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Pubbl. Gio, 19 Mar 2020

Il concorso di persone nei reati di frode fiscale

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Domenico Trapani



Il potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti può concorrere, ove ne sussistano i presupposti, secondo l’ordinaria disciplina dettata dall’art. 110, c.p., con l’emittente, non essendo applicabile in tal caso il regime derogatorio previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 9. (Cass. n. 41124 del 22.05.2019)


SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Il caso; 3. La normativa di riferimento; 4. L’evoluzione giurisprudenziale: il ruolo dell’intermediario e il caso dell’imprenditore self-made; 5. Il cambio di rotta e la nuova interpretazione: il caso Mediaset 2002/2003; 6. Il caso dell’utilizzatore solo potenziale: un’ulteriore differenziazione.

Abstract [ita]: La disciplina derogatoria di cui all’articolo 9 del d.lgs. n. 74/2000, che esclude che l’utilizzatore di fatture per operazioni inesistenti possa concorrere nel reato prodromico di emissione di tali documenti, non trova applicazione quando il destinatario delle fatture non ne abbia fatto utilizzo, dovendo costui in tale circostanza rispondere del reato di emissione di false fatture in concorso con l’emittente.

Abstract [eng]: The derogating discipline of the Article 9 of Legislative Decree no. 74/2000, which excludes that the user of invoices for non-existent operations may compete in the prodromal crime of issuing these documents, does not apply when the recipient of the invoices has not made use of them, since in this circumstance he'll be charged for the crime of issue of false invoices in competition with the issuer.

1. Premessa

La terza sezione penale della Corte di cassazione affronta il problema del rapporto sussistente tra la disciplina generale del concorso di persone nel reato di cui all’art. 110, c.p.[1] e la regola derogatoria dettata dall’art. 9 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, recante la «nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto».

Com’è noto, l’art. 9, d.lgs. cit., rubricato «concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», dispone che «in deroga all’articolo 110 del codice penale: a) l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 2; b) chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 8».

Nell’interpretare tale disposto e nel risolvere il caso di specie, tuttavia, la Suprema Corte propende per l’inapplicabilità del regime derogatorio dettato dalla predetta normativa sui reati tributari nei confronti del potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti, il quale potrà concorrere, pertanto, sussistendone i presupposti secondo l’ordinaria disciplina ex art. 110, c.p., con l’emittente.

2. Il caso

La Corte di cassazione viene investita delle doglianze riguardanti una sentenza della Corte di appello di Roma con la quale veniva dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione di una vicenda attinente all’emissione di fatture relative a operazioni inesistenti[2].

La ricorrente avanzava quattro motivi di ricorso lamentando (i) violazione di legge con riferimento agli artt. 9, d.lgs. n. 74/2000 e 125, comma 3, c.p.p. e difetto di motivazione; (ii) difetto di motivazione in relazione al dolo specifico richiesto ex art. 8, d.lgs. n. 74/2000; (iii) mancanza o apparenza di motivazione riferita alla valutazione del materiale probatorio; (iv) violazione dell’art. 578, c.p.p. e difetto di motivazione in relazione alle statuizioni civili.

I giudici di legittimità, respingendo il primo motivo di ricorso e ritenendo fondati il secondo, il terzo e il quarto, annullavano la sentenza gravata limitatamente alle statuizioni civili e rinviavano ex art. 622, c.p.p., al competente giudice d’appello civile per le relative statuizioni, dichiarando per il resto inammissibile il ricorso.

La Cassazione adotta tale decisione fornendo una esegesi della norma di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 74/2000 sostanzialmente rievocativa (ma nei fatti, poi, parecchio distante) della ratio sottesa.

Difatti, come precisato in prima battuta dalla pronuncia in esame, «[…] la norma ha inteso evitare la sostanziale sottoposizione per due volte a sanzione penale dello stesso soggetto per lo stesso fatto giacché l’emissione trova la sua naturale conseguenza nella utilizzazione mentre l’utilizzazione trova il suo naturale antecedente nell’emissione: né la emissione né la utilizzazione sono, dunque, fini a se stesse sicché, ove l’emissione integrasse anche il concorso nella utilizzazione così come l’utilizzazione integrasse anche il concorso nella emissione, il risultato sarebbe quello di una sostanziale violazione del divieto di bis in idem, che la norma ha dunque inteso scongiurare»[3].

