Pubbl. Gio, 23 Apr 2020
Divisione ereditaria: atto mortis causa o inter vivos?
Modifica pagina”Allorquando tra i beni costituenti l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, ai sensi all´art. 713, comma 1, c.c., di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti.” (Corte di Cassazione, SS.UU., n. 25021/2019)
Sommario: 1. Introduzione 2. I fatti di causa e le questioni di diritto 3. Risoluzione della prima questione. Gli atti di scioglimento della comunione sono atti inter vivos. Identità dell’ambito applicativo degli artt. 17 e 40 comma 2. 3.1. Differenze tra atti inter vivos e atti mortis causa. Natura giuridica dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria. 3.2. Efficacia costitutiva dell’atto di divisione ereditaria. Un ulteriore argomento per smentire la tesi della natura mortis causa. 4. Ulteriori argomentazioni e conclusioni.
1. Introduzione
Le Sezione Unite della Corte di Cassazione, risolvendo due questioni di diritto, hanno compiuto un’approfondita analisi della natura giuridica degli atti di divisione ereditaria individuandone le conseguenze per l’ipotesi in cui abbiano a oggetto un immobile “abusivo”. A tal fine esse hanno proceduto dapprima a ricollocare, in generale, gli atti di scioglimento delle comunioni tra gli atti inter vivos e, successivamente, a stabilire se, tra questi, sono ricompresi anche gli atti di scioglimento delle comunioni ereditarie.
È opportuno, pertanto, ripercorrere brevemente i fatti di causa per poi analizzare le fondamentali argomentazioni che hanno condotto la Corte a discostarsi dalla tradizionale tesi dominante tanto in giurisprudenza che in dottrina.
2. I fatti di causa e le questioni di diritto
La pronuncia n. 25021 del 2019 trae origine dalla controversia instaurata dalla Curatela fallimentare per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria esistente tra il soggetto fallito e i suoi fratelli ed avente ad oggetto un immobile sopraelevato tra il 1970 e 1976 in assenza di concessione edilizia.
Il Tribunale e, a seguito di gravame, la Corte d’appello rigettarono la domanda attorea collocando l’atto di scioglimento di divisione ereditaria tra gli atti inter vivos assoggettati, in quanto tali, alla sanzione della nullità comminata dagli artt. 17 ( abrogato e trasfuso pressoché fedelmente nell’art. 46 D.p.R. 380/2001) e 40 comma 2 della L. 47/1985 per l’ipotesi in cui abbiano a oggetto un immobile costruito in assenza dei titoli edilizi richiesti dalla legge.
Avverso la Sentenza della Corte d’appello la Curatela fallimentare ha proposto ricorso per Cassazione ritenendo, in sintesi, errata l’applicazione dell’art. 40 comma 2 che, a differenza dell’art.17, non menziona espressamente tra gli atti sottoposti a nullità quelli di scioglimento della comunione nonché errata la riconduzione dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria agli atti inter vivos piuttosto che a quelli mortis causa certamente, questi ultimi, sottratti all’applicazione della sanzione della nullità anche se aventi a oggetto un immobile “abusivo”.
La tesi richiamata dalla Curatela fallimentare è figlia di un orientamento formatosi in seno alla stessa Corte di Cassazione che, tuttavia, il Primo Presidente ha ritenuto necessario di rimeditazione.
In particolare, alle Sezioni Unite è stata rimessa la risoluzione di due questioni di diritto:
1. “se, tra gli atti tra vivi per i quali l'art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, commina la sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni ivi previste, debbano ritenersi compresi o meno gli atti di scioglimento delle comunioni”;
2. data risposta positiva alla prima questione, stabilire “se possano considerarsi atti inter vivos, come tali soggetti alla comminatoria di nullità prevista dall'art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 (ma anche dall'art. 46, comma 1, del D.p.R. n. 380 del 2001), solo gli atti di scioglimento della comunione "ordinaria" o anche quelli di scioglimento della comunione "ereditaria"”.
