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Pubbl. Mar, 12 Mag 2020

Insider trading: alla Corte di Giustizia la decisione sul diritto al silenzio

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autori Ivan Mundo ,



Premessa un´analisi sulla punibilità dell´insider trading, alla luce del rapporto tra sanzione penale e amministrativa, si propone un commento della sentenza della Corte costituzionale n. 112/2019 che ha dichiarato incostituzionale la confisca ex art. 187-sexies TUF e dell´ordinanza n. 119/2019 che ha rinviato alla Corte di Giustizia la questione concernente l´operatività del diritto al silenzio anche nei procedimenti amministrativi diretti all´irrogazione di sanzioni sostanzialmente penali.


ENG After an introductory discussion on the punishable nature of insider trading, in light of the relationship between criminal and administrative sanctions, a comment is proposed on the judgment of the Constitutional Court n. 112/2019 which declared the confiscation uncostitutional pursuant to art. 187-sexies TUF and ordinance n. 119/2019 which referred to the Court of Justice the question concerning the right to silence in administrative proceedings imposing substantially criminal sanctions.

Sommario: 1. La disciplina del reato di insider trading nel TUF; 2. Il regime del doppio binario sanzionatorio alla luce della giurisprudenza convenzionale ed europea; 3. La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies TUF; 4. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies TUF e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

1. La disciplina del reato di insider trading nel TUF

Il reato di abuso di informazioni privilegiate, c.d. insider trading, di cui all’art. 184 D.lgs. n. 58/1998 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria-TUF), incrimina i soggetti che, entrati in possesso di informazioni riservate riguardanti emittenti strumenti finanziari, in ragione della loro attività professionale, ne facciano uso per il compimento di operazioni di negoziazione di strumenti finanziari (c.d. trading); o le comunichino ad altri al di fuori del normale esercizio della loro professione (c.d. tipping); oppure le utilizzino per raccomandare o indurre altri al compimento di operazioni di negoziazione di strumenti finanziari (c.d. tayatauge)[1].

La norma incriminatrice intende salvaguardare l’integrità dei mercati finanziari e ad accrescere la fiducia degli operatori nei mercati stessi, in modo tale da poter orientare le proprie opzioni di investimento sulla base di un patrimonio informativo accessibile e trasparente. La tutela dell’informazione rappresenta un’esigenza particolarmente pregnante nell’ambito dei mercati finanziari nei quali si negoziano beni privi di utilità finale e valutabili non per le loro caratteristiche intrinseche, ma solo sulla base di informazioni di carattere determinato. Per tale ragione, la preventiva acquisizione di un’informazione specifica e rilevante, cioè in grado di influenzare le scelte di investimento, pone l’operatore che la possiede nella condizione di anticipare i movimenti futuri dello strumento finanziario, potendone trarre un vantaggio illecito. La ratio dell’incriminazione, dunque, si rinviene nella volontà di evitare che la fiducia che i risparmiatori ripongono nel mercato venga inficiata da comportamenti di approfittamento ingiustificato della posizione di privilegio informativo che si ricopre[2].

Il legislatore, al fine di proteggere più efficacemente l’integrità dei mercati finanziari e reprimere con maggiore severità l’abuso di informazioni privilegiate, ha predisposto un regime di doppio binario sanzionatorio, punendo i fatti integranti insider trading non solo mediante l’irrogazione della pena di cui all’art. 184 TUF, ma anche comminando la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 187-bis TUF[3].

Le norme richiamate contemplano condotte perfettamente sovrapponibili, con la conseguenza che l’insider sarà assoggettato non solo alla pena prevista dall’art. 184 TUF, ma anche alla sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 187-bis TUF[4]. Siffatto cumulo tra pena e sanzione amministrativa si rinviene dal tenore letterale dell’art. 187-bis c.p., il cui incipit “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato…” configura un concorso materiale di norme e, dunque, di illeciti. La norma in commento, inoltre, nel rinviare all’art. 14 del Regolamento UE n. 596/2014, fa sostanzialmente riferimento alle medesime condotte perseguite penalmente dall’art. 184 TUF[5].

La risposta repressiva in sede amministrativa prevede l’applicazione, non solo della sanzione pecuniaria di cui all’art. 187-bis TUF, ma anche delle sanzioni accessorie interdittive di cui all’art. 187-quater TUF[6] e della confisca diretta del prodotto o del profitto dell’illecito oppure, laddove ciò non sia possibile, del loro equivalente in denaro, ai sensi dell’art. 187-sexies TUF[7].

