Pubbl. Gio, 18 Giu 2015
La disciplina dei contenuti su Facebook e il diritto d’autore nei social: linee attuali e prospettive nella sentenza 12076 del Tribunale di Roma
Modifica paginaLa pubblicazione di contenuti su Facebook non costituisce un’autorizzazione generica all’utilizzo e alla riproduzione: lo sancisce la IX sezione del Tribunale di Roma condannando al risarcimento un quotidiano nazionale per l’uso indiscriminato di alcune foto che, alla luce di un’interpretazione adeguata della L. 633/1941 (e successive integrazioni), costituiscono proprietà intellettuale dell’utente in base ad indici di titolarità diretti (ad es. digital watermarks) o indiretti (ad es. pubblicazione sulla pagina personale).
Introduzione
Lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione e l'avvento di un modello alternativo di società (la cyberdemocrazia prospettata da Levy) ha portato il mondo del diritto a confrontarsi per fornire risposte giuridiche ai problemi derivanti dallo scontro di due macro-forze: l'informazione, come tale intendendosi non solo il tradizionale rapporto di ricezione passiva autore-pubblico ma anche lo sharing paritario proprio della modernità, e l'individualità, intesa come diritto-possibilità di identificarsi ed essere identificato come titolare di posizioni soggettive proprie rispetto alla massa. Nel mare magnum del web, ultima frontiera dello sviluppo umano, i diritti dei singoli sono perennemente esposti a rischi di serie lesioni e l'intima natura delle piazze virtuali (Facebook, Twitter, Instagram etc.) nelle quali si esplica la quotidianità trasmette agli utenti l'idea dei social network come "porto franco" dal diritto, dove non è chiaro quali regole siano in vigore, quali limiti, quali mezzi di tutela. Tale idea, sublimata da contratti per adesione cui troppo spesso non si presta la necessaria attenzione, conduce a pesanti conflitti tra spinte espressive e diritti dei singoli e ha generato un moltiplicarsi delle pronunce giurisprudenziali in materia telematica. Due sono le direttive principali: da un lato la libertà di espressione sul web e i suoi eccessi (ad es. sentenze sulla diffamazione a mezzo social), dall'altro la tutela della proprietà intellettuale, la cui prospettazione è irrimediabilmente in contrasto con l'idea di condivisione, pubblicità e gratuità alla base di Facebook e simili. In questa trattazione ci si occuperà di quest'ultimo profilo, avendo riguardo di seguire e commentare il percorso logico-giuridico della IX sezione del Tribunale di Roma nella recente sentenza 12076 dell'1 Giugno 2015.
Il caso
Una nota testata nazionale aveva utilizzato delle foto tratte da Facebook a corredo di un servizio sul fenomeno delle baby-cubiste nelle discoteche romane: l'autore degli scatti, un minorenne con l'hobby della fotografia, non aveva dato alcun tipo di assenso (ed era addirittura inconsapevole del fatto) né, ovviamente, percepito compenso e i genitori (in quanto esercenti la potestà genitoriale) avevano citato in giudizio la testata (e, con essa, il direttore responsabile e il redattore dell'articolo) per ottenere:
- In via principale il riconoscimento delle fotografie come "opere fotografiche" ai sensi dell'art. 2 della L. 633/1941 e la conseguente violazione del diritto d'autore;
- In via subordinata il riconoscimento della violazione degli artt. 87 ss. della medesima legge e il conseguente risarcimento del danno.
I convenuti si opponevano in fatto e in diritto, contestando la ricostruzione attoriale in quanto basata su un difetto di legittimazione passiva: responsabile sarebbe stato infatti un terzo, che avrebbe fornito le foto al giornale dichiarandosene autore. Inoltre i convenuti sollevavano questione di legittimità sulla titolarità delle foto in capo al minore sostenendo che, in mancanza di un'indicazione interna all'opera/foto, non solo non fosse possibile provare la riconducibilità del contenuto all'autore ma per di più la stessa pubblicazione su Facebook costituisca autorizzazione allo sfruttamento delle immagini.
Su questo impianto di base, delineato a settembre 2010, si innestava oltre un anno dopo la ricostruzione del terzo, il quale, citato in seguito anche dalla parte attrice, sposava la ricostruzione dei convenuti, aggiungendo sul piano personale di aver semplicemente allegato le foto in oggetto in seguito a una richiesta del giornalista e che le suddette, secondo l'iter logico già esposto, debbano ritenersi pubbliche.