Tuttavia, la Corte, con una virata ermeneutica suggerita forse - oltre che dai precedenti giurisprudenziali in materia - da una volontà di differenziazione delle diverse ipotesi che nella realtà dei fatti tendono a verificarsi, ritiene che l’esclusione di cui al citato articolo 9 non debba operare nei casi in cui il destinatario delle fatture per operazioni inesistenti non ne abbia fatto uso mediante la dichiarazione fraudolenta punita dall’art. 2 del medesimo decreto legislativo: «Va dunque, in definitiva, ribadito che il potenziale utilizzatore di documenti o fatture emesse per operazioni inesistenti può concorrere, ove ne sussistano i presupposti, secondo l’ordinaria disciplina dettata dall’art. 110, c.p., con l’emittente, non essendo applicabile in tal caso il regime derogatorio previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 9» (sent. cit., § 2).

3. La normativa di riferimento

I reati tributari sono configurabili come istantanei, di pericolo e propri (o a soggettività ristretta), in quanto soggetti attivi dei medesimi possono essere soltanto quelle categorie di individui tenuti a osservare gli adempimenti fiscali sui quali sono costruite le fattispecie tipiche di reato (e in tal senso sono reati a forma vincolata).

È noto che secondo la previsione di cui all’articolo 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 il reato di frode fiscale si consuma quando l’autore al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

Il fatto, a norma del secondo comma dell’articolo predetto, si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

La fattispecie in esame, qualificata dalla stessa Relazione al decreto legislativo come la più grave all’interno della terna di reati dichiarativi[4] previsti dal capo primo del decreto citato, ricorre quando la dichiarazione non solo non risulta essere veridica, bensì risulta insidiosa in ragione del supporto fornito mediante una rappresentazione contabile preordinata a sviare o a ostacolare la successiva attività amministrativa di accertamento.

L’elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato in specie - come si evince già dalla lettera della norma - è il dolo specifico di evasione, la cui ricorrenza deve esser ricavata non già dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo, bensì dalla sussistenza di concreti elementi di fatto che comprovino che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta.

Come è stato evidenziato[5], il delitto in questione si presenta a struttura bifasica, rinvenendosi una condotta preparatoria nella detenzione e/o registrazione dei documenti dichiarativi a fini di prova e una condotta finale, conclusiva dell’azione criminosa nel momento della presentazione della dichiarazione falsata sotto il profilo contenutistico[6].

Tuttavia, non può tacersi la necessità di inquadrare la fattispecie de qua in un’ottica sistematica che tenga in considerazione anche la successiva figura prevista dall’art. 8 del d.lgs. 74/2000.

Detto ultimo articolo punisce chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emetta o rilasci fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Come si vede, anche per il delitto in esame è richiesta la sussistenza del dolo specifico - che, tuttavia, in tal caso deve consistere nella rappresentazione e volontà di consentire l’evasione a terzi soggetti - e l’autonoma considerazione penalistica della figura di reato trova giustificazione «[…] nel rilievo tutto particolare che la condotta incriminata assume nel quadro delle fenomeniche dell’evasione: fenomeniche che assai di frequente ruotano su “figure criminali” di spiccata pericolosità, rappresentate da imprese illecite create con l’unico o prevalente scopo di immettere sul “mercato” documentazione volta a supportare l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi fittizi (imprese note nella pratica come “cartiere”)»[7].

In tal modo risulta ben evidente l’interconnessione tra il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti e quello di utilizzazione delle medesime, che costituisce il «naturale sbocco offensivo dell’emissione», mentre - incrociando i fattori - l’emissione costituisce «il naturale presupposto necessario all’utilizzazione»[8].

Come anticipato, l’art. 9 del d.lgs. n. 74/2000, rubricato «Concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», stabilisce una deroga al regime fissato in via generale dall’art. 110, c.p., escludendo la configurabilità di un’ipotesi di concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione.

La Relazione accompagnatoria al decreto legislativo in materia di reati fiscali chiarisce che «per quanto attiene all’emittente, la previsione mira a rendere inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai princìpi: essendo, infatti, l’emissione punita autonomamente ed “a monte”, a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe, in sostanza,punirlo due volte per il medesimo fatto. Diversamente, per quel che riguarda l’utilizzatore, la disposizione partecipa della medesima logica sottesa all’articolo 6, innanzi illustrato[9]: quella, cioè, di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una indiretta “resurrezione” del “reato prodromico”». Logica conseguenza di tale impostazione è che il soggetto potenziale utilizzatore delle fatture emesse per operazioni inesistenti non potrà esser ritenuto responsabile a titolo di tentativo allorquando non utilizzi (o non abbia ancora utilizzato) detti documenti ai fini dichiarativi, giusta il disposto di cui all’art. 6, d.lgs. cit., né a titolo di concorso nell’emissione stando alla previsione di cui all’art. 9 del medesimo decreto[10].