La cognizione e la repressione dei fatti integranti il reato insider trading è demandata al giudice ordinario penale, mentre l’autorità amministrativa competente all’irrogazione delle summenzionate sanzioni amministrative è la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob).

Il legislatore ha optato per lo svolgimento in parallelo del procedimento penale e di quello sanzionatorio amministrativo, sicché la pendenza del primo non solo non preclude l’avvio e la prosecuzione del secondo, ma non ne impone nemmeno la sospensione, come dispone l’art. 187-duodecies TUF. Il carattere autonomo di tali procedure sanzionatorie non implica una prosecuzione atomistica delle stesse, attesa la stretta collaborazione che si instaura tra il pubblico ministero procedente e il Presidente della Consob, i quali, ai sensi dell’art. 187-decies TUF, sono tenuti ad osservare obblighi di informazione reciproci.    

Per quanto concerne il procedimento sanzionatorio amministrativo, la Consob esercita rilevanti poteri di detection e di indagine, dal momento che l’art. 187-octies, co. 2, TUF, conferisce all’authority specifici poteri per condurre gli accertamenti necessari. La Consob, in particolare, nei confronti di chiunque possa essere informato sui fatti, può richiedere informazioni, dati, documenti; può procedere ad audizione personale; può richiedere le registrazioni telefoniche riguardanti gli ordini relativi a specifiche transazioni finanziarie; può procedere ad ispezioni e perquisizioni; può accedere al sistema informativo dell’anagrafe tributaria con le procedure previste per le Pubbliche Amministrazioni. L’attività di vigilanza e di indagine della Consob è tutelata da uno specifico sistema sanzionatorio, posto che la mancata ottemperanza alle richieste della Consob costituisce, ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies TUF, un illecito amministrativo punito con l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria[8].   

2. Il regime di doppio sanzionatorio alla luce della giurisprudenza convenzionale ed europea                     

Occorre soffermarsi sulle perplessità che l’instaurazione di un duplice procedimento sanzionatorio ha suscitato in relazione al principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU, che vieta che un soggetto possa essere giudicato e punito due volte per il medesimo fatto[9].

La Corte EDU, in particolare, è stata chiamata a valutare la compatibilità della normativa italiana in materia di abusi di mercato con il richiamato principio convenzionale. I giudici di Strasburgo, nel noto caso Grande Stevens e altri c. Italia[10], in applicazione dei c.d. criteri Engel[11], hanno riconosciuto la natura intrinsecamente penale delle sanzioni comminate dalla Consob, sostenendo l’esigenza che il procedimento diretto alla loro inflizione rispetti le garanzie previste dall’art. 6 CEDU per i processi penali, e ha ritenuto incompatibile con il divieto di ne bis in idem il sistema italiano di doppio binario sanzionatorio[12].

La rigorosa posizione assunta dalla giurisprudenza convenzionale, tuttavia, è stata successivamente superata nel caso A e B c. Norvegia[13], nel quale la Corte EDU ha ritenuto conforme al principio di ne bis in idem l’irrogazione di una sanzione penale all’esito di un processo penale nei confronti di un soggetto già sanzionato in via definitiva dall’amministrazione, purché tra i due procedimenti sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta (“sufficiently close connection in substance and time”) e le risposte sanzionatorie risultino proporzionate e prevedibili nel loro complesso. In tal modo, la Corte di Strasburgo ha ritenuto i regimi di doppio binario sanzionatorio compatibili con il divieto di ne bis in idem, atteso che tale principio, sebbene diretto a prevenire l’ingiustizia sottesa a una duplicità di persecuzioni e di pene a carico dello stesso soggetto per il medesimo fatto, non impedisce agli ordinamenti nazionali di delineare un sistema sanzionatorio articolato in procedimenti distinti, purché non comportino un sacrificio eccessivo dell’interessato[14].

