinamento giuridico italiano dell’istituto della rinuncia abdicativa e di qualunque altro strumento similare, quale metodo extra legem di acquisizione di un bene immobile illecitamente occupato da un Ente pubblico in danno del privato.


Note e riferimenti bibliografici

[1]La dottrina è solita distinguere la rinuncia adbicativa, ovvero la volontà del proprietario di provocare la fuoriuscita del bene dal proprio patrimonio senza voler produrre effetti ulteriori, dalla rinuncia liberatoria che, per contro, trarrebbe origine e base legale dalle disposizioni codicistiche contenute agli artt. 882, 888, 1070 e 1104 c.c. Il fondamento della rinuncia abdicativa è desunto dagli articoli 1350 e 2643 c.c. che regolano gli atti da farsi per iscritto e soggetti a trascrizione. Al punto n. 5 di entrambe le disposizioni sono nominati gli atti tra vivi di rinuncia ai diritti indicati nei numeri precedenti. Seppure, quindi, il codice non dispone direttamente sulla rinunciabilità dei diritti reali, l’interpretazione sistematica delle predette disposizioni consente di desumerla a contrario. Sul punto si veda, M.E.LA TORRE, Abbandono e rinunzia liberatoria, Milano, 1993. Ad ulteriore conferma si richiamano gli artt. 827 e 1118 co. 2 c.c. Sul punto si veda M. BELLINVIA, La rinunzia alla proprietà, in Notariato, 2016, 1, p. 8 ss., ID., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Studio n. 216-2014/C del Consiglio Nazionale del Notariato; E. MANCINI, Note in tema di rinuncia alla proprietà, in Vita not., 2013, 2, p. 943 ss. Si richiama, altresì, un recente parere della Avvocatura Generale dello Stato secondo cui tra le facoltà del proprietario, vi è anche quella di rinunciare al diritto dominicale, con l’effetto di rendere proprietario del bene rinunciato lo Stato ai sensi dell’articolo 827 c.c., parere n. 37243/2017. Il parere riveste particolare interesse poiché in esso non si riconosce validità assoluta alla rinuncia abdicativa dovendosi, per contro, valutare, caso per caso, la causa concreta del negozio. La rinuncia – sostiene l’A.G. – non deve essere strumento per conseguire un illecito vantaggio ai danni dello Stato e, conseguentemente, della collettività poiché ciò renderebbe illecita, ex articolo 1343 c.c., la causa del negozio provocandone la sua nullità.

[2] Con la pronuncia n. 2 del 20.01.2020 la stessa Adunanza Plenaria conferma di non volersi soffermare sull’ammissibilità in generale dell’istituto poiché benché il legislatore non l’abbia espressamente disciplinata in una norma ad hoc la prevalente dottrina e giurisprudenza ne afferma la sua ammissibilità. Si segnala, in senso contrario, un precedente rimasto isolato che ha escluso la possibilità di rinunciare alla proprietà, Tribunale di Genova 23 marzo 1991. 

[3] Sulla natura negoziale dell’istituto - in quanto con esso si esercita un potere dispositivo che appartiene a chi lo pone in essere – si richiama L. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli 1966, p. 124 e ss., M.E. LA TORRE, op.cit. Altra dottrina, invece, nega la negoziabilità della rinuncia, v. S. PIRAS, La rinuncia nel diritto privato, Napoli 1940, p. 15 ss. Per una panoramica sulle ipotesi di rinuncia conosciute dal nostro ordinamento e il conseguente loro inquadramento nella categoria dell’atto oppure del negozio, v. L BOZZI, La negoziabilità degli atti di rinunzia, Milano, 2008, p. 29. La giurisprudenza ha confermato la riconducibilità dell’atto di rinuncia tra gli atti negoziali, Cass. Civ., 23 luglio 1997 n. 6872, in Foro It. Rep. 1997.

[4] Sentenza Adunanza Plenaria n. 2 cit.

[5]A questo proposito il Giudice Amministrativo, con la sentenza n. 2 del 20.01.2020 espressamente esclude che la rinuncia possa produrre un diretto effetto traslativo. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto – che possono anche incidere sui terzi – sono infatti solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento del negozio e non collegate al contenuto causale dell’atto, tant’è che la rinuncia abdicativa si differenza dalla rinuncia traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo – derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge.  

[6] In Foto Italico 1983, I, c.626, con nota di ORIANI.