4. L’evoluzione giurisprudenziale: il ruolo dell’intermediario e il caso dell’imprenditore self-made

All’alba dell’introduzione del nuovo sistema sanzionatorio per i reati tributari[11], i giudici di legittimità, nell’applicazione delle nuove norme e nell’amministrazione della giustizia in ottica nomofilattica, si allinearono dapprima alla scelta precisa del legislatore delegato di incentivare il ravvedimento del contribuente mediante la sterilizzazione dei meccanismi del tentativo e del concorso di persone nei reati di cui agli artt. 2 e 8, d.lgs. cit.

Successivamente, però, la prassi e la diversificazione delle ipotesi concretamente oggetto dei giudizi dinanzi alle corti di merito e legittimità portarono l’orientamento della Cassazione a operare una virata verso letture sempre più restrittive dei principi di esclusione di cui all’art. 9, d.lgs. n. 74/2000.

Una prima questione, passata anche al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di cassazione chiamate a dirimere il contrasto insorto, riguardò l’applicabilità dell’esclusione delle norme sul concorso nel reato tributario anche al soggetto terzo alla frode, ma con funzione di intermediazione nei rapporti tra emittente e utilizzatore. La dottrina, in un primo momento, ipotizzò la doppia punibilità del mediatore nell’ipotesi in cui il medesimo avesse concorso con entrambi i soggetti coinvolti nel meccanismo fraudolento e non già con uno solo di essi[12], mentre dal canto suo la giurisprudenza propese per una lettura differente della deroga contenuta in seno all’art. 9, d.lgs. n. 74/2000: con due sentenze a Sezioni Unite (la posteriore delle quali richiama la precedente alla lettera) la cassazione chiarì che «[l’]art. 9 esclude, in deroga all’art. 110 cod. pen., la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e soprattutto, in forza della medesima logica sottesa alla non configurabilità del tentativo (“quella cioè di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione fraudolenta evitando una indiretta resurrezione del reato prodromico”: Relazione governativa, par. 3.2.1), del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione anche in caso di preventivo accordo. Di conseguenza, per l’emittente la successiva utilizzazione da parte di terzi configura un postfatto non punibile, mentre per l’utilizzatore, che se ne avvalga nella dichiarazione annuale, il previo rilascio costituisce un antefatto pure irrilevante penalmente; del pari, l’intermediario non potrà considerarsi concorrente in entrambi i reati ma, a seconda dei casi concreti, in una delle distinte ipotesi».

Suscitò, tuttavia, taluni dubbi il fatto che i giudici di legittimità lasciassero ampio spazio all’interpretazione del caso concreto con riferimento alla individuazione della maggiore prossimità del concorrente-intermediario all’emittente piuttosto che all’utilizzatore della documentazione falsa[13].

Su altro versante, invece, una questione interpretativa alquanto controversa ha riguardato il caso in cui sussistesse identità tra il soggetto emittente le fatture per operazioni inesistente e il soggetto che ne avrebbe fatto successivamente uso. Si pensi, ad esempio, all’amministratore di una determinata società che emetta documenti per operazioni fittizie a vantaggio di un’altra società di cui sia egli stesso amministratore solo di fatto, in modo da incrementare l’ammontare dei costi (fittiziamente) sostenuti e comprimere, per l’effetto, la base di reddito imponibile. Si tratta del caso affrontato da Cass., 21 maggio 2012, n. 19247 ove si legge: «il soggetto che, gestendo di fatto e di diritto più realtà imprenditoriali, da un lato emette e, dall’altro, utilizza fatture relative ad operazioni inesistenti, risulta punibile sia per la fattispecie di cui all’art. 8 che per quella di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000. La deroga disposta dall’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000, infatti, esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente, ma non trova applicazione quando la medesima persona proceda in proprio sia all’emissione sia all’utilizzazione delle fatture false. In particolare, occorre considerare l’esistenza di due fattispecie differenti alle quali conseguono due diversi regimi giuridici: a) la prima è integrata quando due soggetti giuridici diversi e tra loro autonomi definiscono un accordo per la realizzazione di una frode fiscale mediante l’emissione, da una parte, e l’utilizzazione, dall’altra, di fatture false; b) la seconda risulta integrata quando è lo stesso soggetto giuridico interessato ad utilizzare fatture false a dare luogo anche ad una serie di condotte preparatorie e dissimulatorie. Soltanto in relazione alla prima ipotesi, il D.Lgs. n. 74/2000, con le indicazioni recate dall’art. 9, ha inteso attenuare il rigore sanzionatorio cui si era pervenuti nel vigore della L. n. 516/82, con attribuzione di responsabilità penale sia per l’utilizzazione sia per l’istigazione all’emissione» e che «la disposizione di cui all’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000, contenente una deroga alla regola generale fissata dall’art. 110 c.p., in tema di concorso di persone nel reato, esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore di fatture per operazioni inesistenti nelle condotte del diverso soggetto emittente, ma non trova applicazione quando la medesima persona proceda in proprio, sia all’emissione delle fatture per operazioni inesistenti, sia alla loro successiva utilizzazione»[14].