Il dibattito concernente la compatibilità del sistema di doppio binario sanzionatorio con il divieto di ne bis in idem ha coinvolto anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, posto che l’art. 50 CDFUE (c.d. Carta di Nizza) sancisce siffatto principio[15]. Occorre premettere che le disposizioni della Carta di Nizza producono effetti diretti negli ordinamenti degli Stati membri, in quanto ad esse è attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati, ai sensi dell’art. 51 CDFUE. Inoltre, l’art. 52 CDFUE stabilisce che ai diritti garantiti dalla CDFUE è riconosciuto lo stesso significato e la stessa portata dei diritti tutelati dalla CEDU nell’interpretazione risultante dalla Corte di Strasburgo. Alla luce di tale quadro normativo, la Corte di Giustizia è stata investita della questione pregiudiziale relativa alla compatibilità del regime del doppio sanzionatorio con la previsione dell’art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell’art. 4, Protocollo 7, CEDU. Con le sentenze del 20 marzo 2018[16], i giudici di Lussemburgo hanno precisato che il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali relative allo stesso fatto storico non costituisce di per sé violazione del divieto di ne bis in idem europeo, purché siano rispettati: il principio di proporzionalità; il principio di prevedibilità; il coordinamento tra i procedimenti relativi all’idem factum, al fine di ridurre a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che il cumulo dei procedimenti comporta per gli interessati; il principio di proporzione della pena[17].

La breve analisi della giurisprudenza convenzionale ed europea finora illustrata consente di individuare i seguenti approdi: innanzitutto, va riconosciuta natura sostanzialmente penale alle sanzioni formalmente amministrative previste dal TUF in materia di market abuse, con la conseguente estensione ad esse delle garanzie sancite dagli artt. 6 e 7 CEDU in materia penale; in secondo luogo, il regime di doppio binario sanzionatorio predisposto dal legislatore italiano non  viola il principio di ne bis in idem di cui agli artt. 4, Protocollo n. 7, CEDU e 50 CDFUE, purché tra il processo penale e il procedimento sanzionatorio amministrativo sussista una “sufficiently close connection in substance and time” e la risposta sanzionatoria complessiva risulti proporzionata. Siffatti approdi giurisprudenziali si pongono a fondamento delle due questioni di legittimità costituzionali, attinenti al reato di insider trading, sollevate dinanzi alla Corte costituzionale da parte della Corte di cassazione nel 2018[18] e di seguito commentate.

3. La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies TUF                    

La prima censura di legittimità costituzionale ha riguardato l’art. 187-sexies TUF e su di essa la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 112/2019.                                                           

La norma censurata, nel testo originario[19], imponeva di disporre, congiuntamente all’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria previste dall’art. 187-bis TUF, la confisca obbligatoria del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo oppure, qualora ciò non fosse possibile, di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente.

La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Suprema Corte, in particolare, ha avuto ad oggetto l’art. 187-sexies TUF, nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente non solo il profitto dell’illecito, ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito.                                                      

Secondo il giudice a quo, la confisca in parola conduce a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto alla gravità dell’illecito. L’oggetto della misura ablativa, infatti, risulta notevolmente ampio, comprendendo, nell’ipotesi di insider trading, l’intero valore dei titoli negoziati (c.d. prodotto dell’illecito) e non solo il maggior ricavo, in caso di acquisto, o la mancata perdita, in caso di vendita, realizzati grazie all’abuso dell’informazione privilegiata (c.d. profitto dell’illecito).                                                                                   

Siffatta sproporzione sanzionatoria si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., con le norme costituzionali, convenzionali ed eurounitarie poste a tutela della proprietà privata (artt. 42; 117, co. 1, Cost. in relazione agli artt. 1, Protocollo addizionale CEDU e 11 Cost. in relazione all’art. 17 CDFUE) e con il principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3, CDFUE e, dunque, con l’art. 11 Cost.                                      

Il riferimento al principio di proporzionalità delle pene in relazione ad una sanzione formalmente amministrativa, quale è la confisca per equivalente di cui all’art. 187-sexies TUF, si spiega alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità che riconosce alla misura ablativa de qua natura “eminentemente sanzionatoria”, in ragione della sua connotazione “prevalentemente afflittiva”. Ciò in quanto essa ha ad oggetto beni privi di rapporto di pertinenzialità con l’illecito, differenziandosi così rispetto alla confisca diretta. In tale ottica, dunque, viene attribuita alla sanzione in questione natura sostanzialmente penale alla luce dei c.d. criteri Engel, con la conseguente estensione ad essa delle garanzie previste dall'art. 7 CEDU in materia penale.                          