3. Risoluzione della prima questione. Gli atti di scioglimento della comunione sono atti inter vivos. Identità dell’ambito applicativo degli artt. 17 e 40 comma 2
Per risolvere la prima questione, relativa all’inclusione anche nell’art. 40 comma 2 degli atti di scioglimento della comunione, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover procedere al raffronto tra l’art. 17 e l’art. 40, comma 2 della L. 47 del 1985.
In particolare, l’art. 17, abrogato ma riprodotto nell’art. 461 del D.p.R 380/2001, commina la sanzione della nullità per gli atti tra vivi aventi a oggetto immobili abusivi realizzati dopo l’entrata in vigore della legge n. 47/85, prevedendo che “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l'entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell'articolo 13”.
L’art. 17, dunque, nel delimitare l’ambito di applicazione della sanzione della nullità, menziona espressamente gli atti di scioglimento della comunione, salvo poi verificare se tra questi rientrino anche quelli di scioglimento della comunione ereditaria o soltanto ordinaria.
L’art. 40 comma 2, invece, commina la sanzione della nullità per gli atti aventi a oggetto immobili abusivi realizzati prima dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985. Si tratta, dunque, della norma applicabile, ratione temporis, al caso sottoposto alle Sezioni Unite atteso che l’immobile è stato sopraelevato tra il 1970 e il 1976.
Tale norma prevede che: “Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della concessione ad edificare..”.
L’art. 40, comma 2 dunque, come evidenziato dal ricorrente, diversamente dall’art. 17 non menziona espressamente gli atti di scioglimento della comunione.
Tuttavia, la Corte ha ritenuto di non condividere la conclusione cui lo stesso è giunto, ovvero quella per cui agli atti aventi a oggetto immobili realizzati prima del 1975 non si applica la sanzione della nullità.
Tale ricostruzione, infatti, non tiene conto che l’art. 40, comma 2 utilizza semplicemente un criterio diverso per delineare l’ambito di applicazione della norma, facendo riferimento agli atti tra vivi aventi a oggetto diritti reali, senza compiere un’elencazione che richiami anche l’effetto prodotto dall’atto stesso. In questo modo, la locuzione ampia utilizzata dalla norma consente che la stessa si riferisca certamente anche agli atti di scioglimento della comunione purchè abbiano a oggetto diritti reali, prima ancora che per lo specifico effetto prodotto.
A ben vedere, non sono menzionati espressamente neanche gli atti che producono effetto di costituzione e di trasferimento, eppure non si dubita che essi rientrino nell’ambito di applicazione della norma. In questo senso appare illogico escludere quelli di scioglimento della comunione sul presupposto della mancata menzione.
Una diversa soluzione, inoltre, sarebbe in contrasto anche con lo spirito della legge che è quello di prevenire gli abusivismi o di consentirne la sanatoria, impedendo che gli immobili che ne sono colpiti possano circolare mediante atti tra vivi.
In conclusione, la portata applicativa delle norme in commento è la medesima, anche se il tenore letterale delle stesse è diverso, con la conseguenza che anche per l’art. 40, comma 2 gli atti di scioglimento della comunione sono atti inter vivos soggetti alla sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni previste. Restano esclusi solo gli atti espressamente menzionati (artt. 40, comma 5 e 62 e 46, comma 53 D.p.R. 380/2001) ovvero gli atti mortis causa e, tra gli atti inter vivos, quelli che non producono effetti reali, quelli costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di servitù, nonché gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali.