Come si può aver modo di vedere, il disvalore complessivo attribuito dai giudici al meccanismo fraudolento in esame risulta di estremo rigore, specie se si considera che anche pronunce successive a quella appena citata hanno cristallizzato il giudizio per cui nel caso concreto in esame «[…] si genererebbe l’inconveniente di dover determinare quale dei due reati (art. 2 o art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000) debba essere punito e quale, invece, debba essere ritenuto non punibile. Non è un caso, peraltro, che nel sistema penale tributario manchi una disposizione che indirizzi su come effettuare questa scelta. Tale interpretazione non può essere considerata contraria al principio di ragionevolezza, perché è evidente il maggior disvalore della condotta di chi contemporaneamente sia emittente ed utilizzatore di fatture false rispetto alla condotta di chi non svolga direttamente entrambe tali operazioni, ma si avvalga di un terzo, con il quale concorra, per lo svolgimento di una delle due»[15].

La prospettata soluzione, in verità, non è stata accolta con plauso dagli operatori del diritto[16]: per un verso, infatti, pur ritenuta corretta la soluzione dell’inapplicabilità dell’art. 9, d.lgs. n. 74/200 al caso di coincidenza soggettiva tra l’emittente e il successivo utilizzatore, si è dissentito sulla individuazione del maggiore disvalore nella condotta di specie rispetto al caso in cui l’emittente (o l’utilizzatore finale) delle fatture false coinvolga nel meccanismo fraudolento un terzo soggetto[17]; per altro verso, si è rilevata la necessità di inquadramento della fattispecie esaminata in una prospettiva unitaria, in cui il fine ultimo dell’agente è rappresentato sostanzialmente dalla presentazione di una dichiarazione fraudolentemente formata e che non corrisponde alla realità delle operazioni poste in essere[18].

Il disvalore penale della condotta, quindi, può considerarsi ricadente nel momento dichiarativo, da cui deriva - in fin dei conti - il danno vero e proprio all’erario. Parallelamente, nel caso di identità soggettiva tra emittente e utilizzatore, la condotta di emissione della documentazione fiscale falsa potrebbe a ragione considerarsi degradata a mero atto prodromico assorbito dalla presentazione della dichiarazione falsa.

5. Il cambio di rotta e la nuova interpretazione: il caso Mediaset 2002/2003

In questo solco ermeneutico si è incanalato l’orientamento fatto proprio da Cass. pen., Sez. feriale, sent., 29 agosto 2013, n. 35729, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della decisione resa dalla Corte di appello di Milano, secondo la quale la complessa vicenda penal-tributaria che aveva interessato la dichiarazione dei redditi della società per azioni Mediaset relativa alle annualità 2002 e 2003 doveva esser interpretata nel senso dell’unicità del fine consistente nel conseguimento di indebiti risparmi di imposta[19].

Attraverso un copioso richiamo delle decisioni di primo e secondo grado, la Corte di legittimità assevera la decisione d’appello e, pur confermando la tesi della inapplicabilità del disposto di cui all’art. 9, d.lgs. n. 74/2000, nel caso di coincidenza sostanziale tra la figura dell’emittente e quella dell’utilizzatore[20], perviene a un assorbimento delle condotte di cui all’art. 8, d.lgs. cit. (fattispecie minore), in quelle (più gravi) di cui al reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti, neutralizzando i dubbi paventati dalle decisioni precedenti circa la possibilità di individuare criteri di determinazione del maggiore disvalore dell’una fattispecie rispetto all’altra: «In definitiva, questo Collegio ritiene che:

a) risultano integrati dalla ricostruzione operata dalla Corte territoriale tutti gli elementi costitutivi della fattispecie prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 dal momento che sono state presentate dichiarazioni annuali con indicazione di elementi passivi fittizi, al fine di evadere le imposte sui redditi, e che ci si è, a tal fine, avvalsi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, registrate ai sensi dell’art. 2, comma 2 del medesimo D.Lgs. […]; b) nei caso di specie, l’unitario disegno realizzato, attraverso la creazione di società cartiere, fittizie, tutte riconducibili al medesimo autore, l’enorme lievitamento dei costi, la sostanziale assenza di autonomia decisionale […] danno conto dell’identità dei profili fondanti della responsabilità che si concentrano sul finale risultato dell’evasione tributaria rilevante, appunto, ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 reato che non può, nel modo più assoluto, essere configurato ai sensi dell’art. 8 […].