Giova precisare che la norma in questione è stata successivamente modificata dal D.lgs. n. 107/2018 (Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento UE n. 596/2014) che ha espunto il riferimento ai “beni utilizzati per commettere l’illecito”. Ciononostante, la Corte costituzionale ha ritenuto che lo ius superveniens non sia tale da inficiare la rilevanza della questione rimessa al suo vaglio, dovendosi escludere che la disposizione novellata possa produrre effetti in mitius rispetto alla disciplina previgente censurata. In particolare, la Consulta ha reputato che persiste tuttora l’obbligo di confiscare l’intero prodotto, o il suo valore equivalente, di una condotta di insider trading, sicché continua ad essere oggetto di confisca obbligatoria l’intero ammontare degli strumenti finanziari acquistati da chi disponga di un’informazione privilegiata, ovvero, nel caso in cui essi siano stati nel frattempo rivenduti, l’intero loro valore, e non semplicemente il vantaggio economico realizzato mediante l’operazione finanziaria.                           

Per quanto concerne l’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale, la Corte costituzionale ha seguito il seguente impianto motivazionale.                                  

Innanzitutto, viene sancita la generale applicabilità alle sanzioni amministrative del principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito.                                                 

In secondo luogo, Il Giudice delle leggi, al fine di rinvenire la natura giuridica della confisca prevista dall’art. 187-sexies TUF, procede all’esatta individuazione del suo oggetto, fornendo la corretta definizione dei termini “prodotto dell’illecito”, “profitto dell’illecito” e “beni utilizzati per commettere l’illecito” con specifico riferimento alla fattispecie di insider trading. In particolare, il “prodotto” del reato de quo è costituito dall’insieme degli strumenti finanziari acquisiti, ovvero dall’intera somma ricavata dalla loro vendita, mentre il “profitto” di esso consiste nel risultato economico dell’operazione, sub specie di plusvalenza o di risparmio di spesa, ovvero nella perdita evitata in rapporto al successivo deprezzamento degli strumenti finanziari. I “beni utilizzati per commettere l’illecito”, invece, sono le somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore.

In seguito, sulla scorta di tale sforzo definitorio, la Corte costituzionale perviene alla conclusione che l’ablazione del profitto svolge una funzione meramente ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo al soggetto agente, risolvendosi così in una sanzione amministrativa sia sotto il profilo formale sia sotto quello sostanziale. Al contrario, la confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, eccedendo di regola il valore del vantaggio economico che l’autore ha tratto dalla transazione, produce un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore, assumendo così una connotazione eminentemente punitiva.                     

La combinazione di una confisca, quale quella del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, dalla predominante componente punitiva con la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 187-bis TUF, caratterizzata da una cornice edittale di eccezionale gravità, conduce a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati rispetto agli scopi di prevenzione generale e speciale perseguiti dalla norma che incrimina l’insider trading.                                                    

Per tale ragione, la Consulta ha pronunciato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies TUF nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito amministrativo e dei beni utilizzati per commetterlo, in ragione del suo contrasto con gli artt. 3, 42 e 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale CEDU, nonché degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost. in relazione agli artt. 17 e 49, par. 3, CDFUE. La pronuncia di incostituzionalità, dunque, investe non solo la confisca per equivalente, come prospettato nella questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, ma anche la confisca diretta e si estende, altresì, all’art. 187-sexies TUF nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, co. 14, d.lgs. n. 107/2018.                                                                                                                                             

Occorre rilevare, infine, che la limitazione dell’oggetto della confisca di cui all’art. 187-sexies TUF, risultante dalla declaratoria di incostituzionalità in commento, è pienamente conforme al diritto dell’Unione Europea, il quale non impone la confisca del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, ma solo la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, ossia del solo profitto dell’illecito (art. 30, par. 2, lett. b), Regolamento UE n. 596/2014).

4. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies TUF e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia

La Corte di cassazione, con la medesima ordinanza, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies TUF, nella parte in cui sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob o nel ritardare l’esercizio delle funzioni di essa anche nei confronti di colui al quale la medesima Consob, nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza, ascriva illeciti amministrativi relativi all’abuso di informazioni privilegiate[20].                                                                              

Secondo il giudice a quo, la norma censurata confliggerebbe con il principio dell’equo processo e con il principio nemo tenetur se detegere, risultando così incompatibile con gli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo con riferimento all’art. 6 CEDU, nonché in relazione agli artt. 11 e 117 Cost., con riferimento all'art. 47 CDFUE.                                                                                                  

La Consulta, in particolare, è stata chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di estendere il diritto al silenzio ai procedimenti amministrativi sanzionatori di competenza della Consob aventi ad oggetto illeciti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente penali in forza dei criteri Engel.        

La questione prospettata assume notevole rilevanza, in quanto, se risolta positivamente, condurrebbe ad affermare che la qualificazione in termini punitivi di un illecito amministrativo implicherebbe l’estensione ad esso non solo delle garanzie penali di carattere sostanziale, ma anche di quelle di natura processuale.

La vicenda ha riguardato l’amministratore di una società sottoposto a una sanzione pecuniaria per non avere risposto alle domande della Consob su operazioni finanziarie sospette da lui compiute. L’interessato ha impugnato la suddetta sanzione, sostenendo di aver legittimamente esercitato il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.                                                                   

La Corte costituzionale, nell’esaminare la questione, ha preliminarmente definito il fondamento normativo e la portata applicativa del diritto al silenzio nel moderno processo penale, alla luce delle fonti interne e sovranazionali.                                                                                        

Il principio del nemo tenetur se detegere, sebbene non espressamente sancito né dalla Costituzione né dal codice di rito, costituisce un corollario ineludibile del diritto di difesa consacrato dall’art. 24 Cost. e rappresenta uno dei tratti distintivi del moderno modello di processo penale accusatorio, in ciò distinguendosi dal modello inquisitorio, connotato dall’utilizzo di mezzi coercitivi per ottenere la deposizione dell’accusato[21]. Siffatta garanzia si traduce nel diritto al silenzio dell’imputato, in forza del quale quest’ultimo non può essere obbligato a contribuire alla propria incolpazione né costretto a rendere dichiarazioni confessorie, potendo liberamente scegliere se collaborare o meno con l’autorità giudiziaria, senza il rischio di subire eventuali conseguenze sfavorevoli. In particolare, l’imputato può decidere liberamente se presentarsi o meno all’interrogatorio o all’esame e se rispondere o avvalersi della facoltà di non rispondere, potendo addirittura dichiarare il falso. Ciò distingue nettamente la posizione dell’imputato da quella del testimone che, ai sensi dell’art. 198 c.p.p., ha l’obbligo di presentarsi e di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte.                   

Il diritto silenzio risulta ulteriormente presidiato dal codice di rito nelle ipotesi in cui i tratti dell’imputato e del testimone si sovrappongono, come nel caso dei testimoni c.d. assistiti (art. 197 bis c.p.p.); degli imputati in procedimento connesso (art. 210 c.p.p.) e del testimone che rischi di autoincriminarsi dovendo deporre il vero, c.d. privilege against self-incrimination (art. 198 c.p.p.)[22].

Un ulteriore referente normativo idoneo a offrire copertura costituzionale al principio nemo tenetur se detegere si rinverrebbe nell’art. 111, co. 2, Cost. nella parte in cui sancisce il principio di parità delle parti, rispetto al quale sarebbe incompatibile imporre all'imputato l'obbligo di contribuire alla propria incolpazione, reso coercibile dalla previsione di sanzioni in caso di suo inadempimento.

Per quanto concerne l’ambito di applicazione del diritto al silenzio, si è sempre ritenuto che esso operi esclusivamente nel processo penale in senso stretto e non anche nel procedimento amministrativo sanzionatorio, nell’ambito del quale la collaborazione o meno con l’autorità procedente è stata ritenuta fonte di possibili conseguenze per l’incolpato, rispettivamente in melius e in pejus.

In ambito convenzionale, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha riconosciuto il diritto a non collaborare alla propria incriminazione, valorizzandone la stretta connessione con il diritto ad un equo processo e alla presunzione di innocenza di cui all’art. 6 CEDU[23]. I giudici di Strasburgo, inoltre, hanno ritenuto che il principio nemo tenetur se detegere trovi applicazione non solo nei procedimenti penali in senso stretto, ma anche nell’ambito dei procedimenti formalmente amministrativi diretti all’irrogazione di una sanzione sostanzialmente punitiva alla stregua dei criteri Engel. In tal modo, si è ritenuto violato il diritto al silenzio in relazione a soggetti sanzionati dall’ordinamento nazionale per non avere fornito risposte ad autorità amministrative nell’ambito di procedimenti volti all'accertamento di violazioni di natura amministrativa[24].