La decisione: titolarità e sfruttamento dei contenutin online
Il caso appare da subito complesso e ricco di sfaccettature: da un lato è da accertare se e come sia qualificabile la titolarità delle foto, dall'altro se la pubblicazione su Facebook costituisca un'autorizzazione generica all'utilizzo dei contenuti. La IX sezione del Tribunale di Roma affronta la vicenda per gradi, e specificatamente:
- La titolarità delle foto e la loro qualificazione giuridica;
- La natura e il fondamento del diritto d'autore su Facebook;
- Il confine tra utilizzazione lecita e abusiva dei contenuti;
- Il rapporto tra terzo e testata giornalistica.
Sul punto 1. la corte ritiene provata la titolarità delle foto in capo al minore sulla base della testimonianza attendibile di tre soggetti, presenti al momento dello scatto. Resta appena da rilevare come la produzione materiale della foto (l'atto pratico dello scatto) sia nettamente distinta dalla pubblicizzazione a mezzo stampa o social: in presenza di inequivocabili indici di titolarità, infatti, il "divulgatore" non acquista alcun diritto sul contenuto (ad esempio la condivisione della celebre "Il miliziano colpito a morte" di Robert Capa non comporta la titolarità della stessa per il soggetto che ne fa utilizzo). Nel caso in esame, stante la mancanza di indici di titolarità sulla foto, l'appartenenza al soggetto è desunta dalla presenza della stessa su una pagina web a lui riconducibile, come meglio si vedrà in seguito.
Sul versante della qualificazione giuridica il Tribunale ricorda come sia possibile distinguere i contenuti fotografici in tre categorie: da un lato le "opere fotografiche", previste all'art. 2 della L. 633/41 e meritevoli della tutela più ampia; dall'altro le fotografie semplici, previste dagli artt. 87 ss. e tutelate in modo meno vasto; in terzo luogo, con carattere prettamente residuale, le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili (art. 87 c. 2), escluse dall'ambito di applicazione delle suddette forme di tutela. Citando precedenti pronunce giurisprudenziali la IX sezione stabilisce che il confine tra opere e fotografie semplici è da rinvenire nella presenza o meno di un elemento creativo, anche minimo, il quale è "desumibile da una precisa attività del fotografo [...] purchè emerga in sostanza una prevalenza del profilo artistico sull'aspetto meramente tecnico" . L'opera assume dunque un valore ulteriore rispetto a quello nascente dalla connessione oggettiva dei suoi elementi visivi e rispetto alle fotografie semplici è rinvenibile il perseguimento di uno scopo diverso dal mero fine documentativo proprio degli elaborati posti sotto la tutela degli artt. 87 ss.
Ad ulteriore prova della differenza tra i due regimi l'art. 90 stabilisce che "gli esemplari della fotografia devono portare [...] il nome del fotografo, o, nel caso previsto nel primo capoverso dell'art. 88, della ditta da cui il fotografo dipende o del committente, la data dell'anno di produzione della fotografia etc. e qualora ciò non sia riportato "la riproduzione non è considerata abusiva e non sono dovuti i compensi indicati agli artt. 91 e 98 a meno che il fotografo non provi la mala fede del riproduttore" (art. 90 ult, comma).
Tralasciando l'ultimo comma, che tornerà nella trattazione del punto 3., resta infine da rilevare che le foto del minore non presentano, a giudizio del Tribunale, "quella necessaria impronta personale" che vale a distinguere le opere ex art. 2 dai contenuti semplici ex art. 87.
Con riguardo al punto 2 il Tribunale rileva come sia la stessa legge 633 a prospettare, in via generale, controversie simili a quella dedotta in giudizio. L'art. 88 stabilisce infatti che il diritto di sfruttamento della fotografia spetti al datore di lavoro se essa viene realizzata nell'ambito del rapporto di lavoro (anche autonomo, comma 3) o del contratto d'impiego, e che pari sia il diritto del committente laddove la fotografia abbia ad oggetto una cosa di quest'ultimo, "salvo pagamento a favore del fotografo, da parte di chi utilizza commercialmente la riproduzione, di un equo corrispettivo". Tuttavia, al di là dei casi suddetti ed fatte salve le disposizioni relative ai ritratti (artt. 96 ss.), "spetta al fotografo il diritto esclusivo di riproduzione, diffusione e spaccio della fotografia" e "la cessione del negativo o di analogo mezzo di riproduzione della fotografia comprende, salvo patto contrario, la cessione dei diritti" (art. 89), che, ai sensi dell'art. 110, richiede ad probationem la forma scritta. L'interpretazione prevalente del combinato disposto di tali norme, espressa in Cassazione dalla sentenza 4273/1998 (citata nel caso in oggetto), insiste in ogni caso sulla possibilità per il fotografo cedente di dimostrare la permanenza della titolarità dei diritti (e quindi di aver ceduto unicamente la pubblicazione) nei modi stabiliti dalla legge, opponendo dunque resistenza nei confronti del cessionario e degli eventuali terzi aventi causa da quest'ultimo.