3. Risoluzione della seconda questione di diritto. Anche gli atti di scioglimento della comunione ereditaria sono atti inter vivos sottoposti alla sanzione della nullità
In subordine, il ricorrente ha ritenuto che, anche a voler includere gli atti di scioglimento della comunione tra quelli assoggettati alla sanzione della nullità ex art. 40, comma 2, tale norma non può che riferirsi ai soli atti di scioglimento della comunione ordinaria, in quanto certamente atti inter vivos, mentre sarebbero esclusi gli atti di scioglimento della comunione ereditaria, da equiparare agli atti mortis causa, in ossequio al maggioritario orientamento giurisprudenziale per il quale questi ultimi sarebbero privi di autonomia rispetto al fenomeno successorio e i loro effetti sarebbero, dunque, da ricollegare direttamente alla morte del de cuius.
L’arresto delle Sezioni Unite, sul punto, ha portata più ampia e involge inevitabilmente anche l’art. 17, ora art. 46 D.p.R. 380/2001, che, pur includendo gli atti di scioglimento della comunione tra gli atti assoggettati alla sanzione della nullità, non opera alcun distinguo tra quelli relativi alla comunione ordinaria o ereditaria.
3.1. Differenze tra atti inter vivos e atti mortis causa. Natura giuridica dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria
Come anticipato, il ricorrente ha ritenuto errata la pronuncia del giudice del gravame sul presupposto di un’errata riconduzione dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria agli atti inter vivos piuttosto che agli atti mortis causa.
Appare opportuna, allora, una breve disamina della distinzione tra gli stessi per i fini che qui rilevano.
Gli atti mortis causa si caratterizzano per il fatto che l’evento morte entra a far parte della causa dell’atto stesso, caratterizzandolo. Quest’ultimo, infatti, in assenza e prima della morte non produce alcun effetto, neanche strumentale. Il potenziale erede gode di un’aspettativa di mero fatto, che non riceve alcuna tutela da parte dell’ordinamento giuridico, sicché non si crea una situazione di legittimo affidamento suscettibile di essere salvaguardata. Gli atti mortis causa, pertanto, sono diretti a disciplinare situazioni che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto e hanno a oggetto ciò che dopo la morte residua.
Tradizionalmente si ritiene che l’unico atto mortis causa ammesso nel nostro ordinamento sia il testamento, quale negozio unilaterale chiaramente non recettizio, mediante il quale un soggetto dispone del proprio patrimonio per la consistenza che avrà dopo la sua morte. Tale esclusività si fonda sul divieto dei patti successori sancito dall’art. 458 cod. civ. con il quale, in sostanza, si vieta che il medesimo effetto possa essere prodotto con un atto inter vivos recettizio o a struttura bilaterale. Si vieta, cioè, il contratto successorio che imporrebbe la tutela dell’altra parte negoziale mediante l’applicazione di una disciplina (si pensi alla tendenziale irrilevanza dell’errore) che, invece, non si applica al testamento quale atto solitario.
Al contrario, gli atti inter vivos, anche ove abbiano effetto post mortem, sono immediatamente vincolanti e il loro oggetto è già individuato essendo, eventualmente, soltanto l’effetto finale differito al verificarsi dell’evento morte. Ne costituisce esempio tipico il contratto a favore di terzo con il quale si conviene che la prestazione debba essere eseguita nei confronti del terzo dopo la morte dello stipulante (art. 1412 cod. civ.): in tal caso la stipulazione produce effetti immediati anche nei confronti del terzo, il quale acquista il diritto a ricevere la prestazione dopo la morte dello stipulante. La loro peculiarità, comunque, risiede nel fatto che gli effetti si producono immediatamente a fronte del consenso prestato dalle parti.
Se queste, dunque, sono le principali differenze tra gli atti mortis causa e gli atti inter vivos, non ha alcun fondamento la riconduzione dell’atto di divisione ereditaria alla prima categoria.
Esso, infatti, esula dal fenomeno successorio che si conclude con l’acquisto dell’eredità, rimanendo insensibile a tutti i successivi negozi. Non trova, inoltre, causa nella morte del de cuius perché non è l’evento morte a determinarne la produzione degli effetti. Al contrario, e analogamente a quanto accade per la divisione della comunione ordinaria, l’effetto dello scioglimento e dell’attribuzione esclusiva di una quota a ciascun partecipe si produce a seguito dell’accordo tra i tutti i compartecipi oppure per effetto della pronuncia giudiziale.