A livello eurounitario, il fondamento giuridico del diritto al silenzio si ricava implicitamente dall’art. 47 CDFUE, posto che il secondo comma di tale disposizione sarebbe sovrapponibile al primo comma dell’art. 6 CEDU, e dall’art. 48 CDFUE che sancisce il principio di presunzione di innocenza. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 52, par. 3, CDFUE, occorrerebbe fare riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU anche in rapporto al principio nemo tenetur se detegere[25].

Sul piano internazionale, una consacrazione esplicita del diritto al silenzio è costituita dall’art. 14, par. 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici che sancisce il diritto di ogni individuo accusato di un reato a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole.

Alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali summenzionati, la Corte costituzionale ha ravvisato la contrarietà dell’art. 187-quinquiesdecies TUF con l’art. 6 CEDU in combinato con l’art. 117, co. 1, Cost.

Nonostante ciò, la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla Suprema Corte non ha trovato accoglimento, dal momento che la disposizione censurata è di diretta derivazione unionale.  Invero, l’art. 187-quinquiesdecies TUF è stato introdotto nell’ordinamento italiano in esecuzione di uno specifico obbligo posto dall’art. 14, par. 3, Direttiva 2003/6/CE e costituisce, oggi, l’attuazione dell’art. 30, par. 1, lett. b), Regolamento UE n. 596/2014, che ha abrogato la medesima direttiva. Sulla base della richiamata normativa europea, dunque, ciascuno Stato membro è tenuto a sanzionare il silenzio serbato in sede di audizione da parte di chi abbia posto in essere operazioni che integrano illeciti sanzionabili dall’autorità amministrativa preposta alla vigilanza sui mercati finanziari, ovvero da parte di chi abbia dato l’ordine di compiere tali operazioni.

Alla luce di quanto esposto, secondo la Consulta, un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies TUF confliggerebbe con il diritto dell’Unione Europea e, in particolare, con l’obbligo derivante dal Regolamento summenzionato.

Al tempo stesso, tuttavia, siffatto obbligo sarebbe difficilmente compatibile con gli artt. 47 e 48 CDFUE, i quali sembrano riconoscere, seppure implicitamente, un diritto fondamentale dell’individuo a non essere costretto a rendere dichiarazioni confessorie, nei limiti di cui agli artt. 24 Cost. e 6 CEDU.                                                        

A causa di siffatto contrasto, la Corte costituzionale, valorizzando il principio di leale cooperazione tra Corti nazionali ed europee nella definizione dei livelli minimi di tutela dei diritti fondamentali, ha ritenuto opportuno operare un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con l’ordinanza n. 119/2019[26].                                                

Pertanto, ai giudici di Lussemburgo sono stati sottoposti due quesiti interpretativi: a) se, in base al diritto dell’Unione Europea (art. 14, par. 3, Direttiva 2003/6/CE; art. 30, par. 1, lett. b), Regolamento UE n. 596/2014), il diritto al silenzio si applichi, oltre che nei procedimenti penali, anche in procedimenti di carattere formalmente amministrativo, ma funzionali all’irrogazione di sanzioni di carattere sostanzialmente punitivo, come quella prevista dal censurato art. 187-quinquiesdecies TUF; b) se, in caso di risposta negativa, gli artt. 14, par. 3, Direttiva 2003/6/CE e 30, par. 1, lett. b), Regolamento UE n. 596/2014 siano compatibili con gli artt. 47 e 48 CDFUE, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva.                           

Occorre evidenziare che le questioni interpretative sopra enunciate presentano carattere profondamente innovativo, in quanto la Corte di Giustizia non ha mai affrontato la problematica relativa al diritto al silenzio con riferimento a procedimenti amministrativi volti all’accertamento di illeciti e all’applicazione di sanzioni da considerare penali alla stregua dei criteri Engel. I giudici di Lussemburgo, infatti, finora si sono espressi sulla questione esclusivamente in relazione ai procedimenti amministrativi di competenza della Commissione Europea in materia antitrust, affermando che l’obbligo di attiva collaborazione gravante sull’impresa incolpata è pienamente compatibile con il diritto di difesa e ad un equo processo e che esso trova un limite solo laddove vengano poste domande dirette a ottenere la confessione della commissione dell’illecito[27].          