[7] Già la giurisprudenza del Consiglio di Stato, con le pronunce 17 gennaio 1978 n. 14 e 19 dicembre 1978 n. 1327, avevano consacrato, per via pretoria, l’istituto dell’espropriazione in sanatoria rivolto ad assicurare ad opere pubbliche realizzate in virtù di una occupazione di urgenza scaduta o di occupazione abusiva, la possibilità di sanatoria in forza di un decreto di espropriazione emesso ex post e dotato di efficacia retroattiva.

[8] La sentenza resa dalle SS.UU. 16 febbraio 1983, n. 1464 rappresenta il superamento di contrastanti orientamenti della giurisprudenza di Cassazione e, in particolar modo, il superamento della tesi secondo cui nel caso di occupazione illegittima della P.A. il proprietario sarebbe rimasto titolare del bene, pur potendo domandare esclusivamente il risarcimento del danno nel termine quinquennale a decorrere dall’occupazione, e non anche la restituzione. A sostegno della statuizione si assumeva l’articolo 42 co.3 della Costituzione, nonché le norme che legittimano la temporanea compressione della facoltà di godimento dei beni privati

[9Corte di Cassazione, II, 4 aprile 1987 n. 3872.

[10]Corte di Cassazione, I, 15 dicembre 1995, 12841; SS.UU. 4 marzo 1997 n. 1997. Tesi confermata dalla Corte Costituzionale 11 maggio 2006 n. 191.  

[11] L’occupazione usurpativa, configurata come una mera occupazione illegittima dell’immobile privato, veniva ricondotta nell’alveo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. con le necessarie implicazioni sul punto della prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante dalla permanenza dell’illecita occupazione, sia in punto di esperibilità delle azioni reipersecutorie a tutela della non perduta proprietà del bene. 

[12] Con più sentenze la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è tuttavia intervenuta a censurare l’istituto rilevando la violazione delle garanze poste a presidio del diritto di proprietà, per come sancite all’articolo 1 del Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenze 30 maggio 2000 C.V. c/Italia e B.A. c/Italia; CEDU, III, 6 marzo 2007, sez. II, 30 ottobre 2000. Proprio al fine di risolvere il contrasto con i principi comunitari il legislatore ha introdotto, nell’ordinamento, la c.d. acquisizione sanante (o occupazione provvedimentale) dapprima disciplinata dall’articolo 43 del T.U. sull’espropriazioni e, successivamente alla dichiarazione di incostituzionalità (sentenza Corte Costituzionale 8 ottobre 2010 n. 293), dall’articolo 42 bis per come introdotto dall’art. 34 comma 1 del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 e convertito dalla L. 15 luglio 2011 n. 111. Con la successione delle due disposizioni in esame è stato espunto dall’ordinamento l’istituto dell’occupazione acquisitiva originariamente introdotto quale legale via d’uscita per l’amministrazione nei casi in cui fosse riscontrabile la realizzazione di una opera pubblica su terreno di proprietà privata in assenza di valido ed efficace decreto di esproprio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentt. n. 5830 del 2007 e 1552 del 2008). Anche con riferimento all’articolo 42 bis sono stati sostenuti numerosi profili di incostituzionalità tuttavia la Corte Costituzionale con la sentenza n. 71 del 30 aprile 2015 ha respinto ogni censura sostenendone la sostanziale differenza rispetto al precedente articolo 43. Da ultimo l’Adunanza Plenaria con la pronuncia n. 2 del 2016 ha ulteriormente affermato quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c.

[13] Orientamento reso dalla pronuncia già citata, SS.UU. 26 febbraio 1983 n. 1463.