Il complesso quadro normativo delineato serve a configurare in modo chiaro e definito il punctum dolens della vicenda. Nel rapporto triangolare tra fotografo-social network-utilizzatore finale (testata) sono infatti configurabili due distinte ipotesi:
- Il fotografo ha ceduto ogni diritto ai sensi degli artt. 88 ss.: dunque l'unico rapporto giuridicamente rilevante resta la relazione tra il cessionario Facebook e l'utilizzatore finale;
- Il fotografo ha mantenuto la titolarità del contenuto ai sensi dell'interpretazione data dalla Cassazione (e, dunque, la trasmissione dei diritti ex art. 110 è avvenuta solo entro certi limiti e solo nei confronti di Facebook) e in questo caso o la titolarità, per quanto provata, non era riconoscibile (e quindi la parte attrice è destinata a soccombere) o vi è stata un utilizzazione abusiva dettata da malafede/colposità dei convenuti (che ricordiamo essere non solo il direttore responsabile e l'autore dell'articolo bensì contestualmente il terzo fornitore delle fotografie).
E andando a valutare le Condizioni di Licenza di Facebook è da rilevare come l'art. 2, nel dettare la disciplina dei "Contenuti IP" (coperti cioè da proprietà intellettuale) stabilisca che "l'utente concede a Facebook una licenza non esclusiva, trasferibile, che può essere concessa come sottolicenza, valida per tutto il mondo e libera da royalty, per l'utilizzo di qualsiasi contenuto pubblicato su Facebook e in connessione con Facebook". Tale concessione, denominata Licenza IP, termina "nel momento in cui l'utente elimina il suo account o i contenuti IP presenti nel suo account, a meno che tali contenuti non siano stati condivisi con terzi e che questi non li abbiano eliminati". Il contenuto della Licenza IP è ulteriormente specificato all'art. 17 comma 7 delle stesse condizioni, laddove è determinato che "con il termine uso si intende [...] utilizzare, copiare, eseguire o esporre pubblicamente, distribuire, modificare, tradurre e creare opere derivative".
Appare dunque chiaro come la licenza sia essenzialmente sottoposta a condizione risolutiva (fino alla cancellazione dal social network) e riguardi sì una vasta gamma di diritti, ma solo e soltanto a favore di Facebook: non è dunque possibile per i terzi appropriarsi di contenuti IP, neanche laddove siano condivisi con impostazione "pubblica", in quanto ciò richiederebbe la sottolicenza prevista dall'art. 2 delle Condizioni. Di libero dominio sono invece le informazioni associate al profilo, dato che l'utente che le pubblica con impostazione pubblica "concede a tutti [...] di accedere e usare tali informazioni [...]. (art. 2 c. 4)
In sintesi è dunque da rilevare come la pubblicazione di un contenuto qualificato come "IP" e sottoposto alla relativa licenza ai sensi delle Condizioni di Facebook non comporta in nessun caso un'autorizzazione generica allo sfruttamento da parte dei terzi e non deroga alle norme stabilite dalla L. 633/41.
Ciò posto, non resta che decostruire l'ultimo cardine della difesa, che mira a qualificare come lecita l'utilizzazione delle foto in quanto mancanti dei requisiti richiesti dall'art. 90 della L. 633/41, ovvero nome dell'autore e data. Il Tribunale riconosce in prima istanza la necessità di aggiornare la disposizione (già peraltro integrata dal legislatore col d.lgs. 68/2003, che ha introdotto gli 102-quater e 102-quinquies nella legge stessa) riconoscendo la validità di sistemi di certificazione più moderni, come i digital watermarks e le filigrane elettroniche. Tuttavia, pur in mancanza di questi elementi, non deve sfuggire all'interprete la ratio della norma, che impone al riproduttore una verifica secondo buona fede della liceità dell'utilizzazione: non è dunque sufficiente una ricognizione formalistica e superficiale della presenza o meno di certificazioni che attestino l'identità del fotografo, così come non è ammissibile rendere la posizione del riproduttore eccessivamente gravosa. Nel caso in esame, però, la soluzione risalta all'evidenza laddove si consideri che le fotografie sono state tratte dal terzo (il quale, a sua volta, le ha fornite al giornale) effettuando un download da una pagina immediatamente riconducibile a un soggetto determinato.