A parere della Corte costituzionale, i principi enunciati Corte di Giustizia, non sembrano applicabili ai procedimenti formalmente amministrativi volti all’irrogazione di sanzioni punitive, come quello previsto per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis TUF. Ciò in quanto la richiamata giurisprudenza europea si è formata in epoca antecedente all’adozione della CDFUE e all’attribuzione alla stessa del medesimo valore giuridico dei Trattati da parte del Trattato di Lisbona nel 2009.


Note e riferimenti bibliografici

[1] L’art. 184, co. 1, TUF stabilisce: “È punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro tre milioni chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell'emittente, della partecipazione al capitale dell'emittente, ovvero dell'esercizio di un'attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell'ufficio o di un sondaggio di mercato effettuato ai sensi dell’articolo 11 del regolamento (UE) n. 596/20141109 ; c) raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni indicate nella lettera a).

[2] E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale d’impresa, III ed., Zanichelli, 2012, pp. 240 ss.

[3] L’art. 187-bis TUF recita: “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila euro a cinque milioni di euro chiunque viola il divieto di abuso di informazioni privilegiate e di comunicazione illecita di informazioni privilegiate di cui all’articolo 14 del regolamento (UE) n. 596/2014”.

[4] E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, op. cit., pp. 248.

[5] L’art. 14 del Regolamento UE n. 596/2014 stabilisce: “Non è consentito: a) abusare o tentare di abusare di informazioni privilegiate; b) raccomandare ad altri di abusare di informazioni privilegiate o indurre altri ad abusare di informazioni privilegiate; oppure c) comunicare in modo illecito informazioni privilegiate”.

[6] L’art. 187-quater, co. 1, TUF dispone: “L’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dagli articoli 187-bis e 187-ter importa: a) l’interdizione temporanea dallo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso soggetti autorizzati ai sensi del presente decreto, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, o presso fondi pensione; b) l’interdizione temporanea dallo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate; c) la sospensione dal Registro, ai sensi dell’articolo 26, commi 1, lettera d), e 1-bis, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, del revisore legale, della società di revisione legale o del responsabile dell’incarico; d) la sospensione dall’albo di cui all’articolo 31, comma 4, per i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede; e) la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per i partecipanti al capitale dei soggetti indicati alla lettera a)”.

[7] L’art. 187-sexies TUF recita: “1. L’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito. 2. Qualora non sia possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente. 3. In nessun caso può essere disposta la confisca di beni che non appartengono ad una delle persone cui è applicata la sanzione amministrativa pecuniaria”.

[8] L’art. 187-quinquiesdecies TUF dispone: “1. Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse. 1-bis. Se la violazione è commessa da una persona fisica, si applica nei confronti di quest’ultima la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila fino a euro cinque milioni. 1-ter. Se la violazione è commessa da una società o un ente, si applica nei confronti di questi ultimi la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo è superiore a euro cinque milioni e il fatturato è determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. Fermo restando quanto previsto per le società e gli enti nei confronti dei quali sono accertate le violazioni, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal comma 1-bis nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della società o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a). 1-quater. Se il vantaggio ottenuto dall’autore della violazione come conseguenza della violazione stessa è superiore ai limiti massimi indicati nel presente articolo, la sanzione amministrativa pecuniaria è elevata fino al doppio dell’ammontare del vantaggio ottenuto, purché tale ammontare sia determinabile”.

[9] L’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU dispone: “1. Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni di cui al paragrafo precedente non impediranno la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l’esito del caso. 3. Nessuna deroga a questo articolo può essere autorizzata ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione”.

[10] Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, ric. n. 18640/10.