[14] Corte di Cassazione, 31 maggio 2007 n. 12776. I giudici di legittimità distinguono la domanda di risarcimento per occupazione usurpativa e quella per occupazione appropriativa ammettendo solo per il caso in cui l’illecito sia fondato su atti non autoritativi (occupazione usurpativa) è possibile ottenere la restituzione del bene; nel caso in cui, invece, l’occupazione sia fondata su un atto autoritativo, seppure illegittimo, è possibile chiedere solo la reintegrazione per equivalente. La giurisprudenza, quindi, ammette che la domanda di risarcimento sia idonea a rappresentare un atto di rinuncia della domanda di restituzione e, quindi, della proprietà. Dello stesso avviso, nello specifico caso della occupazione usurpativa, la pronuncia Cass. Civ. 5 aprile 2017, n. 8810 con la quale la Corte afferma che in caso di occupazione usurpativa, la natura permanente dell’illecito perdura fino al momento dell’atto abdicativo della proprietà da parte del privato ovvero all’azione restitutoria da esso intrapresa, non essendo in sé l’occupazione suscettibile di determinare l’effetto acquisitivo in favore della P.A. Invero, la perdita della proprietà da parte del privato, in questi casi, non è conseguenza dell’accessione invertita, essendo l’opzione del proprietario per una tutela risarcitoria, in luogo della pur possibile tutela restitutoria, a comportare una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato […]. L’atto abdicativo, come questa Corte ha più volte precisato, è giustappunto implicito nella proposizione dell’azione di risarcimento del danno parametrato all’areai illecitamente occupata. Da ultimo, occorre segnalare la pronuncia resa dalla Suprema Corte di Cassazione, ordinanza del 10 febbraio 2020 n. 3035 con la quale gli ermellini, chiamati a pronunciarsi per fatti antecedenti la devoluzione della materia al Giudice amministrativo, hanno confermato l’idoneità della domanda di risarcimento ad essere qualificata come strumento abdicativo della proprietà sul bene.

[15] Detta teoria, infatti, sancisce l’astratta ammissibilità del provvedimento implicito qualora l’amministrazione – pur non adottando formalmente la propria determinazione - ne determini univocamente i contenuti sostanziali o attraverso un contegno conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto corrispondente al provvedimento formale non adottato, in questi termini, Consiglio di Stato, V, 19 febbraio 2018 n. 1034; 24 aprile 018 n. 245; 31 marzo 2017 n. 1499.

[16] Motivazioni pienamente sovrapponibili a quelle espresse nella pronuncia n. 2 del 20 gennaio 2020.

[17] Dello stesso tenore, ex multis, Consiglio di Stato, 24 gennaio 2019 n. 589, Consiglio di Stato sez.VI, 27 novembre 2014, 5887 secondo cui ciò che emerge dalla dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo è inequivocabilmente la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato il quale contiene “per implicito” un ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa claris verbis nel testo del provvedimento medesimo.

[18]La dogmatica degli atti impliciti è ammessa nell’ordinamento in conformità ad un orientamento consolidato in giurisprudenza. Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 2018 n. 1034; IV, 24 aprile 2018 n. 2456; sez. V, 21 marzo 2017 n. 1499. Secondo una parte minoritaria, tuttavia, i principi generali (e – segnatamente – l’obbligo di definizione di ogni procedimento con provvedimento espresso ex art. 2 della L. 7 agosto 1990 n. 142 e quello di accompagnare ogni determinazione amministrativa da articolato supporto giustificativo ex art. 3) testimonierebbero, quanto meno della necessità di superare il tradizionale orientamento che ammette manifestazioni di volontà tacite o per comportamento concludente: ciò che, sotto concorrente profilo, troverebbe conferma, per un verso, nella previsione generale di nullità dell’atto amministrativo per difetto di elementi essenziali, tra i quali non potrebbe annoverarsi la forma dichiarativa esplicita (cfr. art. 21 septies l. cit.) e, per altro verso, nella regola che impone, ai fini dell’adozione di misure a contenuto reiettiva, la formalizzazione di apposito e strumentale preavviso, preordinato alla attivazione del contraddittori, che la decisione è vincolata a prendere in motivata considerazione (art. 10 bis)[19]A.DI CAGNO, La rinuncia abdicativa in favore dell’amministrazione nell’ambito delle occupazioni illegittime, commento alla sentenza T.A.R. Campania, Napoli, V, 5 settembre 2018 n. 4458, in Riv. Urbanistica e appalti n. 1/2010, pag. 108.

[20] Tesi fino a questo momento minoritaria ma già sostenuta da una parte della giurisprudenza di legittimità, v. Cass. Civ., I, 16 luglio 1997 n. 6515; Cass. Civ., I, 3 maggio 2005 n. 9173.

[21] Con la pronuncia SS.UU. 19 gennaio 2015, 735 la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio di diritto, ammettendo, implicitamente in un obiter dictum, l’istituto della rinuncia abdicativa: l’illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decide di abdicare al suo diritto e chiederne il risarcimento del danno. Questo orientamento è stato confermato dalla sentenza. Dello stesso tenore Cass. Civ., 24 maggio 2018 n. 12961; Cass. Civ. I, 7 marzo 2017, n. 5686. Anche la giurisprudenza amministrativa ha confermato l’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia espropriativa e la contestuale idoneità traslativa, ex multis Consiglio di Stato IV, 24 maggio 2018 n. 3105; Consiglio di Stato, IV, 20 aprile 2018.  