Inoltre, lo scioglimento non è un momento necessario del fenomeno successorio bensì eventuale, sia perché i compartecipi potrebbero decidere di rimanere nello stato di comunione, sia perché la legge potrebbe impedire lo scioglimento, come nei casi elencati nell’art. 715 cod. civ. e come nel caso in cui la comunione abbia a oggetto un immobile abusivo fintanto che tale abusivismo perduri.
Neanche il fatto che la comunione ordinaria si costituisca per volontà dei compartecipi mentre quella ereditaria è involontaria e incidentale muta la natura degli effetti dell’atto divisorio che, invece, costituisce un fenomeno unitario. Autorevole dottrina ha avuto modo di precisare che sussiste “una nozione unitaria di negozio divisorio, o meglio di contratto di divisione, che, indipendentemente dalla provenienza dei beni che ne formano oggetto e dalla configurazione che ad esso sia stata data, ha come contenuto essenziale l’assegnazione ai compartecipi della comunione di un valore corrispondente alle loro quote e lo scioglimento della comunione, come conseguenza e come giustificazione di tale assegnazione”4.
Solo apparentemente, infatti, il nostro ordinamento conosce due tipologie di divisione, quella ordinaria disciplinata dagli artt. 1111-1116 cod. civ. e quella ereditaria di cui agli artt. 713-736 cod. civ., laddove le norme dell’una e dell’altra, nei limiti della compatibilità, si applicano a entrambe le ipotesi.
L’atto di divisione, dunque, è un atto autonomo, ad effetti reali immediati e con funzione distributiva, sicché è a quest’ultimo e non all’evento morte che vanno ricollegati gli effetti acquisitivi. Di conseguenza, gli atti di divisione, unitariamente considerati, sono atti inter vivos.
3.2. Efficacia costitutiva dell’atto di divisione ereditaria. Un ulteriore argomento per smentire la tesi della natura mortis causa
A sostegno della tesi della natura mortis causa dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria il ricorrente ha addotto un’argomentazione che, fino alla pronuncia in commento, ha rappresentato un “dogma” per dottrina e giurisprudenza. Si tratta della tesi dell’efficacia dichiarativa dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria che farebbe leva sul tenore letterale dell’art. 757 cod.civ..
Tale norma, collocata nel capo IV dedicato agli effetti della divisione, sancisce che “Ogni erede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per acquisto all’incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari”.
La disposizione richiamata sancisce espressamente la efficacia retroattiva dell’atto di divisione ereditaria tale per cui ciascun erede si considera, sin dal momento dell’apertura della successione, titolare solo dei beni che compongono la propria quota così come risulta dall’atto di divisione. Si realizza, cioè, una fictio iuris che “cancella” il periodo intercorso tra la delazione, con conseguente accettazione, e l’atto di divisione, dando in tal modo continuità alla titolarità dei beni tra il defunto e l’erede.
Da questo punto di vista l’atto divisorio, secondo un’opinione dottrinale, si inquadrerebbe nella discussa figura del negozio di accertamento perché avrebbe anche la funzione di mettere fine allo stato di incertezza che riguarda gli atti di disposizione compiuti durante lo stato di comunione i quali producono direttamente effetto sulla porzione spettante, ex diviso, all’erede5.
Ebbene, secondo l’interpretazione prevalente in dottrina e giurisprudenza, la norma di cui all’art. 757 cod. civ., nel disporre la retroattività degli effetti dell’atto di divisione ereditaria, sancirebbe il principio dell’efficacia meramente dichiarativa dell’atto stesso, ricognitivo di un effetto che è da ricollegare direttamente all’evento morte.