[11] La Corte Europea dei diritti dell’Uomo, adottando la concezione autonomista di illecito penale e di sanzione penale, ha elaborato, nella storica sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, i c.d. criteri Engel, al fine di desumere la natura sostanzialmente penale di un illecito o di una sanzione previsti dal diritto interno e di estendere ad essi le garanzie convenzionali di cui agli artt. 6 e 7 CEDU, a prescindere dal nomen iuris. Tali criteri hanno natura sostanziale e sono riconducibili a quattro categorie: a) qualificazione prevalente negli Stati aderenti; b) natura penale dell’infrazione; c) natura punitiva e gravità della sanzione diretta a fini preventivi e punitivi; d) collegamento con una violazione penale. La rilevanza attribuita dall’art. 117, co. 1, Cost. alla CEDU esige l’applicazione dei c.d. criteri Engel per estendere le garanzie convenzionali a illeciti e sanzioni non qualificati formalmente come penali nell’ordinamento interno. Sul punto cfr. R. Garofoli, “Manuale di diritto penale-parte generale”, XVI ed., Nel Diritto Editore, 2019, pp. 29 ss.; R. Giovagnoli, “Manuale di diritto penale-parte generale”, I ed., Itaedizioni, 2019, pp. 1223 ss.

[12] Sul caso Grande Stevens e altri c. Italia cfr. A. F. Tripodi, “Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L'Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it., 9 marzo 2014, ultimo accesso 23 aprile 2020; G. De Amicis, “Ne bis in idem e 'doppio binario' sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza 'Grande Stevens' nell'ordinamento italiano”, in Diritto penale contemporaneo, fasc. n. 3-4/2014, pp. 201 ss.

[13] Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11.

[14] Sul caso A e B c. Norvegia cfr. F. Viganò, “La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 18 novembre 2016, ultimo accesso 23 aprile 2020; P. Fimiani: “Market abuse e doppio binario sanzionatorio dopo la sentenza della Corte E.D.U., Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia”, in Diritto penale contemporaneo, fasc. n. 2/2017, pp. 5 ss.

[15] L’art. 50 CDFUE stabilisce: “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale Ł già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”.

[16] CGUE, 20 marzo 2018, C-524/15 (causa Menci), C-537/16 (causa Garlsson Real Estate e a.), C-596/16 e C-597/16 (Di Puma e Zecca).

[17] R. Garofoli, “Manuale di diritto penale-parte generale”, XVI ed., Nel Diritto Editore, 2019, pp. 41-43 ss.

[18] Cass., Sez. II, 16.02.2018, ordinanza n. 3831. Sul punto cfr. G. L. Gatta, “Confisca ‘amministrativa’ per l’insider trading: verso una limitazione al solo profitto? la parola alla Corte costituzionale, in attesa dell’attuazione (mancata?) della legge delega per l’adeguamento alla disciplina europea del market abuse”, in Diritto penale contemporaneo, fasc. n. 5/2018, pp. 295 ss.

[19] Testo originariamente introdotto dall’art. 9, co. 2, lett. a), l. n. 62/2005 (Legge comunitaria 2004).

[20] G. L. Gatta, “Nemo tenetur se detegere e procedimento amministrativo davanti alla Consob per l’accertamento dell’abuso di informazioni privilegiate: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 187- quinquiesdecies T.U.F.”, in Diritto Penale Contemporaneo, fasc. n. 4/2018, pp. 156 ss.

[21] Ordinanze nn. 291 e 485 del 2002; sul punto cfr. G. Fares, “Diritto al silenzio, soluzioni interpretative e controlimiti: la Corte costituzionale chiama in causa la Corte di Giustizia”, in Dirittifondamentali.it, fasc. n. 1/2020.

[22] R. Garofoli, “Manuale di diritto penale-parte generale”, XVI ed., Nel Diritto Editore, 2019, pp. 45 ss.

[23] Corte EDU, 25 febbraio 1993, Funke; 5 aprile 2012, Chambaz.

[24] Corte EDU, 4 ottobre 2005, Shannon; 5 aprile 2012, Chambaz.

[25] L’art. 52, par. 3, CDFUE stabilisce: “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti   dalla   suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa”.

[26] Per una approfondita disamina dell’ordinanza n. 119/2019 cfr. A. Ruggeri, “Ancora un passo avanti della Consulta lungo la via del ‘dialogo’ con le Corti europee e i giudici nazionali”, in Consulta online, fasc. n. 2/2019, pp. 242 ss.

[27] Corte di Giustizia, 18 ottobre 1989, in causa C-374/1987, Orkem; 24 settembre 2009, nelle cause riunite C-125/07 P, C-135/07 P, C-137/07 P, Erste Group Bank AG.