Alla stregua di tali considerazioni, del tutto corretta - sia in punto di fatto che di diritto - la conclusione cui pervengono i Giudici del merito, secondo i quali il contributo causale materiale o morale degli imputati di frode fiscale ex art. 110, c.p. si desume dagli elementi che provano un loro coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento sopra delineato, meccanismo che consentiva all’autore di avvalersi di documentazione fiscale fittizia».

Con questa pronuncia, quindi, si sgretolano del tutto i precedenti dubbi sulla impossibilità di individuare un criterio oggettivo di riconduzione della fattispecie complessa a una o all’altra figura di reato (ossia emissione o utilizzazione): il focus della repressione, infatti, si radica nel momento in cui l’evasione si concretizza, ossia alla verificazione del danno erariale, cui la preordinata creazione di documentazione fittizia intrinsecamente mira[21].

6. Il caso dell’utilizzatore solo potenziale: un’ulteriore differenziazione

Al termine del percorso di specificazione ermeneutica di una disciplina tanto semplice quanto controversamente dibattuta, la pronuncia quivi in commento ritiene di dover ulteriormente parcellizzare le ipotesi che nella realtà dei fenomeni economici sembrano chiedere a gran voce un trattamento differenziato.

Per questo motivo, l’intenzione del legislatore, che si chiariva con la Relazione ministeriale al d.lgs. 74/2000, in riforma e semplificazione del previgente assetto, sembrerebbe esser quanto mai inadeguata.

Nel caso in cui il destinatario delle fatture emesse per operazioni inesistenti non ne faccia utilizzo, infatti, non si dovrebbe ravvisare - afferma la Corte - alcuna violazione del divieto di bis in idem quanto alla sottoposizione del potenziale utilizzatore alla ordinaria e generale disciplina del concorso nell’emissione (artt. 8, d.lgs. 74/2000 e 110, c.p.): ragionando a contrario, invece, si perverrebbe a un’ipotesi di «irrilevanza penale nei confronti di chi abbia posto in essere comportamenti riconducibili alla previsione concorsuale in relazione alla emissione della documentazione fittizia per il solo fatto di non avere utilizzato poi quella stessa documentazione» (cfr. Cass. cit., § 2).

Tale impostazione, però, se da un lato - come accennato - risponde all’esigenza che emerge dalla peculiarità della casistica concreta, indubitabilmente si pone in contrasto con la volontà dell’originario assetto normativo di sottrarre alla disciplina concorsuale tanto le ipotesi di cui all’articolo 8, quanto quelle di cui all’articolo 2, per espungere dall’impianto la rilevanza penale di tutti quei comportamenti prodromici alle fattispecie de quibus.

Tra l’altro, qualora questo afflato di differenziazione delle fattispecie dovesse proseguire nel suo sviluppo (senza che si plauda a questa tendenza), bisognerà tenere a mente - come è stato sapientemente e coerentemente rilevato[22] - anche l’ipotesi più diffusa nella realtà economica e commerciale, ossia quella in cui la fattispecie dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti venga posta in essere da società definite cartiere (o missing trader) che, tipicamente, si connotano per esser contenitori vuoti dediti alla sola produzione di documentazione fittizia[23]..

Tali realtà, che non svolgono alcuna attività commerciale, non curano la tenuta dei libri contabili obbligatori, omettono la presentazione delle dichiarazioni fiscali, ma sono saldamente innestate nelle c.d. frodi carosello, si pongono a disposizione di una pluralità indefinita di soggetti, consentendo loro l’abbattimento del carico imponibile.

Com’è chiaro, tra questi soggetti e gli utilizzatori della documentazione fittizia non corre alcuno specifico accordo per il concorso nel meccanismo fraudolento, a differenza di quanto avviene, invece, (come nel caso affrontato dalla sentenza in commento) tra soggetti che predispongano specificamente le operazioni fraudolente secondo un pactum sceleris i cui effetti gravano sulle pubbliche entrate.

Ebbene, proprio l’assenza di un previo accordo, di un patto in frode alla fiscalità, dovrebbe indurre a rendere inapplicabile alle società cartiere il principio giurisprudenziale elaborato dalla Corte.