E infatti sono prospettabili tre distinte situazioni:
- I contenuti vengono scambiati via internet da un soggetto che, avendone il possesso, manifesta la titolarità dei diritti. In questo caso solo l'indicazione degli elementi ex art. 90 L. 633/41 (o gli equivalenti di elaborazione giurisprudenziale e legislativa) tutela il "vero" proprietario dall'utilizzazione, dato che la loro mancanza impedisce di qualificare la stessa come "abusiva";
- I contenuti vengono scaricati da una pagina web non immediatamente riconducibile a un soggetto che si possa presumere autore degli stessi: in tal caso si ricade nella prospettazione del punto 1.
- I contenuti vengono scaricati da una pagina web direttamente riconducibile a un soggetto: in questo caso (esclusi, com'è ovvio, le semplici "condivisioni" di contenuti altrui che avvengono nel rispetto delle Condizioni di Licenza sopra esposte), in assenza di altri indici, la presenza di un contenuto IP sulla propria pagina è, usando le parole della IX sezione, "presunzione grave, precisa e concordante della titolarità dei diritti fotografici". Questa è la ricostruzione corretta della vicenda in esame, dato che il terzo non solo non ha allegato prove contrarie alla titolarità dei diritti in capo al fotografo ma non ha addirittura mai negato di aver tratto i contenuti dalla pagina facebook del soggetto: con ciò, concludendo l'analisi del punto 3, sarebbe bastato l'accertamento della reale natura della Licenza IP per attestare la malafede del terzo, che ha acquisito le fotografie senza riconoscere l'equo compenso previsto in legge (art.91 L. 633/41).
In ultima analisi resta da valutare quale sia il fondamento della responsabilità dei convenuti originali. E in vero, laddove si faccia attenzione a quanto già detto sull'accertamento secondo buona fede, la responsabilità del testata è dimostrata poiché "neppure ha dedotto e dimostrato di aver effettuato, secondo l'ordinaria diligenza richiesta a un operatore professionale, qual è una testata giornalistica, un qualsiasi altro tipo di controllo o di verifica", non avendo richiesto al terzo né la prova della titolarità né una liberatoria per l'uso delle immagini e configurandosi dunque un comportamento gravemente colposo "consistente nella possibilità di conoscere, secondo l'ordinaria diligenza, il titolare dei diritti patrimoniali esclusivi [...]". Il riconoscimento è quantificato in euro 2400 (600 euro per ogni pubblicazione) ed è commisurato al danno patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo consistente nel danno morale connesso al mancato riconoscimento della paternità delle fotografie al momento della diffusione.
Conclusione
La sentenza analizzata sintetizza in modo lampante i tentativi della giurisprudenza di estendere la tutela dei diritti ad ambiti nuovi e per natura mutevoli come, per l'appunto, i social network. Attraverso un'interpretazione teleologica delle norme (in verità assai datate) in materia di diritti d'autore il Tribunale evidenzia la perfetta sinergia tra legislazione nazionale, opportunamente adeguata, e condizioni contrattuali di Facebook in materia di contenuti IP, la cui impronta garantista permette di tutelare il singolo in un'ampia gamma di casi. Tuttavia, ed è bene sottolinearlo, la sentenza non può essere posta come pietra fondante di articolate ricostruzioni giuridiche per due aspetti fondamentali. In primo luogo, ed è stato più volte evidenziato, il comportamento dei convenuti appare prima facie lesivo dei diritti, sicché il vero snodo del caso è il grado di elasticità dell'art. 90 della L. 633/41; in secondo luogo, inoltre, è da registrare come numerosissimi siano i casi simili a quello analizzato che, per lontananza geografica o minore notorietà dell'utilizzatore abusivo, non emergono in sede giurisdizionale. Un'adeguata tutela dei diritti sui contenuti passa quindi da forme di garanzia preventive, interne al web, e dall'attenzione degli autori (e su questo versante i digital watermarks costituiscono una prima forma di difesa) prima ancora che da forme classiche e costituite che richiedono tempi ben più lunghi rispetto all'immediatezza del mondo digitale.