[22] L’articolo recante beni immobili vacanti dispone che I beni che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato.

[23] In questo senso le pronunce Cass. Civ., I, 18 febbraio 2000 n. 1814. 

[24] Pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa 25 maggio 2009 n. 486.

[25] Invero con la pronuncia n. 4 del 20 gennaio 2020 la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato rigetta la tesi secondo cui lo stesso collegio nella sentenza n. 2/2016 si fosse espresso sugli effetti traslativi derivanti dalla rinuncia alla proprietà.

[26]Anticipata da numerose altre pronunce del Giudice amministrativo di primo grado che aveva escluso l’ammissibilità dell’istituto, T.A.R. Calabria 17 giugno 2014, 265; T.A.R. Puglia sez. II, 16 settembre 2014.

[27]La dismissione dell’unico proprietario non potrà che giovare allo Stato non potendosi immaginare né la vacanza dell’immobile né un effetto traslativo in capo a soggetto diverso. La rinuncia abdicativa, infatti, è una rinuncia senza destinatario e, non potendosi verificare la vacantia dell’immobile questo diverrà necessariamente pubblico. Trattandosi, poi, di un acquisto imposto dalla legge non si configura una vicenda circolatoria in senso stretto poiché il titolo in forza del quale la proprietà passa non è la rinuncia, bensì la vacanza dell’immobile. In questo senso, F. GAZZONI, La trascrizione degli atti e delle sentenze, in Trattato della trascrizione, diretto da E. GABRIELLI – F., GAZZONI, I, Torino 2012; C.M. BIANCA, Diritto Civile, La proprietà, 2° ed., VI Milano, 2017, p. 285; R. TRIOLA, Della tutela dei diritti. La trascrizione, in Tratt. di dir. priv., dir. da BESSONE, IX, Torino, 2012.  

28] A questo proposito la cit. pron. n. 2/2020 ulteriormente ribadisce che detta spiegazione sarebbe del tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della soluzione teorica proposta. E, altresì, la pronuncia n. 4/2020 cit. avvallando il medesimo ragionamento sostiene che non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo alla Amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.

29] Nella sentenza n. 4 cit. i Giudici ulteriormente escludono la ricostruzione, in via pretoria, di fattispecie traslative mediate dalla trascrizione della sentenza di condanna ricorrendo al principio di legalità delle sentenze costitutive ad effetti traslativi o acquisitivi di diritti reali. Escludono, infine, la configurabilità di un’ipotesi di formazione tacita di un accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione – ad esempio ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte dell’amministrazione – attesa la necessità della forma scritta ad substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare, tanto più se parte contrattuale è una P.A. 

[30]Con la sentenza n. 5 della Adunanza Plenaria del 18 febbraio 2020 il Collegio chiarisce che l’ambito di applicazione dell’articolo 42 bis del T.U. in materia di espropriazione è applicabile a tutti i casi in cui per qualsiasi ragione un immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico. […] La disposizione lungi dal poter trovare applicazione solo nei casi in cui la P.A. agisce nella sua veste di Autorità, sia pure senza un valido titolo; deve essere invece intesa come una disposizione di chiusura del sistema. È il pubblico interesse, quindi, ad essere funzionale all’applicabilità dell’articolo 42 bis del T.U. 327/2001.

[31] T.A.R. Campania, Napoli, V, 5 settembre 2019 n. 4458.  

[32] Adunanza Plenaria n. 4 cit..

[33] Da ultimo, T.A.R. Torino, I, 28 marzo 2018 n. 368 il quale, richiamando la giurisprudenza di Strasburgo (Ucci, 22 giugno 2006, Cerro sas, 23 maggio 2006, Scordino, 17 maggio 2005 il rifiuto di qualunque forma di legalizzazione dell’illegale. Ciò in quanto il principio di legalità non potrebbe ritenersi recuperato in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all’Autorità Amministrativa che dispone l’acquisizione, perché un tale bilanciamento di opposti interessi deve ritenersi ammissibile, alla luce della giurisprudenza CEDU, solo allorché effettuati nel contesto di una procedura legittima e non arbitraria […].