In ogni caso, ci si chiede se davvero sia indispensabile, laddove l’intento del legislatore sia - per una volta - chiaro e preciso, parcellizzare una disciplina che in origine voleva fortemente essere semplificativa ma che, a oggi, si trova soltanto a essere inadeguata (e quindi semmai bisognevole di un ulteriore rimaneggiamento, ma da parte del legislatore) per volere delle aule di giustizia.

Note e riferimenti bibliografici

[1] «Pena per coloro che concorrono nel reato - Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita […]».

[2] Nello specifico, la Corte d’appello di Roma riformava la pronuncia del Tribunale capitolino, dichiarando non doversi procedere per intervenuta prescrizione e confermando le statuizioni civili in relazione alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 per aver concorso il ricorrente - nella sua qualità di amministratore delegato di una società - nella emissione di fatture relative a operazioni inesistenti negli anni 2009 e 2010.

[3] Sent. cit., § 2: tale assunto, come si vedrà oltre, risulta pienamente allineato allo spirito riformatore insito nella novella alla disciplina dei reati tributari introdotta nell’ordinamento con il d.lgs. n. 74/2000.

[4] Id est, dichiarazione fraudolenta, dichiarazione infedele e omessa dichiarazione.

[5] S. CAPOLUPO, Il concorso di terzo nella frode fiscale, in Il Fisco, 2018, 28, 2743.

[6] La Relazione accompagnatoria del decreto legislativo n. 74 del 2000, a tal proposito, risulta molto chiara ed eloquente: «[…] si è ritenuto di dover precisare in quali casi il fatto si considera commesso “avvalendosi” dei documenti anzidetti. Va rilevato, infatti, come l’ampia elaborazione giurisprudenziale e dottrinale relativa al concetto di “utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, rilevante nell’ottica applicativa del delitto di frode fiscale di cui all’articolo 4 del decreto-legge n. 429 del 1982, non sia recuperabile sic et simpliciter  in rapporto alla nuova figura di reato, la quale resta integrata, non dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione: dichiarazione alla quale, in base alla disciplina tributaria in vigore, non deve essere allegata alcuna documentazione probatoria. Viene dunque chiarito che si avvale dei documenti in questione chi li registra nelle scritture contabili obbligatorie, o comunque li detiene a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (scilicet, in sede di successivo accertamento.)»

[7] Dalla Relazione accompagnatoria al decreto legislativo 74/2000.

[8] G. FLORA, La clausola di non punibilità del concorso incrociato tra emittente ed utilizzatore di false fatture, in Rass. Tributaria, 2012, 5, p. 1331 e ss., ove lucidamente si specifica: «Ben potrebbe ritenersi, allora, che le fattispecie incriminatrici contemplate dagli artt. 2 e 8 debbano essere inquadrate nelle categorie dell’ante factum e post factum non punibili, laddove sono sussistenti tutti i requisiti individuati dalla più autorevole dottrina: eterogeneità fra le fattispecie; offensività in diverso grado del medesimo bene giuridico; insussistenza di un legame di reciproca continenza tra l’una e l’altra; unicità del fine (vale a dire, la condotta di emissione di false fatture descritta dall’art. 8 rappresenta lo strumento per realizzare quella susseguente, contemplata dall’art. 2, di dichiarazione fraudolenta mediante uso di false fatture). Tale argomentazione potrebbe poi trovare conforto sistematico nella organizzazione codicistica dei reati di falso nella quale appare netta e rigorosa la separazione delle ipotesi di concorso nella falsificazione da quelle di uso dell’atto falso (come ribadisce la clausola di riserva espressa inserita nell’art. 489, c.p.) dalla quale discenda l’inammissibilità della incriminazione dell’utilizzatore dell’atto falso anche per concorso nella falsificazione».

[9] L’art. 6, d.lgs. n. 74/2000 stabilisce che «I delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo». La ratio di tale previsione risiede nella espressa volontà da parte del legislatore delegante di espungere il modello del c.d. reato prodromico dall’intero sistema dei delitti in materia fiscale e tributaria, e di favorire, «nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente: di fronte ad un accertamento compiuto nei suoi confronti nel corso del periodo d’imposta, egli sarà portato - piuttosto che a contestare, anche pretestuosamente, l’accertamento - a presentare una dichiarazione conforme alle sue risultanze e veridica, in quanto ciò gli consente di sottrarsi alla responsabilità penale».

[10] Critico sul punto A. MARTINI, Reati in materia di finanze e tributi, in Trattato di Diritto Penale, a cura di GROSSO-PADOVANI-PAGLIARO, 2010, pp. 517 e 525, che, a giustificazione dei primi orientamenti giurisprudenziali alquanto stizziti nell’applicazione delle nuove norme in materia penal-tributaria, ritiene opinabile la scelta del legislatore di sottrarre alla punibilità una così ampia varietà di ipotesi che, invece, a suo giudizio, sarebbero meritevoli di censura e punizione.