In tale ottica l’atto di divisione non produrrebbe un effetto giuridico nuovo e, in particolare, non produrrebbe l’effetto traslativo-costitutivo atteso che l’acquisto del coerede risalirebbe all’originario titolo che ha dato luogo alla situazione di comunione. La divisione, infatti, lungi dal determinare l’effetto acquisitivo, comporterebbe solo una modifica qualitativa del patrimonio del singolo, con passaggio dalla quota “ideale” al singolo bene.
La stessa giurisprudenza6, tuttavia, ha riconosciuto l’efficacia costitutiva della divisione ereditaria nell’ipotesi in cui, per effetto della medesima, un (com)partecipe abbia ottenuto beni in eccedenza rispetto alla sua quota (ipotesi contemplata dall’art. 720 cod.civ.), così come ha precisato che anche nell’operatività della fictio iuris determinato dall’effetto retroattivo-dichiarativo, non si può disconoscere che la comunione, quale realtà di fatto e di diritto, è esistita e ha prodotto degli effetti fino al momento della divisione. Ciò, tuttavia, senza mostrare una reale apertura verso la tesi dell’efficacia costitutiva.
Le Sezioni Unite, hanno ritenuto di non condividere il tradizionale orientamento e di dare seguito a quella dottrina7, seppure minoritaria, che ha ricollegato all’atto di divisione ereditaria efficacia costitutiva-traslativa. Come analizzato nel precedente paragrafo, l’atto di divisione ereditaria, al pari di quello di divisione ordinaria, produce effetti reali, attribuendo a ciascun compartecipe i beni facenti parte della propria quota, consentendo che lo stesso ne diventi proprietario esclusivo. Tale effetto non è smentito ma, anzi, è confermato dall’art. 757 cod. civ. il quale consente che l’atto di divisione produca un acquisto con efficacia ex tunc in deroga al regime ordinario, quale quello dell’efficacia ex nunc che si produrrebbe in assenza dell’espressa previsione.
L’effetto retroattivo, a sua volta, non può che essere collegato all’efficacia costitutiva dell’atto di divisione essendo escluso che possano retroagire gli effetti di un atto che si limiti a dichiarare una situazione già verificatasi. Per esempio, si riconosce efficacia retroattiva, entro certi limiti, alla sentenza che dispone l’annullamento del contratto che, senza dubbio, è di natura costitutiva mentre alcun effetto retroattivo hanno le sentenze dichiarative di nullità del contratto medesimo.
Pertanto, non bisogna confondere l’efficacia retroattiva dell’atto con la natura, dichiarativa o costitutiva dell’atto medesimo: ciò che retroagisce sono gli effetti della divisione e ciò “è semplice retroattività”. Nell’accezione comune, infatti, retroattività significa “efficacia di un fatto idoneo a modificare la situazione giuridica esistente da un momento anteriore a quello in cui il fatto si è verificato8”
A ben vedere, è lo stesso tenore letterale dell’art. 757 cod. civ. a suggerire la sua unica funzione, ovvero quella di consentire un effetto retroattivo e non già di decretare l’efficacia dichiarativa: essa, infatti, stabilisce che l’erede “è reputato” solo e immediato successore e, inoltre, che “si considera” come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari.
Come attenta dottrina9 ha avuto modo di considerare, l’effetto dichiarativo è stato utilizzato dalla giurisprudenza per far fronte a esigenze di carattere pratico. In particolare “la teoria dichiarativa ha la sua genesi più che in motivi giuridici, in esigenze pratiche che, si andavano manifestando nel diritto intermedio. In particolare, essendo dovuto un tributo molto sostanzioso al sovrano per ogni trasferimento di diritti feudali, al fine di evitare che in sede di successione ereditaria questo tributo fosse pagato due volte, dottrina e giurisprudenza riuscirono ad elaborare ed imporre l’ingegnosa tesi per cui la divisione avrebbe avuto carattere meramente ricognitivo, con il quale ci si sarebbe limitati a dichiarare il diritto parziario di ciascun coerede già acquisito a seguito della successione”.
