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Pubbl. Mer, 3 Giu 2015

Nascita indesiderata e diritto a non nascere se non sani. La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza n. 3569 del 23 febbraio 2015.

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Valeria Lucia


La risarcibilità del diritto della madre ad una corretta informazione in merito alle eventuali malformazioni del feto. Effetti protettivi del contratto tra il medico e la gestante anche nei confronti dei terzi, con particolare riferimento al nascituro. Il tanto discusso diritto a non nascere se non sano. Un breve riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali di riferimento e degli spunti di riflessione, in ordine ai possibili esiti della rimessione della questione alle Sezioni Unite.


E’ ormai da tempo riconosciuto il diritto della madre ad una gravidanza consapevole, in ossequio all’art. 13 Cost. ed alla conseguente libertà di autodeterminazione di ogni individuo, al punto da riconoscerle un diritto al risarcimento del danno, qualora si verifichi una nascita indesiderata. Con il termine nascita indesiderata, la giurisprudenza individua la nascita di un feto malformato in conseguenza di una omessa informazione durante la gravidanza, tale da compromettere la libertà della madre di ricorrere alla interruzione volontaria di gravidanza, disciplinata nel nostro ordinamento dalla legge n. 194 del 1987.

Ritenuto ormai un aspetto pacifico la risarcibilità dei danni nei confronti della madre per omessa informazione, la Corte di Cassazione, con la richiamata ordinanza, ha posto due interrogativi alle Sezioni Unite, relativamente al contenuto dell’onus probandi della madre in sede di richiesta di risarcimento del danno nei confronti del personale medico, nonché, ed è quanto a noi maggiormente interessa, se possa o meno parlarsi di un diritto, in capo al nato malformato, a non nascere se non sano, al punto da potersi attivare iure proprio per ottenere un risarcimento in ragione della nascita causata dalla omessa informazione.

Di tutta evidenza appare la connessione tra diritto, bioetica e sentire personale, da cui trae origine il susseguirsi di pronunce tra loro contraddittorie; volendo ripercorrere le posizioni giurisprudenziali formatesi sul punto, possiamo sicuramente fare riferimento a due orientamenti principali in ordine all’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto a non nascere se non sano.

Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai maggioritario, non potrebbe trovare ingresso nell’ordinamento un tale diritto. Tale posizione è dovuta all’essenza dello stesso, quale diritto adespota, poiché privo di titolare fino alla nascita e che, una volta verificatasi tale condizione, non esisterebbe più, in quanto il nostro ordinamento tutelerebbe il concepito e la gravidanza esclusivamente in funzione dell’evento della nascita in sé.

Di segno opposto una diversa posizione giurisprudenziale, ad oggi minoritaria, secondo cui il nato malformato dovrebbe vedersi riconosciuta la possibilità di conseguire un risarcimento in ragione della propria condizione, non per la nascita in sé, ma quale strumento per alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della persona. Ciò di cui si duole il nato malformato non è l’essere nato, ma il dover affrontare la vita con maggiori difficoltà, a causa della lesione del diritto della madre ad autodeterminarsi all’interruzione volontaria di gravidanza.

In attesa dell’intervento delle Sezioni Unite sul punto, tenuto conto delle evidenti discordanze tra gli orientamenti giurisprudenziali e dell’altissimo valore sociale del dibattito, non possiamo sottrarci ad una interpretazione della questione giuridica proposta.

In primis, non può non riconoscersi che il contratto che interviene tra la madre ed il medico ha effetti protettivi anche nei confronti dei terzi, ossia il padre e il nascituro. In relazione a quest’ultimo, un diritto innegabile e costituzionalmente garantito dall’art. 32 Cost. è il diritto a nascere sano. Sul diritto a non nascere se non sano, però, la nostra Carta Costituzionale tace. Di segno addirittura opposto ad un preteso diritto a non nascere se non sano sembrano essere le disposizioni di legge ordinaria. Da una lettura della legge n. 194 del 1987 emerge infatti che con essa è assolutamente vietato il controllo delle nascite ricorrendo alla interruzione volontaria di gravidanza e che, con ciò evidenziandosi la ratio della normativa, tale pratica è ammessa esclusivamente come mezzo di tutela della integrità psico-fisica della gestante, nei casi in cui la nascita di un feto malformato possa arrecarle un grave pregiudizio. In secondo luogo, l’art. 1 c.c. subordina l’acquisto della capacità giuridica al momento della nascita, pertanto, da una lettura sistematica della norma, il concepito non può vantare diritti, né tanto meno può sorgere in capo allo stesso, una volta nato, il diritto a non nascere se non sano, in quanto l’evento attributivo e lesivo coinciderebbero. Ulteriore criticità emerge nel tentativo di bilanciamento degli interessi relativi alla vicenda della nascita indesiderata, in quanto, qualora al nato malformato venisse riconosciuta l’azionabilità di un diritto a non nascere se non sano, rischierebbe di essere seriamente compromessa la libertà di autodeterminazione della madre, poiché in caso di feto malformato, quest’ultima, decidendo di proseguire la gravidanza, sarebbe inevitabilmente esposta alla possibilità che il nato malformato rivendichi il proprio diritto nei suoi confronti, per non essersi determinata all’interruzione volontaria di gravidanza.

Tra diritti esistenti e costituzionalmente garantiti e diritti esistibili o socialmente percepiti come tali, in un’ottica di coerenza complessiva del sistema, è logico aspettarsi una pronuncia che favorisca il migliore bilanciamento possibile dei molteplici interessi sottesi a problematiche che non possono limitarsi alla mera questione di diritto, investendo i campi della bioetica e della scienza medica, nonché della cultura sociale.