[11] Va ricordato brevemente che con la sentenza n. 49 del 15 marzo 2002 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità degli artt. 6 e 9, comma 1, lett. b), d.lgs. 74/2000, sollevata dal G.i.p. di Brescia con riferimento all’art. 3, Cost.

La questione mirava a segnalare la non conformità a Costituzione delle due norme di legge nella parte in cui escludono la punibilità a titolo di tentativo del delitto di cui all’art. 2 e la punibilità di chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a titolo di concorso nel reato di emissione di tali fatture o documenti, previsto dall’art. 8. Secondo la prospettiva fornita dal giudice a quo, l’assetto definito dalle norme tacciate sarebbe stato del tutto irragionevole: «la disparità di trattamento tra la condotta di emissione delle false fatture (sanzionata dal citato art. 8 come delitto consumato) e quella di annotazione delle medesime nella contabilità del percettore (viceversa “scriminata” dall’art. 6, con l’esclusione della sua punibilità anche solo a titolo di tentativo) sarebbe difatti priva di giustificazione, trattandosi di condotte “entrambe propedeutiche alla presentazione di una dichiarazione reddituale infedele, e che ontologicamente si distinguono solamente per la maggiore o minore distanza temporale da tale evento, idoneo a ledere gli interessi erariali”». L’irragionevolezza esposta, peraltro, sarebbe acuita dal dato per cui se l’utilizzatore della falsa documentazione rappresenta il beneficiario del meccanismo fraudolento e per ciò solo, dunque, il committente dell’operazione, allora si avrà il quadro per cui l’esecutore materiale della condotta (solitamente incarnato da un mero prestanome) verrebbe punito a titolo di frode fiscale consumata, mentre chi ne ha commissionato o istigato l’attività resterebbe immune da pena, anche solo a titolo di tentativo o concorso.

I Giudici delle leggi, tuttavia, hanno dichiarato l’inammissibilità della questione perché l’intervento richiesto sarebbe consistito nella rimozione della disparità di trattamento tramite un riequilibrio in malam partem del regime sanzionatorio, consistente nell’espunzione delle norme asseritamente incostituzionali.

Tale intervento ablativo, nella sostanza, secondo la Corte, sarebbe andato a ridefinire l’intero assetto della legislazione in materia di reati tributari, modificando la scelta di politica criminale nel senso opposto a quella perseguita dal legislatore del 2000 (ossia quella dell’abbandono della figura del reato c.d. prodromico a favore della valorizzazione del momento in cui l’offesa all’erario si realizza).

Si riporta, per completezza, una delle massime della sentenza quivi esaminata: «È inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 9 della L. 25 giugno 1999, n. 205) sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., poiché la riserva di legge sancita dall’art. 25, comma 2, Cost. ne preclude l’esame, discendendo da una pronuncia di accoglimento, la creazione di una nuova fattispecie penale. Le disposizioni degli artt. 6 e 9, comma 1, lett. b), del citato decreto legislativo si inseriscono in una opzione politico-criminale discrezionale del legislatore, volta ad abbandonare il modello del cosiddetto "reato prodromico" a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario, che si sostanzia nella dichiarazione annuale, rimanendo prive di rilevanza penale autonoma le violazioni "a monte" della dichiarazione stessa».

[12] Cfr. I. CARACCIOLI, L’intermediario nel collocamento di fatture false: profili di concorso, in Il Fisco, 2002, p. 4891 e ss.

[13] Si veda a proposito S. DORIGO, Il concorso tra emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti nella giurisprudenza recente: punti fermi e questioni controverse, in Rivista trimestrale di diritto tributario, 2015, n. 2, pp. 263 e ss., per il quale «tale impostazione, in vero, mantiene un margine di incertezza notevole, legato in particolare alle difficoltà pratiche di accertamento del “grado” di adesione del soggetto all’una o all’altra condotta, tale da far dubitare il più delle volte della sua concreta realizzabilità. Più convincente apparirebbe, al contrario, ricondurre l’intermediario al solo delitto di dichiarazione fraudolenta ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, essendo questa la sola fattispecie di danno per l’erario che appare più meritevole di essere perseguita, anche alla luce della più volte ricordata impostazione prescelta dal legislatore della riforma».

[14] La pronuncia è annotata da P. CORSO, Fatture per operazioni inesistenti: doppia condanna per il “self made, in Corr. trib., 2012, pp. 1925 e ss., e C. SANTORIELLO, Concorso dei reati di emissione e utilizzazione di fatture false: ulteriori precisazioni della Cassazione, in Il Fisco, 2012, pp. 5881 e ss.