Pertanto, la tradizionale tesi dell’effetto retroattivo-dichiarativo dell’atto di divisione della comunione ereditaria è da ritenersi superata con la conseguenza che essa non può rappresentare un’argomentazione volta a sostenerne la natura di atto mortis causa.
4. Ulteriori argomentazioni e conclusioni
Il ricorrente ha evidenziato anche ulteriori aspetti che avrebbero dovuto far propendere per una collocazione della divisione ereditaria tra gli atti mortis causa.
Tra questi, la ipotetica disparità di trattamento che si realizzerebbe tra l’ipotesi in cui la divisione dell’immobile abusivo venga realizzata dai coeredi con l’atto di divisione e quella in cui la stessa venga effettuata direttamente dal testatore. In quest’ultimo caso, infatti, la divisione non è colpita da nullità perché disposta con testamento e, quindi, con atto mortis causa escluso dall’ambito applicativo delle norme analizzate.
Ebbene, sul punto, le Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire come tra la divisione testamentaria e quella disposta dai coeredi per via negoziale non vi è alcun analogia oltre all’effetto dell’apporzionamento. La prima, infatti, è disposta per evitare una situazione di comunione, per cui il singolo erede, subentrando nella medesima posizione del de cuius, diviene titolare ipso iure dell’immobile abusivo. Il legislatore la consente per garantire continuità nella proprietà.
La divisione convenzionale, invece, è frutto della volontà dei coeredi e proprio perché è a quest’ultima che vanno riferiti gli effetti, è sanzionata con la nullità. Le norme che sono state analizzate, infatti, hanno lo scopo di evitare la circolazione tra vivi degli immobili abusivi, fino a quando l’abusivismo non venga eliminato, perché nell’ipotesi di trasferimento a causa di morte l’erede non può fare altro che acquistare l’immobile nel medesimo stato di fatto e di diritto in cui era posseduto dal dante causa.
Neanche attraverso il ricorso al giudice, inoltre, è possibile ottenere la divisione dell’immobile abusivo proprio perché, in virtù di un principio immanente nell’ordinamento, è escluso che con una pronuncia del giudice si possa ottenere un effetto precluso all’autonomia negoziale.
Pertanto, ove richiesta, il giudice non potrà che concedere una divisione parziale della comunione, con esclusione dell’immobile abusivo che, invece, permane nel regime di comunione.
In conclusione e alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite, si deve ritenere colpito da nullità ex artt. 17 e 40, comma 2 L.47/1985 e 46 D.p.R. 380/2001 l’atto di divisione della comunione ereditaria che abbia a oggetto un immobile costruito in assenza dei titoli edilizi richiesti.
1“Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.
2“ Se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti, rispettivamente da indicarsi o da allegarsi non sia dipesa dalla insussistenza della concessione o dalla inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, essi possono essere confermati anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda indicate nel comma precedente. Si applica in ogni caso il disposto del terzo comma dell'articolo 17”.
3“Le nullità di cui al presente articolo non si applicano agli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali. L'aggiudicatario, qualora l'immobile si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovrà presentare domanda di permesso in sanatoria entro centoventi giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria”.
4 Mirabelli, Divisione (diritto civile), in Nov. Dig. It., VI, Torino, 1960, 34.
5 Chinè, Zoppini, Fratini, Manuale di Diritto Civile, IX edizione.
6 Ex multis, Cass. Civ. n. 6653/2003.
7 Santoro Passarelli, La Transazione, Napoli, 1975; FORCHIELLI – ANGELONI, Della divisione, art. 713-768 in Comm. c.c., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 2000, 15.
8 Così F. SANTORO – PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1986, p. 31
9G. Capozzi, Successioni e Donazioni, cit., p. 69