[15] Cass. pen., Sez. III, 2 maggio 2013, n. 19023.

[16] Particolarmente aspro (e a tratti profetico) G. FLORA, op. cit. per il quale detta pronuncia «dopo aver ribadito che l’art. 9 non si applica alle ipotesi che coinvolgono il c.d. “utilizzatore potenziale”, che quindi deve essere punito per concorso nell’emissione (“altrimenti vi sarebbe una lacuna di tutela”), stabilisce un “nuovo” principio di diritto: l’art. 9 non trova applicazione nemmeno nei casi in cui sia lo stesso soggetto ad emettere ed utilizzare le medesime fatture in barba al principio di tassatività e all’essenza stessa dell’illecito penale».

[17] In effetti, è proprio quest’ultimo caso quello che dovrebbe suscitare più allarme, proprio perché tendente a inficiare il normale svolgimento dei rapporti commerciali tra i soggetti che sono inseriti nel tessuto economico che l’ordinamento tributario (al di là della tutela erariale) intende preservare nel suo regolare fluire.

[18] S. DORIGO, op. cit.: «[…] l’unico vantaggio che ragionevolmente il factotum si prefigge coincide con il profitto derivante dall’utilizzo in dichiarazione delle fatture, dunque con il relativo risparmio d’imposta. […] Insomma, la soluzione prefigurata dalla giurisprudenza finora maggioritaria della Cassazione, nell’equivoca contrapposizione tra le alternative dell’art. 9 ovvero della doppia punibilità del singolo autore, appare più la manifestazione di una reazione rigorista a certe aperture cui l’introduzione della norma del D.Lgs. n. 74/2000 aveva dato vita che non il frutto di una meditata elaborazione condotta sul filo del diritto».

[19] «La Corte d’appello ha anche ritenuto che gli imputati dovevano rispondere del delitto di cui all’art. 2 e non di quello di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8 (emissione di fatture per operazioni inesistenti), perché “le fatture ritenute inesistenti sono solo quelle annotate da Mediaset e quello era il risultato reale che tutti avevano di mira, quella era l’operazione inesistente. E pertanto tutti in quella operazione avevano concorso, posto che le precedenti operazioni erano solo prodromiche a tale risultato finale.

Nessuna rilevanza quindi avevano le ulteriori fatture emesse nel transito dei diritti dai conti delle altre società […]”».

[20] Stabilisce una delle massime della sentenza in commento: «La deroga alla disciplina del concorso di persone nel reato, in relazione alla posizione dell’emittente delle fatture per operazioni inesistenti rispetto all’utilizzo delle stesse fatture nella realizzazione del delitto di dichiarazione fraudolenta, non opera quando manchi il requisito dell’autonomia e diversità dei soggetti giuridici che abbiano emesso e utilizzato le fatture, come nell’ipotesi in cui risulti che la predisposizione delle fatture sia frutto di un unitario disegno caratterizzato dalla creazione di società fittizie (tutte riconducibili al medesimo centro di interessi), dall’enorme lievitare dei costi indicati nelle fatture rispetto a quelli originari, dalla sostanziale assenza di autonomia decisionale delle società fittizie».

[21] Cfr. S. DORIGO, cit., il quale - a commento del caso analizzato - scrive: «Ad ulteriore conferma della correttezza di tale tesi sta il richiamo alla ratio sottesa alla deroga di cui all’art. 9, unanimemente individuata proprio nell’esigenza di non assoggettare a sanzione due volte la medesima condotta (dell’emittente che, mediante l’emissione, agevola il delitto dell’utilizzatore; di quest’ultimo che, istigando l’emittente, concorre nella relativa fattispecie): se ciò vale nel caso in cui agiscano, nei rispettivi ruoli, due distinti soggetti, a maggior ragione la stessa soluzione deve imporsi con riguardo all’ipotesi in cui sia un solo individuo a dar vita ad una situazione che, per quanto complessa, è resa unitaria dalla finalità che questi persegue e che si identifica nell’abbattimento fraudolento del reddito imponibile».

[22] Ci si riferisce a C. SANTORIELLO, Possibile il concorso nel reato di emissione in caso di mancato utilizzo della fattura per operazioni inesistenti, in Il Fisco, 2019, 41, pp. 3976 e ss.

[23] Bene è anche ricordare, come si è visto sub § 3, che il legislatore nel riformare il sistema penal-tributario non era affatto inconsapevole o dimentico delle modalità di svolgimento delle frodi fiscali nella prassi commerciale!